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I classici - MALOMBRA - di Antonio Fogazzaro - romanzo completo

Ultimo Aggiornamento: 10/01/2008 18:09
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I classici - Malombra - di Antonio Fogazzaro



PARTE TERZA

Un sogno di primavera




1. In aprile


Il cane è fedele.
“ Der Hund treu ist.”
“Oh no, treu ist, fff, caro Silla, questo è un grande sproposito. Se io dico dass der Napoleon kein treuer Hund ist, questo è molto bene anche in grammatica. Egli vuole il Reno, der Kerl! Avete fuoco?”
“Sì, ma lasciate stare la politica.”
“Oh” rispose Steinegge allungando il collo e porgendo il mento sino a posar il sigaro sul fiammifero acceso che Silla gli tendeva “ooh...” Tirò quattro o cinque frettolose boccate di fumo. “Io non parlavo per voi italiani” diss'egli. “ Der Hund ist treu.”
Silla prese la penna e scrisse.
Erano seduti uno in faccia all'altro ad una tavola quadrata d'abete, onestamente solida, senza tappeto né vernice.
Steinegge si teneva aperta dinanzi una vecchia grammatica scucita, sciupata, tutta sgorbi e disegni grotteschi. Silla aveva un calamaio e dei fogli.
“Che vi pare di quella grammatica?” disse questi scrivendo.
Steinegge voltò e rivoltò il libro con un sorriso malizioso.
“Io non so” diss'egli “se posso domandare quanto costa.”
“Quarantacinque centesimi.”
“Ah, quarantacinque centesimi. Questi sono cinque sigari. Molto. Basterebbero dieci giorni per me. Il bue è malato, caro amico.”
“ Der Ochs ist krank. Dieci giorni?”
“Va bene, scrivete. Dieci giorni. Io non fumo, io profumo così un poco ogni tanto per il mio naso il mio cervello.”
Steinegge rise allegramente.
“Mia figlia crede” soggiunse sottovoce “che io fumo due sigari al giorno... Ooh, fff! sarebbe una pazzia. Io accumulo denaro. In cinque mesi venti lire! È qualche cosa. Eh? Non è male. Avete scritto? L'asino... l'asino... l'asino... Dov'è quest'asino? Ah, l'asino è magro.”
“ Der Esel ist mager.”
“Scrivete. Questo è l'ultimo; questo è profondo. Dunque io voglio fare un piccolo regalo...”
Steinegge accennò col pollice rovesciato all'uscio cui voltava le spalle.
“Voi mi consiglierete. Voi siete un giovane molto elegante.”
Silla sorrise. Tutta la sua eleganza brillava in una spilla, una grossa perla cinta di rose d'Olanda legate in argento, ricordo di sua madre. Portava sempre guanti scuri, cravatte scure, abiti scuri. Aveva bensì la persona elegante, e le vesti, anche dozzinali, ne pigliavano nobiltà. Ma in fatto gli si vedevano certe lumeggiature sul dorso delle maniche da' gomiti in giù, e certe sfumature di colore intorno al bavero punto richieste dall'eleganza.
“Guardate” diss'egli spingendo a Steinegge il foglio di carta dove aveva scritto.
“Prego perdonare, perché io sono cieco come un conte Rechberg” rispose Steinegge, traendo la busta degli occhiali e applaudendosi con una risata. Spense il sigaro e inforcò gli occhiali sulla punta del naso. Leggeva con le sopracciglia alzate e con la bocca aperta: pareva si studiasse di guardarvisi dentro.
Silla prese la grammatica che aveva trovata in una tana di libri vecchi presso il Duomo. Era certo appartenuta a qualche allegro scolaro dei tempi austriaci che l'aveva tutta imbrattata di nomi, di date, di caricature e aveva scritto attraverso le file delle coniugazioni:

Su nell'irto, increscioso Alemanno
Su, Lombardi...

Dopo qualche momento di silenzio l'uscio cui aveva dianzi accennato Steinegge si schiuse adagio, adagio. Silla si alzò in piedi. Al rumore della sua sedia l'uscio si chiuse da capo.
“Molto bene, caro amico” disse Steinegge posando il quaderno. “Voi scrivete più bene che io il carattere tedesco. Non è credibile come il piccone e il badile mi hanno rovinata la mano. Sapete, in Svizzera.”
“Caro professore” disse Silla “siamo alla dodicesima lezione.”
“Ebbene?”
Silla trasse dal portafoglio un piego.
“Oh!” esclamò Steinegge, voltandogli le spalle e correndo per la stanza a capo chino e a braccia aperte. “ Das nehme ich nicht, das nehme ich nicht! Non voglio, non voglio!”
“Ma come? Non Vi ricordate i nostri patti?”
“Oh, caro amico, io sarei vile di prendere il Vostro denaro. Io voglio chiamare mia figlia...”
“Fermo! Se non accettate, esco di qua e non ci vediamo più.”
“Date, date, date a me questa maledetta canaglia di soldi. Voi non volete un piacere da un povero vecchio amico.”
“No, non lo voglio, sono orgoglioso, ho un cuore di ferro.”
“Oh, Voi avete un cuore molto meglio che di oro, e anche io. So che mi amate; prenderò. Ma perché studiate questo tedesco?”
“Per capirvi quando parlate italiano.”
Steinegge rimase un pochino mortificato.
“No, no, è uno scherzo” disse Silla prendendogli affettuosamente le braccia. “Lo studio per capire Goethe, e un certo... scrittore nostro, italiano; ma più Goethe, forse. Non Ve l'ho già detto?”
“È vero, ma io temevo adesso un'altra cosa. Sapete, mia figlia è ricca e guadagna denari con le sue lezioni. Il conte mi manda sempre roba tedesca da tradurre in francese e manda anche cento lire per mese. Cento lire, eh? Voi vedete, io sono ricco.”
“E io dunque?”
“Scusatemi” disse Steinegge inchinandosi “io credo bene, io credo bene; anche Voi, certo.”
Non abbagliava però, in casa Steinegge, lo splendore della ricchezza. Quella lì era una stanza bassa d'angolo, sotto il tetto. Aveva due balconi a ringhiera di ferro, uno a mezzogiorno e l'altro a levante, le pareti tappezzate di carta azzurra a righe più scure, il soffitto dipinto a cielo sereno e nuvoli. Un letto di ferro pure inverniciato, coi suoi pomi lucenti d'ottone alle spalliere, coperto di percallo perlato a fiori rossi, stava accostato alla parete di ponente sotto un quadrettino piccino dove una ciocca di capelli biondi si disegnava sul raso bianco incorniciato d'ebano. Tra l'uscio della scala e l'altro che metteva nella camera di Edith, un caminetto di pietra grigia portava con civetteria due lucernine a petrolio a' due capi e nel mezzo un bicchiere modesto, un mazzolino di viole mammole ignude. In faccia al caminetto, sopra la mole tozza di un massiccio cassettone a piano di marmo cenerognolo, odoravano pochi calicanthus, simili a delicate fantasie meste di un poeta convalescente. Tra il balcone di levante e la porta della camera di Edith, si rizzava una stretta palchettiera a tre piani, zeppa di libri e sormontata dal busto, piccino, di Federico Schiller. In mezzo alla stanza la bianca tavola di abete strillava per avere il suo tappeto azzurro e nero, il suo manto di ricchezza e di nobiltà da nascondervi sotto le quattro gambe.
Pei due balconi si spandeva sino al fondo della stanza la gran luce vitale dell'aprile, mettendo dal cielo sereno un bagliore azzurrognolo sui fogli sparsi per la tavola, e sul soffitto un riflesso caldo di opposte case, arse dal sole cadente. Quand'anche non si fosse veduto per quei due meravigliosi quadri dei balconi tanto arco di cielo e tanto mare disordinato di tetti sconvolti per ogni verso fra poche fenditure di grandi vie, rappezzati di vecchio e di nuovo, d'ombra e di luce, rotti da ciuffi d'alberi verdognoli, da striscie di muri bianchi, irti di fumaiuoli e d'abbaini, quand'anche non si fosse veduta a piè dei balconi la nera fascia del Naviglio e un lungo arco di via parallela, punteggiato di moscerini umani che si traevano dietro lentamente il loro lungo filo d'ombra, si sarebbe pur sempre sentita la smisurata altezza di quella camera nella luce, nell'aria, nei suoni vasti e sordi che ascendevano lassù in un'onda sola, continua.
“Vi prego” disse Steinegge, togliendo calamaio e fogli dalla tavola e posandoli sulla palchettiera “aiutate me a mettere il tappeto. Mia figlia ama molto questo.”
Presero il tappeto azzurro e nero e lo spiegarono sulla tavola, che non strillò più. La stanzetta prese un'aria quieta, contenta, che si rifletté sul viso del nostro vecchio amico.
“Grazie” diss'egli. “Molte grazie. Oh, Voi non sapete con quanto piacere io faccio queste cose. Non sapete cosa io provo quando tocco solo una di queste sedie. Erano diciassette anni che non toccavo una sedia mia, eh? Capite? Diciassette anni. Questo legno è così dolce! Io ringrazio Dio, caro amico. Voi siete giovane, Voi non pensate a questo vecchio signore; anche io per un pezzo non ho pensato, ma adesso io ringrazio...! Sentite.” Steinegge afferrò Silla pel braccio e se lo trasse vicino. I suoi occhi scintillavano sotto le ciglia aggrottate; una fiamma sola gl'infocava il collo e il viso.
“Io ringrazio...” ripeté con voce soffocata e stese, tacendo, l'indice della destra prima verso il quadrettino dai capelli biondi, poi verso la stanza di Edith. Finalmente lo alzò al soffitto.
“E Dio” diss'egli. “In passato io credeva vi fosse là, sopra le nuvole, un re di Prussia.”
Qui Steinegge scosse violentemente il pugno sempre a indice teso.
“No, no, credete me” soggiunse.
“Io l'ho creduto sempre, caro Steinegge” rispose Silla. “Guai a me se non lo credessi.”
“Se Voi sapeste” disse Steinegge “come sono contento! Alle volte ho paura perché lo sono troppo e non lo merito, oh no! Ma poi mi consolo perché tutto il merito è di mia figlia. Oh, mia figlia, caro amico...!”
Steinegge giunse le mani.
“Io non posso” diss'egli “questo mi muove troppo il cuore di dir cosa è mia figlia.”
“Lo credo” disse Silla stringendogli forte la mano. “La conosco.”
“No, no, Voi non conoscete niente. Bisogna sentire come parla con me di queste cose di che parlano i preti. Pensate, i discorsi dei preti sono cattivi organetti, e questi di Edith sono come musica che si sente in sogno quando si è giovani. Noi andiamo qualche volta in chiesa, ma noi non parliamo mai di preti. E di arte come intende, oh! Io nasco adesso per quest'arte; io non capivo niente. Siamo andati ieri... Come si dice? A Brera, a Brera. Pensate Voi se aveste ad aprire adesso un libro tedesco, qualche grande libro come Goethe. Voi capireste otto, dieci parole per pagina. Questo Vi farebbe senso. Vi farebbe battere il cuore di cominciare a vedere otto o dieci lumi nelle tenebre, e andreste pensando cosa può dire Goethe in quella pagina. Così ha fatto senso a me, ieri, di cominciare a capire, ascoltando Edith, qualche cosa di quadri. E di letteratura, mio caro amico! Questo Klopstock! Questo Novalis! Questo Schiller! Ma non parlerà mai con Voi; non credete! Bene!”
Qui gli occhi di Steinegge, capitano o no, s'empirono di lagrime; la sua voce discese a un tono sommesso, ma vibrato.
“Noi abbiamo una domestica per poche ore al giorno. Poi Edith fa tutto lei, così semplicemente, così allegramente come uno va a passeggio. Io sono un vecchio poltrone goloso e prendo il caffè a letto. Io Vi assicuro, non sono goloso del caffè; sono goloso di veder entrare mia figlia e sentirmi dire: "buon giorno, papà" in tedesco. Ogni mattina è come se la ritrovassi dopo dodici anni. Ella mi porta il caffè, mi pulisce gli abiti e anche deve qualche volta cucirli! Intanto noi parliamo del nostro paese, di tante cose passate, lontane, e anche un po' dell'avvenire. Edith ha tre lezioni quasi tutti i giorni. Vi sono due signore, la signora Pedulli Ripa e la signora Serpi, due signore oh, fff!” Steinegge spalancò gli occhi e alzò le mani soffiando, “che sono innamorate di lei e le loro figlie anche; e tante volte vorrebbero rimandarla a casa con la loro carrozza, ma ella non ha mai accettato, perché sa che io non vorrei salire in carrozza.”
“Voi?” disse Silla. “Che c'entrate Voi?”
“Oh sì, perché io aspetto nella strada tutto il tempo.”
“E perché non vorreste salire in carrozza?”
“Questo non sarebbe conveniente, caro amico. E così mia figlia è sempre venuta con me, sia vento, sia pioggia. Io sono orgoglioso allora e ho piacere che così mia figlia, quando esce dalla porta di questi signori, non è più maestra. L'hanno invitata a pranzo, volevano condurla a teatro. Non è mai andata, per fare compagnia a me; no, no!”
Gli brillavano anche i capelli mentre diceva “no, no” e il naso gli si raggrinziva su fino alla radice.
“Sapete cosa facciamo, la sera? Prima Edith lavora e io faccio il sunto francese di questo Gneist per il signor conte. Dopo Edith mi legge Schiller e Uhland, oppure mi dice poesie moderne che io non conosco, poesie di Freiligrath, di Geibel, di... di...”
“Di Heine.”
“No, mia figlia non legge questo Heinrich Heine. Lo ho conosciuto questo uomo a Parigi. Non è stato buon tedesco. Se Voi veniste qualche volta di sera, io Vi tradurrei queste poesie e Vi darei una tazza di thè, perché Edith mi fa il thè ogni sera.”
“Voi” disse Silla sorridendo, “Voi pigliate il thè?”
Steinegge si pose a ridere d'un riso muto, contorcendosi, gesticolando.
“Ah, Voi siete un maligno uomo. Capisco, capisco. È come se der König in Thule, il Re in Tule, Voi sapete? si mettesse a bere un decotto, non è vero? Io bevo adesso due bicchieri a pranzo e non altro.”
“È vostra figlia che lo desidera?”
“No, no, voglio io. Mia figlia mi pregava di prender vino la sera, e mi prega ancora adesso, ma io ho visto una volta per i suoi occhi il suo cuore e io prendo thè, caro amico.”
“V'invidio” disse Silla e prese il cappello per andarsene. Steinegge lo trattenne.
“Aspettate, venite a passeggio con noi.”
Silla esitò a rispondere.
“Oh, venite, venite!”
Steinegge andò a battere alla porta di Edith e la prego di uscire un momento.
Edith venne tosto e porse affabilmente la mano a Silla.
“Buon giorno” diss'ella. “Che lezione lunga!”
Era graziosa nel suo abito nero, semplicissimo, corto ma non troppo, con un mazzolino di viole alla cintura, il suo medaglione d'oro e onice sul petto e una stretta golettina bianca che le rifletteva sul collo un candore diffuso, trasparente. Le ricche trecce eran raccolte sopra la nuca. Nel viso delicato, leggermente roseo, la bocca e gli occhi avevano una espressione più spiccata di fermezza. È strano come quegli occhi esprimessero intelligenza della vita reale, contemperata di bontà: come nello scherzo, nel sorriso che li illuminava sovente, vi apparisse sotto all'iride un color di dolcezza triste; quale se un altro spirito infuso al suo, uno spirito malinconico si ravvivasse qualche poco nella gaiezza di lei.
Ella e Silla si parlavano con certa familiarità amichevole in cui, per un sottile osservatore, si disegnava più evidente il riserbo; come due persone unite e in pari tempo divise da mutuo rispetto mostrano meglio lo studio di non toccarsi quanto più si camminano accosto. Il contegno di Silla tradiva maggiormente queste cautele talvolta eccessive, questa cura di trattenersi; Edith aveva modi più spontanei ed eguali, misurati da un riserbo tranquillo, ingenito. Si conoscevano oramai da oltre sei mesi; si vedevano spesso, non in un freddo salone di ricevimento, ma nella intimità violenta d'una stanza tepida di vita domestica; li univa una persona cara, benché in diverso grado, ad ambedue. Sin dai primi giorni della loro conoscenza Edith aveva parlato a Silla del Palazzo e dei suoi abitanti. Di Marina, conoscendo tutta la coperta storia delle relazioni loro, gli aveva toccato il meno possibile. Silla s'era ben avvisto di tale studio; né Edith poteva dubitare ch'egli non ne indovinasse la causa. Quel conscio silenzio serviva pure, in qualche modo, di occulto legame tra loro; essendo quasi un accordo ignoto a tutti, stretto senza la parola fra le anime, in argomento d'amore. Simili segreti fra due persone che si stimano e si vedono spesso, congiungono, in sulle prime, con qualche dolcezza; ma poi cresciuta la familiarità, l'amicizia ch'essi aiutano, il silenzio, in luogo di congiungere, divide, quella dolcezza diventa pena, desiderio inquieto; e il desiderio comincia a tradirsi con i discorsi che tentano obliqui l'argomento proibito. Allora come fra due gocce vicine sopra un piano liscio basta il tocco di un capello perché trabocchino l'una nell'altra, così il tocco di una parola sola rompe gli ultimi ritegni alla effusione del cuore e l'amicizia diventa piena.
Ma Edith e Silla non parevano vicini a questo punto.
Ella accettò ben volentieri la proposta di suo padre e andò a mettersi il soprabito ed il cappello. Anche Steinegge chiese licenza a Silla, con grandi cerimonie, di attendere all'ornamento della propria persona. Silla andò intanto ad affacciarsi al balcone sul Naviglio.



(continua)

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L'aprile brillava quella sera nel cielo lucido e soffiava la lieta novella di primavera sulla vecchia città che beveva i soffi tepidi per ogni finestra. Quei soffi si spandevano blandi per le piazze, saltavano per le vie, sibilavano ai canti. Lassù in alto passavano a grandi ondate silenziose, movendo per le finestre degli abbaini biancherie pendenti dalle imposte, fiori schierati sul davanzale, che nella dolcezza infinita del tramonto primaverile ridevano al cielo, innocenti, dalle vecchie case piene di colpa. Il sole cadeva alle spalle di Silla. La casa dove egli stava e le altre sulla stessa linea a destra e a sinistra, cupo bastione colossale, gittavan ombra sui giardinetti ai loro piedi, sul Naviglio, la via e parte delle case di fronte. Sotto il balcone, a sinistra, si spiccava dal primo piano, fra due macchie di grandi magnolie, una terrazza a quadroni bianchi e rossi e balaustrata di granito rosa. Cinque o sei uomini in giubba e cravatta bianca, senza guanti, vi passeggiavano fumando. Una signora, una lunga cometa di velluto azzurro con una camelia bianca in testa, vi comparve a braccio di un signore piccolo, grasso, anch'egli in giubba e cravatta bianca. I fumatori le si fecero tosto attorno con rispettosa premura. Dal balcone di Silla non si potevano intendere le parole, ma si udivano le voci e si distingueva benissimo quella del piccolo signore grasso, il commendatore Vezza. Silla conosceva quella dama, tenace bellezza di quarantacinque anni, divisa da pochi anni da un marito giuocatore e nota per le sue velleità letterarie, per i suoi cuochi di prima riga e per gli amanti di quarta che le si attribuivano. Un acre sapore di sensualità elegante saliva da quel terrazzo nella purezza della sera, un'aura di mille piaceri squisiti, raffinati dallo spirito, come l'odore indistinto di leccornie che dalle cucine sotterranee d'un grande albergo fuma nella via. Ma lassù nelle grandi ondate del vento questo filo di fumo mondano si perdeva. Lassù si respirava una dolcezza simile alle malinconie indefinibili dell'adolescenza casta, un turbamento d'affetto che non ha uscita, un desiderio di aprire il cuore. Silla non pensava a cosa alcuna: gli tornavano in mente i ricordi di paesi lontani, vaghe sensazioni amorose della sua prima giovinezza, cadenze in minore e versi di canzoni popolari; uno fra gli altri che lo perseguitava quel giorno, un verso marchigiano, quanto dolce!

Boccuccia riderella spandifiori.

“Signor Silla” disse Edith sorridendo “Ella resta qui?”
Egli si scosse, si voltò in fretta e si scusò della sua distrazione.
Edith e Steinegge non attendevano che lui. Edith aveva un soprabito grigio scuro e una toque nera, con il velo calato.
“È un peccato” le disse Silla “di dover scendere.”
“Lei amerebbe camminare nelle nuvole?”
Egli la guardò un po' piccato, notò la recondita tristezza del suo sorrise e tacque.
“Scusi” diss'ella “non ho poesia.”
Non aveva poesia, forse, ma ve n'era tanta nella voce con cui lo disse, nella graziosa persona illuminata dal sole cadente.
“Andiamo, dunque” disse Steinegge.
“Non è possibile” rispose finalmente Silla a Edith, nell'uscire.
Ci aveva pensato molto. Edith non parlò, né si poté vedere con qual viso accogliesse la tarda risposta di Silla, perché ella era già sulla scala e vi faceva scuro.
Era una consolazione uscire da quella scala fredda e buia nella strada ancor chiara del sole recente, nitida dopo una giornata di vento, quanto il cilindro di Steinegge. Questi camminava a sinistra di sua figlia, rigido come un Y capovolto.
“Oh” diss'egli, fermandosi a un tratto “sapete, caro amico? Oggi mi ha scritto Innocenzo.”
Fece atto di cercarsi la lettera nelle tasche del soprabito, ma, ad una rapida occhiata di Edith, disse di averla dimenticata a casa e ne parlò a Silla con entusiasmo.
“Molto affettuosa” disse Edith “e molto...”
Non trovava la parola.
“Non spiritosa, no. C'è un'altra parola italiana che mi pare, così per istinto, migliore in questo caso.”
“Arguta?” disse Silla.
“Sì, arguta.”
Edith seppe ripeterne gran parte a Silla. Non era la prima volta che don Innocenzo aveva scritto al suo buon amico tedesco, appagando così un desiderio segretamente confidatogli da Edith prima di lasciare il Palazzo. Le sue lettere improntate di bontà e di arguzia erano scritte classicamente, in forma alquanto artificiosa, come usa l'uomo colto che ne scrive poche. Toccava stavolta di tristi casi avvenuti nella sua parrocchia, di grandi dolori sopportati con la umile pace cristiana. Parlava con riverenza di queste virtù dei suoi poveri contadini punto democratici; parlava della fede come un uomo che nella sua giovinezza ha combattuto per non smarrirla e, avendo pur vinto, guarda con grande indulgenza a chi ha lottato e perduto. Narrava che la neve, il gelo e le grandi piogge, avevano danneggiato il soffitto della sua chiesa e che, la domenica precedente, vi era venuto per caso a suonare l'organo un giovane maestro, il quale aveva magistralmente eseguita certa musica di un tedesco, di Bach, gli pareva. Al popolo la musica era piaciuta poco: ma lui n'era ancora imparadisato. Raccontava che i lavori della cartiera erano molto avanzati e che parecchi tegami e cocci preistorici, scoperti nello scavo delle fondamenta, fregiavano adesso il suo museo privato. Annunciava che le tepide coste de' suoi monti, le rive settentrionali del lago, erano in piena primavera e ne descriveva l'aspetto con studiata eleganza di stile. Chiudeva con un caldo invito agli Steinegge di venir a passare qualche giorno da lui presto, presto.
Edith ripeté quasi alla lettera lo scritto del curato, omettendone solo una certa parte. Era strano udir parlar di lago, di montagne, di vita semplice, sul corso di Porta Venezia tra il doppio flutto della gente che calava ai bastioni, tra il fragor sordo delle ruote sulle trottatoie e il calpestìo vibrato dei cavalli di lusso, davanti alle cantonate bianche, rosse, gialle di affissi d'ogni genere. Non c'era più sole; le nubi dorate riflettevano da ponente una luce calda sulle case più alte e il vento portava in viso tratto tratto odore di primavera, di sigari, di profumeria. Le signore che scendevano il bastione in carrozza, parevano correr giù verso l'orizzonte limpido, abbandonarsi con insolito languore, silenziose, alle carezze dell'aria tepida. E due lunghi rivi neri di gente, picchiettati d'abiti chiari femminili, scendevano a destra e a sinistra del Corso con un gran rombo confuso di passi e di voci, come due lunghe striscie di stoffa pesante trascinate pei marciapiedi fuori del fitto ombroso della città. Tutte le finestre erano aperte. Pareva a Silla che tutti i cuori lo fossero pure, che quella corrente di uomini portasse tesori di pensieri gai, d'immagini ridenti, che riflettesse la ingenua giovinezza eterna della primavera. Anche nel color delle pietre, tuttavia calde di sole, egli sentiva il prepotente aprile che non valendo a mettervi la vita, ve ne metteva quasi il desiderio, la speranza lontana. Non gli toccava il cuore udir parlare del lago e delle montagne; nessuna voce del passato si ridestava in lui.
“Non scrive altro quel signor curato?” disse egli a Edith.
“Null'altro” rispose per lei Steinegge.
“Come? Non parla del Palazzo?”
“Oh, qualche parola, sì.”
“Non parla del matrimonio di donna Marina?”
Steinegge non poté rispondere, perché un tilbury sopravvenne di gran trotto, tuonando sul ciottolato vicino a Silla che si voltò a guardare il cavallo, un bel sauro snello.
“Bello” s'affrettò a dire il capitano di cavalleria, appena passato il tilbury “bello, ma troppo leggero. Cavallo ungherese; io conosco. Migliore da sella.”
“Dunque” ripeté Silla “non parla del matrimonio?”
Steinegge lo guardò. Non gli pareva vero che fosse così indifferente.
“Sì” diss'egli “mi pare che scriva qualche cosa.”
“Suo padre fa il diplomatico, signorina.”
“Non lo credo” rispose Edith. “Lo faresti troppo male, papà; non è vero? Ma, e Lei, signor Silla, cosa fa?”
“Faccio il curioso, vuol dire. Ha ragione. Ma è curiosità innocentissima, lo creda.”
Disse queste ultime parole con enfasi, come per far loro esprimere più di quello che potevano. Allora Steinegge uscì dalle sue trincee; con qualche cautela, però spiegandosi lentamente.
“Ecco” diss'egli “pare che le cose vadano liscie e che il matrimonio non tarderà molto a farsi.”
“Lo credo bene. Non è combinato da sei mesi?”
“Sì, sì, ma capite bene, caro amico, i preparativi, questo è lungo. Adesso poi si fa presto, pare; prestissimo.”
“Me ne rallegro assai” disse Silla tranquillamente.
Steinegge fece uscire anche le sue riserve.
“Il matrimonio” diss'egli “si fa, pare, questa sera, ventinove aprile. Pare che il popolo vuol fare grandi cose; musiche, fuochi d'artificio. Ci è stata la scritta. Si dice che il conte Cesare voleva costituire a donna Marina una dote di trecentoventimila lire, ma che essa ha preferito un'obbligazione diretta del conte allo sposo per questa somma, da sottoscriversi all'atto del matrimonio. Il conte Cesare non è stato bene due giorni, ma ora è guarito. Il conte Nepo si è fermato al Palazzo una settimana, in principio di questo mese, e i domestici vanno dicendo che è molto avaro, ma il parroco afferma che non è vero e racconta di aver ricevuto cento lire per i poveri.”
Steinegge scherzò su questo splendore di munificenza che aveva abbagliato il povero prete; ma Silla lo contraddisse risolutamente, sostenne che alle buone azioni non si piglia la misura, che non si arrovesciano per guardarne la fodera. Parlava vivacissimo, di vena, interrompendosi spesso per salutare i suoi conoscenti, per fare a Edith osservazioni gaie su persone e cose che gli passavano sotto gli occhi. Tutti coloro che lo salutavano, guardavano poi Edith curiosamente. Edith gli rispondeva breve, senza guardarlo, o solo quando non ne poteva a meno. Ella non sorrideva più, si era fatta grave. Prese il braccio di suo padre.
Silla ammutolì poco a poco esso pure. Sospettò che Edith avesse attribuito un significato preciso alla sua dichiarata indifferenza per il matrimonio della marchesina di Malombra, e che volesse tenersi in guardia. Il cuore gli batté forte, una oscura dolcezza gli confuse i pensieri. Qualcuno, dall'onda della gente, lo salutò in quel momento; non rispose. Camminava in mezzo alla folla come se né vedesse né udisse alcuno.
Erano giunti presso al bastione. Vi spirava un'aria men tepida, pregna dell'odor de' prati; ma la folla saliva tuttavia densa al viale di sinistra, e, al di sopra de' cappelli si vedevano sfilar lentamente nel viale di mezzo, facendo il giro, cocchieri pettoruti, cocchieri umili, cocchieri appaiati a staffieri, cocchieri solitari, cocchieri soddisfatti, cocchieri rassegnati, cocchieri scuri, cocchieri gialli, rossi, azzurri, e verdi. Edith avrebbe voluto ritornare indietro; l'aria le pareva umida; temeva che suo padre ne soffrisse. Steinegge ne rise. Quando mai aveva notato sua figlia ch'egli si curasse del secco e dell'umido? E il Corso lo divertiva tanto! Edith non insisté.




(continua)

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05/12/2007 13:55



All'entrata del viale Steinegge alzò in aria tutte e due le braccia e tirò una allegra mitraglia d'interiezioni tedesche a un signore piantato lì a vedere sfilare le carrozze. Questo signore, un tal C... col quale Steinegge aveva tentato fondare tempo addietro una Corrispondenza litografica si voltò, lo guardò e gli venne incontro stendendogli la mano.
“Scusate” disse Steinegge a Edith e Silla “questo è C... Io debbo parlare. Andate avanti; vengo subito.”
Edith non ebbe tempo di rispondere perché suo padre era già sgusciato via attraverso la gente che, sopravvenendo fitta e continua, non consentiva di fermarsi. Fatti pochi passi, ella volle uscire sul gran viale a guardare indietro, ma non vide suo padre. Fermarsi lì ad aspettare non le garbava; le pareva di sentirsi più imbarazzata, più sola. Silla le consigliò sommessamente di andare avanti, come le aveva detto suo padre, ond'egli, passando oltre fra la gente, non li avesse poi a cercar senza frutto.
Essi camminavano fra il viale affollato e il lungo cordone di curiosi intenti a guardar le carrozze che andavano al passo, fermandosi di tempo in tempo. Camminavano discosti l'uno dall'altra, senza parlare, guardando tutte le carrozze con grande attenzione, fossero calessi alla Daumont o sudicie cittadine. Ad ogni tratto Edith voltava il capo a guardar indietro.
Intanto le sconfinate campagne di levante, al di là del bastione, si vedevano nelle ombre della sera sotto l'azzurro pallido del cielo che si confondeva quasi, laggiù all'orizzonte, con esse, distese, aperte avidamente agli inenarrabili amori della notte di aprile. Apparivano fra una carrozza e l'altra, scomparivano, riapparivano, grande immagine di pace, al di là di quel brulichìo mondano. A ponente le case oscure della città si disegnavano sul cielo aranciato che posava una languida luce calda nei bassi prati dei giardini, il margine scoperto del viale. La striscia nera della gente a piedi moveva lenta, assaporando l'ora dolce, l'aria pura, odorata di primavera e di eleganza, il rumor soffice delle carrozze, musica della ricchezza indolente, piena d'immagini tentatrici. E le signore, negli equipaggi di gala, passavano e ripassavano sotto la nebbia verdognola dei grandi platani, come Dee infingarde, fra gli sguardi ardenti, la curiosità invidiosa del pubblico, blandite da questi acri vapori d'ammirazione, fiso l'occhio al di sopra di essi, in qualche invisibile. Quel moto lento e molle, quella stanca inquietudine umana pareano consentire col nuovo turbamento, con le nascenti passioni della terra. Silla avrebbe voluto parlare, interrompere un silenzio pieno d'imbarazzo e di trepide immaginazioni, ma non ne trovava la via. Arrivarono davanti al caffè dei giardini mentre molte persone se ne rovesciavano sul viale, rompendo la corrente del passaggio. Egli offerse allora il braccio alla sua compagna, che lo ringraziò e vi pose appena la mano. Silla sentì sul cuore quel tocco leggero. Fendette la gente, facendo strada a Edith, guardando alla sfuggita la piccola mano che gli pendeva inerte sul braccio. Strinse, per istinto, il braccio e, senza saper bene quello che si dicesse, sentendo confusamente di fare un discorso avventato:
“Scusi” cominciò “donna Marina Le ha mai parlato di me?”
Edith non s'aspettava una domanda simile. Non ritirò più la mano e rispose semplicemente:
“Sì.”
Certo ella stava preparando qualche spiegazione cauta per una seconda domanda, inevitabile; ma la seconda domanda non venne.
“Che sera soave!” disse Silla. “Si rinasce. Si sente l'aprile nel cuore. Lei non voleva dirmi tutto quel che ha scritto quel signor curato: e io ho avuto tanto piacere di udirlo da Suo padre!”
Il braccio di Edith si mosse un poco, ma non si ritrasse.
“Ella non sa, quando si ha una mano ferita, come si eviti ogni stretta, anche d'un'altra mano amica, e quale consolazione sia sentirsela afferrare un giorno e non provare più dolore!”
“Vuol dire” rispose Edith “ch'era una scalfittura e che questa persona teme molto il male. Se son poi ferite dell'anima, allora per me sarebbe un grande avvilimento non sentirle più, guarire come si guarisce da una febbre, come queste piante guariscono dall'inverno. Non le pare? Quanta gente! E papà che non viene?”
Ella si sciolse pian piano da Silla e si fermò; Steinegge non compariva.
“Perdoni, signorina Edith” disse Silla con voce leggermente tremante. “Ella mi giudica male. Ad esser giudicato male ci sono avvezzo sin da quando è morta mia madre. La colpa n'è in gran parte mia, del mio carattere; però è una cosa amara! Con un po' di orgoglio e di fede in altri giudici o qua o via di qua, si resiste; ma qualche volta anche l'orgoglio e la fede cascano in fondo al cuore; il cuore stesso pare che si sprofondi. Mi lasci dire una parola, signorina Edith. Io non trovo negli uomini che indifferenza e nella fortuna che derisione. Vado tuttavia avanti a fronte alta, finora; ma, creda, è crudele di ferire uno cui tutti voltan le spalle. La prego di darmi il Suo braccio e di ascoltarmi un momento.”
“Non credo d'averla offesa” disse Edith, appoggiando ancora la mano al braccio di lui “son cose umane.”
Egli prese risolutamente con la sinistra quella mano restìa, allargò il braccio, la trasse avanti e parlò tra la folla indifferente, a voce bassa, con maggior effusione di cuore, con maggior franchezza di spirito che se si fosse trovato solo con Edith in un deserto:
“Cose umane? Sì, certo, ma non la cosa che Lei crede. Non sono guarito come una pianta, a forza di sole e d'aria, dimenticando; ho voluto guarire, con indomita volontà; mi sono strappato dal cuore una febbre maligna che mi avviliva. Perché io non la stimo e non l'ho stimata mai.”
“No?” disse Edith con vivacità involontaria.
“No, mai. Mi creda, Lei che ha l'anima tanto alta. Ho bisogno che qualcheduno come Lei mi creda e abbia un poco d'amicizia per me. Non ne parlo mai a nessuno, sa, ma mi succede spesso, solo come sono, senz'amicizie, senz'amore, senza genio, senza riputazione, senza speranze, mi succede di sentirmi morire nell'altezza in cui mi sforzo di tenere il mio spirito, studiando, lavorando, pensando a Dio. Sento allora tante voci sinistre, sempre più forti, sempre più forti, chiamarmi giù abbasso, in qualche fango che spenga il pensiero. Scusi, signorina Edith, Le dà noia che io parli tanto di me?”
“Oh no” diss'ella piano. “Non avrei creduto quello che dice.”
“Lo so; il mio cuore è ben chiuso di solito. Questa sera parlo perché mi pare di essere in sogno.”
“Ella sogna” disse Edith “di parlare ad una persona morta da lungo tempo, cui si può confidarsi.”
“No, faccio un sogno da notte di primavera, come ne potranno fare questi vecchi platani pieni di speranze, quando si alzerà la luna e la gente andrà via. Sogno di mettere anch'io una volta foglie e fiori, di parlar sottovoce, dopo tanto silenzio, con la primavera blanda, di raccontarle tutte le tristezze dell'autunno e dell'inverno, come se fossero passati de' secoli. Dunque senta. Io non la stimavo. Premetto questo: nelle mie ore di sconforto ho sempre avuto lo stolido istinto di qualche fatalità oscura che mi domini. Ora Suo padre non ha potuto raccontarle tutto perché non sa tutto. Io mi confido alla primavera blanda. Qualche tempo fa ho publicato un libro anonimo, intitolato Un sogno.”
“Si potrà leggere?” chiese Edith.
“Lo leggerà. Poco tempo prima ch'io partissi pel Palazzo, capitò, alla tipografia ond'era uscito il libro, una lettera diretta all'autore di Un sogno e sottoscritta Cecilia. Era una lettera sfavillante di spirito sarcastico, intarsiata di motti francesi, profumata, in cui si parlava molto di fatalità e di destino. Il tono di questa signora Cecilia non mi era pienamente simpatico, ma pure la lettera aveva un certo fascino d'ingegno e di stranezza: e poi sorrida pura, blandiva il mio amor proprio che ha ben di rado assaporato la lode pubblica, e trovava una dolcezza molto più delicata nelle parole direttemi segretamente da una lettrice sconosciuta. Vede se Le confido anche le mie miserie. Insomma risposi. La replica di Cecilia mi capitò la vigilia della mia partenza per il Palazzo. Era piena di frizzi e di domande curiose, impertinenti. Decisi di rompere: le scrissi un'ultima lettera che cominciai a Palazzo e spedii qui nei due giorni in cui venni a prender i miei libri. Lei sa da Suo padre per qual cagione e in qual modo partii dal Palazzo. Quel giorno stesso avevo scoperto per caso, indovini!... che Cecilia era donna Marina. Nella notte parto, trovo lei nella sua lancia. Avemmo un colloquio violento. Sopravvenne un temporale: dovetti ricondurla a casa. Non Le dirò come né perché, ma fui tentato fieramente di non partire più. Mi strappai da lei gittandole il suo finto nome, Cecilia. Fuggii pieno di sgomento, pieno della stolta idea che mi perseguita, d'esser giuoco di una potenza nemica che mi mostra ogni tanto la felicità vicina, me la offre, me la porta via quando sto per afferrarla. Ci volle tutto il mio orgoglio... Lei mi crede modesto, signorina Edith?... No, non lo sono, tranne qualche volta, nelle ore di scoramento; allora mi sento abbietto addirittura. Ci volle dunque tutto il mio orgoglio spiritualista per giungere a calcarmi ai piedi queste paure vigliacche; ci volle, per liberarmi da sentimenti non degni, un lavorar feroce, sia tuffandomi ne' libri antichi come in acque fredde, sia scrivendo di cose ideali in cui il mio pensiero si esalta e si riposa. E così ho vinto. Solo questa sera potei comprendere quanto pienamente ho vinto. E Lei...”
“Oh” disse allora Edith fermandosi “dove siamo?”
Erano soli sul viale. Avevano oltrepassato senza avvedersene il punto dove le carrozze e la gente giravano indietro.
Edith arrossì della sua distrazione e si voltò in fretta, lasciando il braccio di Silla. Poi temé forse di averlo offeso con quell'atto brusco.




(continua)

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“Non potevo sapere queste cose” diss'ella. “Non ho compreso tutto quello che ha raccontato, ma lo credo. Se sapesse quale concetto ha di Lei mio padre! Non sono italiana” soggiunse con forza “non so se è vero ch'Ella non ha riputazione; ma non è certo vero” continuò abbassando la voce “che Ella non ha amicizie.”
Fosse per la tenera poesia d'aprile o per la emozione delle confidenze recenti, Silla era così disposto che le semplici parole di lei gli abbuiarono la vista. Le riprese il braccio.
“Ah” disse “è vero, è vero ch'Ella mi crede anche se non mi comprende interamente, è vero che ha fede in me? Ebbene, la riputazione, la fama più splendida, io la darei cento, mille volte se l'avessi, non per un'amicizia, non basta...”
Il braccio di Edith tremò nel suo.
Egli proseguì con voce incerta, diversa dalla sua solita, camminando come se le gambe non sapesser tenere la via diritta né la misura del passo:
“Per un'anima. Per un'anima che accettasse, che volesse da me, per sé sola, le creazioni del mio ingegno e del mio cuore; per un'anima chiusa a tutti fuor che a me, com'io sarei chiuso in lei. Dovrebbe essere appassionata e pura come il puro cielo. Noi ameremmo insieme, uno attraverso l'altro, Dio e il creato con un amore di potenza sovrumana. Pare a me che saremmo forti nella nostra unione, come tutta questa gente non sospetta neppure che si possa esserlo, più forti del tempo, della sventura e della morte; pare a me che intenderemmo l'essere delle cose, il loro spirito; che ci attraverserebbero la mente visioni del nostro avvenire, splendori incredibili di visioni. La troverò quest'anima?”
“Sarebbe un'anima egoista” disse Edith, “se volesse tutte per sé sola le opere del Suo ingegno e del Suo cuore. La gloria, lo sento, deve avere in sé qualche cosa di vuoto, persino, di triste forse, per uno spirito come il Suo; ma aver la potenza di far amare, di far piangere, di muovere le anime al bene e non usarla! Avere della luce nel pensiero e nasconderla, non inviarla dritta a traverso questa gran confusione torbida del mondo!”
“Questo non è per me, signorina Edith. Il poco che ho scritto è affondato in silenzio, partecipando della mia sfortuna. Forse qualcuno, un giorno, frugando, per farsi del merito, tra le cose dimenticate...”
Ecco Steinegge, rosso, trafelato.
“Finalmente!” diss'egli. “Io credeva che eravate saliti sopra qualche albero. Io ho corso su e giù come un bracco.”
“Perdonami, caro papà” disse Edith soavemente, staccandosi da Silla e prendendo il braccio di suo padre, benché questi, sempre cerimonioso, protestasse. “Siamo esciti per un breve tratto dalla gente.”
Ella gli parlò carezzevole, in tedesco, stringendosi a lui quasi volesse compensarlo, provasse un rimorso. Il povero Steinegge, imparadisato, si scusava di non averli raggiunti prima, come se la colpa fosse sua. Silla non parlava.
Passeggiarono così un pezzo. La gente e le carrozze si venivano ormai diradando. I viali, i giardini, le case lontane s'intorbidavano di mistero. Le donne, camminando languidamente, guardavano i passeggeri con occhi fatti audaci dall'ombra. Si udiva parlare sotto i viali, da lontano; di là dai giardini, lungo le case tenebrose, i fanali, occhi ardenti della grande città pronta al piacere, si aprivano uno dopo l'altro. Sopra le case il cielo sereno, senza stelle, aveva ancora un tepido chiaror di perla che si stendeva blando sul margine scoperto del bastione e sulla spianata bianca del caffè dei giardini, a cui Steinegge si avviava con propositi di munificenza. In faccia al cavalcavia era fermo un elegante calesse vuoto. Uno staffiere teneva aperto lo sportello, volgendo il capo a due signore che venivano dal caffè. Silla salutò. Una di quelle, nel passargli vicino, gli disse con una vocina piena di grazie:
“Si ricordi. Dopo il Re.”
“Io mi congratulo molto, caro amico” disse Steinegge.
“Oh, di che?” rispose Silla sdegnosamente. “È la signora De Bella. Un'antipatica bambola di Parigi. Non ci vado mai. Se sapeste come l'ho conosciuta! Lo scorso autunno un certo G... che studia filologia a Berlino, mi manda dei versi di un nostro antico poeta, Bonvesin de Riva, stampati colà. Contemporaneamente manda degli altri libri fors'anche delle fotografie, a questa signora che allora era a Varese. Per un equivoco della Posta, anche il mio libriccino fu portato a casa sua, qui a Milano. Ella fa una corsa da Varese proprio quel giorno e m'incontra in via San Giuseppe con mia zia Pernetti che accompagnavo. Mia zia si ferma, e dopo molte chiacchiere ha la bontà di presentarmi. Questa signora fa un atto di sorpresa. "Ma io" dice "ho della roba Sua!" Io non capisco e non rispondo. "Lei" soggiunge "è ben l'autore di Un sogno?". Rimasi sbalordito. Allora ella mi parla, ridendo, del libriccino, e mi dice candidamente che G... ci aveva posto dentro un biglietto dove si leggeva: "Mandami una copia del tuo Sogno". Mi fece mille premure perché andassi a trovarla, e vi andai difatti un paio di volte in dicembre. Poi non ci tornai più. Oggi mi ha scritto che desiderava parlarmi e che ci vada domani sera dopo il teatro.”
Silla raccontò tutto questo con calore, come se volesse giustificarsi di quella relazione.
Sedettero fuori del caffè. I fanali non v'erano ancora accesi e i tavoli quasi deserti. Uscivano invece dall'interno con la gran luce del gas, le voci vibrate dei garzoni, l'acciottolìo delle tazze e delle sottocoppe, il tintinnìo dei cucchiaini e delle monete buttate sui vassoi. Steinegge cominciò a parlare di quel tal C..., che aveva conosciuto in Oriente. S'erano trovati a Bukarest nel 1857 e, l'anno dopo, a Costantinopoli; quindi nel 1860 a Torino. Steinegge parlava assai volentieri del suo soggiorno nei dominii del "sublime portinaio". Da C... passò a Stambul e al Bosforo. Tocca il cuore udir parlare nelle ombre del crepuscolo di paesi lontani, di costumi bizzarri, di strane lingue sconosciute. Silla guardava spesso Edith, ascoltava il narratore come chi ascolta una dolce musica leggendo e pensando, che le sue lettere e i pensieri si colorano di poesia, e neppure una nota gli resta nella memoria. Era la elegante forma bruna di Edith ch'egli vestiva di poesia, udendo parlare di cipressi, di fontane moresche, di palazzi bianchi, di mare brillante. Ogni linea della bella persona gli appariva improntata di grazie nuove, gli pareva segno di un'idea attraente, impenetrabile. Non vedeva l'occhio, lo immaginava; ne sentiva sul cuore lo sguardo con la sua dolcezza. Immaginava pure i pensieri di lei; no, non i pensieri, ma piuttosto vagamente, la dignità e la tranquillità loro, la purezza altera. E sentiva in se stesso una luce serena, un calore così lontano, gli pareva, dall'indifferenza come dalla passione, un sorgere di non so quale indefinibile fede. Provava la sensazione di salire, alla lettera; e un singolare esaltamento della potenza visiva per cui le grandi ombre degli alberi del bastione, i profili taglienti delle macchie brune intorno a lui, gli oggetti vicini, tutto gli riesciva straordinariamente netto e vivo; nuovo, perciò, interessante come al tempo della sua fanciullezza.
Steinegge intanto parlava. Descrisse un episodio comico della sua traversata da Costantinopoli a Messina. A quel punto il gas del fanale vicino, tocco dal lume dell'accenditore, divampò sonoro, arse in viso a Edith.
Ella era pallidissima, grave, e non guardava suo padre. Si scosse allora e si pose ad ascoltarlo con attenzione troppo subitanea ed intensa per essere sincera. Silla se ne avvide, n'ebbe un lampo di piacere nel petto.
Quando più tardi riaccompagnò a casa il padre e la figlia, pochissime parole furono scambiate fra loro. Nel separarsi, Silla stese la mano a Edith, che esitò ad accordargli la sua e la ritrasse tosto. Egli udì appena i saluti chiassosi di Steinegge: se n'andò via dolente e insieme avido di esser solo. Si allontanò a capo chino e a lenti passi, immaginando fortemente il viso pallido e gli occhi di lei quando il divampare del gas la sorprese; ripensando ad una ad una le parole scambiate, le proprie confidenze, la protesta d'amicizia, così singolare sulle caute labbra di Edith, la sua evidente trepidazione, nello staccarsi dal padre, dimenticato poi mentr'egli, Silla, le dava il braccio e le parlava. Non ne traeva nessuna espressa conclusione; si guardava il braccio là dove s'era posata la mano di Edith, odorava queste memorie come un profumo. E pareva che a poco a poco se ne inebriasse. Dalla via poco frequentata dove abitavano gli Steinegge, moveva inconscio verso il cuore della città. La gente cominciava a spesseggiare, crescevano gli splendori dei negozi, lo strepito delle carrozze. Alzò la testa e affrettò il passo. Gli saliva dentro una foga d'orgoglio non del tutto insolita in lui che in tali condizioni di spirito cercava, godeva la folla per la voluttà acuta di sentirsele ignoto e di disprezzarla, di dominarla col pensiero. Trovatosi a un tratto sul corso Vittorio, si gettò nel fiume della gente.
Egli aveva detto a Edith: “Un'anima! Un'anima sola che accetti le creazioni del mio ingegno!”. Ma questo era il grido delle sue tristezze scorate, quando si sentiva debole a fronte del mondo indifferente e di un sinistro demonio confitto nel suo fianco. Grido dell'ora nera, vôta di fede e di speranza. Non sarebbe stato sincero quando l'ingegno gli ardeva di vigore audace e il demonio sinistro taceva; che allora l'uomo, ebbro di felicità fiera, disprezzava le dimenticanze del pubblico, le ingiustizie amare della critica, la insolenza dei fortunati, il maligno volto della stessa beffarda fortuna; scriveva, non per ambizione, né per diletto, né pel sublime amore dell'Arte ch'è la musa dei grandi ingegni, ma per la coscienza di un dovere ideale verso Dio, per obbedire alla vasta mano prepotente che gli si piantava tra le spalle, lo curvava, lo schiacciava sul suo tavolo di lavoro, spremendogli dal cuore il sangue vitale che ora ingiallisce ne' suoi libri dimenticati. Tra queste rade ore splendide gli correvano lunghi intervalli bui. La vasta mano si alzava dalle sue spalle, ogni luce di pensiero si spegneva in una tenebra pesante d'inerzia; tutte le passate delusioni lo rimordevano al cuore, tutte le vecchie ferite sanguinavano; egli numerava con acre piacere doloroso le fallite speranze della prima giovinezza, le contrarietà strane, incredibili che aveva provate, sempre e dovunque, sul suo cammino, le funeste contraddizioni insite nella sua stessa natura; poco a poco non lavorava, non pregava più, non sentiva più Dio. Allora il suo paziente nemico mortale, il demonio confitto nel suo fianco, sorgeva e gli strideva nel sangue.
Era il demonio della voluttà tetra. L'adolescenza e la prima giovinezza di Silla erano state pure. La santa protezione di sua madre, le tendenze artistiche e la squisita nobiltà del suo spirito, la fatica degli studi, l'ambizione letteraria, lo avevano preservato dalle corruzioni grossolane che avvelenano quell'età. Aveva allora il sangue tranquillo, la mente illuminata di bellezze femminili ideali, sovrumane per l'intelligenza ancor più che per la perfezione delle forme. Di tempo in tempo si credeva innamorato. I suoi amori cercavano sempre lo sconosciuto e l'impossibile. Uno sguardo, un sorriso, una voce di qualche dama di cui non sapeva il nome, gli si figgevano in cuore per mesi. Allora il solo pensiero degli amori vili gli metteva orrore; tutto il fuoco della sua giovinezza bruciava nel cuore e nel cervello. Dopo le prime disillusioni letterarie, nell'abbattimento che ne seguì, quel fuoco divorante gli scese intero ai sensi. Egli vi ripugnò lungamente e quindi si gittò abbasso. Non cercò facili amori, gli era impossibile piegar l'anima alla ipocrisia di parole menzognere: volle il tetro piacere muto che si offre nelle ombre cittadine. Ne uscì tosto stupefatto, palpitante, in ira a se stesso; ritrovò il calore perduto dell'ingegno e dell'affetto, ritrovò i suoi amori ideali, riprese la penna, afferrò il concetto del dovere verso Dio come una fune di salvamento. Ricadde quindi e si rialzò più volte, lottando sempre, soffrendo nella sconfitta incredibili prostrazioni di spirito, col presentimento angoscioso di un'ultima caduta irrimediabile, di un abisso che lo avrebbe finalmente inghiottito per sempre. Perché in lui l'antagonismo dello spirito e dei sensi era così violento che il prevalere di una parte opprimeva l'altra. Non aveva mai conosciuto il giusto equilibrio dell'amore umano né potuto trovar durevole corrispondenza di quell'affetto sublime e puro ch'egli invocava con angoscia quando Iddio si ritraeva da lui. Gli era toccata due volte la rara e inestimabile ventura di essere amato come voleva egli, col fuoco dell'anima. Uno di questi amori fu troncato subito da necessità fatali e ineluttabili; l'altro scomparve misteriosamente, lasciando Silla pieno di terrore, come se avesse veduta l'ombra e udito il sarcasmo del destino. La passione di sensi e di fantasia ispiratagli da Marina lo attraversò quale una vampa di polvere. Tornato a Milano spense a forza il bruciante ricordo di lei in ostinati studi di greco e di filosofia religiosa alternati con un lavoro fantastico e uno studio morale. Non fu mai colto in quell'inverno dal cupo silenzio interiore che soleva precedere in lui le tempeste furiose dei sensi. Una così lunga tranquillità gli ritemprò lo spirito, gli rese quasi la freschezza dell'adolescenza; e ora, con lo sguardo e la dolce voce di Edith nel petto, egli si sentiva casto e potente, guardava in faccia all'avvenire aperto, vôto di fantasmi paurosi. Andava fra la gente colla voluttà del nuotatore gagliardo che fende da padrone la spuma e il fragore delle onde. Sentiva la stolta fede che sarebbe giunto un giorno a signoreggiar con l'ingegno quella folla così avida negli occhi di bellezza fisica, di piacere, ferma e densa intorno al fulgore dei gioielli, ferma e densa intorno alla ridente luce di certe altre vetrine, paradisi della gola; palpitante nel sinistro fascino dell'oro, abbrutita nelle cupidigie del ventre. Qual sogno opporsi a lei, sfidarne la viltà e la superbia, frustrarla in viso come una fiera, gittarla indietro sgomenta e doma, con la potenza di una divina ispirazione interiore e della parola, amando ed essendo amato senza fine da una donna come Edith, sicuro, in questa fiamma, dal fango ignobile!
Passava, così fantasticando, lungo il Duomo. La tacita mole enorme, assediata dai fanali a gas, pigmee scolte del secolo nemico, ne portava sul fianco il picciol lume che moriva a breve altezza nell'ombra; e l'ombra sfumava più in su in un fioco albor puro, dove salivano guglie, pinnacoli, trine marmoree color di neve lontana, prima dell'aurora. Quella visione di marmi e di luna, inutili, adorabili magnificenze dell'ideale, ruppe a Silla le fantasie, forse non vôte di ambizione e di rancori contro gli uomini, gli refrigerò il cuore, vi mise un gran desiderio di silenzio. Egli si avviò verso casa sua. Abitava lontano, presso Sant'Ambrogio. Quando entrò nella chiara piazza deserta gli si affacciò, alta sopra le case di via S. Vittore, la luna. Silla trasalì e si levò il cappello involontariamente. Aveva ella presieduto alla sua nascita la fredda e solenne signora che veniva a guardarlo tristamente in faccia nei momenti gravi della vita, adesso come un'altra sera, quand'ella usciva tra i nuvoloni sull'Alpe di Fiori e gittava nelle acque nere del lago una spezzata lama d'argento? Silla rise di se stesso e si disse che era un saluto di congedo alla vecchia amante.
Egli vegliò a lungo nella sua cameretta al quarto piano, che guardava in un cortile quadrato, stretto e profondo. Tenne la finestra aperta. Fuori della finestra sul ballatoio c'eran de' vasi fioriti di violacciocche, che mandavano odore nella stanza. Dal suo tavolo Silla vedeva sopra la opposta muraglia bianca, tra gli abbaini e i fumaioli del tetto, una lista di cielo e qualche stella pallida nella luce lunare. Egli trasse il manoscritto di un racconto incominciato durante l'inverno con questo titolo Nemesi, ne rilesse alcune pagine e non gli piacquero. Depose il manoscritto, pensò a Edith. “Buona sera” disse una voce dalla finestra.
Era uno studente dell'Istituto Superiore che alloggiava in fondo al ballatoio. Silla lo salutò.
“Vengo di là, sa” soggiunse l'altro che si compiaceva di raccontargli i suoi amori. “Mi ha congedato subito e non vuole che ci torni prima di posdomani, perché dice di essere andata oggi a confessarsi. Ma che fatica ha fatto! Che fatica!”
Il giovane pareva ubbriaco di questo pensiero. Parlava ridendo, ansando.
“Sa, sono sentimentale per forza questa sera. Farò un po' di musica. Farò uscire dalla finestra quella bionda, quella ch'è venuta l'altro ieri. Come? non la conosce? Al terzo piano, prima finestra a dritta. Dove c'è lume. Una francese. Buona sera.”
Se ne andò cantando a mezza voce sopra un motivo dei Lombardi certa strofetta composta per il prof. B...

Per ridurre all'orizzonte
La pendenza del terreno
Si moltiplica il coseno
Per la stessa inclinazion.

Entrato nella sua camera, lasciò l'uscio spalancato e tempestò sul piano un walzer diabolico, da far ballare i morti. Silla, infastidito dal dialogo e dalla musica, si alzò per chiudere la finestra. Ma era così soave l'odore dei fiori, gli piaceva tanto quella muraglia tutta bianca di luna, quel cielo puro! Guardò abbasso. La signorina francese era uscita sul ballatoio del terzo piano e si appoggiava alla ringhiera, fumando. Due cameriere ballavano da un'altra parte e rispondevano a interlocutori invisibili; un capitano in pensione stava alla finestra, in berretto da notte, con la sua giovine governante. Silla chiuse la finestra. La santa notte di primavera gli pareva ammorbata e guasta. Chiuse vetri e imposte con impeto, tornò al suo tavolo, e dopo aver pensato a lungo con il capo tra le mani, afferrò un foglio di carta, scrisse precipitosamente:
“È amore? Quale amore? Sono ancora tranquillo abbastanza, voglio riflettere, studiarmi finché mi è possibile. Io sento, pensando a lei, di desiderare qualche cosa di ignoto a me stesso, d'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzo, mi ripugna. Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in me, specialmente nel petto. Vi è un reale movimento nel sangue o nei nervi, che corrisponde alla esaltazione del mio spirito. Sono incapace, in questo punto, di ragionamento freddo, ma sento invincibilmente che se quello che io provo è amore, esso non è solamente spirituale. Lo penso, lo credo, sono barlumi di una vita futura più nobile che si destano in me, presentimenti d'uno squisito amore fisico, non concepibile in questa tenebra. Solo questo io so, che dev'essere immensamente più degno dello spirito, benché forse capace ancora di altre sublimi trasformazioni. Tento immaginare la unione intera, il mio sguardo nel suo, il cuore nel cuore, un fuoco di pensieri commisti, un palpito che ad ogni momento ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia intelligenza e abbattono il corpo, ne troncano i desideri più vili.
“Signore degli spiriti, tu me li doni questi divini fantasmi, ombre del futuro, questi ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmi, fa ch'io sia amato. Tu lo sai, non è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltà, è la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza degli uomini, l'occulto nemico esterno, i tuoi silenzi paurosi. Padre, rispondi al grido dell'anima mia, fa ch'io sia amato!
Vedi, tra queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e mi stringo ad esse e sospiro.”
“Ah no!”
Gettò la penna, spiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima:
“È finito. Creare ancora, creare fantasmi di quanto ho desiderato invano, lasciare un ricordo, un'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Dio, gli uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona.”
Vi scrisse sotto: “29 aprile 1865.”
“Spero.”





(continua)

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I classici - Malombra - di Antonio Fogazzaro


2. Quid me persequeris?


Egli dormì poco quella notte. Da S. Ambrogio la gran voce solenne delle ore gli riempiva la stanza, si confondeva al suo sopore inquieto, mettendovi l'aspettazione del domani sconosciuto. Verso l'alba si addormentò profondamente e non si svegliò che a giorno inoltrato. Una luce grigia entrava dalla finestra. Pioveva.
Silla si sentiva rotta la persona come se avesse fatto quella notte venti leghe a piedi per domare un'agitazione febbrile, cresciuta invece con la spossatezza del corpo. Gli venne l'idea di uscire per una lunga corsa sui bastioni ma poi non ne fece nulla. Rimase un pezzo seduto sul letto a guardar dalla finestra il cielo freddo, uggioso come di febbraio, i tetti lucidi, e contro le scure finestre opposte, i fili tremoli della piova che sussurravano sulle tegole come uno strascico di veli leggeri e schiamazzavano nel cortile sotto i canali.
Guardava, si può dire senza pensare o, almeno, pensando senza il governo della volontà, disordinatamente. Era la penombra di un sogno in cui le idee duravano a muoversi a caso come ospiti stupefatti di stanze signorili dove il padrone non compare. Egli sentiva però nel cuore qualche cosa che la sera precedente non c'era ancora, un misto di stanchezza e di eccitazione, una sorda sofferenza che si ravvivava quando negli occhi intenti alla piova gli entrava lo sguardo immaginato di Edith. Era un triste dubbio che gli faceva male. Le nuvole grigie lo sapevano, la piova lo diceva e lo ripeteva:
“Piangi, piangi, non ti ama, non ti ama.”
Egli durava fatica a difendersi dallo stolto sospetto che anche Edith avesse cangiato dalla sera precedente, come il cielo; che la notte, il sonno, altri pensieri avessero spenta la sua inclinazione nascente, se pure questa inclinazione non era un abbaglio visionario. Sarebbe andato da lei quel giorno stesso a portarle Un sogno; gliel'aveva promesso. Come ne sarebbe accolto?
Teneva presso di sé quasi tutta l'edizione del suo libro, un gran fascio di copie, polverose al di fuori, candide, intatte al di dentro, come vecchie monachelle innocenti. Ne tolse una e pensò alla dedica che avrebbe dovuto scrivere. Ne preparò otto o dieci. Quale gli pareva fredda, quale pretensiosa. Finalmente scrisse sulla guardia del libro:

Alla Primavera blanda
C.S.

Subito dopo ne fu malcontento, sentì che bisognava dire di più, farle intendere quel che sentiva. Sul libro stesso? No, non era conveniente. Perché? Non trovò un perché abbastanza imperioso e scrisse sotto la dedica:
“La Primavera blanda è amata da uno scrittore oscuro cui nessuno ama. Per lei, per lei sola egli potrà esser grande e forte, vincer la fortuna e l'oblio. Se n'è respinto, si lascerà cadere a fondo”.
Appena scritto volle troncare con un lavoro pacato quell'agitazione che lo spossava. Ricorse a un vecchio manoscritto, suo fedele compagno, che gli cresceva sotto lentamente, fra gli altri lavori, nutriti in parte con la meditazione astratta, in parte con la esperienza quotidiana degli uomini e della vita. Erano studi morali dal vero. Pareva a Silla che la letteratura moderna fosse soverchiamente scarsa di questi libri, in cui parecchi grandi scrittori del passato hanno ritratto l'uomo interno con tranquillità scientifica e con arte squisita di stile. E gli pareva che in tale studio i fatti e le osservazioni contemporanee dovessero raffrontarsi a fatti e osservazioni antiche, onde misurare il valore morale, relativo e assoluto, della nostra generazione. Per lui il valore delle trasformazioni religiose e politiche, degli stessi progressi scientifici e materiali si risolveva nella somma, non di verità o di prosperità, ma di bene e di male morale che ne discende; perché se il bene in generale è lo scopo a cui tutta la molteplice attività umana intende, il bene morale è la sua legge stessa, la condizione della sua potenza durevole; senza dire che per mezzo di esso, termine d'una equazione misteriosa, l'uomo si accosta alla essenza della verità e della bellezza assai più che per mezzo della scienza e dell'arte. La quale arte egli giudicava a questa stregua medesima, pure disprezzando, come puerile e falsa, la teoria dell'insegnamento morale diretto. Teneva ch'esatte cifre misuratrici del valore morale esistessero veramente, ma fossero impenetrabili in questa vita allo spirito umano; non pregiava come elemento di ricerca quelle delle statistiche, in cui le unità vengono aggregate arbitrariamente per certi caratteri comuni, affatto esterni e propri, per alcuni rami di statistica, più della legge che dei fatti umani; tutti più o meno disformi tra loro nell'aspetto, e di cui non si può cogliere la vera misura morale che là dove si generano, dove la statistica non sa entrare, dove la osservazione psicologica può trovare argomento di classificarli in modo affatto nuovo, affatto impensato, da sconvolgere molte tabelle e molte opinioni. Preferiva perciò a grossolani indizi aritmetici l'opera degli osservatori morali, attenti a cogliere negli atti, nelle parole umane i motivi interni; l'opera di pensatori acuti nel coordinare queste osservazioni praticate da molti in ogni campo della vita, nel dedurre giudizi quasi scientifici. Voleva che le osservazioni si facessero e si esponessero con la massima precisione possibile; attribuiva perciò poco valore a quelle che sono nei romanzi. Ingegno non lucido, mistico di tendenze, potente per certe intuizioni fugaci piuttosto che per nerbo suo proprio e costante, egli aveva idee poco definite, poco pratiche; ardente spiritualista e perciò proclive a considerare di preferenza, nell'umanità, la origine e il fine; amava, anche in tenue materia, appoggiarsi a qualche grande principio generale. Era quindi male atto alla fredda osservazione scientifica, se pure ella è completamente possibile in tali argomenti e se il solo vero frutto da sperarne non è la conoscenza dell'osservatore stesso.
Ma egli non obbediva soltanto a un concetto filosofico; cercava pure in quel lavoro certa consolazione delle offese recategli dal mondo. Tenuto in poca stima dai suoi congiunti che l'avevano per un sognatore ozioso; negletto dagli amici che si dilungavano da lui, amico inutile, seguendo la propria fortuna o le cure domestiche; ferito da inciviltà disdegnose di critici, di letterati, di editori, si compiaceva di studiare questi tipi familiari, sine ira et studio, con equa temperanza. Era il suo conforto orgoglioso tenerli sotto la penna e perdonar loro.
Stava ora lavorando a un saggio sull'ipocrisia. Inconscio seguace d'idee preconcette e assolute, voleva dimostrarvi che la menzogna e la debolezza morale sono caratteristiche di questo tempo, salvo a dedurne in seguito che discendono dalle sue tendenze positiviste, ossia dall'essersi oscurato nelle anime il principio metafisico del vero; e che le verità conquistate nell'ordine fisico, infinitesimali raggi di quel principio, non hanno né possono avere il menomo valore di sostituirlo quale generatore di salute morale. Molto più grave gli pareva questo prosperare della menzogna in tanta libertà di parola e d'azione. Perché ne trovava infetta la vita sociale e politica, come le arti, le lettere e le industrie stesse, nelle quali discende a complice abbietta d'inganno persino la scienza. Osservava ne' suoi conoscenti il fenomeno frequentissimo dell'ipocrisia a rovescio, ossia la dissimulazione dei sentimenti più retti e più nobili, delle opinioni più ragionevoli; l'opposto linguaggio che erano usi tenere sulle persone e le cose, secondo il numero e la qualità degli uditori. Ne induceva che se le vere opinioni umane avessero improvvisamente a scoprirsi, il mondo sbigottirebbe di trovarsi tanto diverso da quello che crede. Una sì larga infusione di falsità volontaria, corrompendo interamente le parole e le azioni umane, deve generare il falso, che è quanto dire il male, nell'organismo della società, poiché questo si modifica senza posa per le parole, per le azioni umane. Silla preferiva la sincerità, anche nell'errore, a qualunque men disonesta ipocrisia. Citava esempi in appoggio al suo assunto, e aveva ora per le mani il suo amico Steinegge.
Steinegge era un esempio singolare di rettitudine morale accoppiata alle opinioni più false in ogni argomento. V'erano nei suoi errori un candore, una sincerità leale senza pari. Egli non poteva neppur credere, in fatto, alla menzogna né alla disonestà negli altri benché dicesse male, in astratto, di mezzo mondo. Parlava da scettico e sarebbe caduto in ogni trappola di briccone volgare. Il suo calor generoso si apprendeva altrui, la sua schiettezza provocava schiettezza; e le opinioni, violente e zoppe, lungi dal nuocere, non si reggevano in piedi. Pareva a Silla che se fosse possibile rappresentare una generazione con un uomo solo, come altri ha fatto per la umanità intera, la generazione presente verrebbe raffigurata in un uomo colto, acuto di mente e basso di animo, attivo, ambizioso, doppio, sensuale senza passione, forte di molta fede in se stesso, vantatore, malato d'umori vaganti che lo molestano, sempre a fior di pelle e talvolta gli minacciano i visceri. Steinegge era molto migliore di questo tipo. Sotto il suo cerimonioso abito nero del secolo decimonono v'era un gran cuore barbaro, pieno di idee sbagliate e di sangue sano. Silla pensava a lui con la penna inerte sulla carta e lo sguardo a' fili tremoli della piova. Non poteva continuare la sua tranquilla analisi psicologica; gli pareva di offendere quell'uomo ingenuo che gli voleva tanto bene, e certo non avrebbe sospettato mai che l'amico suo gli volesse praticare una vivisezione sul cervello e sul cuore. Se lo vedeva là ritto davanti col suo onesto viso cherusco e gli occhietti scintillanti, gli udiva dire con impeto soffocato: "La meritate voi?".
E lui, Silla, si alzava in piedi, gli rispondeva: "La meriterò. Sarò il suo sostegno, la sua difesa e il suo orgoglio. Non si troverà in me un atomo di falsità mai, non un pensiero ond'ella sia esclusa. Combatterò per le alte cose ch'ella ama, sotto gli occhi suoi, virilmente".
Poi quella voce gli faceva delle altre domande. Egli si commosse nel pensiero di tante fredde difficoltà amare, pronte per lui da ogni parte. Immaginò un altro colloquio intimo con la propria madre. Ella gli diceva con indulgente calma tante cose savie che a lui non sarebbero mai venute in mente, lo sgomentava e lo rincorava insieme con la sua pacata scienza della vita, con l'elevato concetto del dovere e la ferma fede nella volontà umana e nella provvidenza. No, non era facile l'avvenire. Dai suoi parenti materni non poteva attendere appoggio se non lasciando gli studi per il commercio. Gli avevano già detto chiaro che non sperasse essere incoraggiato da loro a vivere ozioso, a leggicchiare e scribacchiare senza costrutto. Gli pagavano il modico assegno di cui viveva stentatamente, frutto di una somma di ragione di sua madre che essi avevano trattenuto presso di sé salvandola dal naufragio di Silla. Più di così non era da aspettarsi da costoro che avevano edificato del proprio la canonica e le scuole comunali del paese dove filavano seta e villeggiavano. Ceder loro? Si sentiva portare in aria dallo sdegno, solo a pensarvi. Avrebbe dovuto, accasandosi, trarre denaro dal proprio ingegno. Come? I suoi libri non gli avevano ancora fruttato un soldo, e il loro successo non lasciava presagire migliore fortuna per l'avvenire. Avrebbe tradotto qualche ora al giorno, dal francese e dall'inglese, a un tanto la pagina; ma era poi sicuro di trovar lavoro? Come correva la sua fantasia! E la grigia piova tremola gli ripeteva in fondo al cortile, per le grondaie, sui tetti lucidi:
"Piangi, piangi, non ti ama, non ti ama."
Si alzò e uscì di casa.
Più tardi egli non seppe ricordar bene che avesse fatto durante le lunghe ore trascorse da questo punto al momento in cui pose piede in casa Steinegge. Camminò trasognato, sui bastioni deserti, sotto i platani grondanti e per vie remote della città, senza riconoscerle; attraversò quartieri opposti a quello abitato dagli Steinegge. Si trattenne lungamente in un piccolo caffè tetro, dove due vecchi giuocavano al domino e la padrona, seduta accanto ad essi con un grosso gatto grigio sulle ginocchia, guardava piovere nella via stretta. Dietro il banco un orologio scandeva col suo tic-tac minuti interminabili.
Questi minuti eterni venivano sempre accelerando il passo; all'accostarsi del momento prestabilito battevano via a precipizio come il suo cuore.
Giunto, per la più lunga via possibile, alla nota porta, non vi entrò né si fermò. Gli parve che il suo destino l'attendesse là dentro. Andò avanti per qualche centinaio di passi, poi, bruscamente, tornò indietro, passò la soglia disprezzandosi, paragonandosi a un fanciullo ridicolo che desidera da lontano la donna amata e la teme da presso. Si volse alla portinaia senza parlare. Ella lo conosceva e disse alzando la testa dal lavoro: “In casa”.
Salì le scale adagio, aggrappandosi nervosamente alla branca. Suonato il campanello si sentì chetare i nervi, si meravigliò seco stesso d'essersi lasciato tanto turbare dalla fantasia.
“Oh! Oh! Caro amico! Date! Oh! questa è una grande fortuna con questo tempo tedesco. Date!” vociferò Steinegge, che gli aveva aperto e gli toglieva di mano a forza l'ombrello e il cappello.
“Buon giorno, signor Silla” disse Edith quietamente. Ella era seduta presso la finestra e lavorava. Aveva alzato il viso, né roseo, né pallido, per il breve saluto e s'era volta quindi a guardar dalla finestra il "tempo tedesco".




(continua)

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Entrava lassù dallo sterminato cielo bianco una gran luce quasi nervosa. Sul tavolo, spoglio del suo bel tappeto azzurro e nero, posavano due o tre grossi volumi, un calamaio e un manoscritto aggruppati presso la sedia da dove s'era alzato Steinegge.
“Voi vedete” disse Steinegge “questo Gneist è un grande uomo, grandemente stimato in Germania. Bisogna leggere un articolo di questa Rivista Unsere Zeit. Voi sapete? Oh, ff! Ma io sono un piccolo uomo, e quando ho tradotto cinque o sei pagine, non è possibile andare avanti; è questo. Voi, Voi dovreste imparar presto il tedesco e tradurre il Self-Government per la Vostra nazione. Io lavoro per il signor conte perché io devo mangiare, ma io getto questa fatica in un pozzo, e poi io traduco in francese molto male. Io credo che guadagnereste molti denari perché tutti gl'italiani comprerebbero. No? Voi non credete? Voi non credete? Ooh! Questo mi meraviglia molto, caro amico. Se avessi denari, farei tradurre per speculazione a mie spese. No? Ah, no. Questo mi meraviglia molto. Sedete. Voi avete un libro?”
“È un libro che mi permetto di offrire alla signorina Edith” rispose Silla, posando il volume sullo scaffaletto accanto al busto di Schiller, e guardando Edith.
“Oh, molte grazie, caro amico” disse Steinegge.
Edith posò le mani sul lavoro e volse il capo a Silla.
“Grazie” diss'ella, tra attonita e curiosa. “Che libro è?”
“Il libro di cui Le ho parlato iersera.”
“Iersera?”
“Guardalo dunque!” disse Steinegge porgendole il volumetto con un leggero atto d'impazienza, il primo forse che gli sfuggisse parlando con sua figlia.
“Ah, il suo libro Un sogno! Lo leggerò volentieri, certo. Lo leggeremo insieme, papà, per riposarti del tuo Gneist. Ti prego.”
Gli rese il libro, senza sfogliarlo, non senza però aver intravvisto la dedica e le quattro righe scrittevi sotto, e si ripose al lavoro.
“Io sono sicuro che sarà bellissimo e che ci troveremo grande piacere” disse Steinegge, rosso rosso, per cercare di supplire alla freddezza di sua figlia. “Versi?”
“No.”
“No? Io credeva che Voi foste poeta.”
“Perché?”
“Scusate, mio caro.” Steinegge prese con ambo le mani, ridendo, il braccio del suo interlocutore. “Per la Vostra cravatta che è sempre fuori di posto. Io ho dato lezione in Torino a un giovane, il quale diceva che i poeti in Italia si conoscono dalla cravatta non in prosa, non a posto. Non fate versi Voi?”
“Mai.”
“Questo è un racconto?”
“Sì.”
“Sarà stato molto lodato, io credo, dal pubblico e dai giornali, non è vero? Avrà fatto rumore?”
“Sì, il rumore di un sasso che cade in un pozzo. È stato accolto gelidamente. Non ha trovato una sola persona, neppure tra le poche a cui l'offersi, che l'abbia accolto come si accoglie un forestiere raccomandato da qualche amico, un visitatore onesto, civile, senza ingegno forse, ma non senza cuore, posso dirlo, il quale vi domanda solo di essere udito quando vorrete Voi.”
“Come mai? Questa sarà invidia, io credo.”
“No, no, no. Ci sono uomini e libri sfortunati che spirano antipatia persino a' cuori più gentili.”
“Questo è vero, mio caro amico, questo è vero sempre.”
“Mi pare che un autore non lo dovrebbe credere” osservò Edith senza alzare il capo dal lavoro.
Silla tacque.
“Perché, Edith?” chiese Steinegge.
“Perché questa opinione gli deve togliere la fede, la forza; gli deve impedire di studiare bene i difetti delle sue opere.”
“No” disse Silla. “Per un pezzo si dura saldi, anzi, più la fortuna ci combatte, più la si disprezza, più si lavora, più si cerca di appagare noi stessi, la nostra coscienza. Le ferite stimolano quasi, danno vigore; ma poi ne capita una inaspettata nel fianco, e allora non c'è più che da cader bene, a fronte alta, senza chieder pietà.”
“Sarà vero, ma direi che bisogna diffidar molto della nostra fantasia, e badar bene di non attribuire alla fortuna quello che non le va attribuito. Non Le pare? Non è più virile di crederci poco alla fortuna?”
“Oh” esclamò Steinegge “come non vuoi credere alla fortuna? Saresti tu esule, quasi povera, e sola con un vecchio poltrone se non ci fosse la fortuna?”
Gli occhi di Edith scintillarono.
“Papà!” diss'ella.
Egli non ebbe il coraggio di confermar colla voce, ma confermò col capo, ridendo silenziosamente, quello che aveva detto.
Edith si alzò e gli si avvicinò.
“Scusi, signor Silla” diss'ella appassionatamente. “Lei è nostro amico e mi permette di dire una parola a papà. Puoi tu ignorare” soggiunse rivolta a quest'ultimo “che non v'ha per me felicità maggiore di vivere con te, sempre con te solo, amar te, servir te, sentirmi protetta da te, sapere che tu mi vuoi bene?” Ella disse questo in italiano e poi continuò in tedesco la sua effusione affettuosa. Intanto suo padre la interrompeva con esclamazioni e gesti, batteva con le mani su Gneist e sul tavolo; ogni muscolo del suo viso grinzoso lottava con la commozione. Stava per essere vinto. Trarre l'orologio, esclamare “Oh, C... che mi aspetta”, correre a pigliarsi il cappello, fare un gran gesto di saluto a Silla e infilar la porta, fu un punto solo. Edith lo chiamò; non le rispose; corse per trattenerlo, egli era già in fondo alle scale, senza ombrello. Ella rimase sospesa un momento pallidissima; si compose tuttavia subito e invece d'avviarsi alla sua sedia presso la finestra, s'indugiò a disporre meglio le lucernine e i fiori sul piano del caminetto.
“Signorina Edith” cominciò Silla con voce alterata.
Ella si voltò, gli tese la mano e disse:
“Buon giorno.”
Silla tacque un momento, poi soggiunse:
“Scusi. Le rubo un minuto di più. Volevo dirle che solo adesso, dopo molte incertezze e ripugnanze, comincio a credere alla fortuna.”
Edith tacque.
“Può intendermi, signorina Edith?”
“Signor Silla, Lei è amico di mio padre e quindi è amico mio. Io non capisco perché Lei mi faccia tali discorsi. Non conosco bene la Sua lingua, ma se Lei vuole far dire alle parole più del dovere, questo non è bene e io non voglio.”
Ella disse “non voglio” con altera energia, con agitazione. Non parve comandare a Silla soltanto.
Silla s'inchinò.
“Non intendo” rispose “far dire alle parole più del dovere e non me ne rimprovero una sola. Del resto, ero venuto per dire a Suo padre che domani non posso pigliar lezione. Vorrebbe Lei avere la estrema bontà di avvertirnelo?”
“Lo farò certo.”
“Mille grazie. Buon giorno, signorina.”
Egli andò e riprese il suo povero libro sullo scaffaletto.
“Perché?” disse Edith.
Egli sorrise scotendo la testa come per dire “che Le ne importa?”
“Mio padre l'ha veduto” diss'ella, quasi timidamente, ma senza emozione. Silla posò il libro sul tavolo e, fatto un saluto profondo, a cui ella rispose appena, uscì.
Edith, rimasta sola, tornò a sedere presso alla finestra e riprese sulle ginocchia il fazzoletto che stava orlando per suo padre. L'ago era caduto a terra e n'era uscito il filo. Ella volle infilarlo di nuovo. Le tremavano le mani; era impossibile venirne a capo. Allora chinò il viso come se lavorasse, e andò poco che due grosse lagrime caddero sulla tela. Si alzò, depose il fazzoletto, andò a pigliare Un sogno, aperse stando in piedi presso il tavolo e, tosto vista la dedica manoscritta, voltò senza leggere, alcune pagine. Quindi, sfogliando pagina per pagina, tornò alla dedica, vi si fermò. Per quanto tempo!
Finalmente chiuse il libro con violenza, andò a metterlo sullo scaffaletto dietro il busto di Schiller. Se ne pentì, lo riprese, lo pose accanto al busto dove l'aveva messo prima suo padre. Aperse il balcone e si appoggiò alla ringhiera.
Pioveva sempre e tirava vento. I ciuffi verdognoli degli alberi che rizzavano il capo tra casa e casa, lontano, si dondolavano malinconicamente. Una cortina biancastra chiudeva l'orizzonte tutto all'ingiro; dal lembo inferiore trasparivano le campagne fosche. Era un grande spettacolo di tristezza appassionata. Ma Edith non guardava né vedeva. Era venuta a cercar l'aria libera, viva, rinnovatrice di tutto, gradiva il battere delle fitte punterelline fredde. Si tolse di là dopo lungo tempo e andò a scrivere la lettera seguente a don Innocenzo.




(continua)

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Milano, 30 aprile 1865

""Onoratissimo signore ed amico,
accetteremo la cara amichevole offerta di venir qualche giorno in casa Sua. Le siamo tanto tanto grati! Mi pare che il signor conte non potrà offendersi se non andiamo al Palazzo; avrà bisogno di riposo dopo tanta confusione, tanta gente in casa per il matrimonio. E mio padre e io abbiamo pure bisogno subito di quiete e di verde. Scusi il cattivo italiano; non so come esprimere il mio concetto. Voglio dire che abbiamo bisogno di quel silenzio e riposo che si trova nei campi verdi, atto a quietare certi pensieri non del tutto sani e farne nascere altri così freschi e semplici, così vogliosi di aria pura come le foglie degli alberi e dell'erba. È quasi certo che partiremo posdomani.
Da qualche tempo mio padre non ha progredito come speravo e io sono in sospetto doloroso di me stessa. Io temo di non aver scelta la buona via e di non avere adoperato bene il grande amore di mio padre per me; mi viene nel pensiero che sarebbe forse stato meglio entrare risolutamente su quel terreno sin da principio, richiamare, pregare, esigere, e che non avrei perduto parte della mia influenza, come dubito averla perduta ora con le mie cautele forse troppo mondane, con mostrargli che sono tranquilla e contenta come se non avessi nessuna nube nell'anima.
Ho creduto, onoratissimo e caro signore, di domandare consiglio a un buon vecchio prete dal quale sono andata a Pasqua. Egli mi ha consigliato di fare speciali divozioni alla Vergine e a molti santi. Credo umilmente che questo è buono; ma io ho bisogno di sapere come fare, come parlare con mio padre tutti i momenti e non può essere poco importante se commetto errore o no. Non mi pare di poter avere aiuto superiore se non adopero anche, il meglio che posso, la mia ragione. Dio mi ha molto concesso perché mio padre ora viene in chiesa e so che sicuramente prega; ma questo è stato ottenuto assai presto, in principio. Egli ascolta molto volentieri parlare di cose religiose, come cerco io qualche volta, e pare allora disposto alla fede; ma se si tocca di quelle pratiche in cui entra necessariamente il sacerdote, io vedo quanto egli soffre di non esprimere la sua ripugnanza violenta. Forse nei primi tempi e forse ancora adesso egli vincerebbe, se io lo pregassi, questa ripugnanza: ma debbo io pregarlo? Posso io mettere alla tortura il mio spirito? Può esser mai questo il mio dovere filiale? E ne verrebbe un frutto buono, accetto a Dio? Quando penso le grandi sventure che ha sofferto mio padre e il suo lungo vivere fra uomini che non curano le cose dell'anima e penso la sua onestà di ferro, il tenerissimo amore ch'egli ha per mia madre ancora adesso e per me, la fede in Dio che gli è tornata, io sento di riverire mio padre come una persona santa, benché non pratica come io e tanta piccola gente che io conosco; e mi pare male costringerlo ad atti che il suo cuore non desidera. Questi sono i miei intimi combattimenti.
Ho bisogno, onoratissimo signore, della Sua parola viva, nella quale è un grande lume, una forza. E sovra tutto desidero che mio padre si trovi con Lei qualche tempo. Mio padre ha veramente simpatia per Lei, sentimento impossibile a conciliarsi con altri suoi. Questo è per me come un muto indice scolpito al principio di una via.
Credo che vi sarebbe poca sincerità in me se Le dicessi ora che io ho bisogno del suo aiuto pure per me stessa.
Lei sa come io comprendo il mio dovere verso mio padre. Sono convinta che, comprendendolo io così, così è. Io devo essere intera per mio padre, il quale non ha nessun'altra persona al mondo. Per lunghi anni egli ha vagato tutto solo sulla terra, soffrendo fatiche, ingiurie e fame, mentre io vivevo a Nassau come una damigella ricca, senza mandargli neppure un saluto. È poca cosa, per compensarlo di questo, tutto l'affetto umano ch'è nel mio cuore. Io non mi esprimo qui come vorrei; Le spiegherò meglio tutto questo a voce nella Sua casetta solinga tra i prati innocenti.
Le dirò ch'io sono stata per un momento un misero cuore fragile, aperto alla sorpresa, e che il mio spirito, rialzatosi con violenza, è ancor intorbidato di dolore, di paura e anche di alcuna dolcezza, di alcuna compiacenza nel soffrire almeno una piccolissima cosa per il mio povero vecchio padre. È una confessione affatto non religiosa che io farò a Lei, onoratissimo signore, per trovarvi gradevole umiliazione e sollievo, ombre del divino che sono, io credo, anche nelle confessioni umane; e altresì per sciogliermi dalla poesia bruciante del segreto. Mi perdoni questa lunga lettera. Mi pare, scrivendo a Lei, acquistare maggior fede e maggiore speranza.
Quello che io sento e vedo della religione in Italia non è spesso secondo il mio cuore, forse perché io sono un freddo carattere tedesco; se v'è qui dentro fumo d'orgoglio, me lo dica, è la mia mala inclinazione; certo io trovo nella Sua parola un raro suono d'intimo argento, a cui tutta l'anima mia si apre.
Preghi Dio per noi e ci voglia bene.

E.S. "



Silla discese le scale con amara calma, gonfia di ironia verso se stesso, come se godesse ad ogni scalino calcare qualcuna delle stolide illusioni, delle folli fantasie portate lassù pochi momenti prima; calcarle con orgoglio virile, alzando fronte e cuore contro al nemico invisibile. Anche lì in quel cortile la perpetua piova ripeteva "piangi", ma non egli era inclinato a piangere. Per la terza volta gli falliva la speranza di un amore in cui, placato l'angoscioso grido dell'anima, sentirsi forte, sentirsi puro, sicuramente e per sempre, non vedersi più davanti nella veglia e nei sogni il sinistro fantasma di un'ultima caduta senza rimedio nel buio. Per la terza volta Dio gli diceva: "Vedi come è bello? Non l'avrai". Ma avrebb'egli pianto come un bambino, come un vile? No, mai. Il suo orgoglio e i cupi presentimenti non gli permettevano neppure di pensare quello che altri si sarebbe proposto; combattere, vincere Edith con lunga guerra. Che Edith potesse dissimulare non sospettò neppure un istante. Essere amato, lui? Impossibile, lo sapeva bene.
Nella via, a pochi passi dalla porta degli Steinegge incontrò un editore di seconda riga, a cui era stato presentato e raccomandato, come autore, pochi giorni prima. Colui guardò da un'altra parte, passò senza salutarlo. Che importava mai a Silla di questo, adesso? Si strinse nelle spalle. Poteva ben resistere anche a questo, poteva ben disprezzare quel signore che si credeva lecito d'essere incivile con gli autori di cui non voleva pubblicare gli scritti. Lotterebbe finché avesse sangue nel cervello e nel cuore. E ne aveva ancor molto, ricco di vigorosi pensieri, di dolcezza e di collera. Egli sentiva d'avere molte cose a dire in servizio del vero, molte belle e forti pagine di cose, prima di scendere ignorato e sdegnoso, alla fine della sua giornata, nel sepolcro, con l'altera coscienza di essersi serbato equo a un Dio ingiusto.
Concetto fiero e superbo che, sorto nella solitudine del suo spirito, metteva stupore in lui stesso, gl'infondeva una forza demoniaca. N'era stato tentato altre volte, ma lo aveva respinto sempre. Adesso gli cedeva, se ne ubbriacava. Passando presso il Duomo volle entrarvi, come soleva fare talvolta nelle sue battaglie interne.
Andò a sedere nella navata di mezzo, presso alla croce. Due o tre vecchie signore vestite di nero pregavano allo Scurolo nella luce piovosa delle alte finestre; il passo frettoloso di un chierico si udiva da lontano verso la porta di fianco nelle tenebre; qualche figura esotica si moveva lentamente nel chiarore caldo dei finestroni dell'abside. Silla, raumiliato a un tratto, appoggiò sul banco le braccia e sulle braccia il capo, chiese dal profondo del cuore al Re degli spiriti: Quid me persequeris?
Allora si fece dentro a lui un gran silenzio freddo come quello della cattedrale e più nero. Pareva che l'ombra delle colonne formidabili fosse penetrata a schiacciarvi ogni pensiero. Quello stesso interno del Duomo, quella mente colossale nel poema di granito che si effonde magnifico al sole, mente ordinata, solida e misteriosa come la mente della Divina Commedia, divenne allora del tutto muta per lui. Un senso di uggia pesante l'oppresse. La sua volontà resistette inutilmente; non poteva scuotere quel mantello di piombo. Cercò ricordarsi del tempo passato, quando, fanciullo, veniva in Duomo con sua madre, immaginando al suono dell'organo i deserti di oriente, le palme, il mare, la vita contemplativa. Niente, niente, niente; la memoria era intorpidita, il cuore vuoto e senza eco. Qualcuno gliel'aveva percosso col fuoco, disseccato. Egli seguiva con l'occhio assopito i pochi forestieri che venivano dall'abside col cappello in mano, lenti, guardando in alto. Le colonne accigliate spiravano tedio, vapori di sonno salivano dal pavimento, le porte, tratto tratto, sbadigliavano. Era come una plumbea calma in fondo ad acque morte, che non sentono il passar dei secoli. Silla non ripeté la sua domanda, poiché non gli si voleva rispondere. Cercò deliberatamente nella memoria qualche profana imagine voluttuosa. Si rivide nella lancia Saetta, fra le grandi onde accorrenti, in faccia a Marina che gli piegava incontro il viso, disegnandosi sul chiarore abbagliante del lago sfolgorato dietro a lei dai lampi. Ne sentì i piccoli piedi appoggiati a' suoi. La fredda chiesa piena di tedio s'intepidiva, si ravvivava; era un acre piacere fissare le pietre ascetiche, trarne questa luce, questo calore dei sensi, conoscer la voce dolce e forte del tentatore; abbandonarsi a lei. La fantasia correva ad altre imagini febbrili. Marina era con lui, non più fra le onde, ma nella sua stanza del Palazzo, gli diceva "finalmente!", gli prendeva la mano, lo traeva a sé sorridendo con un dito alle labbra, nella notte profonda... Si alzò e uscì di chiesa, vacillando. Dio gli aveva risposto.





(continua)

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I classici - Malombra - di Antonio Fogazzaro


3. “Ho pianto in sogno”


“Ah Dio, Silla, che orrore!” disse la signora De Bella entrando come un nembo di seta in cui due piedini nervosi tempestavano a colpi sordi. “Buona sera. È un pezzo che mi aspetta? come va?” Ella gittò sulla spalliera d'una poltrona la sua pelliccia bianca e porse a Silla una manina nuda, luccicante d'anelli. Anche la sua bocca ridente, i suoi occhi celesti scintillavano. Ella era in tulle nero e sott'abito di seta azzurra, scoperte le spalle e le braccia che aveva bellissime, senza un braccialetto, né un medaglione, con due grandi anelli di turchesi e perle agli orecchi, un fiore azzurro in seno, un altro nei capelli biondi, molto incipriati, raccolti sopra la nuca come un gruppo di grossi serpenti. Aveva un profumo tepido di veloutine che parlava della sua pelle morbida.
Silla s'inchinò.
“Come va? Che bravo Silla! Non si pentirà d'esser venuto, sa? Ho tante cosettine carine carine a dirle. Sieda! Ma che orrore, neh! Come, non era in teatro Lei? Ah, non c'era. Senta bene. Adesso verrà qualcuno. Sa, dopo teatro ho dei buoni amici che vengono a prendere il thè. Stasera ci sarà M... che, quando viene, fa sempre un po' di temporale sul mio piano. Lo conosce? Non ha niente del pianista tipo, ma suona bene. Lei prenderà un posticino vicino a me: vicino vicino. - Cara! (Si ricordi, parleremo).”
Ella si alzò e andò incontro a una signora annunciata in quel momento, che al primo entrare artigliò Silla con una occhiata fredda e poi si rivolse sorridendo a salutar la padrona di casa.
“Che orrore, eh?” disse donna Giulia.
Presentò Silla e riprese:
“Che orrore, cara te!”
“Io lo sapevo prima. Hai visto la Mirellina?”
“Euh, euh! Doveva venir qua stasera. Ma come hai fatto a saperlo?”
Il cameriere tornò ad annunciare. Entrarono quasi di seguito parecchie signore e parecchi cavalieri. Le signore cinsero Giulia di un grazioso cicalio di salutini, di risatine discrete, di parolette sfumate morbidamente. Le curve spalle bianche raccolte in mezzo alla sala parata di raso azzurro, sotto la opaca luce aurea che si spandeva dai globi smerigliati delle lampade, parevano petali caduti là da un'alta invisibile magnolia grandiflora. Degli occhialetti scintillanti di curiosità oblique, delle sgraziate braccia nere s'insinuavano nel gruppo cercando un sorriso, una stretta di mano di Giulia. La sua testolina bionda oscillava, come la testa di un uccellino vispo. Il gruppo si sciolse, si disperse nella sala.
Silla aveva incontrata quella gente in altre case, tempo addietro, quando soleva frequentare la società molto più che non facesse ora. Le signore appartenevano alla nobiltà di secondo ordine e alla alta borghesia. Giovani e belle quasi tutte, avevano in gran parte l'aura di nascosti amori passati e presenti, di cui la gente sapeva quel tanto che basta ad accendere le fantasie sensuali, a mostrar loro negli occhi d'una donna certi languori, certi ardori che forse non ci sono. Tre o quattro di quei giovani stessi che prima attorniavano le dame e poi s'erano aggruppati intorno all'una e all'altra di esse, venivan creduti amanti felici di altrettante signore presenti. Nessuno l'avrebbe indovinato al loro contegno, salvo forse a qualche rapido sguardo di sospetto geloso, saettato di quando in quando da un capo all'altro della sala. La meno prudente era una nobile signora sui quarant'anni, scollata sino a mezzo il dorso, sfoggiatamente elegante. Ell'era venuta dopo le altre, sola, un momento prima del suo amante, un giovane ufficiale d'artiglieria. Quando l'infelice parlava a qualche signora, colei lo mordeva cogli occhi.
Faceva caldo là dentro, benché fossero aperte due larghe porte che mettevano in due altre sale illuminate: la sala dei grandi ricevimenti, gialla, grandissima, zeppa di suppellettili e quadri antichi: e la sala da musica, rosso-cupa, dove s'intravvedeva la voluttuosa Baiadera di C..., in marmo di Carrara. Nella sala azzurra v'era un tepore profumato di bellezza viva, segretamente disposta ad amare. Quei vapori salivano al cervello di Silla e, sopravvenendo dopo lunghi mesi di vita solitaria e studiosa, glielo offuscavano, gli dicevano quale fosse la felicità intensa, la vera, la sola, sia pur fugace, che è offerta all'uomo, sia pur da un cattivo genio; essere follemente amato da una di quelle donne altere con lo squisito condimento di tutte le eleganze e della colpa.
“La Mirellina non si vede” disse qualcuno.
Era la terza volta che si ripeteva questo discorso, ma la nobile signora venuta per l'ultima non l'aveva inteso.
“Che orrore, neh, Laura?” le disse la padrona di casa.
“Cara...” rispose donna Laura che badava ad altro. “Giboyer, neh?”
“Oh giusto!” rispose Giulia ridendo. “Non parlo mica della commedia.”
“Laura non poteva vedere” osservò un'altra signora.
“Ah, sicuro, perché ci stai sopra.”
“Ora capisco!” esclamò donna Laura. “Altro che orrore. Me l'ha detto mio marito. Vi vedevo tutti guardare e non capivo il perché. Vedevo un ciuffo de' capelli rossi di don Pippo e un braccio nudo dall'altra parte.”
“Io però” osservò un'altra signora dopo aver dato un leggero colpo di ventaglio al suo vicino che le sussurrava qualche cosa all'orecchio “io trovo che la Mirellina ha avuto torto di andar via.”
“Si è tradita da sé” soggiunse un giovane elegante che afferrava sempre l'occasione di tradurre le frasi degli altri, tanto per parlare.
Ne seguì un dialogo animato fra tutti. Chi biasimava, chi scusava questa "Mirellina" ch'era partita dal teatro perché il suo amante v'era comparso con una signorina di ventura. Si parlava molto ma evitando ogni espressione troppo viva riguardo alla dama, velando e smorzando le parole per non offendere, senza volerlo, alcuni dei presenti di quelli che avevano simili intrighi.
“È stato un capriccio di Pippo” disse un giovinotto. “Ella ne ha perdonati tanti a suo marito; dunque?...”
Ci fu un breve silenzio, come quando taluno dice cose poco opportune.
“E lei, chi è, propriamente?” chiese la signora che non aveva capito bene.
Parecchie voci le risposero; qui non c'eran più riguardi. Era una russa, no, un'inglese, no, un'americana. Ciascuno degli uomini pretendeva essere informato meglio. Si chiamava Sacha Ferline. Nome falso. Era venuta a Milano a studiare il canto, stava all'Hôtel de la Ville, e spendeva moltissimo: in questo eran tutti d'accordo. Don Pippo n'era innamorato. Tutt'altro! Alcuni parlavano di certe attrattive, sorridendo misteriosamente. Le signore pigliavano un'aria seria, si parlavano tra loro con gli occhi maliziosi.
Il cameriere annunciò la signora Mirelli.
Fu un soffio agghiacciato. Giulia, che stava preparando il thè, corse rossa rossa incontro a donna Milla Mirelli, una bella piccina, rotonda, pallida, con gli occhi neri.
“Oh, cara, cara!” diss'ella. “Non ti speravo più.”
“Che vuoi? Mio marito ha mandato a chiamarmi a teatro per Max. Sai com'è mio marito. Max aveva tossito una volta, non era niente. Intanto io mi son tutta rimescolata... Buona sera, Laura... E son venuta a compensarmi da te... Buona sera, Emilia... Ho fatto bene? Buona sera, buona sera.” Tutti si erano ricomposti, facevano ressa intorno a donna Mina per salutarla, con un fervore insolito. Giulia tornò al suo thè. Dame e cavalieri rimasero in piedi, conversando di certe cose, della commedia, del principe di Piemonte che vi assisteva, di madamigella Desclée a cui le signore facevano qualche piccola censura. Gli uomini approvavano per cortigianeria; in cuor loro andavano tutti pazzi della Desclée. Silla che l'aveva udita una volta sola, ne prese la difesa; parlò del suo sguardo magnetico, del sorriso, della voce intelligente, di quel je t'aime dolce e grave che faceva pensare alla voce della regina Yseult nel verso di Maria di Francia:

La voix douce et bas li tons.

Non era corretto, in quella riunione, il calore del suo parlare. Molti ne sorrisero; pure, a taluna, questo giovane che ragionava con tanto fuoco della grazia e della bellezza non dispiacque. Lo punsero con qualche epigramma a fior di labbro, accentato di freddezza beffarda; ma poi più d'una gli rivolse la parola chiedendogli a bruciapelo, indiscretamente, delle sue opinioni e dei suoi gusti. La contessa Antonietta V..., una brutta sentimentale, amante di Heine e di Schumann, se lo trasse vicino per dirgli in segreto che lo approvava, che la Desclée era la donna da lei più invidiata sulla terra, che quella gente lì non capiva niente. Disse che avrebbe voluto sapere da lui se andassero d'accordo in tante altre cose, lo invitò ai suoi lunedì e finì porgendogli, con un sorriso, la sua tazza di thè vuota.
“Guarda l'Antonietta” disse una signora a donna Mina.
“Adesso comincia a parlar d'amicizia. Non credi?”
“Ma lui, chi è?” rispose donna Mina, distratta.
“Un certo Silla, nipote di filandieri, credo, che fila dei libri clandestini.”
Giulia gittò due parole nell'orecchio a un giovane, che andò quindi spargendole qua e là, sottovoce, e poi s'accostò sorridendo al maestro M... che sorseggiava il suo thè in disparte. Il giovane pareva domandare qualche cosa e il maestro schermirsi. Più persone gli si strinsero attorno insistendo con la voce e il gesto. Donna Giulia gli mandò senza muoversi una delle sue vocine toccanti. Allora colui si arrese e mosse, tra i "bravo" sommessi, verso la sala da musica, gemendo:
“Ma... non saprei... veramente.”
Giulia gittò altre due parole nell'orecchio del suo primo ministro e, passando presso a Silla, gli disse piano e rapidamente, senza guardarlo:
“Lei resti qui con me.”
Tutti si avviarono nella sala da musica.
“Cosa suonerò?” disse il maestro, seduto davanti a un magnifico Érard, con le mani sulle ginocchia, guardando la candela di sinistra.
“Ci suoni Frühlingsnacht” gli sussurrò con la sua voce timida la contessa Antonietta, che suonava ella pure stupendamente.
“Oh, troppo poco” disse l'agente segreto di donna Giulia. “Ci vuole un gran pezzo di concerto.”
A quel tempo regnava ancora Thalberg. Qualcuno propose la sua fantasia sulla Sonnambula.
“Ecco il temporale” disse donna Giulia a Silla, mentre il maestro tuonava sulla tastiera per isgranchirsi le dita, come un Giove invecchiato.
Ella si gittò in una poltrona dove non potevano vederla dall'altra sala. I suoi capelli biondi, le spalle ignude spiccavano mirabilmente sul raso azzurro. Batté con la punta del ventaglio di madreperla e pizzo una scranna vicina. Silla obbedì.
“C'è una signorina” diss'ella “che s'interessa molto di Lei.”
“Di me?”
“Di Lei. La prego, Silla, non faccia il modesto. Non mi piacciono gli uomini modesti. Di lei, sicuro. Una signorina molto bella, molto nobile, molto elegante, di molto spirito, molto amica mia insomma. Faccia un inchino. Questa signorina ha letto il suo Sogno anonimo e le è piaciuto molto, pare, come è piaciuto a me.”
Silla fece un secondo inchino.
“E questa signorina” diss'egli sorridendo “si chiama...?”
“Oh come corre, come corre!” rispose donna Giulia con una risatina sottovoce. “Questa signorina non si può sapere come si chiama. Questa signorina non conosce Lei. Sa appena il suo nome, perché gliel'ho fatto sapere io l'anno scorso dopo quel giorno che ci siamo incontrati in via San Giuseppe. Me lo aveva chiesto pochi giorni prima, ma se non era il nostro amico di Berlino e un po' così...” (Donna Giulia si fece scintillare sulla fronte, con un atto grazioso della mano, gli anelli) “non l'avrei saputo certo. Convien dire che il nome le sia andato molto a genio perché le ha messa attorno una curiosità, un interesse, una cosa insomma! Sa? Voleva conoscere la Sua vita, le Sue abitudini, le Sue relazioni, tante cosettine a cui ci teniamo noi donne. Io le avevo promesso un monte di informazioni, sperando che quest'inverno Lei si sarebbe lasciato vedere un po' di frequente. Ma Lei ha fatto l'orso. Dio, Silla, come ha fatto l'orso! Dunque senta; adesso deve venire spesso, spesso, spesso e lasciarsi studiare un po'.”
Ella gli stese la mano sorridendo e trattenne quella di Silla.
Donna Giulia aveva una bella riputazione di civetta.
Si diceva però ch'ell'era una farfallina d'amianto.
La definizione era attribuita a suo marito che non le si vedeva mai accanto né in casa, né fuori, e che avrebbe giustificato a questo modo, in un colloquio intimo, la sua fiducia indolente. Silla lo sapeva; gli balenò che la signorina ignota fosse una ispirazione poetica, ma egli presumeva troppo poco di sé per affermare risolutamente quest'idea.
“Verrò certo” diss'egli “ma non per una x così nebulosa...”
“No, no, no” lo interuppe Giulia. “Non complimenti. Dio, ne sento tanti, Silla! Dica che verrà molto per la x e un pochino anche per me, non è vero? o per mia cugina Antonietta” soggiunse con un malizioso sorriso “La conosceva?”
“L'ho vista una volta in casa B...”
“Ah, va dalla B..., Lei? Senta, non cerchi mica la x fra le mie amiche, sa! Non sta a Milano.”
“Non sta a Milano?” disse Silla trasalendo.
“No. Zitto adesso. Come è bello questo.”
Il piano cantava:

Ah non credea mirarti.




(continua)

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La lenta melodia saliva saliva affannosamente una via dolorosa, cadeva spossata, rilanciavasi avanti, ricadeva con la sua divina grazia di movenze.
“Dio, come pesta” disse Giulia. “Capisco niente” soggiunse in milanese sospirando. “Senta adesso se non pare una canzone napoletana:

Piangeva sempre ca dormiva sola.”

Ella si commoveva, il suo petto, le spalle si sollevavano, tradivano un flutto interno. Alla ripresa della melodia mormorò:
“Questo lo fa bene.”
Infatti M... eseguiva la variazione del trillo perfettamente. Pareva un tremito melodioso di due ali prigioniere, folli di dolore.
“Non sta a Milano” riprese Giulia, tranquillissima, quando ricominciò più furiosa che mai la tempesta degli accordi. “Oh, sta in una cornice romantica. Si figuri un laghetto perduto tra le montagne, un castello nero nero seduto sulla riva verde, un castellano nerissimo, insomma un'occhiata di Scozia. Io non ci sono stata, sa, ma me lo figuro così. Ci devono essere dei grandi cipressi. D'un solitario poi! Il lago è impossibile, senza ville tranne questa. Se non fa lui un po' di causerie quando c'è vento, silenzio profondo sempre sempre. La mia amica ha una barchettina e gira sola, magari la notte, come una dea selvaggia. Sa, un magnifico posto per un capriccio, per passarvi un quindici giorni in buona compagnia, dormant peu, rêvant beaucoup, leggendo qualche libro amico, dolce e tranquillo, erborizzando sulle montagne, facendo musica la sera, sul lago; non di questa, però! Povera Sonnambula, che eccidio, quel Thalberg! Ma lei, la mia amica, ci fu relegata sola, con uno zio tiranno...”
Giulia balzò in piedi, interrompendosi, e corse nell'altra sala, mentre M... rosso, sudato, coi capelli cadenti sugli occhi, schiacciava gli ultimi accordi. Ella batté, piano, le mani.
“Perfetto” disse.
Vi fu qualche altro sommesso applauso e molti "benissimo" detti più o meno forte secondo la riconosciuta autorità del giudice. Quelli che non capivano affatto si sussurravano fra loro:
“Benissimo, eh?”
“Perfettamente.”
La contessa Antonietta cercava Silla con gli occhi. Egli comparve qualche momento dopo, pallido, trasognato. Andò a contemplare la Baiadera di marmo.
“Che le pare di questa musica?” gli sussurrò a fianco la vocina morbida di donna Antonietta.
Egli si voltò bruscamente, come sorpreso; credette che la signora gli avesse parlato della statua, e rispose a caso:
“Bellissima!”
“Oh, anche Lei! No no, è un orrore. Voglio rifarla io la Sua educazione musicale.”
“Antonietta!” disse donna Giulia. “Mi accompagni un po' di Schumann?”
“Certo cara. Lei stia attento” disse donna Antonietta a Silla, sottovoce; e andò al piano, levandosi i guanti, fra un fuoco vivo di complimenti.
Allora l'ufficiale d'artiglieria, un piemontese, piccolo, snello, con due occhi sfavillanti di brio diabolico, venne a stringere la mano a Silla.
“Tu qui!” diss'egli.
Conoscenti d'Università, si erano poi riveduti, ma di rado.
“Sediamo qui in un angolo” soggiunse l'ufficiale “e chiacchieriamo un po' mentre quegl'imbecilli si rompono la testa col loro Schumann. Come va che ti trovo in società? In tre mesi che sono a Milano non ti ho veduto mai. Qual è la tua?..”
“La mia?”
“Eh, Cr..., sì la tua maîtresse? Sai qual è la mia? È quel pezzo là in bianco e mauve (malva) con quel monte Rosa di spalle. La conosci? È contessa, baronessa, marchesa, che so io, il diavolo che la porti. Cambio presto, è troppo gelosa. Un pezzo da quaranta suonati. Ma è ancora bella donna. Cr... se è bella donna! E come sente! La tua non sarà mica quel gambero che suona, eh!”
“Sei pazzo, taci” rispose Silla.
“È forse la... la... è inutile, io dimentico tutti i nomi; quella bruna in rosa, insomma? Ah no no! quella lì è di B... La padrona di casa, canaglia?”
“Ma no, via, taci.”
“Bravo, a quella lì ci voglio far la corte io. Toujours de l'audace. Ma è impossibile che non ci abbi anche la tua. Cosa si viene a far qui se non si viene a fare all'amore? Guarda che gruppo di belle donne! Posson dar dei punti, per forme, a quel pezzo di marmo lì, ci scommetto; almeno la mia certo; e sono di marmo caldo. Vedi la bruna, che magnifiche occhiate a B.... Guarda tre passi a destra, gira gira adagio finché trova gli occhi di lui, vi getta dentro un bacio e finisce piano piano il suo quarto di giro.”
Intanto donna Giulia cantava con poca voce ma con molta arte un'appassionata musica scritta da Schumann su parole di Reine. Ella usava questa inelegante versione fatta per lei da un poetucolo giovinetto che palpitava presso il piano, guardando la dolce bocca onde uscivano, ebbri di amore, i suoi versi.

Ho pianto in sogno, ho pianto:
Giacevi nell'avel.
Balzai dal sonno; il pianto
Spandeami a' cigli un vel.

Ho pianto in sogno, ho pianto:
Ero tradito e sol.
Balzai dal sonno, e tanto
Piansi d'amaro duol.

Ho pianto in sogno, ho pianto:
M'eri fedele ancor.
Balzai dal sonno; il pianto
Pioveami a fiumi ognor.

“Lasciami ascoltare” disse Silla, e andò all'angolo opposto della sala. Si trovò presso alla signora Mirelli ch'era pallidissima e aveva le lagrime agli occhi. Donna Giulia cantava:

Ho pianto in sogno, ho pianto:
Ero tradito e sol.

Pareva veramente una musica mista a qualche triste sogno, con le sue prime note insistenti dolorose. Diceva a Silla come la piova in casa di Edith: “Piangi, il tuo sogno è finito”. Ma egli, sbalordito, credeva di sognarne un altro, amaro anche questo. L'amica di donna Giulia era Marina. Marina avea tanto pensato a lui! Ah, quello sguardo sorpreso al chiaro dei lampi! Forse lo aveva amato. Sperarlo adesso quando egli avrebbe avuto bisogno di dimenticare il mondo e l'anima nelle braccia di una donna, ed ella viaggiava, novella sposa, chi sa per dove! Derisione, derisione! Gli altri erano felici! Gli altri avevano l'amore voluttuoso di cui respirava il profumo, l'amore appassionato di cui ascoltava lo slancio nella musica che mirava su verso il cielo, spossata, in un grido:

Balzai dal sonno; il pianto
Pioveami a fiumi ognor.

Gli altri, gli uomini come quell'ufficiale!
Gli applausi, assai caldi stavolta, lo scossero. Si avvicinò al piano, con la febbre addosso.
Tutti lodavano la musica e le esecutrici che invocarono una parola di lode per il poetucolo, rosso rosso. Egli ebbe da donna Giulia uno special sorriso a cui parve tenesse molto.
“Dunque?” chiese donna Antonietta a Silla, riassettando i guanti alle sue dita affusolate. “Ha pianto?”
“No, perché non piango mai; ma ho sognato di piangere.”
“Malheur à qui n'est pas ému” diss'ella. “Lunedì le faremo sentir qualche altra cosa.”
Ella andò quindi ad abbracciare Giulia.
“Addio, cara” disse.
“Così presto?”
Fu il segnale dello scioglimento. Tutte le carrozze erano state annunziate. Baci, sorrisi, paroline affettuose, ringraziamenti. Silla fu degli ultimi che vennero a stringer la mano a donna Giulia. Ella gliela rifiutò.
“Aspetti lì” disse. “La sequestro per due minuti ancora.”
Si voltò quindi al prigioniero. “Pensare” diss'ella “che io ho fatto una brutta parte per Lei, prima di conoscerla! Non mi domandi niente, non voglio essere indiscreta. Dica un poco, Silla, non piglia fuoco per le mie rivelazioni di stasera? Ne aggiungerò un'altra; quest'inverno la signorina voleva il Suo ritratto. Io ho detto: no, carina, si va troppo avanti. Adesso poi, se ha pigliato fuoco, spengo. La signorina dev'essersi fatta sposa ier sera ed è felice. Lo porti a me, il ritratto. Sempre il venerdì, sa bene, tra le quattro e le sei.”
“Ma...”
“Non c'è ma. Vada, vada che non facciamo dire cattiverie. Venerdì!”
Egli discese le scale dietro la Mirelli, ch'era con donna Laura. Pareva che avessero lasciato in sala il loro viso amabile e presone uno brusco nell'anticamera. La Mirelli parlava piano, in fretta, guardando in basso.
Silla non intese che queste parole:
"Ho capito benissimo."
C'erano cavalli nell'atrio che si impennavano, scalpitavano, facevano il fracasso d'uno squadrone. Gli staffieri chiamavano le carrozze. Silla scivolò in mezzo a quella confusione e uscì solo.
Stava per mettere la chiave nella toppa della sua porta, quando fu accostato da un fattorino del telegrafo.
“Di grazia” disse questi, “un certo signor Corrado Silla la sta in quella porta lì?”
“Sono io.”
“Tanto meglio. Telegramma urgente. Vuole un lapis?”
Silla scrisse la ricevuta sotto un fanale vicino. L'altro se ne andò. Silla aperse il telegramma e lesse:


Il conte Cesare, gravemente infermo, desidera che Ella venga al Palazzo. M. di Malombra, ne La prega. Domani alle 10 ant. Vi sarà un calesse alla stazione.

Cecilia


Egli partì alla mattina.





(continua)

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PARTE QUARTA

Malombra




1. Lo so, lo so, egli è qui ancora


Silla arrivò alle dieci e mezzo alla stazione di... Il mattino era caldo e ventoso. Le vette dei grandi abeti che nereggiavano lì presso in un giardino, i nitidi profili de' monti lontani spiccavano nel cielo vitreo. Molti viaggiatori salivano sul treno, aspettati, salutati da' loro conoscenti. In tutti i vagoni si chiacchierava, si rideva, si vociava. Quando la locomotiva ebbe trascinato via quegli strepiti con il soffio leonino, parve a Silla, nel silenzio vôto della strada, esser colto dalla stessa ferrea mano di cui otto mesi prima aveva immaginato, partendo in ferrovia di notte, che chiudesse inesorabilmente gli sportelli dei vagoni e portasse via tanti esseri umani nelle tenebre. Guardò il treno già lontano, bramò per un istante seguirne la fuga disperata.
Fuori della stazione c'era il giovinotto dell'altra volta con la sua cavallina.
“To'” diss'egli quando vide Silla “è il signore di quella sera. Andiamo al Palazzo, non è vero, signore?”
“Sei qui per me, tu?”
“È quello che vorrei sapere anch'io. Era di venire ieri mattina coi bagagli degli sposi, là del Palazzo. Vado a prenderli. Fronte indietro. Non si parte più. E poi, ieri sera, io dormiva pacifico come un "tre lire", mica ubbriaco, vede! È l'acqua che mi mette sonno a me. Basta. Si sente un maledetto "toc-toc", la donna (ce l'ho ancora quell'impiastro) la va ad aprire; cosa l'è, l'è quel Rico, quel figlio del giardiniere del Palazzo con un dispaccio di esser qui stamattina con la cavalla, vuoto, alle 10. Trovarmi vuoto a quest'ora, magari, è una di quelle asinate che io non ne faccio. Sicché...”
“Basta, basta. E il conte come sta?”
“Sta bene.”
“Come! Non è ammalato?”
“L'ho visto io l'altro giorno. Era un po' giù, un po' vecchio, un po' brutto, un po' gobbo, che so io! un po' mezzo andato, ma stava bene. Se però non si è ammalato ieri.”
“Cosa t'hanno detto ieri mattina quando sei andato al Palazzo per i bagagli?”
“M'han detto niente del tutto. C'era il giardiniere al cancello, che quando mi ha visto venire da lontano, si è piantato in mezzo alla strada e ha cominciato a far di no col braccio a questa maniera qui e poi a fare a questa maniera qui che andassi fuori dai piedi: ed io allora ho fatto "piglia!" a quest'altra maniera qui, ho voltato la bestia e sono andato a fermarmi a Lecco. Son venuto poi a casa tardi e sono andato a letto subito.”
Intanto s'eran posti in viaggio e la cavalla trotterellava a capo chino, fiutando la strada, spazzando via con due noncuranti colpi di coda a destra e a sinistra le frustate tra serie e scherzose del padrone. Questi smise di parlare. Passavan gli alberi, le siepi fiorite. Casupole sedute nei campi si venivano alzando su tra i gelsi, guardavano, e poi, adagio adagio, si riacquattavano. I monti giravano, mutando aspetto, intorno alla strada serpeggiante. Le note cime imminenti al lago nascosto si affacciavano a Silla ora da destra ora da sinistra, gli crescevano sugli occhi, come le inquietudini febbrili nelle vene.
Il vetturino non poteva tacere a lungo.
“Ah” diss'egli “l'altra sera era bello trovarsi al Palazzo!”
“Perché?”
“Perché la signora donna Marina si è fatta sposa ieri mattina; non lo sa! Prima anzi la era di sposarsi l'altra sera e poi, lo so io! han come cambiato. Insomma l'altra sera ci fu una casa del diavolo.”
Egli continuò un pezzo a descrivere enfaticamente le luminarie, i fuochi, le musiche; ma Silla non ne ascoltò parola.
Ella era dunque già sposa davvero e gli scriveva in quel modo con quel nome! Ma la parola Cecilia a piè del telegramma aveva pur vita, voce, passione; gridava “ti amo; vieni!”. Un giorno dopo le nozze! E il conte era veramente ammalato, o no? Se non era ammalato, perché gli sposi non erano più partiti? La sua fantasia si perdeva; egli trasaliva quando, in mezzo a dubbi d'ogni sorta, gli lampeggiava in mente con una tagliente nettezza di dettagli, la immagine del Palazzo, del giardino, del lago, quali li avrebbe veduti fra due ore, fra un'ora e tre quarti, fra un'ora e mezzo. Ne provava una contrazione nervosa, pensava chi avrebbe veduto prima, quali parole avrebbe udite, come si sarebbe comportato con lei. E se il conte non avesse nulla, se fosse un inganno! Ad ogni svolta della via tutti questi pensieri lo martellavano più forte. Tratto tratto ne balzava fuori, rinnovando il proposito di andar ciecamente, a coscienza muta, là dove lo portassero la occulta violenza delle cose e le passioni sue libere, oh sì, libere finalmente dopo tante stolte lotte inutili che non gli avevano conciliato né gli uomini né Dio. Non era una strada quella striscia bianca, nitida innanzi a lui, fumante di polvere alle sue spalle; era una furiosa corrente che non risale, una corrente da seguire oramai nel piacere e nel dolore sino a qualunque abisso, tanto più avidamente bramato quanto più profondo. Attraverserebbe forse qualche ora splendida come quel magico paese lì, quel verde poema ariostesco di folli colline che dalle montagne saltavano al piano in disordine, portando in collo e sui fianchi ville, torri, giardini, inghirlandate di vigneti, curve intorno a laghetti pieni di cielo. E poi...
“Dica un po' Lei, signore” saltò il vetturino “è vero che lo sposo ha questo gran mucchio di denari?”
“Non lo so.”
“Ma lo conosce, però, Lei?”
“No.”
“Vedo. Io l'ho visto un paio di volte, ma stando al mio poco talento di me, dev'essere un... Che pazzia, un fior di ragazza come quella lì! Segno che i denari son tanti. E io devo esser nato pitocco! Ci promettono sempre il mondo di là, a noi; ma io ci ho una maledetta paura che sia ancor peggiore di questo. Se in paradiso non si hanno a trovare che preti, vecchie, bambini da mammella e straccioni, caro il mio signore, è proprio mica il mio sito. Ih!”
Egli tirò una frustata rabbiosa alla povera bestia che toccava allora una strada selciata fra due file di case, l'ultima borgata sulla via del Palazzo.
Faceva caldo. La cavalla si fermò davanti a un'osteria e il suo padrone gridò che gli portassero il solito “calamaio e inchiostro”.
“E così” disse l'ostessa che venne a servirlo “è morto, eh?”
“Chi è morto?”.
“To', il signore, là del Palazzo.”
“Chi l'ha detto!” esclamò Silla, pallido.
“L'uomo della Cecchina gobba che è passato adesso, saranno cinque minuti. L'hanno mica incontrato?”
“Andiamo, presto!” disse Silla.
“Andiamo pure” rispose il vetturino rendendo il bicchiere all'ostessa “ma se è andato avanti lui, per me non gli corro dietro.”
“Presto, ti dico!”
L'altro si strinse nelle spalle e frustò la cavalla.
“Morto!” disse tra sé Silla. “E io che non ci pensavo nemmeno, a lui!”
Si rimproverò acerbamente questa dimenticanza di egoista, e gli riempì il cuore una dolorosa tenerezza per l'intemerato amico della madre sua, per il vecchio severo che gli aveva aperto le braccia in nome d'una memoria santa. Egli lo aveva offeso con la sua fuga occulta dal Palazzo; lo sapeva per una lettera ricevutane subito dopo, a Milano. Non ne provava rimorso, parendogli aver operato allora onestamente; ma pure gli era acerbo che il conte fosse sceso nella tomba con questo risentimento. Morto! Mezz'ora ancora e vedrebbe il Palazzo, tetro, solenne, pieno di freddo e di silenzio, circondato dalle austere montagne; come uno a cui la morte portò via qualche persona cara, siede impietrato dal dolore fra gli amici muti. E le proprie avversità incomportabili, come le sentiva ora, nello stupore di quell'annuncio, stranamente attenuate! Una porta segreta gli si era spalancata davanti improvvisamente; non vi si vedeva che ombra; ma ne spirava un'aria fredda, piena di calma. Godere, soffrire, amare, quanto durano? Ove finiscono? E, sovra tutto, cosa ne resta?
Il cuore gli batteva forte forte quando dal colle dell'ultima salita cominciò a discendere verso il lago, che si vedeva luccicare in fondo alla valle tra le frondi dei vecchi castani.
A mezzo il viottolo che dalla strada provinciale mette al giardino c'era il Rico, grave, col berretto in mano.
“Dunque?” disse Silla.
“Sempre lo stesso” rispose il ragazzo.
“Ah, è vivo?”
“Signor sì, signor sì. Adesso ci sono già i signori dottori.”
“Quali dottori?”
“C'è il nostro, quello nuovo, e il signor padre Tosi. È arrivato da Lecco stamattina. Aspetti. Ci ho un biglietto per Lei dalla signora donna Marina. Lei non deve dire a nessuno che ha trovato me, e io ho da dir niente che ho trovato Lei.”
Silla prese il biglietto che non aveva indirizzo. Non poteva venir a capo d'aprirlo, tanto le mani tremavano. Finalmente lo aperse e vi lesse. “Silenzio sul telegramma”. Intanto il Rico mise un fischio acutissimo.
“Perché, silenzio?” pensò Silla, “e come è possibile?”
Ripose il biglietto e chiese al ragazzo della malattia del conte. Il conte non si sentiva bene da qualche tempo. La mattina del giorno prima era stato trovato a terra, fra il suo letto e l'uscio, svenuto, con la fisionomia stravolta. Soccorso, si era un po' riavuto. Però la Giovanna diceva che non aveva più ricuperato la parola né l'intelligenza. Era una testimonianza gravissima che colpì Silla. Se il conte non parlava né intendeva, come spiegare il telegramma di Cecilia? Poteva esserci stato un lucido intervallo. Ma se il telegramma era menzognero, si spiegava bene il biglietto.
“Chi c'è adesso nel Palazzo?” diss'egli.
“C'è il signor sposo, la sua signora mamma, la signora Catte, un signore vecchio di Venezia, che è poi uno dei signori compari, e un altro signore che è stato qui ancora quando c'era Lei.”
“Finotti?”
“Signor no.”
“Ferrieri?”
“Signor no.”
“Vezza?”
“Vezza, signor sì, Vezza, che è poi l'altro compare.”
Il cancello del giardino era aperto. Il Rico si cacciò fra gli abeti e scomparve. Silla discese verso la scalinata.
Ed ecco i cipressi, la voce quieta del fonte, ecco laggiù, tra il verde vigneto e il verde lago scintillante di sole, i tetti neri del palazzo. La voce uguale diceva nel gran silenzio del mezzogiorno: “Lo so, lo so, l'ho saputo sempre, egli è qui ancora, non v'è stupore per l'acqua indifferente che passa senza posa. So la sua storia, so il suo destino e quello di Lei e quello dell'uomo che giace nella stanza buia, nell'ombra della morte. Lo so, lo so. So qual mistero hanno nel cuore colui che più non parla e la donna che palpita, sola, con la fronte appoggiata all'ebano freddo, agli avori dello stipo antico. Questo non può turbare la mia pace. Va, va discendi, confondi ad altre parole il suono delle tue, ad altre passioni il rivo torbido di quelle che gitta il tuo cuore finché passino e si dileguino insieme. Tutto questo è simile alla mia sorte. Lo so, lo so, lo so”.
Arrivato all'ultimo ripiano della scalinata, vide la Giovanna attraversar la loggia in punta di piedi e a capo chino, dall'ala destra alla sinistra. La vide levare il braccio a un gesto sconsolato in risposta a qualcuno che le era venuto incontro, e tirar via.
Nel cortile non c'era nessuno. Nel vestibolo, neppure. Salendo le scale Silla udì camminare in alto e, a intervalli, una voce maschia che parlava forte. Un domestico venne su, correndo, dietro a lui, lo inquadrò nel passargli a fianco, lo salutò meravigliato, lo accompagnò sino alla porta del salotto da cui usciva la voce forte. Silla si dispose di veder Marina; entrò.
Marina non v'era. V'erano la contessa Fosca, suo figlio, il comm. Vezza, un altro signore attempato vestito di nero e il padre Tosi dei Fatebene-fratelli, che Silla conosceva di vista, un bell'uomo maestoso, sui cinquanta, dalla gran fronte piena d'anima, dal profilo falcato, dagli occhi pregni di volontà veemente e di umorismo bizzarro. Egli diede appena un'occhiata allo sconosciuto che entrava e continuò a parlare col comm. Vezza. Il signore attempato si alzò rispettosamente, la contessa Fosca e Nepo si guardavano attoniti, il Vezza inarcò un momento le sopracciglia e fece un freddo cenno di saluto.
Per fortuna entrò la Giovanna. “Ah, caro Signore!” diss'ella “il signor Silla!” Ella gli andò incontro con gli occhi lagrimosi e le mani giunte sul petto.
“Ah, come ha fatto bene a venire! Dev'essere stata la Provvidenza che gliel'ha posto in cuore. Venga a vederlo! Può venire, signor padre Tosi?...”
“Per carità, cosa vi pensate, Giovanna?” esclamò la contessa. “Bisogna lasciarlo quieto.”
“Lasciarlo quieto, quieto per carità” ripeté Nepo.
Silla si voltò al frate, che guardò un momento la Giovanna con singolar espressione di dolcezza, e disse quindi a Silla bruscamente:
“Lei conosce l'ammalato?”
“Sì, signore.”
“Se le fa piacere di non conoscerlo più e di non esserne conosciuto, vada pure. Per l'ammalato fa lo stesso, finora.”
La Giovanna fece un gesto supplichevole.
“Cara vecchia!” disse il frate. “Conducilo pure, ma non bisogna mica mettere tanto in moto la Provvidenza. Cosa fai?”
Quest'apostrofe era diretta al cameriere che gli disponeva davanti, sulla mensa, un gruppo scintillante di vasellami d'argento e di cristallo.
“Per qual frate mi pigli? Portami un pane e un bicchier di vino.”
“Mi pare un'imprudenza” insistette Nepo vedendo la Giovanna uscir con Silla.
“Se fosse un'imprudenza non l'avrei permessa” rispose il frate.
“Ci farei un bacio” diss'egli al Vezza “ci farei un bacio a quella vecchiettina, povero topolino bello, che trotticchia sempre di qua e di là, con quella cuffiettina a punta, con quella faccetta piena di magon. È una bellezza.”
La contessa lo guardava con tanto d'occhi.
“Che tomo ch'el xe!” diss'ella al signore attempato, mentre il frate si sbrigava rapidamente della parca refezione. “Bisognerebbe anche ridere se si potesse. Non La parte mica subito, padre?”
“Non lo so” rispose asciutto il frate.
“Eh, perché si diceva che La volesse partir subito.”
“Si diceva.”
“Ma non La parte più?”
“Non lo so.”
“ De dia!” mormorò la contessa indispettita.
“Signora” disse il frate con forza e solennità “la malattia, l'ho già detto, è semplicissima. Una emiplegia destra. L'ammalato può riaversi o morire di questo primo assalto, come Dio vorrà. La causa della malattia è oscura e io vorrei conoscerla, onde, se l'ammalato guarisce, impedire una ricaduta.”
“Ma, oh Dio, la causa, benedetto...”
Il frate le piantò in viso due occhi sfolgoranti.
“Sì, non serve, caro, che La mi tiri quegli occhi” saltò su la contessa inasprita. “Ella è una cima di professore ma ne ho conosciute anch'io delle cime e ho sempre udito dir loro, che, quanto a cause di malattie, è un brutto discorrere.”
“E poi lo zio non può parlare” disse Nepo.
“Signora” rispose il frate senza badare a costui “il padre Tosi non è una cima e ha fatto due grandi corbellerie; ha voluto esser medico, ha voluto esser frate; ma L'avverto che se si fosse fatto commissario di polizia, sarebbe diventato grande. Ho l'onore.”
Egli si toccò la calotta, si alzò e uscì.
“Bel discorso!” disse la contessa. “Mi pare un bel matto! E quell'altro? Come è capitato qua quell'altro? Non capisco. Vedete” diss'ella, volta al signore attempato “colui è quell'amigo. Vi ricordate, che v'ho raccontato, quel tale che si temeva... sì, mi capite. Vi pare un bel momento di venire qua? Ed era convenienza, domando io, che quella pettegola di quella siora Zanze lo facesse entrare in camera così sui due piedi? Per carità, per amor del cielo, Zorzi, non andate via, non piantatemi qua. Non la può andar lunga, si capisce.”
“Come posso fare, dama?” rispose il vecchio cavaliere giungendo le mani. “A Venezia mi aspettano fra due giorni.”
“Zitto!” disse Nepo accostando l'orecchio alla porta ond'era uscito il frate.
Il signor Zorzi tacque. La contessa Fosca guardava suo figlio, ansiosa, trattenendo il fiato.
“Niente” disse Nepo, scostandosi dall'uscio.
“Cosa c'era?” chiese la contessa.
“Mi pareva udir parlare, ma non è stato vero. Senta, avvocato; come intende Lei quel discorso di quel cialtrone di frate sul commissario di polizia? Che intende dire? Che siamo assassini? Che rubiamo? È una cosa intollerabile.”
“Oh no” rispose il signor Zorzi “si capisce che è uno strambo, che tante volte gli vien da dire una spampanata, e lui, fuori!”
“Commissario di polizia! Bel discorso” ripeteva Nepo camminando a gran passi su e giù per la stanza e facendosi vento.
Un uscio si aperse pian piano, ne spuntò il naso di Catte.
La contessa Fosca e Nepo corsero a lei. Si mosse anche l'avvocato, ma sostò riguardoso qualche passo indietro dagli altri due che scambiarono con Catte poche parole sommesse. Catte si ritirò, l'uscio fu chiuso; madre e figlio si voltarono accigliati all'avvocato che chiese premurosamente:
“Dunque?”
“Niente, fio” rispose la contessa sconsolata. “Non mi vuole.”
“Neppure Lei, contessa?”
“Ma no. Oh Dio, hanno da toccare a me queste storie. Ne capite qualche cosa Voi?”
“In coscienza, contessa, non potrei dir di sì.”
“Ah, qua bisogna finirla, qua bisogna finirla. Nepo mio, bisogna che tu La veda, per amore o per forza; bisogna che tu Le parli, che La si spieghi, che si sappia se La è malata, cosa La pensa, cosa La vuole; sapere, insomma, in nome di Dio, sapere!”
Nepo scosse l'occhialino dal naso. “Tu non capisci niente” diss'egli.
“Zitto!” soggiunse vedendo ch'ella voleva parlare, e continuò col suo fare cattedratico: “Non facciamo sciocchezze. Non c'è da insistere. Non si farebbe che irritare. Io ho abbastanza cuore, cara mamma, per comprendere che bisogna rispettare in questi momenti il dolore di una nipote affettuosa. Vorrà che si ritardi il matrimonio! Sia. Non son mica, avvocato, un ragazzo impaziente. Capisci bene cara mamma, un giovinotto...!”
L'avvocato ebbe negli occhi, guardando la contessa, un lampo d'ironia e di pietà.
Nepo gli si avvicinò, lo pigliò per un bottone del soprabito, gli parlò mettendogli quasi il naso sul viso:
“Ella che a tanta probità congiunge tanta oculatezza e comprende così bene fino a qual punto possano andare insieme i legittimi interessi e le convenienze, Ella non vorrà certo censurarmi se io dico che un altro grave affare si impone in questo momento. Io sono disinteressato, premetto; ma... Bravo!” esclamò, ritirando la mano e il naso. “Vedo che mi capisce. L'obbligazione, capperi! Io prego Dio che conservi lo zio al nostro amore per lunghi anni, ma se succede una disgrazia! L'obbligazione a mio favore doveva essere sottoscritta ieri mattina. Sarà più in grado di sottoscriverla? Ci vuole una sorveglianza d'ogni ora. Non bisogna lasciar passare un lucido intervallo!”
“Sì, ma, ohe” disse l'avvocato serio serio “patto avanti, che sia lucido questo intervallo; patto avanti, che sia molto lucido; e che ci sia il dottore; sì, perché tutto va bene, ma che non andiamo in un imbroglio.”
Si udì la voce di padre Tosi che parlava in loggia.
“Vado a vedere dello zio” disse Nepo; e uscì.
“Dopo tutto” disse la contessa “mio fio aveva ragione con quell'affare del commissario di polizia. È stato un bel tiro, sapete.”
“Altro se è stato un bel tiro! Parlerò io a quel signor frate, se la contessa permette.”
“Sì, sì, fate, parlate, tutto ciò che volete. Oh Dio, Zorzi, che monte di pasticci! Qua non si sa in che mondo si sia. Qua non si capisce niente. Qua ci si marita e non ci si marita. Qua non c'è ora di mangiare, qua non c'è ora di dormire. E tutto, in nome di Dio...! Oh che vita, oh che vita!” Entrò il cameriere a sparecchiare. Non si sbrigava mai; pareva che giocasse con le posate e il vasellame.
“Andate là, andate là anche voi, Zorzi” disse la contessa. “Io vado a riposare un pochetto. Non ho chiuso occhio stanotte, non ne posso più. E tu chiamami Catte, benedetto. Zorzi” diss'ella poi che il cameriere se ne fu andato in cerca di Catte “guardate di cavarci qualche cosa a quel signor Silla.”
Silla non era entrato subito dal conte. S'era fatto prima raccontar dalla Giovanna i casi di quei due giorni. Povera Giovanna! Parlava con una fioca voce accorata che pareva venir da lontano, da lontano, da un mondo di dolore.
Il matrimonio era stato fissato per la sera del 29. La signora donna Marina, all'ultimo momento, lo aveva fatto differire al mattino del 30. Però la sera del 29 vi erano stati ugualmente i fuochi sul lago e la musica. Il conte vi si era divertito e stava secondo il suo solito. Giorni addietro aveva sofferto di un leggero malessere, ma non ne parlava più. Di aspetto era giù, questo sì, ma da un pezzo, oh, da un gran pezzo! La Giovanna ebbe una reticenza espressiva; pare che facesse risalire, nel suo pensiero, questo crollo del conte all'epoca in cui Silla aveva lasciato il Palazzo. Insomma quella sera non c'erano novità. Il matrimonio si doveva fare alle sette del mattino. Alle cinque Giovanna aveva dovuto entrare dal conte per certe chiavi e lo aveva trovato a terra semivivo, con tutti i segni dell'apoplessia. A questo punto del suo racconto, fosse commozione o altro, s'interruppe. Ripigliò dicendo che s'eran chiamati subito il medico e il parroco; che il primo, un brav'uomo succeduto da pochi mesi al vecchio dottore, giudicando il caso gravissimo, aveva chiesto subito un consulto, e consigliato di provvedere alle cose di religione. Purtroppo non c'era né parola né intelligenza; il parroco non aveva potuto far altro che amministrare l'olio santo. Fatalmente il padre Tosi non era stato trovato nella sua residenza, e non era venuto che un paio d'ore prima di Silla. Durante la giornata il conte non aveva migliorato né peggiorato. Alla sera il medico era stato contento di trovare un po' di febbre che si era forse anche accresciuta nella notte. La fisionomia pareva alquanto ricomposta, l'occhio era meno vitreo, e anche le labbra, ogni tanto si provavano di articolare qualche parola. La Giovanna sperava che se potesse riconoscere Silla, ne avrebbe un gran conforto. “Non può averne altri” diss'ella.
“E il matrimonio?” chiese Silla.
“Ah signore!” rispose la Giovanna. “Non so niente. La signora donna Marina non ha mai posto piede fuori della sua camera dal 29 di sera in poi. Pare che sia ammalata perché ieri mattina s'è fatta portare una quantità di ghiaccio. Non vuol vedere né il suo fidanzato né la signora contessa. Da lei non ci va che la sua cameriera e il ragazzo; sa, il barcaiuolo. Oh Signore, per me già desidero solo che guarisca il signor padrone e poi per tutto il resto...! Venga, venga. Chi sa come sarebbe contento se lo potesse riconoscere!”
Appena si vedeva, entrando nell'afa della camera, la testa dell'infermo come una macchia oscura sul cuscino biancastro, e seduto, presso alla finestra socchiusa, il medico curante. La Giovanna si accostò al letto con Silla, si chinò su quella povera testa e sussurrò qualche parola. Il conte guardò Silla con due occhi torbidi, poi si volse lentamente a Giovanna e mosse le labbra. Ella vi accostò l'orecchio, raccolse a stento questa parola:
“Beive.”
Per lunghi anni non gli era venuta alla bocca parola alcuna nel dialetto natìo, se non in qualche momento di sdegno; tornavano adesso nelle ombre sinistre della morte. La malattia fulminea lo aveva atterrato, spogliato in un secondo della sua forza imperiosa, della sua intelligenza rapida, della sua memoria tenace di tante cose, di tante persone: lo aveva risospinto dalla forte vecchiaia alla infanzia radendogli dalla mente tutto, fuor che le prime voci apprese ne' primi anni.





(continua)

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La Giovanna gli diede da bere, poi tentò di richiamare la sua attenzione a Silla.
“Basta” disse la voce del medico nelle tenebre.
La donna uscì con Silla, accorata. Incontrarono il frate nel corridoio.
“E così” diss'egli. “Niente, eh? lo sapevo bene.”
“E cosa ne dice?” gemette la Giovanna.
“È presto, cara la mia tosa. Bisognerebbe sapere se avremo o no un secondo attacco. Certo occorre che il giuoco non si rinnovi, altrimenti me lo ammazzano di colpo. Ci hai detto nulla a questo giovinotto?”
“Signor no.”
“Bene, senti, Giovanninetta, vorrei che mi accompagnassi a veder la casa. Dopo mi farai preparare una sedia in loggia perché possa fumare un poco. Se non fumo, tra un quarto d'ora scoppio.”
Mentre Giovanna e il frate giravano per la casa, Silla, appoggiato alla balaustrata della loggia, guardava il lago verde dormente al sole. Eran proprio passati tanti mesi? Le montagne, la quiete profonda lo riprendevano come cosa loro; e gli pareva non essere mai andato via, aver sognato Milano, un lungo inverno, penosi pensieri. Ma dalle pietre, dalle vecchie pietre austere prorompeva subito il vero presente, lo sgomento che una malattia mortale diffonde intorno all'uomo colpito, sopra tutto la immagine di lei, che, tenendosi nell'ombra, empiva la casa di sé. Perché si nascondeva? gli pareva ad ogni momento udirne il passo, il fruscìo delle vesti, veder avanzarsi da quella parte quella sua bellezza altera e fantastica. E si voltava a guardare la loggia vuota, stava in ascolto.
Eccola, forse! No, era l'amico dei Salvador, l'avvocato Giorgio Mirovich. Passò camminando in punta di piedi, salutò Silla con un cerimonioso “servo” e s'avviò verso la camera del conte. Ne ritornò subito e chiese a Silla, parlando mezzo veneto, mezzo italiano, se avesse visto quel signor frate. Avutane risposta che era in giro per la casa con la Giovanna, soggiunse: “ha un certo linguaggio quel signor frate!” e si fermò lì a conversare. Perla d'onest'uomo, ma cortigianescamente devoto alla contessa Fosca, antica fiamma, aveva modi quando burberi, quando cerimoniosi, un parlar franco, e insieme cauto. Mirava a scoprire come Silla avesse risaputa la malattia del conte. Silla gli disse che se ne parlava da tutti nei paesi vicini e ch'erano persino corse voci di maggiore sventura. Non lasciò intendere dove precisamente avesse attinta la notizia egli stesso né di dove fosse partito quella mattina, benché non dubitasse che per mezzo del vetturale lo si avrebbe facilmente conosciuto. L'avvocato, a cui ripugnavano le investigazioni oblique, uscì presto di argomento. Confidò a Silla la profonda avversione per quei luoghi inospiti, per le montagne dritte come muri, per quella casa della malinconia. Anch'egli, come la sua vecchia amica, non ne poteva più; non vedeva l'ora di sentirsi gridare “sià premi” e “sià stali” sotto le finestre.
Finalmente il frate ritornò e Silla discese in giardino.
V'era il commendator Vezza che si divertiva a gettare del pane ai cavedini. Silla lo evitò, attraversò il cortile per uscire dal cancello. Passò accanto alla porticina della darsena, guardò le barche, guardò su per la scaletta segreta che serve all'ala destra del Palazzo. Vuoto e silenzio. Oltrepassò il cancello e, fatti pochi passi sulla strada di N... si voltò.
Lassù la nota finestra d'angolo era chiusa. Il sole, declinando, batteva sulle persiane, sulla grande muraglia grigia, scintillava sulla magnolia lucida del giardinetto pensile. Di vita umana non vi era indizio. Silla fece un lungo passeggio vagando per i sentieri più solitari e tornò al Palazzo dalla stessa parte. La finestra era ancora chiusa benché il sole non battesse ormai più che sui tetti. Silla rientrò in casa, con il presentimento che Marina non avrebbe dato segno di vita durante il giorno, ma che la vedrebbe nella notte.




(continua)

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I classici - Malombra - di Antonio Fogazzaro


2. Un mistero


Il pranzo fu triste. Il padre Tosi si alzò da tavola subito dopo la minestra per andare dal conte, e non ritornò più. La contessa e Nepo mangiavano compunti. Il signor Vezza aveva voglia di chiacchierare, temendo che quel silenzio malinconico gli preparasse una digestione laboriosa. Scelse a interlocutore l'avvocato Mirovich e gli parlò di Venezia, de' suoi amici di colà, del caffè e pannera in gelo, dell'Istituto Veneto e delle gondole, tirando in mezzo Virgilio per amore o per forza:

Convolsum remis, rostrisque tridentibus aequor.

L'avvocato si seccava e rispondeva corto, ma il commendatore tirava via a ronzare, fra un boccone e l'altro, arrischiando qualche sorriso, tanto sano a pranzo. Silla taceva come i Salvador. La contessa lo squadrò ben bene fin dalla minestra, nel chinarsi sul cucchiaio, e poi ogni volta che il cameriere gli presentava le vivande. Ella soffriva evidentemente di dove tacere, gittava a Nepo delle occhiate espressive, che dicevano “parlo, non ne posso più” ma Nepo la fissava con i suoi grossi occhi miopi, le chiudeva la bocca.
Alla fine del pranzo venne la Giovanna, le disse all'orecchio che il padre Tosi si disponeva a partire e desiderava avere prima un colloquio colle persone di famiglia, com'era inteso col signor avvocato.
“Avvertite la marchesina” rispose Fosca.
“L'ho già avvertita, ma dice che non può venire.”
“Ditele che si andrà noi da lei.”
“Oh, ha già detto che non vuol nessuno.”
Silla si levò subito da tavola e, fatto un tacito saluto, se n'andò.
“L'ha capita” disse Nepo. “Potete dirci voi, Giovanna, come è venuto quel signore lì e chi gli ha detto di fermarsi?”
“Come sia venuto non lo so. Di fermarsi, magari l'ho pregato anch'io perché so che al signor padrone gli è tanto rincresciuto quando è andato via e ho idea che se lo potrà riconoscere, gli farà tanto bene di vederlo. Mi aveva fin detto il signor padrone di tenergli la stanza sempre pronta pel caso che avesse a ritornare.”
“Voi non dovete pregarlo niente affatto” disse Nepo. “In questa circostanza dovevate prendere gli ordini dalla marchesina e quasi anche i miei, posso dire. E adesso avvertite il padre che noi lo aspettiamo nella camera della contessa Salvador. - Anche Lei, sa, commendator Vezza, come amico di mio zio. Intendiamoci, amico vero; perché certi altri amici non li pareggerei davvero alle persone di famiglia.”
Il commendator Vezza, felice nella sua curiosità, fece un cenno di gradimento.
Il frate entrò subito dopo gli altri nella camera della contessa e, toccandosi la calotta, sedette, senza aspettare invito, sopra un seggiolone a fianco del canapè dove la contessa Fosca, irrequieta, sgomentata, batteva nervosamente sulle ginocchia il suo gran ventaglio chiuso. L'avvocato Mirovich, imbarazzato, guardando ora il frate, ora il pavimento, cominciò a dire:
“A spiegazione delle parole... delle parole... non chiare, ecco, delle parole non chiare che il padre ha pronunciato stamattina in presenza del conte, della contessa e... sì, infatti, di altre persone... egli desidera fare alcune comunicazioni, non é vero? alcune comunicazioni circa la malattia per la quale venne invitato a consulto.”
“Cioè” disse il frate “desidero! Niente affatto, desidero. È mio dovere. Io vado per le corte, signori, e chiamo le cose col loro nome. Il mio dovere è d'informare Loro signori, che, a mio avviso, il conte d'Ormengo è stato...” Prima ch'egli compiesse la frase la contessa Fosca lasciò cadere il ventaglio. Nepo si alzò in piedi. Gli altri due non si mossero.
“Assassinato” disse lentamente il frate, dopo un istante di esitazione, levando gli occhi a Nepo con il pugno sinistro sopra una coscia e l'avambraccio destro attraversato all'altra.
“Oh Dio, oh Dio, oh Dio!” gemé la contessa spalancando tanto d'occhi spaventati. Nepo alzò le braccia, mise un'esclamazione d'incredulità sdegnosa. L'avvocato procurava di chetarli con gran gesti, diceva con le mani e il capo che non si spaventassero, che aspettassero. Nepo cedette; ma la contessa ripeteva “oh Dio, oh Dio!” sempre più forte e scoppiò in lagrime.
“Ella poteva essere più prudente, padre” osservò bruscamente il Mirovich accostandosi alla contessa per sostenerla e farle animo.
“Santo Dio benedetto” singhiozzava costei. “Questi orrori... di parole!... Dopo pranzo anche!”
“Signora mia” disse il frate “l'interesse dell'ammalato vuole che si parli chiaro e presto. Io poi ho l'abitudine di dire la verità anche dopo pranzo.”
“Continui, continui!” esclamò l'avvocato. “Si spieghi presto.”
“Lo avrei già fatto se il signore e la signora fossero più pazienti. Non intendo dire che si sieno adoperati armi o veleno. Un ragazzo conosce l'apoplessia; nel nostro caso si tratta veramente di apoplessia. Dico "assassinato" perché sono convinto che vi è nell'origine di questo male l'azione violenta d'una persona.”
“Questo è assurdo!” gridò Nepo.
“Lei è assurdo, signor mio bello” riprese il frate, battendo le sillabe ad una ad una e guardandolo tra ironico e serio. “Lei è assurdo. Io, per esempio, sono malato di cuore e non Lei, ma le persone che amo possono uccidermi senza veleno né armi.”
“Dunque Lei dice...” suggerì il Vezza per tagliar corto alla discussione irritante.
“Io dico” rispose il frate “che l'ammalato fu colpito d'apoplessia durante un'emozione violenta, terribile.”
“Ma cosa? ma come?” chiese la contessa tutta lagrimosa. “In nome di Dio, come? Non la ci tenga qua sulla corda per tanto tempo! La parli, che Dio la benedica. Ci vuol Ella far morire a once?”
“Prima di proseguire” disse il frate “vorrei sapere se tutte le persone della famiglia sono presenti.”
Nessuno parlò.
“Ci sono tutti?” ripeté il frate.
Qualcuno disse piano:
“Manca la marchesina.”
“La marchesina, mia promessa sposa” disse Nepo enfaticamente “è indisposta.”
“Come si chiama questa marchesina?” chiese il frate.
“Marchesina Crusnelli di Malombra.”
“Il nome, il nome di battesimo!”
“Marchesina Marina” disse Nepo.
Il frate tacque un momento, poi soggiunse:
“Marina. Non ha altri nomi?”
“Sì. È Marina Vittoria. Ma che importa?”
“Importa molto, signor conte. Moltissimo importa. Come si chiamano le donne di servizio che sono in casa, oltre a Giovanna?”
“Catte, intanto” rispose la contessa.
“Fanny” suggerì il commendator Vezza. Nessun altro nome fu pronunciato.
“Dunque” continuò il frate “non v'è donna in casa che abbia nome Cecilia?”
“No” risposero tutti, uno dopo l'altro.
“Ebbene, io sono convinto che l'altra notte una donna, una Cecilia, é entrata nella stanza del conte Cesare e lo ha spaventato, lo ha irritato a morte.”
Nessuno fiatò. I Salvador, il Vezza guardavano il frate a bocca aperta; il Mirovich teneva gli occhi bassi, il mento sul petto; pareva sapesse già da prima quello che il frate veniva dicendo. Questi si alzò e andò a piantarsi in mezzo alla camera.
“Ecco” diss'egli accennando alla parete sinistra “quello è il letto; il conte fu trovato qui in camicia, bocconi sul pavimento, con le braccia distese verso l'uscio. Questo lo sanno anche Loro signori. Ma vi sono delle altre cose che non sanno. L'uscio del corridoio, che il conte chiude sempre quando va a letto, era aperto. Sul letto fu trovato da Giovanna un guanto, questo.”
Egli trasse di tasca un guanto piccolissimo. Il Vezza e Nepo lo afferrarono insieme, corsero alla finestra per esaminarlo bene. Nepo esclamò subito:
“Buon Dio, non è un guanto. Fu, chissà quando, un guanto 5 1/4 o 5 1/2, a un sol bottone; un guanto da ragazzina di dodici anni: adesso è un cencio scolorato, ammuffito.”
“Bene, quel cencio, che non può appartenere al conte, non cadde sul suo letto, ma vi fu gettato, perché il letto è assai largo e il guanto si trovò confitto fra il capezzale e la parete. Il candeliere del conte, lo smoccolatoio, la tazza che egli è solito tenere sul tavolino da notte, si trovarono sparsi a terra, presso l'uscio. Deve averli scagliati lui in un impeto d'ira dopo aver cercato invano, a tastoni, gli zolfanelli che dovette rovesciare dal tavolino perché si trovarono disseminati a piè del letto. La tazza fu certo scagliata, ed era piena d'acqua, perché se ne trovarono spruzzi sul pavimento, se ne trovò bagnata la manica destra della camicia del conte. Io poi vado avanti, e siccome la tazza era tuttavia intera, dico che percosse un corpo molle e cedevole, tale da spegnere il colpo e da render possibile ch'essa cadesse a terra senza spezzarsi. Cosa poté essere? Ma è evidente cosa poté, cosa dovette essere. Dovette essere l'abito a cui apparteneva questo bottone.”
Nepo afferrò il bottone che il frate gli tendeva. Era un grosso bottone coperto di stoffa azzurra e bianca. Nepo lo riconobbe subito. Apparteneva a una veste da camera di Marina.
“Hum! Non lo conosco” diss'egli guardandolo attentamente.
“La signora forse potrebbe dircene qualche cosa. Faccia vedere alla signora.”
“La contessa, vuol dire? Oh non lo conosce certo. Non è vero, mamma, che di queste cose io m'intendo più di te? Non è vero che se avessi veduti anche una volta sola bottoni simili addosso a qualche persona di casa, adesso riconoscerei questo?”
La contessa Fosca ardeva di vederlo e leggeva in pari tempo negli occhi di Nepo un divieto. Non sapeva risolversi.
“Oh Dio” diss'ella “questo sì, sei famoso. Ma... in due... ah? Un'occhiata ce la posso dare anch'io, no?”
“Figurati” rispose Nepo, e le parlò con gli occhi fissi. “To'” diss'egli “guarda pure. È inutile, già.” La contessa prese il bottone, si alzò dal canapè, e andò alla finestra dove s'indugiò qualche tempo, toccando quasi colla fronte i vetri, voltando le spalle agli altri che tacevano e aspettavano tutti in piedi, immobili.
Ella si voltò, finalmente, porse il bottone a Nepo, disse al frate, che la guardava col capo chino e le mani sui fianchi:
“Niente.”
Il frate non parlò né si mosse. La guardava sempre. Osservava come ogni curiosità fosse interamente scomparsa da quel volto mentre la bocca diceva: “Non ho inteso”.
“Proprio niente” ripeté la contessa con voce tranquilla.
“Dove fu trovato?” chiese frettolosamente Nepo.
Il frate durò a girar gli occhi, tacendo, sulla contessa che tornava al canapè. Quindi si scosse e rispose a Nepo:
“Fu trovato nel pugno chiuso del conte, nel pugno sinistro. Avranno veduto un piccolo brandello di stoffa attaccato al bottone? È chiaro che fu strappato dall'abito a forza.”
“Eh, sì” disse l'avvocato.
Il Vezza gli lanciò un'occhiata ironica. Il sagace commendatore sospettava che il bottone fosse stato riconosciuto e giudicava quindi prudente non interporsi in quel momento fra il Salvador e il frate.
“La Giovanna” proseguì costui “che è entrata per la prima nella camera, ha osservato parte di queste cose, senza capire. Prima ha creduto a un ladro, cosa inverosimile; poi ha trovato chiavi, danari, portafogli intatti sul cassettone dove sono ancora adesso; dunque, ladri no. Allora ha pensato che il conte, sentendosi male, avesse voluto chiamare, uscire in cerca d'aiuto: cosa assurda perché non si spiegano, lasciando stare il guanto, neppure la tazza e il candeliere gittati lontano: non si spiega sopra tutto che il conte non ubbia suonato il campanello. A ogni modo la Giovanna ha inteso, così confusamente, che c'era del mistero. Non ha parlato a nessuno per non sparger inutilmente sospetti temerari, ma si è confidata a me, forse per l'abito che porto. Io allora ho fatto questo.”
La contessa, Nepo, il Vezza pendevano dal suo labbro; non respiravano neppure.
“L'intelligenza dell'ammalato è oscurata, moltissimo oscurata: tuttavia qualche barlume, da ieri sera in poi, mi dice il medico curante, ne appare ancora. Quando io ho saputo queste cose, ho esaminato bene bene la Giovanna, ho fatto le mie induzioni e mi sono formato il mio convincimento. Poi ho interrogato l'ammalato.”
Il gran ventaglio della contessa Fosca le uscì di mano, le cadde dalle ginocchia. Né lei si piegò né altri si mosse a raccattarlo.
“Ho dovuto interrogarlo, per la sua condizione, a più riprese. Già non si poteva pretendere che rispondesse più di sì e no. Ho cominciato con domandargli se qualcuno era stato in camera durante la notte. Niente. Ho ripetuto la domanda. Era forse troppo lunga; mi guardava e non tentava neppure di rispondere, né con le labbra né col capo. Allora ho provato a dirgli addirittura: "Un uomo?". Non risponde ancora. "Una donna?" Oh! L'occhio e le labbra si muovono, qualche cosa vogliono dire. Lo lascio quieto un'ora. Intanto ci fu progresso nelle condizioni della intelligenza e della lingua. Domandò alla Giovanna da bere. Appena partito il medico tornai alla prova. Dico: "Il nome di quella donna!" Non mi risponde, ma un momento dopo, mentre mi chinavo sopra di lui con un cerino per esaminare la cute, si mette a fissarmi e a tartagliare. Gli accosto l'orecchio alle labbra, mi par di capire: "famiglia"; io suppongo che desideri veder loro, gli rispondo qualche cosa, gli dico di star tranquillo. Egli seguita; l'ascolto ancora, credo intendere un'altra parola, provo a dirgli: "Cecilia?". Tace subito, e vorrei, signori, che aveste veduti quegli occhi come si dilatarono, come mi riguardarono, quale espressione prese il viso sfigurato di quell'uomo. Adesso un'altra cosa. Chi dorme nell'ala destra del palazzo, oltre il conte?”
“Perché domanda questo?” disse Nepo.
“Posto che una persona, oltre l'ammalato, dorma nell'ala destra del palazzo, questa persona...”, il frate alzò la voce ed aggrottò le sopracciglia, “molto più se indisposta, deve avere udito, deve sapere qualche cosa. Consiglio Loro signori di interrogarla bene.”
“Io ho l'onore di assicurarla, padre” disse Nepo acceso in volto, parlando ex cathedra “che s'Ella intende con tali parole insinuare sospetti poco leciti e niente affatto convenienti a carico di una dama che sta per appartenermi strettamente, Ella s'inganna a partito e offende le stesse persone alle quali parla.”
“Lei non sa quello che si dice, mio caro Signore” rispose il frate, a voce bassa e con forzata calma. “non sa che io sono avezzo a cercare la verità, magari frugando con il coltello nelle carni e nelle ossa della gente, tanto d'una gran dama, quanto d'un facchino, colla stessa freddezza. Taglio e squarcio per trovarla e la trovo quasi sempre, sa, impassibile come un dio; poco m'importa, mentre cerco, che mi scongiurino o che mi bestemmino. E Lei pretende ch'io mi guardi dall'accennare anche da lontano a quello che può essere il vero, per non offendere una signora, i suoi parenti e i suoi amici, quando sono convinto che c'è di mezzo un ammalato che assisto? Ma Lei mi fa ridere, per Dio! Del resto, adesso, loro signori conoscono i fatti. Si ricordino che se l'ammalato si ricupera, una nuova emozione simile alla passata lo ucciderà sul colpo. Il padre Tosi ha fatto il suo dovere e se ne va.”
Egli si alzò e guardò l'orologio. Il suo legnetto doveva già trovarsi sulla strada provinciale, allo sbocco del viottolo del Palazzo.
“S'intende” disse l'avvocato “che il padre non farà parola fuori di qui...”
“È il primo consiglio di questo genere che mi si dà” rispose il frate “e non lo ricevo. Buona sera a Lor signori.”
“Chi lo paga?” sussurrò il Mirovich a Nepo dopo che quegli fu uscito.
“Cosa è mai venuto in mente al medico di suggerir quel cialtrone lì!” disse Nepo evitando di rispondere. “Se avessi saputo che doveva poi anche tardar un giorno, avrei fatto venire io Namias da Venezia! Adesso tu starai male, mamma.”
“Altro che male, altro che male!” gemette la contessa.
“Già; matto villano! Avrai bisogno di quiete” disse Nepo con un accento nuovo di premura filiale. “Andiamo, andiamo, lasciamola sola. Vi dico la verità che anch'io non ne posso più di prendere un po' d'aria. Mi fa piacere Lei, avvocato, di andar a vedere dello zio. Io vado a prendere il mio cappello e passo dal cortile. Lei mi dirà dalla loggia se le cose vanno in ordine, come spero.”




(continua)

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Dopo le dieci di sera i Salvador, il Vezza, l'avvocato e Silla erano aggruppati, in piedi, presso al tavolo del salotto. Ascoltavano il dottore che rendeva conto dello stato dell'infermo prima di andarsene a casa. Costui, vestito di nero alla moda di vent'anni indietro, ragionava sulla malattia, gittando in viso a quei diffidenti signori di città parecchi nomi greci e barbari, parecchie citazioni di autori e di giornali scientifici. La lucerna posata in mezzo alla tavola, col suo gran paralume scuro, lasciava nella penombra le persone e la camera, metteva sul tappeto una macchia luminosa circolare dov'entravano le grosse mani rubiconde del dottore che parlava. A suo avviso le cose procedevano in modo abbastanza soddisfacente. La gamba destra aveva riacquistati, in parte, alcuni movimenti e anche il braccio non era più completamente inerte. Nell'intelligenza e nella favella i progressi erano, per verità, meno sensibili, ma si poteva, anzi si doveva ritenere che col tempo si sarebbe ottenuto molto; se non la guarigione completa, almeno...
Colui era giunto a questa svolta promettente della sua prognosi quando si fermò alzando il mento e guardando con gli occhi socchiusi oltre alla cerchia dei suoi uditori. Fece quindi un cenno rispettoso di saluto. Tutti si voltarono; era donna Marina.
Il gruppo allora si agitò e si scompose in movimenti diversi.
La contessa Fosca e Nepo si avvicinarono a Marina, gli altri fecero posto; tutto questo lentamente e senza parole. Nepo guardava la sua fidanzata con due grossi occhi stupidi, sgomenti.
“Buona sera” sussurrò Marina. Poiché il medico taceva, gli disse un po' più forte con la sua voce noncurante: “Prego”.
Ell'era vestita di nero o di azzurro carico; non si poteva distinguer bene.
Appena si vedeano le linee eleganti della bella persona, i grandi occhi, il pallore uniforme del viso e del collo. Si guardò un momento alle spalle, quasi cercando una sedia. Nepo insistette perché sedesse sul canapè, ma ella scelse una poltrona proprio in faccia al medico.
“Almeno” proseguì costui, incerto, magnetizzato dagli occhi grandi che lo fissavano “l'uso delle gambe... fors'anche, in parte, l'uso del braccio... dico in parte, in parte... si potranno ricuperare... e anche l'intelligenza... però, per l'intelligenza, è difficile, molto difficile.”
Pareva pigliar involontariamente la intonazione dagli occhi di donna Marina.
Il commendatore Vezza li studiava da vicino quegli occhi, procurando di non farsi scorgere dai Salvador. Aveano un fuoco vago e febbrile, una espressione di curiosità intensa, qualche cosa di nuovo che colpì il commendatore.
Qualcuno entra; il signor parroco che viene a prender notizie. Il povero don Innocenzo, miope, imbarazzato, non riconosceva nessuno, salutava a sproposito, si scusava, suggeva l'aria con le labbra, serrate come se il pavimento gli scottasse. Intanto il dottore si congedò. V'era un ghiaccio nella stanza: nessuno parlava forte. Nepo, curvo sulla spalliera delle poltrona di Marina, le chiedeva sottovoce della sua salute, si doleva di non averla mai potuta veder in quei due giorni. La contessa Fosca dall'altra parte tentennava. Si piegava verso Marina, le sussurava una frase; si ritraeva per non porsi troppo avanti fra lei e Nepo; quindi cedette alla tentazione. Il parroco prendeva le notizie del conte dall'avvocato Mirovich, in disparte. Silla non s'era mosso mai. Marina nell'entrare lo aveva guardato un momento, lo aveva confitto, quasi impietrito al suo posto.
Ella si alzò.
“Amerei dire una parola al signor Silla” disse.
Questi, pallidissimo, s'inchinò.
La contessa, Nepo, il Vezza, stupefatti, guardavano Marina, aspettando uno scoppio, una scena come quella dell'anno prima. L'avvocato interruppe la sua relazione; Don Innocenzo non capiva; gli diceva: “E dunque?”
“Non qui” disse Marina.
Il Vezza e il Mirovich fecero atto, un po' tardi, di ritirarsi. I Salvador non si mossero.
“Restino pure” soggiunse Marina. “Ho bisogno di prendere aria. Scende in giardino, signor Silla?”
Questi s'inchinò daccapo.
“In giardino?” esclamò la contessa Fosca con uno scatto di malcontento.
“Con questo fresco?” soggiunse poi. “Non mi pare...”
“Con questo umido?” disse Nepo. “Piuttosto in loggia.”
“Buona sera” disse Marina. “Faccio un giro e poi rientro nelle mie camere.”
Nepo volle replicare qualche cosa, s'imbarazzò, balbettò poche parole. Donna Marina fece un passo verso l'uscio e guardò fisso Silla, che venne ad aprirglielo. “Buona sera” diss'ella ancora, uscendo.
Nessuno le rispose.
Marina discese lentamente, con piedi silenziosi di fata, in mezzo alla larga scala semioscura. Silla le teneva dietro, stretto alla gola da commozioni inesprimibili, quasi cieco. Ancora un momento e sarebbe stato solo con lei, nella notte.
La porta a vetri che mette in giardino era spalancata. Il lume del vestibolo, oscillando all'aria notturna, mostrava di fuori un lembo di ghiaia rosea; presso all'uscio, sopra una sedia, lo scialle bianco di Marina. Ella lo porse a Silla, si fermò perché glielo posasse sulle spalle. Le loro mani si incontrarono; eran gelate.
“Fa freddo” disse Marina, stringendosi lo scialle sul petto. Pareva un'altra voce; quasi tremante. Silla non rispose; credeva ch'ella gli sentisse il cuore a battere. Le posò un momento le mani alle braccia quasi per ravviarle lo scialle. Ella trasalì; le spalle, il seno le si sollevarono. Uscì senza dire parola, fece una cinquantina di passi nel viale e s'appoggiò alla balaustrata, guardando il lago.
La notte era oscura. Poche stelle lucevano nel cielo nebbioso fra le enormi montagne nere che affondavano l'ombre nel lago. Il gorgoglio delle fontane, il canto lontano dei grilli nelle praterie, andavano e venivano col vento.
Silla non vedeva che la elegante figura bianca, curva sulla balaustrata presso a lui.
“Cecilia” disse piano accostandosele.
Ell'appoggiava il mento alle mani congiunte. Ne stese una a Silla senza voltar la testa, e gli disse appassionatamente:
“Sì, mi chiami sempre così. Si ricorda?”
Egli strinse con ambedue le proprie quella mano di raso odoroso. Temeva di esser freddo, di non aver neppur sensi in quel momento. Se la recò alle labbra, ve le impresse, veementi, sul polso.
“Mi dica: si ricorda?” ripeté Marina.
“Oh Cecilia!” diss'egli.
Le voltò la mano, vi abbassò rapidamente il viso sul palmo, se la serrò sugli occhi, parlò convulso:
“Non v'è più mondo, se sapesse, per me! non vi son parenti, né amici, né passato, né avvenire: niente, niente; non v'è che Lei, mi prenda, mi prenda tutto!”
Voleva esaltarsi e vi riusciva. Si trasse quel piccolo palmo sulla bocca; pensò alla propria vita amara, al mondo ingiusto, vi soffocò uno spasimo di passione che dovette entrar nel sangue di lei, attraversandolo sino al cuore.
“No, no” diceva ella con voce interrotta, mancante, “adesso no.” Avevan la febbre tutti e due.
“Quando si è ricordato?” disse Marina.
Ella era fissa nell'idea di Cecilia Varrega, che avrebbe ritrovato, nella seconda esistenza terrena, il suo primo amante.
“Iersera” diss'egli credendo aver intesa la domanda. “Iersera, dalla signora De Bella, che mi parlò di lei; dopo hanno fatto una musica che mi ha rotto il cuore, me ne ha tratto fuori tante cose. Esco di là mezzo pazzo, trovo il Suo telegramma. Allora mi si è illuminato tutto, ho sentito il destino prendermi, portarmi qua. Mi lasci questa mano, questa dolcezza infinita. Lei non sa che passione è la mia. Mi par di morire a non spiegarmi e non posso parlare. Vorrei esser tratto giù per sempre, con Lei, in quest'acqua che mi chiama.”
Egli tirò a sé la inerte mano prigioniera, il braccio, la persona.
“Domani” sussurrò Marina, resistendo “domani sera dopo le undici, sulla scaletta della darsena.”
Egli non voleva lasciar quella mano, vi figgeva le labbra insaziabili.
“Venga” diss'ella a un tratto concitata “mi segua, discosto, non mi parli e, sulla porta, mi lasci. Lo sapevo.”
Silla comprese e obbedì. Fatti due passi, vide qualcuno nell'ombra. Era Catte.
“Ah, è qui, marchesina. L'ho cercata dappertutto. Sua Eccellenza mi aveva dato questo scialle per Lei.”
Marina non degnò rispondere né tampoco guardar la cameriera: fece dalla porta un saluto freddo a Silla e sparve nel vestibolo.
Silla attraversò il cortile, salì la scalinata ed escitone di fianco sedette sull'erba sotto un cipresso, vi rimase un pezzo bevendo il forte odore dell'albero, ascendendo con gli occhi per l'alta colonna nera sino alle stelle.
Più tardi la contessa Fosca, chiusa con Nepo nella sua camera da letto, smaniava, singhiozzava, esclamava contro il frate che aveva raccontato quelle cose orribili, contro la dama milanese che le aveva date le prime informazioni di Marina; si domandava cosa mai vi potesse essere fra Marina e suo zio, cosa mai ella avesse detto, cosa mai avesse fatto quella notte; protestava di perder la testa, di volerne uscire, di volerne far uscire Nepo a ogni costo, di voler piantare quella benedetta casa e il suo padrone e la sua padrona, e i denari e tutto. Quando aveva finito, ricominciava. Nepo taceva sempre, ingrugnato; solamente, se sua madre alzava troppo la voce, le faceva un gesto iracondo. Ella resisteva, sulle prime; gli diceva: “E cosa fai tu col tuo tacere?” Ma Nepo s'inviperiva. Allora la povera donna diventava umile, piagnucolosa; ripeteva: “Nepo, la è matta! Nepo, la è matta!”
Voleva chiamar l'avvocato, consultarlo. Nepo si oppose tanto risolutamente ch'ella credette leggergli in viso un proposito, un piano bell'e pronto. Gli domandò che intendesse fare.
“Aspettare” diss'egli “non comprometter niente.”
“Per la donazione, caro, ho paura. Adesso la va peggio.”
“Aspettare” ripeté Nepo.
“Bel discorso!”
Egli scosse via l'occhialettto, prese sua madre per le braccia, le immerse gli occhi negli occhi e disse con voce soffocata:
“Se non c'è testamento?”
La contessa pensò un poco, guardandolo.
“Resta tutto suo?” diss'ella. “Tutto di Marina?”
Nepo si tirò indietro, allargò le braccia.
“Eh!” diss'egli: e soggiunse: “Allora ci penseremo.”
Seguì un lungo silenzio.
“Perdi un bottone, viscere” disse la contessa piano con dolcezza.
Nepo si guardò il bottone che gli penzolava dall'abito, rispose nello stesso tono:
“Momolo che non guarda mai. Vado a vedere del conte.”
“E il tiro di stasera?” disse la contessa mentre egli se ne andava. “Bello, sai!”
“Per quello non ho nessun pensiero” disse Nepo. “Intanto hai sentito Catte, come li ha visti tornare a casa. Credo poi, anche a giudicare dalle parole di Marina, che né scuse né complimenti gliene abbia fatti certo. Vedrai che domattina, per non dire stanotte, l'uomo se ne va. Cosa vuoi pensare? Dopo che è partito l'altra volta a quel modo e per quella cagione!
Lui lo ha detto a Mirovich come è venuto; ha detto che ha saputo in un paese qui vicino della malattia del conte. - Dunque vado.”
Nepo trovò in galleria Catte a chiacchierare con l'avvocato e col Vezza che fumavano. Catte, veduto il padrone, se la svignò; gli altri due non avevano notizie precise dell'ammalato, dopo la partenza del dottore. Nepo si avviò in punta di piedi a pigliarne, e coloro ripresero il loro dialogo. Parlavano degli strani casi cui assistevano: il Vezza con l'interesse d'un egoista curioso; il Mirovich con qualche pena per la devozione che portava alla contessa Fosca. Facevano mille supposizioni diverse, ricadevano sempre a dire, come la contessa Fosca, di non capirci nulla. Il Mirovich concluse:
“È proprio il caso di dire come i chioggiotti: Co se ga rasonao se ga falao.”
Il Vezza disse qualche cosa, dopo un lungo silenzio, sulla pace profonda della notte; e il suo compagno, pensando a Venezia, a' tempi passati, mormorò la prima strofa della canzonetta che comincia:

Stanote de Nina...

“Bella, bella, bella! Avanti, avanti!” disse il commendatore. Nepo rientrò in loggia.
“Come va?” gli chiese l'avvocato.
“Peggio, peggio assai, pur troppo” rispose Nepo e passò oltre.
“Che brutto affare” sospirò l'avvocato.
“Ma!”
Lo zampillo del cortile parlò solo per un momento dietro a loro.
“Era malandato, già, in salute” disse il commendatore.
“Eh, sì.”
“Adesso restava anche solo” tornò a dire il Vezza.
“Eh, questo sì.”
“Quasi, quasi...”
“Oh, lo credo anch'io.”
Parlò ancora solo la voce blanda. Il Vezza gittò il suo sigaro.
“Che veleno!” diss'egli.
“Dunque?” soggiunse dopo una breve pausa.
“Cosa, dunque?”
“La canzonetta?”
“Ah, ecco - Stanote de Nina...” L'avvocato abbassò la voce, e la tramontana leggera che attraversava gli archi, sciolse, portò via le parole voluttuose.

Nella sua stanza, dove un fioco lumicino posato a terra spandeva nell'aria calda e greve certo chiarore sepolcrale, il conte Cesare supino, immobile, non vedeva la Giovanna seduta presso il letto con le mani sfiduciate sulle ginocchia, e gli occhi fissi in lui. Credeva invece veder la figura di sua nipote ritta in mezzo alla camera. Era sua nipote e un'altra persona nello stesso tempo, ciò gli pareva naturale. Si moveva, parlava, guardava con due occhi pieni di delirio; come mai se quella persona era morta e sepolta da lungo tempo? Egli lo sapeva bene ch'era stata sepolta, ricordava d'averlo inteso da suo padre; ma dove, dove? Tormentosa dimenticanza! C'era pure nella sua memoria quel luogo, quel nome; ve lo sentiva muoversi, salire, salire finché ne scattò su, in lettere visibili.
Credette allora cavar di sotto le lenzuola il braccio destro, stenderlo, appuntar l'indice a colei, dirle ch'ella mentiva e ch'era ben sepolta ad Oleggio, nella cappella di famiglia. Ma la donna lo minacciava ancora, lo sfidava, gli gettava un guanto; pareva Marina ed era la prima moglie di suo padre, la contessa Cecilia Varrega. Ella lo sentiva, parlava di antiche colpe, di una vendetta da compiere. Allora egli immaginava lanciarsi smanioso d'ira dal letto, e tutto si confondeva nella sua mente in una torbida visione a cui intendeva ansando, come se sulla porta della morte gli apparisse, al di là, un pauroso dramma sovrumano.
C'era un peggioramento improvviso, la paralisi minacciava il polmone.
Il Palazzo non era parso mai così cupo come quella notte, malgrado i lumi che vi vegliarono fino all'alba.





(continua)

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I classici - Malombra - di Antonio Fogazzaro


3. Quiete


“Come hanno fatto bene! Come hanno fatto bene!” ripeteva Marta correndo su per la scala della canonica a portar le valigette di Edith e di suo padre nelle stanze preparate per essi, a spalancar porte e finestre. Gridava dall'alto a don Innocenzo:
“È contento, mo?” Tornava giù in furia, tutta scalmanata, veniva a protestare che la canonica non era il Palazzo, che non avrebbero trovato questo, che non avrebbero trovato quello. Ardeva dalla voglia di dare un bacio a Edith, ma non osò. Steinegge, impolverato come una vecchia bottiglia di Bordeaux, protestava dal canto suo contro tanti complimenti, esclamando, giungendo le mani, gesticolando: e don Innocenzo, cui lucevano gli occhi dal piacere, gli dava ragione contro Marta, diceva di credere che sicuramente i suoi ospiti si sarebbero trovati bene in casa sua: altrimenti non li avrebbe pregati di venire. Allora Marta si voltava contro il padrone. “Ma ha da dire queste cose Lei? Ma tocca a Lei dire queste cose?” “Bene bene” rispondeva il povero prete vedendola inalberarsi “via, via, chetatevi. - Oh bella” soggiungeva poi, volto agli Steinegge “ho visto che ha lavorato tanto, che ha preparata tanta roba!”
Qui Steinegge esclamava daccapo, e Marta, disperata di aver un padrone simile, scappava in cucina per non perdergli il rispetto.
“Mi dica Lei, signorina” chiese don Innocenzo a Edith “ho detto male? Lo sanno anche Loro, non è vero, che sono un povero parroco?”
“Noi gran signori amiamo qualche volta discendere” rispose Edith, scherzando.
La piccola casa rideva tutta. Non c'era granello di polvere sugli arredi né sulle invetriate: le tendine di percallo bianco, appena lavate e stirate, diffondevano nelle stanzette una luce color di perla, mandavano odore di nettezza. Nel salottino da pranzo a pian terreno un passero solitario gorgheggiava festosamente fra le due porte che mettevano nell'orto; in mezzo alla tavola un vasetto di porcellana bianca portava dei fiori. Da quelle due porte, da ogni finestra della casa entrava il verde tenero della campagna, entrava un senso profondo di riposo per chi veniva dalla città e aveva ancora negli occhi il frastuono del treno, nelle ossa la stanchezza di una lunga corsa in carrozza. V'era tranquillità e pace perfino nell'alto canapè di vecchio stampo, nelle antiche incisioni giallognole del salotto, negli uccelli impagliati che nidificavano dentro due campane di vetro, sopra il caminetto dello studio. Anche l'orologio a pendolo fra le due campane, con la sua raucedine acuta e sfiatata di vecchione sordo, riposava lo spirito. E v'era, sotto a questo sorridere pacato della casetta, una castità verginale, senza sospetto, posata innocentemente in seno alla natura amorosa, aperta alla contemplazione della vita. La si leggeva perfino nella forma incomoda di certe suppellettili: perché se tutto là dentro diceva pace e quiete, né gli alti canapè stretti, né le seggiole impagliate a spalliera verticale permettevano la voluttà del riposo spensierato e delle immagini vagabonde. Dallo studio, zeppo di libri, usciva uno spirito di austerità pensosa; cosicché l'aspetto della casa rendeva immagine, in qualche modo, dell'aspetto di don Innocenzo, ilare, semplice, pieno di pensiero.
Questi era beato di aver seco gli Steinegge. Gli ravvivavano un po' la solitudine di cui soffriva, in fondo, nella sua ingenua ammirazione della società moderna, nella sua passione per conversare di politica, di letteratura, d'ogni novità curiosa. Di Steinegge s'era innamorato di slancio; per Edith sentiva, specialmente dopo l'ultima sua lettera, un alto rispetto, misto però di soggezione. La fiducia di uno spirito così nobile lo sgomentava, quasi. Temeva di non sapervi corrispondere, di non poter afferrare certe finezze femminili, di non intender bene certe squisitezze di sentimento in cui bisognava entrare per consigliar quell'anima, per esercitare l'ufficio religioso che gli veniva chiesto. Sentiva in pari tempo un vago sospetto che vi fosse nell'ascetismo di Edith qualche cosa di eccessivo e di tenace da doversi combattere. Era insomma il suo compito attraente ma grave, di quelli che lo trasformavano, che lo facevano pensar con calma, parlar con misura, operar con cautela.

Prima ancora che Edith e suo padre salissero alle loro stanze, il parroco volle condurli, malgrado le osservazioni di Marta, a veder i rosai, le fragole e i piselli dell'orto. Il suo orticello gli pareva meraviglioso e se ne teneva: parlava del grossolano coltivatore come se il verde uscito dai pochi granellini sparsi sulle aiuole, e i fiori usciti dal verde, e i frutti dai fiori fossero tanti miracoli suoi. E ora Steinegge, un altro botanico profondo, spargeva a destra e a sinistra, sulle fragole e sui piselli, i suoi grossi complimenti, difendendosi con altri complimenti da Marta che gli veniva dietro per spazzolargli il soprabito. Edith s'indugiava a guardar distratta il verde un po' freddo dei prati sotto il cielo nuvoloso, a odorar i bottoni di rosa. Puro odore pio! Faceva pensare alla preghiera d'un bambino. Ma don Innocenzo beveva voluttuosamente le profane lodi di Steinegge con dei: “Non è vero? Eh! dica la verità!” Dopo i piselli fece vedere a' suoi ospiti le novità della casa. Prima Veuillot, un passero solitario, chiacchierone impertinente, al quale era rimasto quel nomignolo dopo che un allegro prete, seccato dal suo cicaleccio continuo, si era voltato a gridargli: “Taci, Veuillot.” “E io mi godo di tenerlo in gabbia” soggiunse ferocemente don Innocenzo, raccontato l'aneddoto. Aveva pure a mostrare de' nuovi tegami preistorici trovati scavando le fondamenta della cartiera, del gran dado bianco che si vedeva sorgere laggiù oltre i pioppi del fiumicello, in mezzo a una chiazza nerastra, a una piaga schifosa del verde. Don Innocenzo era ancora entusiasta della cartiera, forse anche un po' per la scoperta dei suoi tegami. Passando per lo studio, Steinegge chinò un momento il capo a un libro aperto sullo scrittoio davanti al seggiolone di Don Innocenzo. Questo saltò lesto come un ragazzo a ghermire il libro e se lo strinse al petto, ridendo, rosso fino al vertice del cranio. Steinegge, rosso anche lui, fece le sue scuse.
“A Lei! A Lei! Vada là! Lo prenda, lo prenda!” rispose don Innocenzo porgendogli a due mani il libro che l'altro non voleva pigliare.
“Ah!” diss'egli, appena v'ebbe data un'occhiata “Mein Gott, Mein Gott! Non avrei mai creduto questo.”
Era una grammatica tedesca.
“Taccia, vada là, vada là che non capisco niente!” esclamò don Innocenzo ridendo sempre; e gli ritolse il libro, lo gittò sullo scrittoio, vi posò su il suo berretto a croce e scappò a raggiungere Edith.
Adesso non c'era proprio più nulla da vedere e la casetta tornò silenziosa, perché gli Steinegge si ritirarono nelle loro stanze al primo piano, mentre Marta stendeva la tovaglia.
Placido silenzio, interrotto appena dal tintinnìo delle posate di Marta, da qualche passo pesante sulla stradicciuola di là dall'orto. Edith era felice di sapersi così lontana da Milano, in mezzo a tanta quiete e a tanto verde, come ella stessa aveva scritto; e, nel disfare la valigetta, chiamò suo padre, gli domandò s'era contento. Egli venne dalla sua camera con la cravatta in mano e gli occhietti scintillanti. Altro che contento! Edith gli fece vedere due bei bottoni di rosa in un bicchiere posato sul cassettone e un volume di Lessing: Nathan der Weise. Li aveva anche suo padre i fiori sul cassettone e aveva la storia della guerra dei trent'anni di Schiller in tedesco. Che gentilezza di quel don Innocenzo e che accoglienza cordiale! A Edith pareva un po' invecchiato; a Steinegge no. E Marta, che cordialità, povera donna! Si scambiavano le loro impressioni a bassa voce, mentre Edith disponeva nel cassettone la sua roba. Aveva portato alcuni libri tedeschi e italiani, ma non Un sogno. A suo padre che si dolse un poco di questa omissione, ella non rispose parola; gli passò invece una mano sotto il braccio, lo trasse alla finestra che guardava l'orto, la stradicciuola, i prati, i pioppi lontani dal fiume, le colline al di là e tanta distesa di nuvole bianche.
“Mi par d'essere una fanciulla” disse Edith “e trovarmi la sera nel mio letto dopo essermi smarrita il giorno fuori di casa, e aver pianto, aver provate tante angoscie. Non ti senti, papà, meno straniero qui che a Milano?”
Qualcuno parlava nell'orto. V'era don Innocenzo con una vecchia contadina che si lagnava, piagnucolando, della sua nuora. Il parroco cercava di chetarla; allora la vecchia cominciava, chinando il capo, un'altra storia più segreta ed egualmente triste che don Innocenzo interrompeva con dei bene bene soddisfatti, come se a questo nuovo malanno gli fosse più facile trovar il rimedio. Le cacciò di fretta in mano alcune monete e la mandò via bruscamente.
“Che strega quella donna lì!” disse Marta di dentro. “Spero bene che non le avrà dato niente.”
“Cosa vi viene in testa?” rispose don Innocenzo.
“Anche le rose, anche i libri tedeschi” disse Steinegge dalla finestra. “Questa è troppa attenzione, signor curato. Noi non sappiamo...!”
“Oh, son libracci vecchi di casa mia. Vengano giù, vengano giù che si desina subito.”
Il desinare cominciò allegramente. Marta si moltiplicava. Aveva il suo posto a tavola, ma andava e veniva continuamente dalla cucina, malgrado le preghiere degli ospiti e le osservazioni del padrone. Edith le dichiarò che per quel primo giorno lasciava fare, ma che all'indomani si sarebbe presa, o per amore o per forza, la sua parte dell'azienda domestica. Marta rispose con una fila di mai più acuti. Steinegge si offerse come aiutante cuoco, promise i Klosse, disse di averli insegnati a Paolo del Palazzo. Il povero don Innocenzo non sapeva che riscaldare il caffè e si propose, modestamente, per questo.
“A proposito!” esclamò Steinegge, guardandolo parlare senz'ascoltarlo, impaziente che finisse, “Non abbiamo ancora domandato del signor conte!”
“Sono stato al Palazzo due ore fa” rispose don Innocenzo. “Andava un po' meglio di ieri sera.”
“Come, un po' meglio?”
Steinegge si piegò in avanti, ansioso.
“Malato?” esclamò Edith, sorpresa.
“Non sanno niente?” replicò il curato.
“Ma no!”
“Credevo che Marta, non so, che qualcheduno lo avesse detto Loro. Euh, cose tristissime, dolorosissime!”
“Ah, Signore, non sanno niente!” disse Marta in piedi, con le mani appoggiate alla tavola. “Ma sicuro! Come han da fare Loro a saperlo? Non son che due giorni.”
“Ma in nome di Dio, cosa è questo?” disse Steinegge.
“Ecco” rispose don Innocenzo “cos'è oggi? Mercoledì. Bene, lunedì mattina, anzi nella notte dalla domenica al lunedì, il conte ebbe un attacco d'apoplessia.”
“Oh!”
Don Innocenzo, corretto qualche volta da Marta, raccontò quello che sapeva della malattia. Steinegge non poteva darsi pace di questa sciagura; Edith pure n'era dolentissima.
“E gli sposi?” diss'ella.
“Oh, non sono ancora sposi” rispose il curato.
“E lo diventeranno giusto il giorno del Giudizio” soggiunse Marta.
Il suo padrone la sgridò, disse che il matrimonio era solamente differito e che c'erano bene state tutte le ragioni per differirlo. Marta se n'andò in cucina brontolando.
“Ci sono poi degli altri pasticci” disse don Innocenzo a mezza voce.
Steinegge non pensava più a mangiare; posò le braccia sul tavolo aspettando.
“Dopo, dopo” sussurrò il prete con un gesto e un'occhiata verso la cucina.
“Oh, non mi attendevo questo!” esclamò Steinegge.
Edith domandò di donna Marina. Il parroco disse che stava bene, che l'aveva veduta la sera prima.
Intanto Marta aveva portato l'allesso e non parlava più, indispettita pel rabbuffo del padrone, dolente che quel vitello così tenero e saporito e i capperi in aceto preparati da lei avessero, per il malaugurato discorso, a passar senza lodi; prevedendo che la stessa sorte sarebbe toccata all'arrosto.
“Dopo pranzo andremo a Palazzo, non è vero, papà?” disse Edith.
“Certo, oh!”
Il solo Veuillot non aveva perduto la sua loquacità allegra: a furia di chiacchiere si fece ascoltare dai commensali, fece parlare di sé, dell'ingiusto nome di guerra che gli avevano dato. Il sole cadente rideva sul soffitto. Don Innocenzo cominciò a parlare de' suoi cocci preistorici, dei dotti che dovean venire a vederli.
Edith faceva delle osservazioni critiche di cui suo padre si scandolezzava. Egli prestava intera fede ai cocci e ai dotti, parlava delle palafitte svizzere che conosceva. Ad un tratto s'interruppe ricordandosi che doveva andare al Palazzo.
“Aspetti” gli disse don Innocenzo “aspetti il caffè. Mi pare che si potrebbe uscire a prenderlo nell'orto, non è vero?”
Uscirono nell'orto all'aria dolce, odorata di primavera. Il sole avea rotto le nuvole e toccava quasi le colline di ponente: la casetta ne ardeva, i vetri ne sfolgoravano. Edith volle portar lei il caffè. Steinegge e don Innocenzo sedettero ad aspettarlo sul muricciuolo dell'orto in faccia al salotto.
“Marta è una buona donna” disse don Innocenzo “ma è una gran chiacchierona. Ci sono de' pasticci al Palazzo. Intanto è tornato quel tale Silla.”
Steinegge diè un balzo.
“Oh scusi, non è possibile! Se l'ho visto io a Milano l'altro giorno, in casa mia, e non mi ha detto niente!”
“Tant'è; adesso è qui.”
“Lei lo ha veduto?”
“Certo.”
“Oh, ma questo!... Scusi molto, io credo che i Suoi occhi non L'hanno servita bene! Oh, è impossibile questa cosa! Lui qui, al Palazzo?”
Si alzò e si pose a camminar in fretta su e giù lungo il muricciuolo, borbottando in tedesco.
Si fermò su' due piedi. Gli era balenata un'idea.
“Forse è stato richiamato?” diss'egli. “Forse per telegrafo?”
“Può essere, ma non credo, perché il conte Le ho detto in che stato è, la marchesina non lo poteva soffrire quando fu qui l'altra volta, e i Salvador non lo conoscono.”
“E che cosa fa qui?”
“Ma! Sa bene cosa si diceva di lui? Pare che venendo in questo momento abbia messo una spina negli occhi della marchesina e dei Salvador.”
“Per l'eredità? Oh questa è bugia, questa è calunnia!” disse Steinegge concitato. “Mi scusi, Ella non sa, signor parroco, Ella non creda. Il signor Silla non è niente affatto quello che si diceva e giuro che non è venuto qua con questa cosa vile nel cuore.”
Don Innocenzo gli accennò di tacere. Marta sulla porta della cucina, contendeva a Edith il vassoio del caffè.
“Ma no” diceva “ma no, son mica cose da far Lei queste: Bene, faccia un po' come vuole, là!”
Edith veniva a passi corti, sorridente, un po' compresa della sua missione, tenendo gli occhi sulle chicchere a fiorami rossi e verdi, sulla zuccheriera pure a fiorami, sul bricco che traballava. Il fuoco del tramonto le batteva in viso, batteva sul vassoio, sulle mani sottili.
“Non sai,” le disse suo padre in tedesco, impetuosamente “che il signor Silla è qui?”
Ella si fermò e tacque un momento, senza fare altro segno di sorpresa.
Poi chiese quietamente:
“Dove, qui?”
“Al Palazzo.”
Venne a posar il vassoio sul muricciuolo e domandò a don Innocenzo se il caffè gli piaceva dolce o amaro.
Suo padre si stupiva di una tale indifferenza. Forse ella sapeva qualche cosa? Forse Silla le aveva detto una parola l'altro giorno?
No, Silla non le aveva detto niente, ed ella non sapeva niente. Osservò che il signor Silla poteva essere stato richiamato per telegrafo.
“Signora no, per quel signore là non l'hanno mica fatto battere il telegrafo” disse dietro a lei Marta ch'era venuta a portare un cucchiaino. Don Innocenzo, intento al caffè e alla discussione, non s'era avvisto di lei.
“Che ne sapete voi?” diss'egli.
“Perché non ho a saper qualche cosettina anch'io, povera donna?” rispose la petulante Marta. “Quel signore lì è proprio caduto dalle nuvole. Nessuno se l'aspettava, cari Loro. Non c'è che la Giovanna che sia contenta, perché sa, neh, che il signor conte gli voleva così bene. Gli altri non lo possono vedere, specialmente la signora donna Marina. Il mio signor padrone a me, magari, non dice niente; ma lui lo sa bene che ieri sera la signora donna Marina l'ha fatto andar giù in giardino, questo signor Silla, per dargli una ramanzina!”
“Come sapete voi queste cose?” disse don Innocenzo stupefatto.
“Ne so così delle cose io. È mica vero forse?”
“Che lo ha fatto scendere in giardino sì, è vero; ma cosa gli abbia poi detto non la so io e non lo sapete neanche voi.”
“Che abbiamo udito, no, magari; nessuno ha udito; ma chi può saperlo dice che gli avrà detto d'andar via perché è lei che lo ha fatto andar via l'altra volta.”
“Ma non è partito?” disse Edith.
“No, sinora, no, non è partito; almeno credo. Lo ha visto Lei oggi, signor curato?”
“Sì, l'ho incontrato sulla scala.”
“Vogliamo andare, Edith?” chiese Steinegge.
“Oh no, papà, ho pensato che il momento non è opportuno per la mia visita. Vacci tu. Io resto con don Innocenzo.”
“Stasera abbiamo il mese di maggio” le disse questi.
“Bene, verrò in chiesa.”
A Steinegge dispiaceva andar solo, ma non insistette e partì. Marta rientrò in casa col suo vassoio, lasciandoli soli, seduti sul muricciuolo, il parroco e Edith.
“È buono sa” diss'ella con passione. “È buono; oh tanto più di me! E le vuole un bene a Lei! Desiderava immensamente di venir qua. È una provvidenza questa simpatia che ha per lei, malgrado la Sua veste. Anche ieri a sera si parlava di religione. Io dicevo che vi sono delle anime naturalmente mediatrici fra il comune degli uomini e Dio, qualunque sia la forma della loro vita terrena, e che Lei, per esempio, signor curato, anche se non fosse sacerdote...”
“0h, signora Edith!”
“Sì, sì, Lei è una di queste anime. Lo credo e mi fa bene il crederlo, mi fa bene il dirlo. Se sapesse quanto abbiamo bisogno di Lei! Bene, mio padre diceva anche lui di poterlo credere.”
Parlava con emozione tanto forte quanto era stata subitanea.
“Si consoli” disse don Innocenzo “si consoli. Suo padre è forse più vicino a Dio di molti che esercitano il mio ministero, di me per il primo che ho sempre vissuto una vita blanda, una vita neghittosa, senza vere tribolazioni, senza opere, con frequenti languori di spirito, benché da tanti anni io entri ogni giorno nella profondità di Dio, benché io viva, si può dire, nel calore di tante anime grandi che lo hanno amato. Sono meno che niente, signora Edith. Ma sa cosa c'è di vero in questo che Lei ha detto? C'è che un sentimento puro d'interessi terreni, anche per qualche persona indegna, anche, arrivo a dire, per le cose inanimate, o almeno che noi crediamo inanimate, alza l'anima. E quest'anima che si alza, vede, naturalmente più in là; se lo slancio è molto forte, può vedere addirittura la meta; non vedrà la via, ma vedrà la meta. Il Suo signor padre mi vuol bene, non so come né perché. Non c'entra il sangue in questo affetto, né la consuetudine, né alcun interesse. Non c'entra neppure quella comunanza di opinioni ch'è il solito fondamento dell'amicizia e che pure vi mette, non Le pare? un'ombra di egoismo. Il suo affetto per un povero disutile come me gli allontana il cuore da quei rancori iracondi che sono, credo, il più grande ostacolo sulla sua via verso la Chiesa e anche, dirò, stando nel campo della religione naturale, verso Dio. Mentre egli è con me e sente piacere d'essere con me, sono sicuro che, senza alcun merito da parte mia, una certa pace si fa nel cuore; se gli viene in mente, allora, quel tale passato, gli parrà un po' più lontano di prima. Lavoreremo. Otterremo, vedrà. Lei ha fatto benissimo intanto a non insistere, a non premere, a non molestarlo con troppo zelo.”
“Povero papà!” disse Edith, sospirando. Lo immaginava con il suo caro viso onesto, lo vedeva contento, sereno, lontano dal sospettare di malinconie segrete nel cuore di sua figlia.
“Gli ha mai parlato di pratiche?” chiese don Innocenzo, sottovoce.
“Direttamente, mai” rispose Edith nello stesso tono. “Cosa vuole? La confessione, per esempio! Io comprendo che per lui è l'atto più odioso, più ripugnante che si possa concepire. Quando vado in chiesa vuol sempre accompagnarmi. In questo tempo io sono andata due volte alla confessione. Sa, io ci vado assai di rado.”
“Non biasimo!” disse don Innocenzo.
Parlar di religione all'aperto nelle prime ombre della sera move l'anima. N'escono allora certe intime opinioni timide che di giorno stanno nascoste per paura della gente e anche un poco di altre opinioni imposte alla nostra coscienza docile, venute dal di fuori con autorità di maestri o di libri o di esempi.
“Egli non parlò né la prima né la seconda volta” proseguì Edith “ma soffriva, s'intendeva bene: e dopo, per un po' di tempo restava triste, taciturno. Io vedo i suoi pensieri. Povero papà, non può immaginarli Lei i cattivi compagni che ha avuto. Non han potuto guastare il suo cuore, ma gli hanno empita la mente di tante vecchie volgarità misere!”
Il sagrestano entrò nell'orto e, salutato il parroco, andò a prendere le chiavi della chiesa. Don Innocenzo tolse commiato da Edith, che rimase seduta sul muricciuolo. Appena fu sola, si sentì spossata da un accoramento profondo. Ell'aveva amato e rinunciato all'amor suo, ma pure solo allora le pareva di aver interamente perduto Silla, solo allora che lo sapeva tornato al Palazzo, presso Marina. Pochi minuti dopo le campane della chiesa, colorata ancora dall'ultima luce calda del tramonto, suonarono. A Edith pareva che dicessero “Addio, amore, dolce amore; addio, giovinezza soave”. Si alzò e rientrò in casa; ma anche lì penetrava la voce delle campane benché più languida. “Addio addio”. Edith salì nella sua stanza. La finestra n'era aperta, e le campane vi ripetevano più forte che mai “Addio”. Fra le cortine bianche, nel ponente, scintillava la stella della sera. Edith non voleva intenerirsi: andò nella camera di suo padre, vi si sentì tranquilla e vi chiuse la finestra senza sapere bene il perché. Si pose a spazzolar un soprabito, guardò se i bottoni eran saldi; poi lo ripiegò, lo posò sopra una sedia, si fece a comporre i guanciali sul suo letto, a spianare e rincalzar le lenzuola col tenero studio di una mamma che rifà il letticciuolo del suo bambino convalescente. Stette quindi a guardare la stella pura, in pace, stavolta; e udì Marta che chiamava dall'orto:
“Signora! Oh, Signora!”
Marta desiderava sapere se la signora Edith sarebbe andata anche lei in chiesa, perché allora avrebbero potuto uscire insieme e chiudere la porta di casa.




(continua)

_________Aurora Ageno___________
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05/12/2007 14:38


Si confusero alle poche donne che salivano dal paesello, coperte il capo di grandi fazzoletti scuri, entravano una dopo l'altra nella chiesa muta, porgevano la destra alla pila dell'acqua benedetta e, piegato il capo a pochi lumi dell'altar maggiore si perdevano, quale a destra, quale a sinistra, nelle tenebre dei banchi. Don Innocenzo uscì presto in cotta e stola a leggere le preghiere alla Vergine, alternandole con parecchi pater e ave.
Edith avrebbe voluto seguir quelle preghiere col cuore e non lo poteva, tanto erano pomposamente false e sdolcinate. Le pareva impossibile che don Innocenzo non avesse potuto trovar nulla di più degno del grande spirito puro di Maria, la impersonazione cristiana del femminile eterno. In fatto, don Innocenzo aveva tentato in addietro d'introdurre altre preghiere di sua fattura, molto più semplici e severe; ma quelle prime si recitavano da anni ed anni, piacevano alla gente assai di più. Gli arroganti santocchi e le santocchie del paese fecero una tale devota sommossa, seccarono tanto il povero curato per avere daccapo i troni, i manti, le corone di stelle, che bisognò cedere. Edith non si accorse di allontanarsi col pensiero dalle preghiere e dalla chiesa. Tornava all'Orrido, udiva Marina chiederle di Silla, parlare di suo cugino, delle sue idee sul matrimonio, dirle: “Se in avvenire udrà parlare di me, contro di me, si ricordi questa sera”. Poi passeggiava sui bastioni di Milano con Silla, lo ascoltava parlar di Marina, rileggeva la dedica manoscritta di Un sogno, le parole “se n'è respinto, si lascerà cadere a fondo”. Una gran luce le spiegava tutto. Si scosse, si dolse della sua distrazione e, chino il viso sul banco, chiusi gli occhi, con uno sforzo del pensiero e del cuore, si slanciò a Dio.
Ma non poteva perseverarvi. I pensieri di prima la riprendevano tosto, la portavano lontano, cedevano per poco a un altro sforzo di volontà. Così lottando non udì la voce di don Innocenzo, né il mormorio grave, uniforme della gente nell'oscurità, non ascoltò il canto delle litanie che uscì per la porta aperta, andò lontano sopra i sussurri del vento vespertino.
Una mano le si posò sulla spalla; era suo padre.
“Sono venuto adesso” le diss'egli all'orecchio. “Vuoi che mi fermi un poco qui con te?”
“Oh sì, papà. Sarai stanco, siedi.”
Sedette ella pure e gli prese una mano fra le sue. Steinegge tacque un momento poi disse timidamente:
“È finito?”
“Sì, papà. Vuoi aspettarmi fuori?”
“No, no. Non possiamo noi dire qualche cosa insieme?”
Ella gli strinse la mano.
“Parla tu” diss'egli.
“Pensiamo alla mamma” rispose Edith. “Parli lei al Signore, gli domandi per noi la sua luce e la sua pace, sempre. Gli dica che perdoniamo a tutti coloro che ci hanno fatto del male; e non è vero, papà? A tutti.”
Steinegge non rispondeva; la sua mano tremava fra quelle di Edith.
“Dimmi di sì, papà. Siamo così contenti!”
“Oh, Edith, s'è per quelli che han fatto del male solo a me!”
“A tutti, papà, a tutti.”
“Farò il possibile” diss'egli.
La chiesa era vuota, il sagrestano aveva già chiusi i chiavistelli della porta laterale e don Innocenzo scendeva verso la porta maggiore. Gli Steinegge si alzarono e uscirono con lui. Edith si fermò un momento sulla soglia.
“Come è bello!” diss'ella.
Tutto il cielo era terso fra i profili taglienti dei monti e delle colline sin giù nel ponente, dove la stella della sera discendeva scintillante. Tirava vento. Dietro alla chiesa, sul monte, le macchie stormivano. La valle pareva un immenso drappo scuro, mal disteso a piè delle limpide stelle ignude.
“Peccato che non è luna!” osservò Steinegge.
Edith disse che qualche volta preferiva alla luna la luce non sentimentale delle stelle. Il suo pensiero era che la luna, piccola terra, piccola schiava nostra, forse un tempo congiunta al pianeta, blandisce col suo lume certe passioni terrene, ammollisce i cuori; mentre le stelle austere, indifferenti, a noi, esaltano lo spirito. Questo era il suo pensiero, ma non lo spiegò. Fece solo osservare a don Innocenzo, che quella sera la luce di Venere era tanto forte da segnare ombre sul muro bianco della chiesa.
“È quasi come la luna” diss'ella “e dolce anche questa, ma a me pare più pia.”
Tutto le pareva pio in quella disposizione di spirito, anche la voce del vento dietro la chiesa.
“Come va al Palazzo?” chiese don Innocenzo che doveva scendere a visitare una ragazzina inferma.
“Un poco meglio, pare un poco meglio; pare che l'attacco al polmone è passato.”
“Oh Edith, questa casa, questa casa!” esclamò Steinegge dopo che don Innocenzo se ne fu andato.
“Oh!”
Egli fece tre gran passi avanti, alzando le braccia, agitando le mani distese.
Edith non parlò fino al cancello della canonica.
“Credevo che non venissero più” disse Marta aprendo.
“E così, signore?”
“Va un poco meglio. Vogliamo fare ancora due passi, Edith?”
Ella acconsentì. Invece di scendere direttamente al villaggio, presero la stradicciuola che gira sotto l'orto e cala di sghembo a raggiungere la strada comunale a poche centinaia di metri dalle prime case.
Steinegge raccontò la sua visita al Palazzo, dove aveva visto la contessa Fosca e Giovanna. La Contessa, prima di salutarlo, aveva esclamato: “Oh, non è qua anche quest'altro adesso?”. Ma poi saputolo ospite della canonica, gli si era mostrata cordialissima. Steinegge non aveva inteso un terzo de' suoi discorsi sul triste fatto, delle sue lamentele sulla “babilonia” che regnava al Palazzo. Secondo la contessa, Marina era inconsolabile, non usciva mai o quasi mai dalle sue stanze. Del matrimonio non gli aveva detto verbo, ma gliene aveva parlato Giovanna. La povera Giovanna, sparuta, lagrimosa, gli aveva fatto infinita pietà. Il suo gran pensiero era il conte; del resto si curava soltanto per le impressioni che potesse riportarne il suo ammalato, ricuperando la intelligenza. Ell'avrebbe voluto che il matrimonio si facesse subito e se ne andassero via tutti. Secondo lei, quella signora contessa e quel signor conte di Venezia non miravano che ai denari. Le avean già domandato s'ella sapeva che il suo padrone avesse fatto testamento.
“Ma vi è qualche cosa che mi mette più angustia di tutto questo” soggiunse Steinegge. “Ho veduto Silla.”
Edith tacque.
“Oh, mi ha fatto una impressione di trovarlo lì! Parve sorpreso anche lui, ma mi sfuggì, mi salutò appena, non mi chiese di te, niente!”
“Non c'era bisogno, papà, che ti chiedesse di me.”
“Ma eravamo pure buoni amici, io credo? Non è naturale questo. Temo di saper troppe cose, Edith. Temo... Tu puoi capire cosa temo. D'altra parte, quella sera, a Milano, pareva ben guarito quando si parlò del matrimonio. Non è vero, mi pare di averti già raccontato...”
“Sì, sì, lo so, papà. Dove andiamo? Qui non è piacevole.”
Avean raggiunta la strada comunale. Vi faceva scuro, Venere era scomparsa; l'aria portava dalle bassure della valle uno sparso gracidar di rane, un odore grave ai prati umidi.
“Prendiamo a sinistra” disse Steinegge “faremo il giro e torneremo a casa per il paese e la chiesa.”
Si avvicinarono pian piano verso il villaggio, a braccetto. Edith parlò della cara Germania e del passato. Avea sempre da raccontar qualche cosa di nuovo sulla sua adolescenza, qualche cosa che le tornava alla memoria a caso, specialmente nelle ombre della sera. Suo padre se ne commoveva, s'inteneriva, non tanto per le piccole vicende narrategli, quanto per l'idea che adesso gli anni tristi eran passati, che ella era lì al suo fianco.
Nel villaggio trovarono don Innocenzo che usciva da una povera casupola. Udirono una donna, che lo avea accompagnato col lume sulla via, dirgli angosciosamente:
“E così, signor curato?”
“Fatevi coraggio, Maria” rispondeva don Innocenzo “donatela al Signore.”
La donna appoggiò il capo al muro e pianse.
“Andate, Maria, tornate su” disse don Innocenzo dolcemente.
La donna piangeva sempre e non si moveva.
“Si conforti” disse Edith. “Pregheremo per lei.”
Quella si voltò al suono della voce sconosciuta e rispose come se avesse dimestichezza con Edith.
“Venga su anche Lei, venga a veder com'è bella.”
Don Innocenzo sulle prime si oppose, ma Edith volle contentar quella povera donna e salì con lei dall'inferma. In cucina due fanciulle giocavano sedute a terra. Il padre, curvo sul fuoco, stava riscaldando un caffè; non si mosse né a salutare né a guardare. Chiese bruscamente a sua moglie:
“Devo portarglielo?”
“Oh, Signore!” diss'ella sconsolata.
Egli proferì, con voce rotta, poche parole iraconde e sedette, cupo, sul focolare.
L'ammalata era una fanciulla di dodici anni, bionda, delicata, che moriva tranquilla, credendo di guarire.
Edith ridiscese pochi minuti dopo nella via dove suo padre e don Innocenzo l'aspettavano.
“È da vergognarsi” diss'ella “di tanti nostri piccoli dolori.”
Nessuno dei tre aperse più bocca a casa, dove si divisero. Steinegge, sentendosi stanco, andò a letto, don Innocenzo si ritirò nel suo studio a dir l'ufficio. Edith andò in cucina ad ascoltare una conferenza di Marta su vitali argomenti d'economia domestica, sui prezzi dello zucchero e del caffè, sul modo di “metter là” i pomidoro e i capperi in aceto, sulla tela più robusta e a buon mercato. Dopo mezz'ora di chiacchiere Edith lasciò la cucina e venne a bussar sommessamente all'uscio dello studio.
Don Innocenzo non si aspettava la sua visita; le domandò sorridendo se fosse accaduta qualche cosa. Ella rispose:
“No, volevo dirle una parola.”
Il prete comprese tosto dal volto di lei che doveva essere una parola grave, e si compose pure a gravità.
“Prego” diss'egli, alzandosi a mezzo e accennando una sedia presso di lui. Quindi attese in silenzio.
Passarono due minuti prima che le labbra di lei si aprissero. Don Innocenzo si pose a guardare attentamente il piano della scrivania, a spazzar col mignolo della destra, a soffiar via leggermente una polvere immaginaria. Finalmente Edith parlò.
Ella non fece alcun preambolo e cominciò subito a raccontare quello che suo padre le aveva detto intorno alla passione concepita da Silla per Marina prima della sua fuga dal Palazzo; proseguì a dire dello strano contegno, degli strani discorsi tenuti da Marina durante la gita all'Orrido, delle proprie impressioni nell'udir annunciare, quella stessa sera, il matrimonio Salvador. Narrò quindi con voce men sicura il passeggio sui bastioni, la indifferenza ostentata con la quale Silla avea accolto la notizia che le nozze stavano per celebrarsi, le confidenze che le aveva fatte poi. Soggiunse risolutamente, lottando con la emozione interna e vincendo, che si era confermata quella sera in un sospetto concepito qualche tempo prima riguardo alle disposizioni di Silla verso di lei; che non v'era stato un discorso diretto ma molti indizi, e che il proprio contegno era forse apparso tale da lasciar credere a una corrispondenza di sentimenti. Disse, coprendosi il viso con le mani, che n'era dolentissima e se ne trovava ben punita.
“Oh Dio” disse don Innocenzo con voce imbarazzata “fin qua... poi... non so... ma non mi pare...”
Allora venne il racconto della mattina seguente della visita di Silla, della gelida accoglienza fattagli, delle parole trovate nel suo libro. Qui don Innocenzo si scosse, indovinando, assai tardi, a quale sospetto conducesse il racconto di Edith. Ella non tacque il recente incontro di Silla con suo padre e la impressione riportatane da questo. Temeva di qualche triste mistero nascosto nell'ombra del Palazzo!, si rimproverava di aver favorito, per poca vigilanza, un sentimento che, non accolto, poteva spingere Silla a men che onesti propositi.
“Ho creduto” diss'ella “di dover raccontare tutto a Lei perché mi pare bene che Lei, andando al Palazzo, sappia queste cose quantunque vi sia del biasimo per me.”
Don Innocenzo si fregava le mani lentamente, suggendo l'aria come se gli dolessero.
“Non so proprio” diss'egli “quale biasimo vi possa essere...”
Pareva tuttavia che una lieve ombra fredda ve ne fosse dentro di lui. Masticava parole vaghe come chi non arriva a raccapezzarsi bene. Domandò a Edith che uomo fosse questo signor Silla. Ella disse che lo credeva uno spirito nobile, ma ammalato, offeso dalle contrarietà della vita.
“E Le pareva che avesse inclinazione per Lei?”
Edith non rispose.
“Ma Ella dal canto Suo non ne provava alcuna per lui, e solo per un equivoco il signor Silla poté sperare d'essere corrisposto?”
“No, signore, temo di no, non per un equivoco.”
Ella pronunciò queste parole a voce bassissima, chinando la fronte alle mani conserte sulla scrivania.
Don Innocenzo tacque guardando i capelli giovanili, lucenti di bagliori dorati. Quella scoperta gli faceva pena; gli doleva trovar passione dove aveva pensato non esser che pace, gli doleva veder piegarsi afflitta la bella testa intelligente. Al tempo andato, nelle lunghe ore ch'egli soleva passare meditando e leggendo, nel suo studiolo, altre immagini di donne pensose e vereconde erano salite dalla terra o uscite dai libri santi innanzi agli occhi suoi. Gli pareva ora che la rauca voce dell'orologio gli dicesse “ti ricordi?”. Ecco, dopo tanti anni, una di queste figure, viva e vera, non più pericolosa ormai per lui che per un fanciulletto innocente. E soffriva di vederla ferita, perché vi era pur qualche cosa in lei della sua propria giovinezza intemerata, di certi ideali femminili contemplati a quel tempo, con trepida riverenza, da lontano.
Edith alzò il viso e se lo coperse con le mani.
“Temo” diss'ella “di non aver fatto tutto il possibile per nascondere l'animo mio.”
“Ma, se questo giovine signore ha uno spirito nobile, se aveva inclinazione per Lei, se Ella stessa... scusi, sto alle Sue parole... se Ella stessa... ma perché allora?”
Le mani le caddero dal viso, due occhi umidi brillarono davanti a don Innocenzo.
“Oh, signor curato, Lei che sa, come può credere? Come farei ciò mentre mio padre ha tanto bisogno di me? Mettere accanto e forse contro al mio dovere di figlia un dovere più forte! Sarei venuta in Italia per questo, signor curato? Non è poi neppure la mia vocazione; ne sono convinta.”
“Veramente convinta?” disse don Innocenzo, grave. “Sa veramente quanto è grande oggi, quanto lo può essere domani il sacrificio che si propone?”
“No” rispose Edith giungendo le mani “non dica questo, non dica questo! Ciò che faccio è niente rispetto a quanto io debbo a mio padre. Così Dio mi accordi ch'egli venga alla fede! Intanto, son felice che non abbia sospettato di nulla. Quanto a me potrò anche dimenticare. Lei mi aiuti!”
Povero prete, aiutare a combatter l'amore! Nella sua grande bontà ingenua, il sacrificio di Edith gli pareva irragionevole. Se quest'uomo era nobile, se l'amava, certo avrebbe amato egli pure con affetto filiale il padre di lei, certo avrebbe cooperato al santo fine che Edith si prefiggeva.
“È necessario” diss'egli “è utile davvero questo sacrificio? Pensiamo bene. Potrebb'essere che Suo padre desiderasse veder Lei collocata, che questo pensiero gli procacciasse delle angustie segrete. Anche questo; sa Ella di quanti e quali mezzi si può servire Dio per condurre alla fede un'anima? Forse nell'ambiente di una famiglia cristiana ve ne sono tanti che Lei adesso non immagina neppure. Parlo per l'avvenire. Per quello che è stato metta il Suo cuore in pace. Se qualche male avesse a succedere, nessuna colpa può ricadere sopra di Lei. No, nessuna, lo creda. Quand'anche Ella avesse dato a questo signore segno... non so... di simpatia, insomma, Ella non sarebbe mai responsabile davanti a Dio delle azioni disoneste che colui ora commettesse.”
“No” diss'ella “ma però sarebbe un gran dolore.”
Don Innocenzo tacque; cercava parole che non venivano. Gli facevano invece violenza altri pensieri generati dal racconto di Edith; il sospetto di una trama disonesta, il dubbio di dover fare qualche cosa presto, fors'anche subito, per combattere i disegni che Edith pareva attribuire a Marina e che Marina stessa le aveva manifestati indirettamente dal settembre, parlando di un'amica sua sposatasi per odio e per disprezzo, per giungere all'amante attraverso il marito.
“Mi parli con piena sincerità” diss'egli ex abrupto: “è convinta o no che vi sia un accordo tra il signor Silla e donna Marina? Non abbia riguardi: non si tratta qui di maldicenze né di quei giudizi che il Vangelo riprova. Il mio ministero potrebbe forse venir esercitato per il bene e io debbo sapere, per quanto è possibile, la verità. Ella che conosce le persone e i fatti, mi dica schietto, che convinzione ha?”
“Due giorni fa non c'era di sicuro” rispose Edith “ma oggi temo di sì.”
“Come? Che ci sia accordo?”
“Temo che succeda: ho questo presentimento.”
“Teme che succeda” disse don Innocenzo parlando a se stesso, e, fattosi puntello d'un gomito alla scrivania, con il palmo della mano sulla fronte e le dita inquiete sul cranio, rifletté. Dopo qualche tempo aperse il cassetto della scrivania e ne tolse della carta.
“Ella non ha risposto” diss'egli “alle parole che il signor Silla scrisse in quel volume per Lei?”
“No, signore.”
“Come?” chiese don Innocenzo.
Ella presentiva forse la proposta del curato, parlava così piano!
“No, non ho risposto.”
Il prete si alzò in piedi.
“Bene, risponda” diss'egli.
Anche Edith, involontariamente, si alzò; vide, senz'altre parole, il concetto di don Innocenzo.
“Subito” disse questi, accostando il calamaio alla carta, che aveva posta sulla scrivania.
“Crede, signor curato, che questo possa essere un dovere per me? Subito?”
“Lo credo. Il mio dovere sarà poi di giudicare se e quando la lettera debba essere consegnata. Sieda al mio posto.”
Edith sedette tacendo, prese la penna con mano ferma e guardò il curato.
Gli occhi di lui presero un'espressione solenne, la fronte diventò augusta.
“Non so di queste cose” diss'egli commosso “ma ho sempre avuta l'idea che invece di un legame di passione, santificato o no, vi possa essere fra due anime veramente nobili, veramente forti, un altro legame d'affetto, santo in se medesimo; un amore, diciamo pure questa parola tanto grande, interamente conforme all'ideale cristiano dell'intima unione fra tutte le anime umane nella loro via verso Dio. Arrivo a dire che non v'è sulla terra niente di più bello di un legame simile, benché il legame coniugale sia sacro ed abbia un significato augusto. Ella vuol fare questo sacrificio a suo padre: sia; ma perché svellersi dal cuore anche la memoria della persona che Le fu cara? Perché rinunciare a un sentimento vivificante che Le fa desiderare il bene temporale ed eterno di questa persona quanto Lei stessa? Perché l'altra persona non potrebbe serbare un sentimento simile verso di Lei, sì che ambedue, sapendo l'uno dell'altro, battessero vie diverse nel mondo e compiessero i propri doveri con questo gran vigore nel segreto dell'anima? Scriva così, scriva così.”
“Lei è un santo” disse Edith. V'erano sul suo viso e nella sua voce dei tristi ma.
“Io sento bene” soggiunse “la bellezza di questa unione, ma gli basterebbe, a lui? Non combatterebbe poi con tanto maggior violenza il mio proposito, non mi porterebbe a cimenti dolorosi?”
Don Innocenzo rimase mortificato. Sentiva di conoscere il mondo tanto meno di lei, di non poter sostenere la discussione; ma il suo convincimento rimaneva.
“Sarà” diss'egli sospirando. “Scriva come vuole, anche poche parole, purché gli rialzino il cuore.”
Ella non disse niente, si mise a pensare con la penna in mano, guardando il lume. Il curato aperse la finestra e appoggiò le braccia sul davanzale. Le stelle lo guardavano, davano ragione a lui, ma la terra nera gli dava torto.
Dopo brevi momenti Edith lo chiamò, gli porse spiegato il biglietto che aveva scritto.
“No” diss'egli “non leggerò certamente; mi dica solo se son parole che possano infondere...”
“0h don Innocenzo” esclamò Edith, supplichevole “ho scritto, ho fatto il Suo desiderio. Legga se vuole, ma non mi faccia più domande, non me ne parli più!”
“Bene, bene, stia di buon animo, si ricordi che il Signore ci dice di non abbandonarci alla tristezza e vada a riposare che è tardi.”
Prima d'entrare in camera Edith origliò all'uscio socchiuso di suo padre. Dormiva. Non vi poteva esser per lei sonno più dolce, più commovente del suo respiro placido, eguale come quello d'un bambino. Andò a posar il lume nella propria camera, tornò lì al buio, appoggiò la fronte allo stipite ascoltando, cercando una pace, una forza di cui aveva bisogno.
In quel momento le ore pesanti caddero a una a una dall'orologio del campanile, batterono con la loro gran voce solenne sul tetto, sulle scale, sui pavimenti sonori della piccola casa addormentata. Edith alzò il capo a contarle con sgomento, come se fossero colpi menati a una porta di bronzo da qualche formidabile ospite inatteso.
Erano le dieci e mezzo.






(continua)

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I classici - Malombra - di Antonio Fogazzaro


4. L'ospite formidabile


Silla, ch'era sdraiato sull'erba, balzò a sedere e contò le ore. Dieci e mezzo. Trasse l'orologio, lo guardò al fioco lume delle stelle. Dieci e mezzo. Lo sapeva che dovevano essere le dieci e mezzo: aveva guardato l'orologio due minuti prima per la centesima volta. Abbrancò l'erba con le dita convulse, ne strappò due manciate. Marina aveva detto: dopo le undici.
Lasciò cader le braccia inerti, piegò il collo, si accasciò tutto come se un piede enorme gli calcasse le spalle. Pensò in quel momento con certa stupidità fredda e lenta all'atto sleale che stava per compiere sotto il tetto d'un amico ammalato gravemente; pensò ai propositi del passato, alla vicenda di cadute e di vittorie, sovra tutto al sinistro presentimento antico di un'ultima caduta senza rimedio, di un abisso orribile predisposto chi sa in qual punto della sua vita, dove si sarebbe perduto, anima e corpo, per sempre. Sentì senza sgomento d'esservi giunto, d'avere un piede proteso nel vuoto.
Un'amara energia gli corse le vene, ogni pensiero scomparve dalla sua mente, tranne il pensiero dell'ora che incalzava.
Era lì da un'ora allo stesso posto della sera precedente sull'erba del vigneto, accanto a un cipresso. Quelle cinque ore eterne del dopopranzo, che pareva non avessero a passar mai, eccole corse, svanite, come un secondo. Guardò l'orologio; mancavano venticinque minuti alle undici.
Andrebbe subito? Aspetterebbe là? Si crucciava di non sentire ardere il sangue di un desiderio più violento. Gli pareva esser torturato nel cervello e nei nervi dall'aspettazione febbrile; non altro. Forse l'incontro di Steinegge?... No, non voleva pensare a quel nome.
Si alzò ad abbracciare il gran tronco del cipresso, e, chiusi gli occhi, immaginò di origliare, fermo sulla scaletta; assaporò più volte, rinnovandone la immaginazione, il venir lento di un sussurro; sentì un'aura profumata, due piccole mani che prendevan le sue protese, e lo traevano su, nelle tenebre. Ella saliva a ritroso ed egli seguivala, muti l'uno e l'altra; ma le mani intrecciate parlavano insieme un linguaggio tanto inesprimibilmente forte e dolce che essi ristavano ansanti; quasi folli; e...
Si spiccò dal cipresso con una spinta impetuosa. Guardò ancora l'orologio: erano le undici meno un quarto. Passò dal vigneto sulla scalinata e discese adagio adagio, in punta di piedi, trattenendo il respiro, sostando ad ogni rumore che si mescesse al gorgoglìo delle fontane. Giunto nel cortile si fermò un istante. Nessun lume, nessuna voce usciva dal Palazzo nero. Prese a dritta, rasente il muro, sotto le sparse braccia pendule delle passiflore e dei gelsomini, spinse la porticina della darsena, entrò nel buio. Si vedeva solo, a sinistra, il principio della scaletta e sulla bocca della darsena l'ondular vago dell'acqua che di tratto in tratto posava sulla chiglia delle barche un bacio quieto. Allora balenò a Silla che forse quel convegno avrebbe potuto riescir diverso dalle immaginazioni sue, che forse Marina non l'amava, ch'era mossa da qualche strano capriccio. Avrebbe ella voluto prendersi giuoco di lui, lasciarlo lì tutta la notte?
Sedette sulla scaletta, guardando, per l'alto finestrino ovale che la rischiarava, uno spicchio di cielo, la punta di un cipresso, una stellina pallida.
Mancavano sette minuti alle undici. V'erano due minuti di differenza tra il suo orologio e quello della chiesa. A quest'ultimo dovevano essere le undici meno nove. Pensò che quando il suo facesse le undici, egli avrebbe ad aspettare due minuti ancora, due minuti eterni, tormentosi. Ed ecco sopra il suo capo, nelle profondità del Palazzo, da qualche orologio più affrettato degli altri, un batter di ore stridenti. Per donna Marina erano le undici.
Si alzò, salì la scala sin dove non giungeva più il chiarore del finestrino, puntò le mani alle due pareti e, proteso in avanti, stette in ascolto.
Silenzio.
Il gemer lieve d'un uscio gli fermò il respiro. Seguì un sussurro di passi cauti, una voce; non una voce, un soffio rapido:
“Renato!”
Silla si gittava già in avanti e gli ricadde il piede.
Un momento dopo udì chiamare ancora, ma più forte, stavolta:
“Renato!”
La voce gli pareva e non gli pareva di donna Marina. Diede un passo addietro.
Allora udì scender veloce un rumore di vesti, ristar di botto.
“Silla, Silla!” disse donna Marina.
Era ben lei; non poteva vederla, ma la sentiva in faccia, a pochi scalini di distanza.
“Non sono Renato” diss'egli senza muoversi.
“Ah, non ricorda il nome! La vostra mano!”
Balzò giù con impeto, cadde sul braccio sinistro di Silla che la strinse, l'alzò quasi da terra.
“Era vero” diss'ella con voce morente, tenendogli le labbra sul collo “era vero quello che mi avete detto ier sera?”
Silla non rispose, la strinse più forte, le baciò la spalla, si sentì premer forte la guancia da un'altra guancia di velluto, da un piccolo orecchio caldo.
“Era vero?” ripeté Marina teneramente.
Non si poteva sentirsi palpitar sul petto quella bellezza altera, respirare il tepore odoroso che le usciva dal seno, udirsene al collo la fioca voce e non perdere ogni lume di pensiero. Silla poté dir appena:
“E tu?”
“Dio, da quanto!” rispose Marina. Poi, come per subitaneo pensiero, si sciolse con impeto da Silla, gli appuntò le mani alle spalle.
“Dunque non ti ricordi tutto!” diss'ella.
Egli non capì, rispose a caso, ebbro, tendendo le braccia:
“Tutto, tutto!”
“Anche di Genova?”
Le parole strane non entrarono nella mente di Silla, che ripeté impaziente:
“Tutto, tutto!”
Marina gli afferrò le mani, gliele congiunse con impeto.
“Ringrazia Dio” diss'ella.
Stavolta il nome terribile gli strinse le viscere come un pugno freddo.
Egli tacque stupefatto, a mani giunte. Marina tacque pure per pochi momenti, aspettando ch'egli pregasse col pensiero; quindi gli passò la mano destra sotto il braccio, e sussurrò: “Adesso andiamo!” e si volse a risalir la scala.
Egli si lasciava tirar su, restando uno scalino indietro, tacendo.
Trovarono un pianerottolo dove la scaletta svoltava a destra.
“Vieni, dunque” disse Marina, lasciando il braccio di lui e cingendogli col proprio la vita. Gli posò quindi la bocca all'orecchio, vi gettò dentro un bisbiglio.
Egli dimenticò le parole incomprensibili di prima, tornò cieco, le rispose.
“Zitto, adesso” diss'ella mettendogli la sinistra sulle labbra.
Spinse una porticina ed entrò in un corridoio. Teneva Silla per mano e lo precedeva, camminando cauta rasente la parete. Ad un tratto si fermò, credette udir passi e voci, stette in ascolto.
Le voci venivano dal piano inferiore, dal corridoio vicino alla camera del conte.
Non vi badò più, andò avanti. Si udì la sua mano tentar un uscio, girar una maniglia. Una lama di luce brillò nel corridoio, un odor di rose avvolse Silla. Entrarono.
V'erano candele accese sulla ribalta calata dello stipo, sul piano aperto, sopra una libreria bassa. Dalla porta spalancata della camera da letto entrava pure un debole chiarore. Grandi mazzi sciolti di glicine celesti, di rose bianche e gialle erano sparsi un po' dappertutto.
Marina saltò nel chiarore delle candele, trasse dentro Silla, chiuse l'uscio, ne girò la chiave, tutto in un lampo, lucente gli occhi di riso muto, lucente d'oro il collo e i polsi ignudi, bianca, a grandi ricami azzurri, la persona. Lasciò Silla, balzò in due slanci al piano e prima che egli ne la strappasse, attaccò, con fuoco demoniaco, la siciliana del Roberto.
“Li sfido!” diss'ella lasciandosi trascinar via. “Li ho sfidati bene anche ieri sera: no? E non hanno inteso niente.”
Silla aspettava che qualcuno, inteso il piano, salisse.
Marina si strinse nelle spalle, si sciolse da lui, cadde quasi supina in una poltrona.
“Qua!” diss'ella, accennandogli di sedere a terra presso a lei. “Tutte le tue memorie.”
Silla non rispose.
“Il ballo, prima” soggiunse subito Marina. “Non comprendi? Il ballo Doria!” ella batté il piede a terra impaziente.
“Non comprendo” diss'egli.
Marina si rizzò di schianto a sedere.
“Non m'hai detto che ti ricordi?” V'era in lui un demonio che s'irritava di queste ciance vane, non si curava di comprenderle o no. Prese colle mani di ghiaccio quelle di lei, la piegò a forza sulla spalliera della poltrona, si curvò a risponderle.
“Non so nulla, non ricordo nulla. Non ho vissuto mai, mai tranne adesso. Sapevo solo che sarebbe venuto, questo momento! Ho la frenesia di goderlo.”
Egli provava la sensazione vertiginosa di scendere in un gran vuoto senza fondo, desiderava avidamente di precipitare sempre più giù, senza rimedio.
“Non stringermi così” disse Marina cercando svincolar le mani. “Non voglio!” esclamò, poiché l'altro non l'ascoltava. Fu tanto superbo l'impero del suo sguardo e della sua voce che Silla obbedì. Si alzò in piedi, si allontanò da lui lenta, a capo chino. Si voltò improvvisamente, batté il piede a terra.
“Pensa! Ma pensa!” disse.
Un brivido corse pel sangue a Silla, glielo raffreddò. Non so quale informe presentimento pauroso sorgeva in lui.
Marina gli chiese precipitosamente:
“Perché mi hai chiamato Cecilia quella sera?”
“Perché avevo scoperto ch'eri la Cecilia delle lettere.”
Ella rifletté un istante e disse con calma:
“Certo, me l'ero ben immaginato. Ma ieri a sera” soggiunse con l'impeto di prima “ma poco fa, perché dirmi che ti ricordi?”
“Perché ho creduto che parlassi della nostra corrispondenza e del momento in cui ti strinsi fra le braccia, qui sotto, in darsena.”
Ella sedette allo stipo, ne cavò il manoscritto, parve immergersi per qualche minuto nella lettura delle vecchie carte giallognole, si alzò bruscamente.
“Ti dirò un segreto che riguarda anche te” diss'ella, e spense prima le due candele dello stipo, quindi le altre del piano, della libreria, tranquillamente, senza proferir parola, come se quelle fiamme fossero vive e potessero udire. Solo dalla porta aperta della camera da letto entrava un chiaror languido sul pavimento, sui mobili più vicini.
Marina prese Silla pel braccio, lo trasse nell'angolo più oscuro, presso la porta del corridoio, gli sussurrò:
“Tu non sai chi sono.”
Egli non comprendeva, non rispondeva: quell'informe presentimento saliva in lui angoscioso.
“Ti ricordi quella sera in loggia, la dama che tu accusavi, per cui mi sdegnai?”
Silla taceva sempre.
“Non ti ricordi? La contessa Varrega d'Ormengo?”
“Sì” diss'egli ricordandosi a un tratto, aspettando ansiosamente che Marina si spiegasse. Ma ella gli posò la fronte ad una spalla e ruppe in singhiozzi dicendo due parole che Silla non intese. Piegò il viso sui capelli di lei, la pregò di ripeterle.
“Sono io” diss'ella singhiozzando ancora. E tosto un movimento involontario di Silla, una sommessa esclamazione dolorosa la scossero. Dié un passo indietro, esclamò:
“Dunque mi credi?...”
“Oh no!” interruppe Silla.
La parola, non proferita, indovinata, risuonò più forte.
Marina non piangeva più. Disse piano:
“Come siete tutti bassi. Dio!”
V'era stato un tempo in cui nessuno avrebbe potuto dir basso Corrado Silla; ma questo tempo non era più ed egli lo sentì acutamente.
“Tu, tu” continuò Marina “tu mi hai scritto che questa era la tua fede, una vita precedente. Ma che fede era mai? Era una fantasia, e non una fede. Ti dico "è vero" e tu hai paura, mi credi pazza! Chi ti aveva detto, piccolo cuor vile, di fare il grande? Va!”
Una dopo l'altra le parole fiere frustavano Silla in viso, lo avvinghiavano nella loro logica veemente, lo irritavano, gli mettevano un'avidità crescente di sapere, di udire. Egli la incalzò di domande violente, passando dalla preghiera allo sdegno. Ella lo ribatteva indietro colla sua sillaba dura:
“Va! Va!”
Finalmente si arrese.
“Ascoltami!” disse “camminiamo.”




(continua)

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Si avviarono lentamente, girando intorno al piano, passando ad ora ad ora nel chiarore che veniva dalla camera da letto, perdendosi nell'ombra. Marina parlava rapidamente, tanto sottovoce che Silla, per udirne le parole, dovea piegar l'orecchio alla bocca di lei.
V'era sul suo viso, le prime volte che passò nella luce, una curiosità febbrile: quindi vi ripassò con gli occhi vitrei sbarrati. Marina parlava tenendosi sempre un pugno stretto alla fronte. Ad un tratto, nell'ombra, si fermarono. “Ma come?” diss'egli. Marina non rispose. Un momento dopo si udì lo scatto di una molla. Poi egli fece un'altra domanda sommessa. Marina andò nella camera da letto, ritornò con una candela accesa, la posò sullo stipo. Anche ella era livida e gli occhi suoi avevano una cupa espressione indefinibile. Silla afferrò il manoscritto avidamente. Marina seguiva, attenta, la sinistra storia sulle labbra mute, sulle sopracciglia, sulle mani tremanti di lui. Durante quel mortale silenzio, passi precipitati suonarono a più riprese nel corridoio del piano inferiore, ma né l'uno né l'altro li udirono. Di tempo in tempo Silla fremeva, pronunciava, leggendo, alcune parole; ed ella allora, alitando affannosamente, appuntava l'indice sul manoscritto.
“Ti ricordi questo?” le diss'egli una volta. continuando a leggere.
“Tutto, tutto” rispose. “Leggi qui, leggi forte.”
Silla lesse: "Dicevano che rinascerei, che vivrei ancora qui tra queste mura, qui mi vendicherei, qui amerei Renato e sarei amata da lui; dicevano un'altra cosa buia, incomprensibile, indecifrabile; forse il nome ch'egli porterà allora".
“E tu non ricordi!” diss'ella dolorosamente.
Egli non la intese, soggiogato dal fascino del manoscritto: tirò via a leggere in silenzio. Un altro passo lo fe' inorridire, lo costrinse ad alzar la voce leggendo:
"Allora, allora vorrei rizzarmi sul cataletto e parlare."
“E ho parlato” diss'ella “l'altra notte, come se fossi appena uscita dal cataletto; l'ho ferito a morte.”
Silla non le badò, continuò a leggere. Giunto alle parole: "Quando nella seconda vita", si vide strappar di mano il manoscritto da Marina, che gli prese poi a due mani la testa, gliela curvò, gliela strinse.
“E tu non credevi!” disse. “Ma poi ti ho perdonato perché ti amo, perché Dio, vedi, Dio vuole così; e poi perché anch'io, sulle prime, non ho creduto. Ecco, mi sono inginocchiata qui. Così.”
Cadde ginocchioni, appoggiò le braccia e il capo sulla ribalta dello stipo.
“E ho pensato, ho pensato, ho cercato nella mia memoria. Niente. Ma poi la fede m'è venuta come un fulmine, ho creduto” soggiunse balzando in piedi, mettendo una mano sulla spalla di Silla “e adesso, da pochi giorni, mi ricordo di tutto, di ogni minuzia.” Si fermò, lo guardò un momento negli occhi, e, piegato il capo sul petto, disse teneramente:
“Non comprendi che sono stata, che l'anima mia è stata nella tomba tanto e tanto, non so quanto, prima di sciogliersi da quell'altra cosa orribile? Parlami d'amore, vedi quanto ho sofferto. Spero che ti ricorderai anche tu. Ti ho le labbra sul cuore; vorrei vedervi dentro, aiutarti a trovare. E t'ho amato subito, sai; appena ti vidi, la prima volta.”
La ragione di Silla si oscurava ancora per il turbamento della lettura, per la molle bellezza di Marina, per la voce blanda, più voluttuosa del tocco.
Ella rialzò il capo. “Ma non volevo” disse. “Bisogna pure che ti dica tutto. Credevo che il conte Cesare ti avesse fatto venire per me; volevo odiarti, mi sarei morsa il cuore perché, quando ti vedevo, quando ti udivo, palpitava. Ah, quella sera in barca, dopo le tue parole superbe, insolenti, se tu avessi osato! Quando mi riconducesti alla cappelletta...”
“Alla darsena” diss'egli involontariamente.
Ella fece un gesto d'impazienza.
“Ma no! Alla cappelletta: non ti ricordi? Quando mi riconducesti là e mi lasciasti, gittandomi il mio primo nome, caddi come morta. Ripensai e compresi; mi dissi: è lui, sarà lui; presto o tardi, contro tutto, contro tutti, sarà lui, qui. Vengono i Salvador, per me. Lo sai che son parenti della famiglia d'Ormengo? Allora Dio, perché la volontà di Dio sfolgora in tutta questa cosa, Dio mi fece vedere la vendetta che veniva da sé. Guarda, la sera stessa in cui fu conchiuso il matrimonio... sai, dopo avergli detto sì, ebbi un'ora di sfiducia terribile... seppi che Lorenzo eri tu. Si stabilì il 29 aprile per il matrimonio. Io scrissi a Parigi... no, non a Parigi, a Milano; come mi si confondono i nomi! Volevo sapere mille cose di te. Tu non ci andavi mai, da Giulia. Intanto il 29 aprile si avvicinava. Quando penso com'ero fredda e sicura in principio! Negli ultimi giorni non lo ero più. Avevo la febbre tutte le notti: la febbre! Volevo sposarlo e poi calpestarlo, per amor tuo, ma tu non venivi mai. Feci differire il matrimonio di un giorno. La notte prima, che notte! alzai le mani a Dio dal mio letto. Allora Dio mi ha toccato qui.”
Ella prese una mano di Silla, se la pose sulla fronte.
“Mi ha toccato qui e ho visto quel che dovevo fare. Sono andata giù, gli ho parlato. La sera dopo ti mandai il telegramma. E tu, allora?”
Silla si sentiva assalire furiosamente alla sua volta dalla follìa. Le pareti, lo stipo, gli occhi di Marina, la solitaria candela gli rotavano in giro vertiginosamente. Non ebbe il tempo di rispondere perché l'uscio che dalla camera da letto metteva nel corridoio, sonò di più colpi, fu aperto con violenza. Una figura che per lungo tempo non si era fatta vedere al Palazzo, vi aveva fatto ritorno nel cuore della notte, un'ora prima, mentre Silla attendeva Marina sulla scaletta. Giovanna vegliava presso il conte sopito. Gli altri dormivano sognando nel dolce sonno primaverile, chi il fragor di Milano, chi la quiete di Venezia, chi eredità, chi pranzi, chi Nina dalle braccia di neve. Ogni cancello, ogni porta s'erano aperti a quest'ospite, con l'atterrita obbedienza muta di servi sorpresi dal ritorno impensato del signore. Era salito sino alla camera del conte, e ciascuna pietra della casa aveva intanto sussurrato alla vicina il suo funebre nome:
"MORTE"
“Marchesina, marchesina!” esclamò Fanny entrando. Vide Silla e tacque, fulminata. Silla si staccò da Marina, si trasse un passo indietro. Marina, sorpresa un momento, si riebbe tosto, gli riprese la mano sdegnando dissimulare, vibrò a Fanny un imperioso:
“Che hai?”
“Il signor conte!” rispose Fanny.
“Ebbene?”
“C'è venuto un altro accidente un'ora fa e adesso è dietro a morire! Han detto di venir giù, di far presto.”
Marina spiccò un salto verso la cameriera.
“Muore?” diss'ella.
Fanny aveva ben visto alla sua padrona, da tre giorni, degli occhi strani; mai come in quel punto. Sgomentata, non rispose. Stava sulla porta col lume in mano, scarmigliata, nudo il collo, guardando Marina con occhi stralunati, torbidi ancora di sonno.
“Vieni!” disse Marina a Silla, e si slanciò, tenendolo per mano, nel corridoio oscuro.
“C'è giù anche il prete” disse Fanny ripigliando fiato.
Silla aveva voluto, al primo momento, resistere, gittar da sé la mano nervosa che lo stringeva, ma una voce gli aveva gridato dentro: "Vile! adesso l'abbandoni?". Seguì Marina. Fanny veniva lor dietro tenendo alto il lume, stupefatta, ricacciandosi in gola una fila di esclamazioni.
Il lume stesso pareva agitarsi pieno d'angoscia come se giungesse incontro ad esso, pel corridoio nero, il soffio grave e solenne della morte.
Veniva su per la scala il chiarore d'un altro lume. Qualcuno chiamò dal basso:
“Signora Fanny, signora Fanny!”
Era il cameriere che saliva affannato col lume in mano. Domandò a Fanny, senza badare agli altri due, se avesse un crocifisso.
“No, no, nella camera della signora Giovanna, nella camera della signora Giovanna!” gli gridò dietro, dal fondo, la voce di Catte. Fanny si mise a singhiozzare, e il cameriere, fatto un gesto di fastidio, ridiscese, scambiò parole veementi con Catte. Una porta lontana s'aperse, qualcuno zittì sdegnosamente. Subito dopo la voce tranquilla del medico disse forte:
“Ghiaccio!”
Voci sommesse, frettolose, ripetevano:
“Ghiaccio, ghiaccio!”
Marina non correva più, scendeva adagio adagio, trepida suo malgrado. Le ombre del Palazzo erano piene di terrore augusto; quelle voci spaventate, quei lumi di cui si vedevan qua e là fugaci riverberi, lo accrescevano. Prima ch'ella mettesse piede sul corridoio del piano inferiore, passarono il Vezza ed il Mirovich, senza cravatta né solino; curvi, frettolosi. Il giardiniere che recava il ghiaccio li raggiunse, li urtò col gomito, passò loro
davanti. Improvvisamente si udì la voce sonora di don Innocenzo:
“ Renova in eo, piissime Pater, quidquid terrena fragilitate...”
Poi più nulla. Certo un uscio era stato aperto e richiuso.
Marina e Silla uscirono sul corridoio seguiti da Fanny, videro il Vezza e il Mirovich aprir piano piano l'uscio del conte, scivolar dentro; udirono ancora per un istante, la voce di don Innocenzo:
“Commendo te omnipotenti Deo.”
Fanny die' in uno strido, posò il lume a terra e fuggì.
Marina si fermò, si voltò a guardarla.
“Stupida!” diss'ella. Poi sussurrò a Silla:
“L'altra notte, andando da lui a vendicarmi, son caduta qui, a quest'ora stessa. Non te l'ho detto che l'ho ferito a morte?”
E fe' un passo avanti. Ma in quel punto si sentì cinger la vita dalle mani poderose di Silla, riportar di peso sulla scala. Tacque un momento, sbalordita; quindi, ingannandosi sulle intenzioni di lui, gli disse sorridendo:
“Dopo!”
Egli non parlò.
“Lasciami dunque!”
“No” rispose Silla. Non era più la ebbra voce di prima; era la voce d'uno che vede subitamente qualche cosa orribile.
“Come?” diss'ella.
Si contorse tutta, si divincolò, quale una serpe nell'artiglio dello sparviero. Si racchetò subito, cupa.
“Ohe, quel lume! Chi ha lasciato lì quel lume?” disse Catte che veniva dal lato opposto alla camera del conte. Un'altra voce commossa ripeteva: "Gesummaria, Gesummaria!"
Fanny aveva posato il lume sul primo scalino. Catte e la contessa Fosca passarono, guardarono su per la scala, si fermarono. Allora Silla, quasi involontariamente, lasciò libera Marina, che saltò nel corridoio sugli occhi attoniti delle due donne e passò loro davanti, senza salutarle. La contessa Fosca tutta imbacuccata in un gran scialle nero, guardò Silla con un lampo, sul suo faccione volgare, di severa dignità; non disse motto e passò oltre. Silla discese nel corridoio, la vide entrare con Catte nella camera del conte. Non vide Marina, capì che doveva esservi già entrata, si batté rabbiosamente i pugni sulla fronte. Balzò quindi in punta di piedi all'uscio del moribondo e origliò.
“Suscipe, Domine” diceva don Innocenzo “servum tuum in locum sperandae sibi salvationis a misericordia tua.”
Una larga voce, breve e grave come un soffio di organo appena tocco, rispose:
“Amen.”
Silla strinse, come chi affoga, la maniglia dell'uscio. Questo fu aperto; si sussurrò: “Avanti!”.
Egli entrò, non guardò, non vide; cadde ginocchioni presso una sedia, accanto alla porta.
La luce d'una candela posata a terra presso il letto batteva sulle bianche lenzuola cadenti, sui pomi d'ottone della lettiera, sui frantumi di ghiaccio sparsi pel pavimento; gittava attraverso la camera la grande ombra di don Innocenzo, ritto presso al moribondo di cui si udiva il rantolo affannoso, precipitato. Da piè del letto, nella penombra, stava il medico, ritto; accanto a lui Giovanna, inginocchiata, soffocava i singhiozzi nelle coltri. Dispersi nelle ombre dell'ampia camera erano inginocchiati la contessa Fosca e suo figlio, il Vezza, i domestici, il giardiniere. Questi e il cameriere del conte piangevano. Il Mirovich, vecchio mondano, stava appoggiato alla parete in un angolo. Se ne sarebbe andato volentieri; restava per un riguardo alla contessa.
Un'altra persona era in piedi in mezzo alla camera, a pochi passi dall'uscio: Marina. Le si vedevan bene la punta lucida, vibrante d'uno stivaletto, la gonna bianca a ricami azzurri; pareva tener le braccia incrociate sul petto; del viso nulla discernevano né la contessa Fosca, né suo figlio, né il Vezza che le avean gli occhi addosso.
Don Innocenzo proferiva ad alta voce le preghiere commendationis animae con Rituale alla mano, senza leggervi mai. Non mostrò avvedersi di Marina né di Silla. Non dipartiva lo sguardo da quella testa con la bocca aperta e gli occhi chiusi, coperta di ghiaccio, inclinata sull'omero sinistro, cadaverica. Parlava con accento di profonda pietà: quando disse “ignorantias eius, quaesumus, ne memineris, Domine”, le parole suonarono più alte e commosse, parvero esprimere un'appassionata fede, che Dio accoglierebbe nella sua pace quello spirito, il quale, dopo aver operato il bene sulla terra senza pensare a Lui, Gli giungeva davanti come chi navigando diritto e fermo verso una mèta conosciuta, trovò invece gran terre nuove e gloria imperitura. In quella notte d'angoscia e di trepidi bisbigli, le sonore parole sacre volte con tanta fede a un Essere affermato presente e invisibile sopra l'uomo colpito da Lui, affermato padrone di chi Gli parlava e di tutti i circostanti credenti o no, empivano la camera di sgomento. Si sentivano due potenze sovrumane a fronte: una luminosa, eloquente, infocata di pietà, tenace, instancabile; l'altra buia, muta. E questo appariva grande, che la prima, disconosciuta dal giacente e in vita e in morte, offesane con parole d'indifferenza, fors'anche di spregio, veniva nell'ultima sua ora, non richiesta da lui, non potendone più attendere né bene né male, a coprirlo, a difenderlo, a parlare alto per esso in un giudizio terribile. Quando il prete sostava per qualche istante, s'udiva il moribondo ansar precipitosamente come se un leone gli si fosse accosciato su. A un tratto quel rantolo parve mancare.
“È la fine” disse don Innocenzo volgendosi agli astanti. Vide Marina in piedi, le accennò che s'inginocchiasse, poi si curvò sul letto, pronunciò con voce chiara le ultime preghiere.
Marina fece due passi avanti; il lume della candela ascese fino al suo viso pallido, alle nari frementi, alle sopracciglia contratte.
“Conte Cesare!” diss'ella.
Tutti trasalirono, si rizzarono sulle ginocchia, esterrefatti, a guardarla: tutti, tranne don Innocenzo. Questi non fece che un gesto, con la sinistra, verso lei.
Ella non indietreggiò, non piegò. Stese le braccia, appuntò gl'indici, come due pugnali, al morente, esclamò:
“Cecilia è qui...”
Un fremito d'esclamazioni sorde, uno scricchiolar di seggiole, un fruscio di piedi corse per la stanza. Don Innocenzo si voltò:
“Via!” diss'egli.
Nepo, il Vezza, il Mirovich fecero un passo verso la donna ritta in mezzo alla camera come un fantasma.
“In nome del Signore la conducano via!” singhiozzò Giovanna. “È lei che l'ha ucciso!”
Nello stesso istante Marina gittò indietro le braccia coi pugni chiusi, piegò avanti il viso e il petto. Nessuno dei tre osò avvicinarsele, fermarle parole stridenti:
“Con il suo amante!...”
Allora fu visto Silla slanciarsi a lei, levarla tra le braccia.
“Per vederti morire!” gridò ella in aria, dibattendosi. Fu un lampo; si udì un'usciata violenta. Silla e Marina sparvero, la camera tornò silenziosa. Nepo, il Vezza e l'avvocato mossero in punta di piedi verso la porta.
“Nepo!” disse la contessa Fosca sottovoce, con forza. “Qui!”
Egli obbedì, le andò vicino. Gli altri due uscirono.
“Il conte Cesare non ha potuto udir parola” disse don Innocenzo pigliando la candela e posandola sul comodino. “Egli dorme in pace.”
Il medico si avvicinò, posò una mano sul cuore del conte, trasse l'orologio e disse forte:
“Un'ora e trentacinque minuti.”
Don Innocenzo cominciò subito le preghiere per l'anima partita.
Una voce chiamò dalla porta il medico, che uscì. Anche i domestici, per ordine di Nepo, uscirono tutti, tranne Giovanna che, inginocchiata al letto del suo padrone, rispondeva con voce debole, desolata, alle preghiere del curato. Nepo accese due candele che erano sul cassettone. Le fiammelle, allargandosi come due occhi spaventati, mostrarono poco a poco al suo viso cupido le chiavi del conte sul cassettone, la contessa Fosca pochi passi discosto, il Mirovich che rientrava pallido, col ribrezzo sul volto della cosa stesa sul letto, a sinistra. Costui si fermò sulla porta e guardò Nepo, aggrottando le sopracciglia. La contessa lo vide, ruppe in singhiozzi, andò a stendergli il braccio che il vecchio cavaliere prese ossequiosamente, e uscì con esso.
Nepo tolse le chiavi e una candela: si provò pian piano ad aprire uno stipo addossato alla parete di fronte al letto tentando tutte le chiavi senza riuscirvi.
“Oh Signore!” disse la Giovanna con accorato sdegno. Don Innocenzo s'interruppe.
“0 pregare o uscire” diss'egli.
Ma Nepo non gli badò. Curvo sullo stipo, girando la chiave nella serratura, figgendovi quasi il lungo naso, pareva una donnola fremebonda, inarcata a spiare, a odorar per qualche pertugio la preda.
La collera salì al viso di don Innocenzo.
“Vado io” disse.
Avrebbe afferrato colui, lo avrebbe gittato alla porta se Giovanna, supplichevole, non lo avesse trattenuto.
“Lasci stare” diss'ella “seguiti, seguiti, non me lo abbandoni”
Intanto Nepo aveva trovata la chiave buona, aperto lo stipo e trattane, dopo breve frugare, una carta piegata. L'accostò alla candela cui reggeva con la sinistra, vi lesse una soprascritta, abbruciandosi i capelli. Il Mirovich, rientrato allora senza ch'egli se ne avvedesse, gli si avvicinò, gli disse con la sua severa voce proba:
“A me.”
“Bisogna leggere subito” disse Nepo, confuso. “Voglio sapere dove sono, in casa di chi.”
Uscirono insieme.
Anche le preghiere in expiratione erano finite. Don Innocenzo pregò ancora per qualche tempo, indi tolse congedo da Giovanna, che non fu in grado di articolar parola.
La povera vecchia rimasta sola col padrone, pose sulla testiera del letto le candele accese da Nepo, mise a posto le seggiole sparse per la stanza, studiandosi di non far rumore come se il conte dormisse. Sedette poscia presso al letto guardando il crocifisso posato sul petto del cadavere. Ella aveva fedelmente, umilmente servito il conte per quarant'anni, senza toccarne mai parole aspre né affettuose, ma sentendone la intiera fiducia e una coperta benevolenza. Gli aveva sempre voluto, in vita, un bene rispettoso, da essere inferiore. Mai mai non gli era stata così vicina come adesso ch'egli non era più il padrone in casa sua, che gente estranea metteva mano liberamente alle chiavi, mentre ella sola di tanti servi, di tanti amici gli rimaneva accanto, devota come nei giorni passati della sua alterezza, della sua forza. Mai mai non gli era stata così vicina come adesso che la croce gli posava sul cuore; una piccola croce tolta quella notte dalla camera di lei. Si alzò, venne a baciar per la prima volta, una dopo l'altra, le mani inerti fra cui la croce posava, ne provò consolazione infinita e pianse.




(continua)

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Don Innocenzo, escito nel corridoio, lo trovò scuro. Fatti pochi passi pian piano tastando il muro, perdette la tramontana e si fermò, disposto a retrocedere in cerca di lume. Stette in ascolto. Udì strida e lamenti che venivano dall'alto, a intervalli; anche parole, ma non gli riuscì di afferrarne alcuna. Riconobbe però la voce di donna Marina. Nessuno rispondeva. Colpi sordi di passi frettolosi attraversavano il soffitto del corridoio, poi tacevano. Al di sotto, a fronte di don Innocenzo, tutto era silenzio come alle sue spalle. Che accadeva lassù? Le strida i lamenti continuavano. Ore d'angoscia in cui il cuore della casa tace, vuoto di vita e un'agitazione mista di stupore e disordine invade le membra senza governo! Don Innocenzo, calmo al cospetto della morte, calmo durante la terribile apparizione di Marina, qui si turbava.
Un passo rapido risuonò sul soffitto, traboccò per la scala nel corridoio.
“Lume!” disse don Innocenzo.
“Ah, Signore!” esclamò colui ch'era disceso, correndo via a precipizio nel buio.
Il curato riconobbe il Rico, lo chiamò, ma inutilmente.
Si vide aprire e sparire a fronte una luce debole, andò avanti a caso e, spinto un uscio, si trovò in loggia.
“Ah, il signor curato!” disse il Rico che stava per scappare dall'altra parte.
Potevano essere le due. Faceva fresco. Il cielo si era tutto coperto daccapo di nuvole malinconicamente chiare fra la luna invisibile, appena spuntata, e il tacito specchio del lago.
“Vien qua!” disse il curato. “Dove vai?”
“Vado a pigliar la medicina.”
“Cosa c'è?”
“Che senta!”
Le grida ricominciarono, in quel momento, più distinte. Don Innocenzo s'affacciò alla balaustrata, guardò in alto a destra, vide illuminata la finestra d'angolo del piano superiore. La voce veniva di lassù. Adesso parevano rimproveri, imprecazioni, poi lamenti, poi silenzio.
“È la signora donna Marina” disse il Rico sottovoce. “È come matta. C'è su il signor dottore e il signor Silla. La gliene dice di tutti i colori al signor Silla.”
“Non c'è nessun altro?”
“C'è anche la mia mamma. C'è stata un momento la signora Fanny, ma è scappata.”
“E tu cosa vai a prendere?”
“Lo so io? Il signor dottore ha detto un certo nome come corallo. E mi ha detto di chiamare la Luisa del Battista per venire a curarla.”
Don Innocenzo si tolse la lettera di tasca e la diede al ragazzo.
“Portala” diss'egli “nella camera del signor Silla e poi discendiamo insieme.”
Anche nell'altr'ala del Palazzo cominciava allora un'agitazione sorda.
Da più d'una fessura d'uscio trapelavan lume e bisbigli. I fili dei campanelli trasalivano, sussultavano impazienti: se ne udiva strillar lontano la voce chiara, imperiosa. Sulle scale don Innocenzo e il Rico trovarono Momolo che scendeva con un lume.
“Forse si va!” diss'egli. Essi non risposero.
Esciti che furono dal Palazzo, il Rico partì di corsa per la sua missione, il curato si incamminò lentamente guardando i grandi cipressi pensosi. Al cancello incontrò Steinegge. “Lei qui?” diss'egli.
“La campana: ho inteso la campana” rispose Steinegge con voce commossa. “Oh, questo è un dolore! Io dovrei piangere per quest'uomo.”
Egli abbracciò e baciò don Innocenzo, soffocando un singhiozzo, poi disse in fretta:
“Si può andare avanti? Ha visto il signor Silla?”
“Eh!” rispose don Innocenzo. “Altro che visto!” e raccontò la lunga scena, poi quanto gli aveva riferito il Rico.
Steinegge fremeva, sbuffava; non lasciò quasi che don Innocenzo finisse e corse via con un gesto risoluto che voleva dire: “Vado io”. Entrò nel Palazzo mentre ne usciva il giardiniere, che pareva aver gran fretta e non lo riconobbe.
Salendo le scale incontrò Fanny che scendeva con Catte singhiozzando, ripetendo:
“Voglio andar via, voglio andar via!”
“Andrete, andrete” rispondeva Catte “ma pazienza, benedetta. Volete lasciar la vostra padrona in quello stato?”
“So di niente, io, voglio andar via!”
“Madre santa, che vita!” disse Catte a Steinegge, che stringendosi alla ringhiera per lasciarle passare, le guardava attonito. Egli stava per domandar loro qualche cosa, quando la contessa Fosca gridò dall'alto:
“Ohe, questo Momolo!”
“Subito, Eccellenza!” rispose Catte, e scese in fretta, trascinando giù Fanny. Steinegge continuò, pure in fretta, a salire.
“Momolo” disse la contessa, scambiando Steinegge pel suo servitore “avrà inteso bene, eh, quell'altro? Un legno e un biroccino alle sei. Ah, siete voi? Scusate, caro voi.”
“Parte, la signora contessa?”
“Sì, sì, e maledetta quella volta che son venuta.”
Nepo chiamò sua madre all'uscio del salotto. Si vide dietro a lui l'avvocato Mirovich seduto al tavolo con una lucerna, un calamaio e due gran fogli davanti a sé. La contessa entrò in salotto e l'uscio ne fu richiuso sul viso a Steinegge. Questi trovò nella loggia il Vezza appoggiato alla balaustrata verso il lago; gli si avvicinò col cappello in mano per parlargli; ma colui, guardatolo appena e accennatogli di tacere, volse il capo dall'altra parte, ascoltando.
Si udì un gemito lungo, debole.
“Donna Marina?” disse Steinegge.
L'altro non rispose, ascoltò ancora. Non si udì più nulla. Allora quegli, come uscisse da un sogno, si mise a parlare affrettatamente:
“Cose orribili, sa. Le hanno detto?...”
“Sì, mi ha detto qualche cosa il signor curato.”
“Oh, Lei non ha idea di quel momento! Guardi.”
Il Vezza rappresentò tutta la scena appuntino, parlando sottovoce, interrompendosi tratto tratto per ascoltare.
“Io esco” diss'egli poi “con l'avvocato Mirovich, sa, l'avvocato dei Salvador. Trovo nel corridoio donna Marina in preda a convulsioni terribili. Non gridava perché aveva addentato l'abito dell'altro qui al petto, gemeva. Si chiama il medico, la cameriera, la moglie del giardiniere. A gran pena riescono a trarla su per la scala, senza poterle aprir la bocca.
Dopo non so più niente di positivo; deve aver continuato il delirio violento. Adesso si capisce che è più tranquilla, ma fino a poco fa sono state, mi dicono, urla, maledizioni, suppliche incomposte. Parlava sempre a quell'altro. Ed egli è là, capisce? Non è disceso mai. Oh! cose incredibili. Quando si pensa quella scena, qui in loggia l'anno scorso! A proposito, lo sa che stanotte quando il povero Cesare ebbe l'ultimo attacco, loro due erano insieme?”
“Erano insieme?”
“Insieme, insieme! Li ha trovati la Fanny in camera da letto.”
“Oh!” esclamò Steinegge. Gittò via il cappello, rimase a braccia aperte.
“Insieme” riprese il Vezza dopo un breve silenzio. “E in un momento lo hanno saputo tutti.”
“Commendatore” disse Nepo dall'altro capo della loggia “vuol favorire?”
Il commendatore uscì, rientrò pochi minuti dopo.
“Che confusione!” diss'egli. “Lo sa che partono?”
“Chi?” rispose Steinegge distratto.
“I Salvador; alle sei. Che vuole? Appena successa la disgrazia, il conte Nepo non ha perso tempo, ha cercato e trovato il testamento ch'è olografo e ha la data di quindici giorni sono. L'ospitale di Novara è erede universale. Per i Salvador ci sarà forse questione, perché c'è ordine all'erede di vender la possessione di Lomellina, onde soddisfare entro due anni le trecentoventimila lire di cui, dice il testatore, "faccio donazione a mio cugino il conte Nepomuceno Salvador di Venezia". Donna Marina non ha niente. C'è poi una infinità di legati. Cesare si è ricordato di tutti, da gentiluomo, veramente. C'è anche un assegno vitalizio per Lei. Io sono esecutore testamentario. Del resto è ben naturale che i Salvador se ne vadano; non c'è neanche onore, per loro, a restar qui. Il conte avrebbe voluto fare del chiasso, che so io, battersi; ma se n'è lasciato dissuadere subito.”
Catte venne a pregare il commendatore di andare ancora dalla contessa, e Steinegge rimase solo.
Non era stato mai un gran sognatore il povero Steinegge, pure qualche sogno, durante il suo mezzo secolo di vita, l'avea fatto anche lui, di tempo in tempo; qualche piccolo sogno come la libertà della patria, la pace della famiglia. Il suo ultimo sogno, umile e timido, era stato che sua moglie sarebbe guarita e che avrebbero trovato un pane in Alsazia; soffiatogli via dalla fortuna anche questo, non aveva sognato più.
Per meglio dire, non aveva più creduto di sognare, perché adesso, guardando il lago dalla loggia del Palazzo, e sentendosi il cuore tutto amaro, capì che un'altra speranza, natagli spontaneamente, inavvertita da lui, gli si era rotta e gli faceva male. Chi avrebbe pensato che Silla potesse dissimulare a quel modo? Deliberò di aspettarlo.
Nessuna voce veniva più dalla camera di Marina; tutta quell'ala del Palazzo era muta. Dall'altra parte si udivano ancora spesso colpi d'usci sbattuti, strilli di campanelli. Spesso si apriva la porta della loggia, si chiamava sommessamente un nome o l'altro. Nessuno rispondeva; una testa usciva a guardare, poi spariva e l'uscio si richiudeva lentamente. Voci di donne si alzavano un momento in litigio, ma erano fatte tacere subito. Passi frequenti crosciavano sulla ghiaia del cortile, salivano la scalinata; in alto, pei sentieri del vigneto si gridava e qualche volta si rideva. Per fortuna i bagagli dei Salvador eran quasi pronti fin da due giorni prima; la contessa li faceva portar su alla casetta del giardiniere.
Steinegge, fermo in loggia all'ultima arcata di ponente, con le spalle al lago, le braccia incrociate sul petto, aspettò a lungo, con gli occhi sulla porta onde sperava veder uscire Silla.
Finalmente udì venire pel corridoio i passi di due persone. Ascoltò trattenendo il fiato; non parlavano. La porta si aperse.
“Siamo intesi, dottore” disse Silla. “Riferisca le condizioni gravi in cui ho dovuto prestare la mia assistenza; riferisca lo stato di sopore e di abbattimento in cui ella si trova presentemente, e se qualcuno Le domanda di me, La prego rispondere a nome mio che per un'ora mi si troverà qui in loggia.”
La voce era sinistramente fredda. Qualcuno che portava un lume tornò indietro; il medico attraversò la loggia, Silla vi entrò dopo di lui.
Steinegge gli si fece incontro.
“Signor Silla!” diss'egli.
L'altro non gli rispose, non si voltò nemmanco a guardarlo, andò a buttar le braccia sulla balaustrata verso il cortile.
Steinegge fece un altro passo.
“Signor Silla, non mi riconoscete?”
Silenzio.
“Ah, quand'è così, bene.”
Egli tornò dov'era prima e tacque, guardando Silla che non si muoveva.
“Io non so” diss'egli. “Io non credo aver meritato questo.”
Nessuna risposta.
“Questo è amaro, signor Silla, di venire come amico ed essere accolto così! Io voleva solamente dirvi che io avrei preferito non vedervi più mai qui; anche adesso io vorrei piuttosto vedere una buona onesta bocca di fucile sul Vostro petto, per Dio! Ero venuto per dire a Voi questo e altre cose, ma poiché Voi non volete ascoltarmi, io vado. Addio.” S'incamminò per uscire. Allora Silla, senza voltare il capo, gli disse freddamente:
“Dica a Sua figlia che ho tenuto parola e son caduto a fondo.”
“A mia figlia! Questo?”
“Sì, e adesso vada. Vada, vada via!” ripeté Silla con passione improvvisa perché Steinegge, sorpreso, tornava verso di lui. Questi piegò il capo in atto di rassegnazione e se n'andò.
Due lanterne, un corteo silenzioso attraversano il cortile. Subito dopo il commendatore viene ad avvertire Silla che i Salvador sono andati ad aspettar la carrozza in casa del giardiniere, e che, s'egli desidera, può comunicargli una disposizione del conte che lo riguarda.
L'uscio si chiuse dietro a loro, la loggia rimase vuota.





(continua)

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I classici - Malombra - di Antonio Fogazzaro


5. Inetto a vivere


L'alba nasceva sopra i grandi sassi malinconici dell'Alpe dei Fiori, circonfusi da ondate di nebbia; scopriva le alte cime grigie, sonnolente nei loro umidi mantelli di boschi, le ultime colline di ponente sfumate in un chiaror di piova, il lago plumbeo. Lì sul lago non pioveva ancora. Non si moveva fronda de' fichi, de' gelsi, degli olivi pendenti dai campicelli delle rive sull'acqua morta; le loro immagini e quelle dei muriccioli, delle rade casupole, dei sassi cespugliosi vi tacevano ferme, intere. Ma da ponente la piova veniva avanti come una vela obliqua dal cielo alla terra, sempre più grande. I pioppi delle praterie la sentivano vicina, ne avevano i brividi. Anche il lago cominciava laggiù a fremere, a picchiettarsi di brevi macchie scure. Queste corsero avanti spandendosi rapidamente, si confusero in una sola striscia rugosa, in una fila di ondicine tremole che si spiegavano a ventaglio, silenziose nell'alto, bisbigliando lungo le sponde. E in queste sponde solitarie, nel lago stesso diviso più che mai dal mondo, diviso, parea per sempre, dal sole, era un arcano raccoglimento pieno di pensieri gravi, d'intimi colloqui sommessi, una quiete di chiostro in cui l'aria e le pietre parlano di alti misteri e di occulte passioni.
Le colline sparvero del tutto dietro il bianco velo della piova su cui si disegnavano neri i pioppi delle praterie, che uno dopo l'altro, da' più lontani a' più vicini, diventavan grigi essi pure, si dileguavano come fantasmi fugati dal giorno. Intanto le ondicine venivano avanti, sempre avanti, movevano in file serrate al Palazzo. E vennero a battere gorgogliando le mura, entrarono a sussurrare curiose nella darsena. Nessuna voce rispose loro. L'ala di ponente aveva tutte le finestre chiuse, ma l'altra le aveva in gran parte spalancate. Pure nemmeno da questa veniva voce né segno alcuno di vita, benché vi parlasse un disordine di letti sfatti, di cassetti aperti, di sedie scioccamente ritte in mezzo alle stanze; benché vi apparisse, a una finestra del secondo piano, una figura umana pietrificata, più pallida di quell'alba.
Appena lasciato il Vezza che gli aveva partecipate certe disposizioni del conte, Silla era venuto a cadere sul davanzale della finestra. Sapeva ora che Marina non era nemmeno nominata nel testamento e che a lui il conte aveva legate le suppellettili appartenute a sua madre, una cassetta di lettere e diecimila lire a titolo di compenso per il lavoro scientifico incominciato l'anno precedente e da proseguire come e quando Silla crederebbe meglio. Ma egli non pensava a questo; guardava venire avanti lentamente il giorno, la piova, le onde. Gli occhi vedevano male: si sentiva la testa grave più del piombo, il petto voto d'ogni sentimento. Si conosceva affondato nel disonore della sua azione sleale, in una cupa necessità: legarsi a Marina, pazza o no. Ed era tranquillo, freddo sino al cuore. Il cielo, il lago, la piova vicina gli consigliavano sonno. Chiuse la finestra, si gittò vestito sul letto. Lo trovò soffice, morbido più che mai, sentì dolce come una carezza la tela del guanciale, desiderò dormire, dimenticare; si assopì e vide uno sconosciuto che lo guardava.
Lo guardava placidamente, per qualche tempo; quindi alzando le spalle e le sopracciglia, porgendo le mani aperte, scoteva il capo quasi per dire: non c'è verso. Silla credette capire, come a cosa più naturale del mondo, che colui gesticolava sì, ma non poteva parlare perché era morto. Allora lo riconobbe tosto per un vecchio amico di famiglia suicidatosi quindici anni prima. Ne riconobbe la gran fronte calva, il mento raso, aguzzo fra due solini diritti, sopra una cravatta nera con la spilla di malachite. Meravigliò in pari tempo di non averlo riconosciuto subito; dovea saperlo che sarebbe venuto. Infatti il fantasma, leggendogli nel pensiero, gli sorrise. Quel sorriso fu per Silla un'altra rivelazione. Vide in se stesso tutta la occulta via di un pensiero, dai giorni dell'adolescenza sino a quel momento. Aveva cominciato da una dolce malinconia, dal desiderio vago di una patria lontana: era diventato poscia presentimento fugace, quindi sospetto sempre combattuto, sempre più gagliardo, sempre coperto di segreto come qualche lento male orribile che ci rode, di cui si vede il nome col pensiero e non vogliamo confessarlo mai; prevaleva finalmente, alla volontà, diventava un ragionamento irrefutabile, una sentenza opprimente in tre parole: INETTO A VIVERE. Silla se le vedeva dentro chiare queste tre parole, e il fantasma sorrideva sempre, si avvicinava, gli procedeva pesante su per la persona, con gli occhi sbarrati, mettendogli un gelo nelle ossa, fermandogli il respiro. Quando giunse al cuore, Silla non vide né intese più nulla.
Gli parve svegliarsi solo, provare una dolcezza infinita e dire fra sé "adesso non sogno". Era in un altro mondo, quasi senza luce, tutto silenzio e riposo. Guardava, steso bocconi, in un'acqua immobile, vedeva passarvi dentro lentamente la immagine di un globo alto nel cielo, color d'alba piovosa: e ripeteva seco stesso: "Eccolo, ne son fuori, son pur fuori di un gran mondo tristo". Era una consolazione profonda e tenera la sua,come si prova in un sogno d'amore. Ma gli parve a un tratto che quel globo color d'alba piovosa non procedesse più pel suo cammino, si avvide che ingrandiva rapidamente, smisuratamente: colto da indicibile terrore, si svegliò.
Si vide davanti, per la finestra aperta, un largo chiarore bianco, alzò la testa inorridito, sognando ancora. Quando, raccapezzatosi, si rizzò a sedere sul letto, sentì, poco a poco, che il cuore gli doleva, la testa pesava tuttavia come il piombo, le membra erano tutte intirizzite dalla fredda aria umida della finestra; e disse a mezza voce rispondendo al proprio sogno: "È vero, morire, non c'è altro; dormire ancora. Dormire, dormire". Sopra il capezzale l'angelo appassionato del Guercino pregava per lui con ardor veemente, gridava a Dio: "Chi lo ha gittato sulla terra? Chi gli negò il sospiro dell'anima sua? Chi lo mise inconscio, lo trattenne, lo ricondusse sulla via di quest'ora angosciosa?".
Silla si guardò involontariamente nello specchio scuro di fronte al letto. Vide appena un viso pallido, due occhi spenti. Pensò che pareva già morto e ch'era stato così pallido altre volte dopo un'ebbrezza tetra di sensi, nel doloroso sdegno dell'anima. Ora non v'era più sdegno in lui né forza alcuna; lo stesso proposito di morire che lo invadeva era come un infiacchimento, uno sfacelo dello spirito. Scese dal letto, andò barcollando a sedersi al tavolo, si appoggiò i gomiti, reggendosi con le mani il capo addolorato pieno di confusione. Comprendeva in nube, che bisognava pure scrivere qualche cosa a' suoi parenti, alla sua padrona di casa, e non se ne sentiva la forza. Lottò ad occhi chiusi per raccogliere le idee, ne represse con violenza il disordine, stese la mano alla penna e solo allora vide la lettera portata su da Rico. La guardò, non ne riconobbe il carattere, la depose senza aprirla e cominciò a scrivere al cav. Pernetti Anzati, suo zio, invitandolo a sospendere l'invio dei soliti interessi, poiché lui, Silla, era fortunatamente in grado di far dono del capitale alla famiglia Pernetti, statagli tanto amorosa. Prima di voltar pagina riprese quella lettera e l'aperse.
V'erano scritte queste poche linee senza intestazione e senza data:
"Edith S. risponde allo scrittore oscuro ch'egli può diventare grande e forte, contro la fortuna, malgrado l'ingiustizia degli uomini. Edith ha promesso non appartenere ad altri che al suo vecchio padre, il quale ha gran bisogno di lei; ma è libera di portare nell'intimo del suo cuore un nome che le è caro, un'anima che non affonderà mai se ama come lo dice."
Silla sorrise. "Adesso, adesso!" diss'egli. Rilesse il biglietto e si sentì morire.
Trasse il portafogli per chiudervelo, stette sospeso, considerando i caratteri netti e slanciati, pensando alla mano, alla mente pura; e pentitosi della prima idea, compreso della propria indegnità, ripose il portafogli, accese una candela, vi arse lo scritto, ne sparse dalla finestra i brandellini neri al vento e alla pioggia. Mentre li guardava svolazzar via lungo la muraglia, un domestico entrò a dirgli che commendatore gli voleva parlare e lo attendeva nella sua camera. Silla ripose la lettera incominciata, e uscì come stava, con i capelli arruffati, con le vesti in disordine. L'orologio della scala suonò, mentr'egli passava, le nove.
“Qui” disse il commendatore “una sorpresa non aspetta l'altra.”
Silla non fece domande: attendeva che colui parlasse, che anche questa noia fosse passata per sempre. Ma il panciuto soldatino di gomma, invece di parlare, lo guardò fisso con le mani in tasca e la testa piegata sul petto.
“Cosa vuole” diss'egli, lasciando improvvisamente quella attitudine scrutatrice “sono in una condizione penosissima. Si soffoca poi anche, qui dentro.”
Aperse una finestra e andò a cadere in una poltrona di fronte a Silla.
“Penosissima” ripeté.
Silla non aperse bocca.
“E pure” soggiunse il commendatore, sospirando “bisogna starci. Io sono un ambasciatore sa. Un'ora fa donna Marina mi ha mandato a chiamare.”
Silla trasalì.
“Lei si meraviglia. E io dunque? Ma! È così. Potevano essere le otto e un quarto; la moglie del giardiniere viene a svegliarmi e a dirmi che la marchesina mi aspetta. Io sono rimasto di sasso. Come mai? dico. Mi dice che ha dormito senza avere preso medicine di sorta e che si è svegliata circa alle sette, tranquilla, perfettamente in sé. Solo non ha voluto che si aprissero le persiane; ha preferito tenere accesa la candela, anzi farne accendere altre due o tre. Ha domandato, la prima cosa, se Lei è ancora qui, al Palazzo. E poi si fece ripetere i discorsi del suo delirio, tutto l'accaduto dopo...”
Il commendatore si fermò esitando.
“Parli pure” disse.
“Dopo che Lei l'ebbe portata via dalla camera del povero Cesare. E specialmente... scusi, Lei l'ha rimproverata, per quello che ha detto là?”
“A parole non l'ho rimproverata veramente: ma deve aver compreso che mi faceva orrore, perché mi ha vituperato nel suo delirio.”
“Bene, è su questo orrore manifestato da Lei, mi diceva la donna, che la marchesina fece più insistenti domande. Poi si alzò e mi mandò a chiamare. Adesso, senta. Premetto: per me è malata ancora: malatissima! Sta peggio ora di stanotte, per me. Lo si vede quasi più nella bocca che negli occhi; la bocca è alla gran tempesta. Ma è un fatto che mi ha parlato con una freddezza, con una calma da fare sbalordire. Era pallida, se vuole, come un cadavere; ma non importa. Mi domanda perdono di avermi incomodato, con un'affabilità insolita in lei, poi mi dice che nella posizione stranissima in cui si trova, non ha nessuna guida, nessun aiuto; che io sono il migliore amico del suo povero zio e che stima doversi rivolgere a me per consiglio. Io, naturalmente, mi metto a sua disposizione. Ella mi domanda allora... scusi, signor Silla, Lei è disgraziatamente immischiato nelle cose che sono successe qui stanotte. Abbia pazienza, io non voglio farmi suo giudice. Non si offenda se sono costretto di ricordarle queste cose e forse anche di dirne altre che potranno spiacerle.”
“Parli, parli” disse Silla.
“Bene. Mi domanda dunque dei Salvador: perché sono partiti? Io la guardo. "Eh" dico "per questo e per questo. Perché dopo gli avvenimenti di stanotte hanno creduto di non avere più niente da fare, qui." Allora ella mostra di turbarsi un poco, mi dice che comprende e scusa questo procedere, che pur troppo ha tutte le apparenze contro di sé, ma che non è colpevole affatto. E qui, poveretta, mi fa un racconto dal quale mi son ben persuaso che c'è ancora follìa e follìa più pericolosa, forse, del delirio violento. "Per otto giorni" dice "non sono stata responsabile delle mie azioni. Ho avuto da una persona morta comunicazioni che mi hanno scombuiato il cervello. Queste comunicazioni" dice "il signor Silla le conosce."”
“È vero” disse Silla.
“Euh!” esclamò il commendatore stupefatto. Non si aspettava questa conferma; gli sconvolgeva le idee, gli suggeriva il sospetto che neppur quell'uomo pallido dai capelli arruffati, dalle vesti scomposte, avesse il cervello interamente sano.
“È vero” ripeté Silla
“Spiritismo?” chiese il commendatore.
“No. Ma, La prego, continui.”
Il Vezza aveva perduto la bussola e il filo del discorso; ci volle del buono perché potesse raccapezzarsi.
“Dunque” diss'egli “ella sostiene, continuando, di aver vissuto otto giorni in una specie di sonnambulismo, durante il quale ha fatto cose inesplicabili di cui ora è dolentissima. Protesta della sua indifferenza, anzi della sua ripugnanza per Lei, comunque si sia comportata durante questo periodo di allucinazione. Soggiunge che spera di persuadere di tutto questo il conte Salvador, e mi prega, in due parole, di aiutarla. Cosa vuole, che le rispondessi? Che per parte mia credevo tutto, ma che non vedevo probabile di far credere nulla al conte Salvador. "E poi" le dico "capisce bene. Fanny non ha taciuto..."”
Silla lo interruppe impetuosamente.
“Quanto a questo” diss'egli “posso dare la mia parola d'onore...”
“Benissimo, benissimo, si calmi. Capisce bene che in ogni modo per allontanare Salvador ce n'è più che abbastanza. Tornando alla marchesina, mi domandò allora con un sorriso sarcastico se si conosceva il testamento. Io glielo riferii ed ella non si turbò affatto. "Se io sono esclusa" dice "questa è una ragione, per un gentiluomo come mio cugino, di non abbandonarmi." Dopo di che mi fa un discorso riguardo a Lei: debbo confessarlo. Un discorso sensatissimo. Vi sono proprio delle convenienze imperiose che danno ragione a donna Marina, e Lei vorrà non dolersi, credo, se ho accettato di esporle il suo messaggio. Le assicuro che sono convinto di fare un'opera buona verso tutt'e due.”
“Ch'io parta?” disse Silla, concitato.
Il commendatore tacque.
“Ma cosa crede Lei, che il conte Salvador possa tornare, che voglia prendere una moglie, non foss'altro, inferma di mente e diseredata? Come si posson pigliar sul serio i discorsi di una donna in quello stato? Ma si metta una mano sul cuore e mi dica se io, che purtroppo sono stato immischiato nelle vicende di questa notte, mi dica se adesso che donna Marina è lasciata dal suo fidanzato, anche per causa mia, adesso che cade dalla ricchezza nella povertà perché di suo deve aver poco o nulla, adesso che è malata di una malattia terribile, mi dica, ripeto, se posso abbandonarla di cuor leggero e tornar nel mondo come se niente fosse stato, solo perché questa donna inferma si sveglia dal delirio e mi dice: "andate pure". Andar via, lasciarla sola con la sua sventura spaventosa? Lei, commendatore, mi consiglia questa viltà?”
“Piano, piano, piano” disse il commendatore piccato. “Non adoperiamo parolone e riflettiamo un po' di più. Lei crede in coscienza doversi costituir protettore della marchesina di Malombra? Non voglio esser severo con Lei perché in affari di cuore non lo sono mai, e perché dopo una notte simile, chi può avere la testa a segno? Ma mi spieghi un poco, scusi sa, che sorta di protezione può offrire alla marchesina? Ci pensi bene; una protezione poco efficace e poco onorevole, una protezione che le allontanerà tutte le altre. Perché la marchesina ha dei parenti che l'assisteranno se non per affezione, almeno per un sentimento di decoro. Ma bisogna che Lei esca di scena. Vede, non è neanche il caso, parlando chiaro, del matrimonio per riparazione; con una donna che vi respinge? Con una donna, sopra tutto, che non ha la sua ragione intera? Dunque, cosa vuol far Lei qui? Lei non ha che a partire.”
Silla lottava fieramente per serbarsi freddo, per soffocare un lume indistinto di speranza che gli entrava nel cuore, e poteva turbargli, in quel frangente, il giudizio.
“Sul Suo onore, signor Vezza” diss'egli “crede buono questo consiglio?”
“Sul mio onore, lo credo l'unico. Ella potrà accertarsi delle disposizioni di donna Marina, parlando con lei stessa. Così giudicherà anche del suo stato di mente.”
“Io? Nemmeno per sogno. Se partissi, non vorrei rivederla.”
“Un momento. La marchesina mi ha pregato di riferirle questo nostro colloquio, ciò che farò con la debita discrezione; e mi ha pure espresso il desiderio di parlare, a ogni modo, con Lei.”
“Perché?”
“Ma! Bisognerebbe domandarlo a lei. Vada, si faccia coraggio. Io ho il diritto, per la mia età, di parlarle come un padre, signor Silla. Mi spieghi questa cosa che non posso comprendere, ricordando una certa scena dell'anno passato. Ha Lei una vera affezione per donna Marina?”
“Perdoni, non si tratta de' sentimenti miei, adesso.”
“Basta, basta. Dunque le dico che Lei è persuaso di partire?”
“No, le dica solo che mi faccia saper l'ora in cui dovrò recarmi da lei.”
“Sì. Per dirle la verità, il mio interesse personale sarebbe ch'Ella restasse qui ancora qualche ora. La pregherei di aiutarmi. Ho tante cose da fare. C'è da chiedere al pretore l'apposizione dei sigilli. Capirà, qui c'è tanta gente! C'è da scrivere alla Direzione dell'Ospitale di Novara. Ho già spedito un telegramma, ma non basta. Anche sul funerale avremo a discorrere. La cappella di famiglia è a Oleggio. Il conte dev'essere trasportato là? Dev'essere sepolto qui? Mi han promesso che prima delle due arriveranno gli annunzi stampati da diramare: un bel lavoro anche quello! Era più o meno cugino di mezzo Piemonte, il povero Cesare, e di mezza Toscana, anche. Insomma, quanto a me, se Lei restasse fino a stasera, ne avrei certo piacere.”
Un forte soffio di vento entrò dalla finestra aperta, gonfiò le cortine.
“Oh, il vento cambia, meno male” disse il commendatore. “Anche questo tempaccio è una cosa orribile.”
Silla non rispose, salutò in silenzio e tornò nella propria camera, meditabondo.
Cos'era adesso quest'altro enigma? Cos'era quest'altra commedia del destino? Egli ripensava certi esempi di maniaci risanati da un momento all'altro, nello svegliarsi. E forse il delirio di donna Marina non era stato che un eccesso passeggero, una esaltazione nervosa prodotta da circostanze veramente strane.
Se il Vezza s'ingannasse? Se fosse veramente guarita? Essa lo sdegnava adesso, lo respingeva: la catena dura sarebbe spezzata senza dubbio.
Restavano i rimorsi, la vergogna d'esser tornato al Palazzo in onta alla propria dignità con un coperto proposito di colpa, per farvisi complice di una mortale nemica del conte, mentre quest'uomo che lo aveva amato e beneficato giaceva oppresso dalla infermità. Ma pure, se rimanesse libero, non vi sarebb'egli modo di rialzarsi ancora, di purificarsi questa lunga espiazione amara? Una voce occulta gli sussurrava nel cuore qualche speranza, gli ripeteva le parole di Edith: "Non affonderà mai, se ama come lo dice". Non era più il Silla di prima che fantasticava così, seduto sul letto, mentre l'angelo del Guercino pregava sempre. Adesso l'idea del suicidio si era allontanata dalla sua mente. Non voleva ancora pigliare alcuna risoluzione per l'avvenire: aspetterebbe di aver visto donna Marina, di averle parlato. Oh, se Dio volesse essergli pietoso, rialzarlo una volta ancora! Il suo sentimento religioso, la sua fede in un segreto contatto di Dio con l'anima e nella salutare potenza del dolore, rinascevano. Si coperse il viso colle mani e si sovvenne di un'ora triste in cui, aperta la Bibbia a caso, vi aveva letto: Infirmatus est usque ad mortem, sed Deus misertus est eius. Quanta consolazione, quanta energia di vita in questo pensiero! Immagini di un futuro migliore gli sorgevano spontanee nella mente ed egli le combatteva, temendo illudersi, prepararsi disinganni più amari. Entrare, per punirsi, nella manifattura de' suoi parenti, dare il giorno al lavoro più ingrato, la notte agli studi, poter dire a quella persona “sono ancor degno ch'ella mi porti nell'intimo del suo cuore!”
Queste immagini suscitavano dentro di lui una burrasca simile a quella che flagellava i tetti e le mura del palazzo. Lì pioveva ancora, ma le scogliere dell'Alpe dei Fiori nereggiavano sul cielo bianco, nitide, spazzate dal vento del nord che copriva pure le altre cime di fragore, infuriava, volendo sereno.




(continua)

_________Aurora Ageno___________
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6. Sereno


“Ecco l'agave che volevo farle vedere” disse don Innocenzo a Steinegge. “Bella eh?”
Era lì a godersi il sole, superba e triste, nel mezzo di un gran pietrone grigio, fra due brevi quinte di bosco. In alto fra il ciglio del pietrone e il cielo azzurro, magri arbusti si divincolavano ridendo nel vento trionfante che saltava sopra il valloncello, sibilava giù nel frutteto di don Innocenzo, sul tetto della canonica, si spandeva nei prati a ondate. Ciuffi di rovi penzolavano dalle fessure del sasso, lunghe e torte frange d'edera ascendevano dalle sue radici affondate nell'erba che brillava ancora di pioggia. Quel mostruoso scoglio mezzo nudo, tanto amato dall'edere, tanto paziente dei rovi, era la vita, la parola, la passione del paesaggio. Don Innocenzo aveva fatto portar lì un sedile rustico e vi passava delle ore a leggere, a pensare.
“Ci ha un che di meridionale, quell'agave, non è vero? Vede, io ci vengo spesso qui, con un libro e con i miei pensieri, respiro in quest'aria una innocenza che purifica il cuore. Ne ho bisogno perché sono astioso, rabbioso, forse anche maligno, ambizioso: no, ambizioso no, ma avaro forse: qualche volta mi par d'essere avaro, di affannarmi troppo per certe miserie d'interessi. Senta che mi confesso a Lei. Mi assolverà, poi? Io parlo intanto, perché mi fa bene; e Lei poi faccia quel che crede. Dunque, quando vedo campi coltivati, sento tanta gente fra Dio e me; qui non ci sento più nessuno e parlo col Signore da solo a solo, più volentieri perché si tratta di guai tutti miei propri. Ne avrà anche Lei, già, di questi momenti. Non ha mai niente che La inquieti?”
Steinegge confisse d'un colpo il bastone in terra.
“Oh, che cieco!” diss'egli. “Che stupido sono stato! Non aver capito niente! Non aver sospettato di niente! Credete ch'ell'avesse molta inclinazione per lui?”
“Oh no, non moltissima, spero, ma via!” disse don Innocenzo, mortificato della poca attenzione ottenuta dal suo discorso. “Si calmi. Non mi faccia pentire di averle raccontato tutto. Ho parlato per impedire che Lei domandasse spiegazioni alla signorina Edith di quel discorso del signor Silla. La signorina non deve conoscerlo: ne avrebbe troppo dispiacere. Del resto è forse meglio così, anzi diciamo addirittura; è meglio così. Ha visto che uomo era, questo signor Silla?”
“Che uomo era? No; cosa volete, lo amavo tanto! Non posso ancora giudicarlo come Voi.”
Si percosse la fronte come se volesse stritolarvisi dentro tante idee penose.
“Per me!” diss'egli “per me! Io bacerei di gratitudine il posto dove ella mette i piedi e dopo le direi "calpestatemi perché io non capisco". Non sapete, signor curato, che mi è troppo aver tutto il cuore di Edith, che io ne sento rimorso, qualche volta, come di un grande egoismo, e che sarei felice di un matrimonio così; perché poi io sono vecchio e c'è anche altre cose da pensare!”
“Venga” disse don Innocenzo, commosso, pigliando Steinegge pel braccio e conducendolo al sedile rustico “fermiamoci qui, pensiamo, cerchiamo quali ragioni può aver avuto Sua figlia.”
Steinegge si fermò su' due piedi, temendo qualche rivelazione impreveduta.
“Cosa?” diss'egli.
“Venga, venga, sieda qui.”
Don Innocenzo non trovava la prima parola, stringeva convulsamente una mano con l'altra, suggeva l'aria, secondo il suo solito, per le labbra serrate.
“Si sarebbe mai accorto” cominciò finalmente “di qualche preoccupazione, di qualche angustia nell'animo di Sua figlia?”
Steinegge trasalì.
“Denaro?” diss'egli.
“No, no.”
Uno sgomento angoscioso contrasse il viso del povero uomo mentre diceva:
“Salute?”
“No, no. Senta. Potrebbe darsi che Sua figlia volesse pensare a Lei solo, occuparsi di Lei solo, vivere insomma per lei solo, fino a che Ella, amico mio, ottimo e carissimo amico mio...”
Don Innocenzo gli prese, parlando, una mano.
“...intendesse quale sia quest'angustia segreta che c'è, lo so, nel cuore della signora Edith, povera signorina.”
“Lo sa!” disse Steinegge, pallido, stringendo forte la mano del prete, guardandolo a bocca aperta.
“Metta che io non sia prete” continuò il curato. “Adesso non sono prete, sono un amico. Va bene? Mi ascolterà come un buon amico?”
Steinegge accennò di sì con la testa, impetuosamente, senza poter parlare.
“Bene, via, bravo. Dica, Ella ha sofferto molto, non è vero, nella vita? È stato perseguitato, calunniato, non è vero? e specialmente da persone che portano quest'abito? Sì, lo dica pure francamente. Crede che non ne conosca, io, de' preti furfanti? Dunque Lei ne ha concepito un grande aborrimento contro tutti... No, glielo credo, contro di me no; ma è un'eccezione. Ha concepito poi anche un gran dispregio per altra cosa infinitamente superiore a questi preti miserabili, per la Parola di cui dovrebbero essere custodi e ministri. Mi lasci dire, Lei parlerà dopo. Credo benissimo che dopo la venuta della signora Edith Ella si sia molto avvicinato alla Parola; come non sarebbe? Deve averne provato, stando con Sua figlia, il calore e la luce: ma finora, tra le opere della signorina Edith e le Sue in questo argomento della religione, quale somiglianza c'è? Nessuna, non è vero? Ella non può dire di essere un cattolico e forse neanche un cristiano. Ora la signorina Edith crede, deve credere che se Lei non si sottomette di cuore e di fatto alla Chiesa, Loro non potranno poi aver parte insieme nella Risurrezione e nella Vita. Ecco il segreto doloroso. Tutto il cuore, tutti i pensieri di Sua figlia sono qui. Vuol vivere per quest'opera sola; sono certo che cerca il sacrificio di se stessa; che vi assapora una contentezza particolare, una vena nuova di speranza. Lei può andar superbo d'essere amato così. La signorina confida in Dio per toccare il suo sogno; comprende? Non vuol dirle: "se mi ami fa questo". Mai! Vuole che le loro due anime vivano chiuse una nell'altra, in comunicazione continua, onde poco a poco, inavvertitamente, ogni giorno, ogni momento, la Fede possa entrare in Lei, amico mio. Forse non dovevo dirle questo.”
“Oh!” esclamò Steinegge con voce soffocata, protestando.
“Forse non dovevo, no; ma adesso quando Lei ha detto "non capisco" mi si è mosso dentro qualche cosa che ha mandato sossopra la mia prudenza; ho pensato: qui bisogna parlare, bisogna fargli sapere, un sacrificio così ha da essere apprezzato, non gli parlerò come prete, ma come amico. E come prete non Le parlo; Le dico solo che io non avrei mai consigliato questo sacrificio, e che ho venerazione per Sua figlia.”
Steinegge si buttò indietro il cappello sulla nuca e giunse le mani, le scosse nervosamente guardando il cielo; poi se ne coperse il viso, appoggiò i gomiti alle ginocchia.
“Avevo capito” mormorò “la prima sera... ma poi adesso... credevo che fosse contenta...”
Don Innocenzo si chinò a raccogliere le parole inintelligibili.
“Cosa?” diss'egli affettuosamente.
“Credevo che fosse contenta” ripeté l'altro senza toglier le mani dal viso. “Adesso prego con lei... vado anche in chiesa... ho perdonato a tutti, credevo che bastasse.”
Il curato fu per buttargli le braccia al collo e dirgli: "Sì, va in pace, per te, povero tribolato, per te, semplice e umile cuore, basta. Tu sei come un figliuolo mandato da suo padre nel mondo a lavorare, che, ferito, perseguitato da' suoi compagni, torna senza aver appreso né guadagnato nulla verso la casa paterna, batte piangendo alla porta che i servi gli han chiusa in faccia come a un indegno. Suo padre ha veduto, ha saputo tutto; ma non vuoi, santo Dio, che lo raccolga e lo consoli?". Fu per dirgli così, ma si guardò l'abito e si trattenne, mordendosi le labbra; si strinse le parole nel cuore gonfio.
Steinegge, improvvisamente, scattò in piedi.
“Andiamo da lei, amico mio” diss'egli “andiamo da lei subito. Io farò tutto, andiamo subito.”
“No no no” rispose don Innocenzo. “Non accetterebbe un atto compiuto per amor suo e non per convinzione. Ci pensi, non parli alla signorina del nostro colloquio d'oggi, poiché mi dice che prega, preghi, domandi a Dio una parola nel cuore e se questa parola viene, allora sì, allora dica pure a Sua figlia: "Sappi, ho pensato, ho pregato e credo". Prima no. E adesso mi permetta di tornare prete, di dirle: “son qua tutto per Lei: parleremo, leggeremo, discuteremo... diremo male dei preti, se vuole!”
Don Innocenzo aggiunse sorridendo queste parole, perché gli pareva di veder Steinegge incerto.
“Scusate” disse questi “scusate molto, amico mio; noi non leggeremo e non discuteremo. So che i Vostri ragionamenti mi farebbero male, perché io ho uditi e letti nella mia vita troppi ragionamenti su queste cose della religione, benché io non sono filosofo né letterato. Io temerei udire da Voi argomenti uditi ancora, mi capite? argomenti che io ho inteso mettere in polvere altre volte e che mi farebbero cadere il cuore come, scusate molto la mia franchezza, se Vi vedessi armato di carta pesta. Io credo che avrei migliore impressione da una critica come ho letto pochi giorni sono in un libro tedesco recentissimo, un libro di un tale Hartmann, molto empio per Voi, dove si dice che il cristianesimo finirà come ha cominciato, der letzte Trost, l'ultimo conforto dei poveri e degli afflitti. Questo mi ha colpito come una gran luce sulla Vostra fede. Notate che secondo lo scrittore tutto il genere umano dovrà un giorno trovarsi afflitto dalla vanità delle cose e della vita. D'altra parte Voi non potete avere ragionamenti che prendano gli uomini come tenaglie. Voi terreste il mondo in pugno, Voi avreste il pensiero per Voi e le passioni contro di Voi. Ma è il contrario che succede; Voi avete molto più gente di passione che gente di pensiero, molte più donne che uomini, più popolo che intelligenze. No, quello che potete prendere è il cuore, credo: quando avete preso il cuore e lo tirate a Voi, bisogna bene che tutto l'uomo venga. Così sta per accadere a me, perché il mio cuore non è in mio potere. Anche Voi, amico mio ne avete una parte: anzi, posso dirvi una cosa? la Vostra faccia, che io amo, così buona sopra il vostro abito, è un molto più forte argomento per me che tutta la Vostra teologia.”
Pronunciando la parola "teologia" Steinegge arricciò il naso come se fiutasse qualche putredine.
“Che spropositi!” disse don Innocenzo con le sopracciglia aggrottate e la bocca ridente.
“Non spropositi, no!”
“Spropositi, spropositi. Non è vero che non abbiamo argomenti. Naturalmente una fede religiosa fondata sul mistero, non si può dimostrare con argomenti logici che stringano come tenaglie. Non si può trattare questo problema come i problemi di geometria; ma vi ha pure un procedimento che porta avanti verso il mistero, un procedimento assai più rapido e potente del Vostro gottoso procedimento logico che dopo tutto, caro Steinegge, non ha mai trovato da sé solo niente di molto grande. Vede, prendiamo pure la distinzione triviale della mente e del cuore; diciamo invece se vuole, l'intelligenza e l'amore, e ricordiamoci che non son mica due parti dello spirito. Vi è forse un pezzo di sole che scalda e un altro che splende? Bene. Loro signori filosofi, quando cercano la verità, dicono: noi abbiamo queste due gambe, una delle quali fa passi e slanci smisurati e sarebbe anche capace di saltare qualche ampia fenditura della via. Noi non vogliamo correre questo pericolo, noi vogliamo sentirci sempre la terra sotto i piedi. Noi non la terremo in freno questa gamba sinistra, questa gamba sentimentale, non la riporteremo al bisogno indietro appoggiandoci sull'altra, no, ma ce la taglieremo via senz'altro e andremo con una gamba sola, adagino, sin dove potremo. E così fanno, caro amico; vanno a conquistar il cielo e la terra con una gamba sola, e lo chiamano positivismo. E questa gente guiderà il mondo? Male lo guiderà.”
Don Innocenzo si alzò in piedi, infuocato in viso, con gli occhi pieni di luce, bello.
“Io poi Le dico” proseguì più calmo “che il pensiero umano non può, non deve occuparsi di ricerche religiose senza una preparazione morale. Senza cuor puro nessuna visione delle profondità di Dio. Bisogna che lo strumento di ricerca, il pensiero, sia ben predisposto; che abbia, stia attento, tutta la sua originale potenza di tendere al bene, ai principii del bene che sono poi anche i principii del vero. Ogni passione, a cominciare dall'orgoglio, determina un movimento diverso, altera quella tendenza; e allora, dove si va? Lo vediamo dove si va. Ecco perché l'insegnamento morale ha preceduto nella nostra religione l'insegnamento dogmatico. Ed ecco il primo grande aiuto del cuore nella indagine religiosa: ne determina la direzione dal punto di partenza. Partite con l'orgoglio, con la sensualità; andrete logicamente verso la negazione, il nulla, il male, perché vi è una terribile strada logica che conduce là. Partite con il cuore puro e anche, dirò, con le opere pure, accordo necessario, e andrete verso il vero. Ma come? Con la logica sola? No. Con il cuore, con il sentimento solo? Ma neppure, no certo; con tutte le facoltà dell'anima, con la ragione, con la immaginazione, con l'amore. Parlo, sa, ora, dei mezzi umani di ricerca, lascio da parte la grazia. Non si tratta d'indurre né di dedurre, ma di slanciare grandi ipotesi davanti a noi. Ci vuole fantasia per questo, calore e purezza di sentimento, ci vuole sopra tutto la facoltà più sublime dell'anima nostra, che non so come venga spiegata dai razionalisti, la facoltà d'intravvedere per subitanei chiarori interni...”
“Io non ho questa cosa” disse Steinegge.
“D'intravvedere idee superiori alla potenza ordinaria della mente in cui sorgono, sorprendenti per lei stessa. Allora comincia intorno a questa ipotesi il paziente lavoro logico della ragione per veder se combaciano con le verità note e tra loro, per modificarle, abbandonarle ove occorra. Certo neppur con questo procedimento si spiegano i misteri, ma si ottiene però qualche volta il risultato mirabile d'indicarli dove la Rivelazione ci dice che realmente sono, presso a poco come quel pianeta indicato da un astronomo là dove poi fu visto. E allora sopravviene la fede, se non è giunta prima. So cosa rispondono i suoi razionalisti.”
“Ooh!” disse Steinegge come per iscusarsi.
Un veemente soffio calò stridendo sui rovi del sasso, mise nel bosco una follìa frenetica, uno strepito che impediva di udire le parole. Don Innocenzo sempre acceso in viso, non potendo parlare, scoteva l'indice teso verso Steinegge, intendendo di dire che la risposta dei razionalisti non valeva nulla; poi alzò la testa, quasi a guardar in faccia quel diavolo di vento saltato senza riguardo in mezzo alla discussione per soffocarvi le buone ragioni, come un gran chiasso e un voto di volgo sovrano. Appena poté, proseguì a parlare.
“I razionalisti rispondono che questo modo di argomentare può essere buono per chi lo adopera, ma non prova nulla, non può servire a stabilire la verità. Stoltezza. Per essi non può servire, che sono induriti nel loro gretto sistema impotente, per altri sì. Noi parleremo e leggeremo, caro amico. Io spero di arrivare a persuaderla, con l'aiuto di Dio, che vi è una bellezza nella verità in cui si commuove e si appaga, non il cuore solo, ma tutta l'anima umana; una bellezza che noi possiamo vedere solamente in ombra e per immagine, ma con qual divino piacere! Vedere, sia pure in confuso, gli occulti accordi, le convergenze fra il creato e l'increato, per esempio fra i misteri più eccelsi della Divinità e i misteri più reconditi delle anime! Meditiamo e contempliamo insieme, sì. E adesso basta; non Le dico altro.”
“Caro amico” rispose Steinegge sospirando “può essere che Voi parlate molto bene, ma Voi non conoscete me. Questo che mi proponete sarebbe assai buono per un giovane, il quale sente bisogno di muovere il suo pensiero, ha una grande curiosità di mente e si compiace più di aver fatto da sé una piccola scoperta con travaglio, che di aver comodamente preso molto sapere preparato sul suo tavolo. Oh, io ho conosciuto e un poco sono stato anch'io così una volta. Adesso io sono un vecchio stanco; io ho la testa piena di opinioni contro di Voi, che forse non sono giuste perché gli uomini e i libri dai quali le ho prese non valevano forse molto, ma che non potrei mandar fuori con ragionamenti perché non ho la forza. Io devo dire il vero, che alcune sono già partite da quando mia figlia è con me; io non so come sono partite; per ragionamenti no certo. Potrò dividermi amichevolmente anche dalle altre, potrò dir loro: tacete, perché mia figlia vuole; tacete interamente, quando io dirò questo e quando io farò quest'altro, perché non vi posso scacciare, ma sono risoluto a non ascoltarvi. Forse allora, col tempo, partiranno anche sole. Permettete, amico mio; io credo che avrò molta maggiore compiacenza facendo così, che se Voi mi persuadeste con dimostrazioni. Cosa posso io dare a Edith se non do questo? Cosa posso io lasciare a mia figlia quando muoio, se non le lascio una memoria interamente dolce, interamente cara? Guardate, non mi è mai passato per la mente, quando vedeva Edith andare a confessarsi, che sarei diviso da Lei nell'altra vita, perché non andava anch'io a inginocchiarmi davanti a un prete: è quello che più mi ripugna, ma se Edith lo desidera...! Oh, ma come, come mi ha nascosto questo!”
Alzò le mani giunte al cielo, le scosse nervosamente.
“La prima sera, sì, m'era venuto in mente e anche il mattino dopo, quando l'ho accompagnata a Messa, qui nella Vostra chiesa: ma poi ella era sempre così affettuosa, così tenera con me! Mi parlava spesso di religione, ma solo raccontando i suoi pensieri, i suoi sentimenti, come se questa cosa riguardasse lei e non me. Io ascoltava con gran piacere, come Voi che siete Italiano e volete restare italiano ascoltereste mia figlia, se vi parlasse del nostro mondo tedesco, della nostra poesia e della nostra musica. Quando ho cominciato a venire in chiesa, a pregare con lei, godeva sì, ma pareva quasi temere che io mi tediassi, che io facessi per compiacere a lei. Solo di una cosa mi pregava con passione: ch'io perdonassi.”
“E ha perdonato?” disse don Innocenzo.
“Io ho fatto i più grandi sforzi” rispose Steinegge commovendosi. “Io ho, non perdonato, dimenticato quelli che hanno fatto male a me; e anche per gli altri...” La voce gli morì in gola soffocata. “Ho fatto quel che ho potuto” diss'egli.
Don Innocenzo, pure commosso, tacque. Forse la coscienza lo accusava di ricordare con soverchio sdegno, egli prete, certe offese troppo men gravi di quelle patite dal povero Steinegge, cristiano senza saperlo, più cristiano di lui.
Il vento parlava per le macchie, per i capi frondosi degli alberi: lo si vedeva correre sul velluto dell'erba, cangiarne il verde.
“Bel tempo!” disse Steinegge, lottando ancora con l'emozione.
“Bello” rispose il curato.
Steinegge stette un po' silenzioso, poi abbracciò appassionatamente don Innocenzo, lo baciò sulla spalla, gli disse con voce inintelligibile:
“Andiamo da Edith.”
“Bene, ma non gliene parli per adesso, aspetti e poi mostri che la Sua risoluzione è spontanea.”
Steinegge, per tutta risposta, prese il braccio del suo interlocutore, glielo strinse forte e si pose in cammino.
Fatti pochi passi, udirono Marta che gridava in su dall'orto della canonica. “Oh, signor curato! Oh, signor curato!” C'era della gente nell'orto, uomini e donne. Don Innocenzo sorpreso, affrettò il passo.
V'erano la Giunta, il presidente della Congregazione di Carità e il capitano della guardia nazionale venuti per parlare al curato delle esequie del conte che dovevano seguire l'indomani mattina. Era corsa voce di grossi legati ai poveri del paese. Il capitano, un ex garibaldino barbuto, aveva prese informazioni dirette al Palazzo. C'erano infatti 70.000 lire per un asilo d'infanzia e 30.000 lire per tre doti annue alle ragazze povere del paese. Il capitano avea subito fatto il suo programma di onoranze funebri al generoso testatore e intontitone il sindaco e il presidente della Congregazione di Carità, chiamandoli con amichevole compatimento "gran villanacci p..." perché essi imbarazzati e non avendo la menoma idea di "quel che si fa adesso", come diceva lui, esitavano, si guardavano in faccia, brontolavano che non erano pratici che la era "pazzia" buttar via dei denari per un morto che finalmente, diceva il sindaco, al Comune, propriamente al Comune, non aveva lasciato nulla. Per movere quei due fossili il capitano avea dato fuoco all'opinione pubblica, li avea portati con un gruppo di amici suoi dal curato, a domandarne l'autorevole parere. Costoro attorniavano don Innocenzo, parlandogli tutti in una volta, gridandosi l'un l'altro di tacere, discutendo un guazzabuglio di progetti e di emendamenti. Guardia nazionale, piccola tenuta, alta tenuta, una salva, tre salve, musica del tal paese, musica del tal altro, discorso in chiesa, discorso al cimitero. Don Innocenzo ottenne a stento che si chetassero e lo seguissero in casa. Allora si fecero avanti cinque o sei ragazze, le più briose civettuole del paese, che avevano prima assalita Marta e ora affrontarono il signor curato, rosse, rosse, con gli occhi ancor lucidi di riso. Venivano a nome delle ragazze del paese, a domandar fiori da farne ghirlande pel feretro del loro benefattore. Marta aveva dato loro un rabbuffo, aveva detto ch'erano "sfacciatone" di venir lì dal curato a portar via fiori, magari per metterseli in testa o per donarli a quel mucchio di amorosi che avean sempre alle sottane. Una delle ragazze le aveva risposto per le rime tra le risate della compagnia. Il curato non badò alle occhiatacce né ai borbottamenti di Marta, abbandonò senza difesa i suoi poveri fiori.
Steinegge era impaziente di vedere Edith, non per parlarle, ma per leggere attraverso quel viso, per assaporare meglio la compiacenza segreta di aver in cuore una buona, insperata notizia da confidarle alla prima occasione; presto, senza dubbio. Ella non era nell'orto. Steinegge si congedò con profonde scappellate dalle autorità e corse su nella camera di sua figlia.
Non era neppur lì. C'erano però sul letto il suo cappellino, i guanti e un piccolo album. Steinegge l'aperse, vide uno schizzo preso dalla riva del lago, sotto i pioppi. Riconobbe subito i denti pittoreschi dell'Alpe dei Fiori, quelle stesse cime che otto mesi prima, coperte di nuvoloni minacciosi, avean fatto dire a Edith: andiamo nella tragedia. La disegnatrice avea scritto in un angolo “Am Aarensee”. A Steinegge venne subito in mente la canzone malinconica:

Ach tief im Herzen da sitzt ihr Weh,
Das weiss nur der vielgrüne Wald
.

Il paesaggio morto, freddo, a luci di neve e ombre di piombo, ricordava più lo spirito afflitto che il bosco verde. Steinegge si accorò, sentì confusamente che il male doveva essere più profondo di quanto gli avesse detto don Innocenzo. Dov'era dunque Edith? Perché non poteva egli porgerle subito almeno una consolazione, almeno il premio del sacrificio ch'ella aveva compiuto? Il chiasso che si faceva in salotto e nell'orto, le voci rozze dei contadini, le risa spensierate delle ragazze lo irritavano. Se Edith udisse tutto quello strepito, come si sentirebbe amaramente sola! Gli parve di udir camminare nell'orto, e andò alla finestra. Era Edith, uscita dal salotto dove stava apparecchiando la tavola prima che entrasse il curato con le autorità. Steinegge la rimproverò amorosamente di stare al sole senza ombrellino, volle portarglielo malgrado le sue proteste; ma sceso nell'orto, non la vide più. La cercò in casa, non v'era; finalmente la scoperse presso il cancello dell'orto che parlava con le ragazze affaccendate a spogliare i rosai. Non la chiamò ne le portò l'ombrellino, temendo riuscire importuno, figurandosi che non amasse ora trovarsi con lui.
Si ritirò dietro l'angolo della casa per non farsi nemmeno vedere da sua figlia. Gli parve, guardando l'orizzonte lontano, che sarebbe andato via per sempre, avrebbe rinunciato a Edith pur di tornare indietro a quel momento in cui Silla avea portato il suo libro. Sì, sì, come ricordava adesso le proteste appassionate di lei! E dire che tanto male, tanto dolore veniva dalla cecità sua, dal non aver egli mai capito l'angustia segreta di sua figlia!
Intanto nel salotto si giunse a un accordo. Le voci si chetarono, si abbassarono, il curato e gli altri uscirono nell'orto discorrendo tranquillamente.
“Niente di meglio” diceva don Innocenzo, soddisfatto, guardando Steinegge.
“Ma!” rispose il capitano “a me l'ha proprio detto il signor commendatore Vezza. Io non gli domandavo niente; mi disse lui che stasera il signor Silla va via e che non bisogna credere a tutte le chiacchiere.”
“Oh!” esclamò Steinegge con due occhi scintillanti di lieta sorpresa. “Perdonate se io entro nei vostri discorsi. Come vi ha detto veramente il signor Vezza?”
Il capitano ripeté quanto aveva detto prima, soggiunse poi quel che sapeva dello stato di Marina. Seguirono i commenti degli uditori, ciascuno dei quali aveva un'ipotesi diversa.
Edith avea messo un po' di soggezione alle ragazze turbolente. Le raccontarono che il signor capitano aveva suggerito di far venire la ghirlanda da Como o da Milano, ma che loro avean voluto fiori del paese. L'armatura della ghirlanda si stava già preparando; quanto a' fiori, non avevano ancora pensato come li disporrebbero. Edith consigliò un intreccio di frondi d'ulivo e di rose bianche con una croce di viole. Volle coglier le rose ella stessa perché le povere piante non fossero straziate e i bottoni sciupati senza necessità. Udiva gli altri parlare, e, immaginando che parlassero del Palazzo, si pungeva le mani senza avvedersene, tagliava gli steli o troppo lunghi o troppo corti. Era tanto pallida che le ragazze credettero si sentisse male e la pregarono di smettere. Ella confessò d'avere un po' di mal di capo, ma non volle smettere temendo esser chiamata da suo padre, avere a restar sola con lui e non sapergli nascondere il suo turbamento. Sopraggiunsero gli uomini, la salutarono, si fermarono a guardare i fiori, a chiacchierare con le ragazze della loro fortuna, dei tanti matrimoni che si farebbero quind'innanzi in paese. Steinegge era rimasto indietro. Edith lo vide. Egli pareva impaziente che il crocchio si sciogliesse. Camminava in su e in giù, dava un'occhiata ogni tanto alla gente che aveva preso radice, fra i rosai. Anche Marta venne a guardar dall'angolo della casa, facendosi schermo agli occhi con la sinistra. Ella disse poi qualche cosa a Steinegge, il quale accennò a Edith di venire, e le andò incontro porgendole l'ombrellino aperto. La rimproverò di volersi pigliare per forza un mal di capo e le disse scherzosamente ch'era in collera con lei perché quella mattina lo aveva abbandonato ed era corsa via come una farfallina capricciosa. Dove mai avea svolazzato la signorina? Già si saran fatte delle imprudenze, si sarà andati in qualche luogo pericoloso, vicino a qualche acqua infida, piena di malinconie, per raccogliervi canzonette gittate via mesi addietro.
“Oh, papà” disse Edith “non va bene, prima di tutto andar a guardare nel mio album, e poi non va bene far certe supposizioni. Le ho lasciate dove sono, io, le malinconie; nel lago, nell'Aarensee. E della canzonetta, lì sulla riva, non ho trovato che il titolo. Quello non fa male. E poi non ti ricordi come abbiamo riso l'anno scorso? Lo finirò quello schizzo e ci metterò Lei, signore, che corre poco rispettosamente dietro sua figlia, con l'ombrello sotto il braccio. Vorrei poterci mettere anche quelle risate.”
“Ne metteremo delle altre” disse Steinegge. “Vedi questo sole, questo verde, questo vento se non è tutta una grande risata! Pensa se noi fossimo a Milano! È giovinezza che si beve qui. Non vogliamo camminare, oggi. Sei stanca?”
“No, papà; ma dove vuoi andare?”
“Così, a passeggio. Signora Marta! Signora Marta! Posso io domandare quando si pranza?”
“Alle tre” gridò Marta dalla cucina.
“Allora possiamo andare, per esempio, fino alla cartiera.”
“Bravi, bravi! Vengo anch'io” disse don Innocenzo, che avea congedato allora allora tutta la brigata. “Devo parlare all'ingegnere direttore dei lavori.”
Edith salì alla sua camera per il cappellino e i guanti. Quando ridiscese, suo padre ed il curato, che parlavano insieme, s'interruppero. Ella vide loro in viso una contentezza nuova, si fermò, interrogandoli con lo sguardo.
“Andiamo! Presto!” disse Steinegge, e dimentico questa volta delle solite cerimonie, s'incamminò per il primo.
Don Innocenzo colse il destro di sussurrare a Edith: “Non c'è più niente tra quei due: egli parte stasera”. Edith aperse la bocca per domandare qualche cosa, ma suo padre si voltò a chiamarla e anche Marta gridava dalla cucina: “Facciano presto che non hanno mica tanto tempo!”.
Edith non ebbe più modo di domandare spiegazioni. Solo all'uscir dal cancello il curato le gittò nell'orecchio altre due parole. “Forse il Suo biglietto!” “Il mio?...” rispose Edith. Don Innocenzo fe' cenno di sì e andò a prendere il braccio di Steinegge.
Edith, trasalì. Il curato non le aveva detto che il suo biglietto era stato consegnato. Come mai, dopo quei fatti? Anche questa partenza di Silla era ella una fortuna così grande? Non veniva dopo mali irreparabili? Sì, ma però era un bene, senza dubbio. Pazienza, pensava, se il suo biglietto aveva fatto del bene, pazienza essersi posta senza saperlo, fra così turpi intrighi, aver parlato meglio che amichevolmente a chi se n'era reso indegno. Vi si rassegnava, ringraziava Dio, che si fosse servito di lei per un atto di misericordia. Ma sentiva in pari tempo che il sacrificio proprio sarebbe diventato in avvenire più difficile, tormentoso, che quest'uomo avrebbe tentato riavvicinarsi a lei, discolparsi de' suoi errori. E allora? Allora la lotta sarebbe ricominciata nell'animo suo, quanto fiera! Perché se a Milano avea sperato esser tocca nella immaginazione soltanto e s'era studiata di convincersene con un attento e forse imprudente esame di se stessa, adesso non s'illudeva più: era il cuore che mandava sangue.
“Edith!” chiamò suo padre perch'ella era rimasta qualche passo indietro.
Ella alzò gli occhi, lo vide a braccio del curato, un lampo di speranza le attraversò l'anima. Balzò a fianco di suo padre.
“Eccomi” disse.




(continua)

_________Aurora Ageno___________
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05/12/2007 14:59



Entravano allora nella strada nuova che spiccandosi dal villaggio recideva i prati sino al fiume: una brutta cicatrice a vederla dall'alto, come di qualche gran fendente calato sul verde: bianca, dritta, fra due righe di pioppi nani, sottili. Piacevole passeggio, però. Era voluttuoso mettersi per quell'ampio mar verde, morbido, magnifico nel suo disordine di fiori, potente nell'odor di vita che ne saliva, nelle ondate d'erba che slanciava da destra e da manca ad assalir l'argine della strada, ad ascenderlo per ricongiungere un giorno sopra di esso la sua pompa, i suoi amori eterni. I piccoli pioppi si movevano al vento; qualche grossa nube bianca vagava pel cielo, e l'ombre ne correano sui prati, sulla celeste lama scintillante del lago, la tingeano di viola.
“È magnifico tutto questo verde” disse Steinegge guardandosi in giro. “Pare di essere in fondo a una tazza di Reno.”
“Vuota” osservò don Innocenzo.
“Oh, questa è un'idea triste, non affatto necessaria. Vi è pure in questa tazza, che Voi dite vuota, una fragranza, uno spirito che exhilarat cor, che rischiara il cervello, non è vero? Io mi meraviglio di Voi: io sono molto spiritualista adesso, amico mio, sono capace di trovare che l'acqua del fiume dove andiamo, bevuta lì sulla riva sotto quei grandi pioppi, contiene sole, ha un sapore di primavera ilare che inebbria meglio del Johannisberg.”
“Si voltino” disse don Innocenzo “guardino la mia casetta come sta bene.”
Stava bene infatti la piccola casetta, al di sopra delle altre e in disparte, bianca sotto il suo tetto inclinato.
“Pare che ci guardi anche lei” osservò Edith “e ci sorrida come una buona nonnina che non si può muovere.”
“Oh” esclamò Steinegge “io sarei felice di viver qui.”
“E io, papa? Pare di sentirsi voler bene da tutto, qui. A Lei, signor curato, ci trovi un nido.”
“C'è il mio” diss'egli. “Bravi, vengano a stare col vecchio prete. Perché no? Non sarebbe una bella cosa? Non starebbero bene in casa mia? Mi par che Marta s'ingegni abbastanza, non è vero?”
Edith sorrideva, suo padre si confondeva in esclamazioni e proteste di gratitudine.
“No, no” disse Edith. “Prima, è una cosa impossibile per noi lasciar Milano, e poi così non andrebbe. Ci vorrebbe un'altra casettina.”
“Veramente? Lei starebbe qui, per sempre, in questa solitudine?”
Edith rispose con gli occhi gravi, meravigliati. Don Innocenzo ammutolì.
“Non sarebbe il solo tesoro sepolto in questo paese” disse Steinegge volgendosi al curato con un gesto ossequioso.
Don Innocenzo si schermì, arrossendo e ridendo, dall'incensata.
“Anche Lei ci sarebbe, non è vero?” diss'egli.
“Oh no, io sarei qui un tegame preistorico. Io vi starei molto bene, ma mia figlia non deve, oh no!”
“Perché mai, papà?”
Egli rispose impetuosamente in tedesco, come faceva sempre nel bollore dell'affetto o dello sdegno. Si voltò quindi a don Innocenzo senz'aspettare la replica di Edith.
“Non è vero” diss'egli “che questo paese non è per una giovane signorina, a meno che non fosse una Nixe?”
“Una Nixe? Chi sa?” disse Edith. “Amo le acque limpide, i prati, i boschi...”
“Oh sì, ma io non credo che le Nixen amino anche dei brutti vecchi gialli come me e vadano a spasso col signor curato. Sai cosa vedo io adesso nella mia fantasia?”
Il bizzarro uomo si fermò, allargando le braccia e chiudendo gli occhi.
“Vedo il molto onorevole signor Andreas Gotthold Steinegge che ha i capelli un poco più bianchi di adesso e sta in casa del suo carissimo amico qui vicino, il quale non ha affatto più capelli. Io vedo questo signore tedesco che tiene un giornale in mano e sta fortemente discutendo sulla questione dello Schleswig-Holstein con il suo amico il quale gli fa portare... un dito, un solo di Valtellina per mandar giù il duca di Augustemburg. Eh? Non è questo?”
Aperse gli occhi un momento per guardar don Innocenzo che rideva e tornò a chiuderli.
“E adesso vedo... Oh, cosa vedo? Una giovane Nixe vestita da viaggio che entra in salotto come una stella cadente, abbraccia il vecchio gufo tedesco e dice che è venuta a passare due giorni fra le acque limpide, i prati, i boschi. "Sola?" dice il gufo. Allora questa Nixe fa un piccolo gesto con un piccolo dito che io conosco...”
Steinegge aperse gli occhi, prese la mano di Edith per baciarla; ma Edith la ritrasse in fretta ed egli, lasciatala, fece quattro gran passi avanti ridendo, e si voltò a guardarla.
“Non è una bella visione?” diss'egli.
Edith tardò un momento a rispondere. Non sapeva che pensare. C'era in quel discorso di suo padre una occulta intenzione, un proposito deliberato?
“Dunque sei stanco di me?” diss'ella. “Vuoi viver solo?”
“Come solo?” esclamò don Innocenzo. “Non sente che vivrebbe con me?”
“Io sono stanco, molto stanco di te” rispose Steinegge “ma non vorrei vivere solo. Verrei a riposarmi della tua compagnia, qui con il signor curato, per qualche mese dell'anno. Vedi, io non scherzo più adesso, io avrei bisogno di stare molto, molto tempo qui con il signor curato.”
Edith guardò quest'ultimo. Era egli entrato nel grande argomento? Si avviavan bene le cose? Il curato guardava con attenzione un baroccio che veniva dalla cartiera, faticosamente, sulla strada male assodata.
“Noi vogliamo cercare una pietra filosofale” continuò Steinegge “una pietra che cangi in oro tutto quello che è brutto, scuro fuori di noi, e, molto più, dentro di noi.”
“E la si trova qui, questa pietra preziosa?” disse Edith, palpitando.
“Io non so, io spero.”
“E perché non la cercherei anch'io con voi?”
“Perché non ne hai bisogno, perché non vogliamo.”
“Ma cosa ne farai di me, papà?”
“Oh, non si sa ancora.”
A queste punto sopraggiunse il baroccio e divise Edith da' suoi due compagni. Don Innocenzo si accostò rapidamente a Steinegge e gli disse all'orecchio:
“Non vada troppo avanti.”
“Non posso” rispose l'altro.
Il barroccio passò.
Erano giunti presso al fiume dove la strada faceva un gomito, scendeva per la sponda destra, lungo i grandi pioppi, fino alla cartiera.
“Lei va” disse Steinegge al curato. “Noi L'aspetteremo qui.”
Scese con sua figlia dal ciglio della strada sul pendìo erboso, sino all'ombra d'un macigno enorme ch'entrava dritto nel fiume. Erano un delizioso poema le acque verdi e pure, un poema popolare antico, di quelli che l'ingenuo cuore umano, troppo pieno di amore e di fantasie, versava. Passavano tra i margini sassosi o fioriti, saltando, ridendo, cantando, serene sino al fondo scabro. Blandivan l'erbe, mordevano i sassi; anche dal filo della corrente venivan su tratto tratto de' fremiti appassionati, si spandevano in leggere spume. A tante voci rispondeva dall'alto il gaio stormire de' pioppi appuntati al cielo di zaffiro.
“Ah” disse Steinegge.

So viel der Mai auch Blumlein beut
Zu Trost und Augenweide...

Edith lo interruppe:
“Perché, papà, mi hai detto quella cosa?”
“Quale?”
“Che vorresti un giorno esser diviso da me.”
“Oh no, non diviso. Solamente io verrei a passare qualche tempo qui. Mai diviso. In niente diviso. Capisci? In niente.”
Disse quest'ultime parole sottovoce, prendendole ambedue le mani.
“Sì, io penso ora per la prima volta che non dobbiamo più esser divisi in qualche cosa qui dentro.”
Si strinse quelle mani sul cuore.
Le labbra, le nari di Edith si contrassero; le si strinse la gola. Egli la trasse giù senza parlare a sedere sull'erba, sedette accanto a lei.
“Io non posso” diss'egli, quasi parlando a se stesso. “Ho il petto pieno di questa cosa. È vero, Edith, noi non siamo stati bene uniti mai. Ti ricordi la sera che sei venuta, quando io entrai in camera e tu pregavi alla finestra? Che angoscia fu per me allora! Io pensai che non mi avresti amato perché non credevo come te. E il giorno dopo, mentre tu eri a Messa, ti ricordi che io sono uscito? Sai cosa ho fatto durante la Messa?”
Egli parlava come uno che non sa se deve ridere o piangere.
“Ho parlato a Dio, l'ho pregato di non mettersi fra te e me, di non togliermi il tuo amore.”
Edith gli strinse convulsamente la mano, serrando le labbra, sorridendogli con gli occhi umidi.
“E tu sei poi sempre stata così tenera, così buona con me che mi hai fatto il paradiso intorno e io ho inteso che Dio mi aveva ascoltato. Questo mi ha commosso perché sapevo di non meritar niente. Oh no, credi. Mi ha commosso, dunque, di vedere che Dio ti permetteva di essere tanto amorosa con me. Ero felice, ma non sempre. Quando noi andavamo in chiesa insieme, io pregavo, ringraziavo Dio, vicino a te; ma pure vi era qualche cosa nel mio cuore, qualche cosa di freddo e di penoso, come se io fossi fuori della porta e tu avanti a tutti, presso l'altare. Insomma mi pareva esser tanto lontano da te. Mi odiavo in quel momento ed ero così stupido di amar meno anche te. Quando poi...”
Esitò un istante, quindi accostò la bocca all'orecchio di Edith, le sussurrò parole cui ella non rispose e ripigliò forte:
“Quanto soffrivo! Una cosa che mi ripugnava tanto! Forse per le memorie irritanti ch'erano nel mio cuore, forse perché ero geloso di quell'uomo nascosto a cui tu confidavi i tuoi pensieri. Non solo, geloso; pauroso anche. Sentivo che anche restando invisibile, sconosciuto, poteva ferirmi, togliermi un poco della tua stima, del tuo amore. Sai che qualche notte non ho dormito per questo? Dopo ti vedevo sempre uguale con me, dimenticavo, tornavo ilare. Ieri, trovandomi ancora con don Innocenzo, stando nella sua chiesa, ho sentito quanto lunga strada avevo fatto in pochi mesi, quasi senza saperlo. Ho avuto l'impressione, come di essere sulla porta aperta di un paese sospirato e non poter entrare. Adesso... senti. Edith, figlia mia.”
Ella, silenziosa, piegò il viso verso di lui, stringendogli sempre una mano fra le sue.
“Sono entrato” diss'egli, a voce bassa e vibrata. Edith abbassò la testa su quella mano, vi fisse le labbra.
“Sono entrato. Non domandarmi come. So che il mondo mi pare inesprimibilmente diverso da quello di prima, ora che ho nell'anima il proposito di abbandonarmi interamente alla tua fede. Come si può dir questo, che io riposo sopra tutto quello che io vedo? Eppure è così; io non ho mai provato una sensazione di riposo simile a questa che mi viene per gli occhi nel cuore. Tu riderai se io ti dico che sento un grande amore per qualche cosa che è nella natura intorno a me. Cosa ne dici, Edith, di tutto questo?”
Ella alzò il viso bagnato di lagrime.
“Mi domandi, papà? Mi domandi?” Non poté dir altro. Il suo sacrificio era stato accettato da Dio, ricompensato subito. L'anima sua traboccava di questa fede mista allo sgomento, allo sdegno di non sentirsi felice.
“Contenta?” disse Steinegge. Scese a intingere il fazzoletto nell'acqua e lo porse a Edith che sorrise, se ne deterse gli occhi.
“Sai” diss'egli “sono contento per un'altra cosa, anche.”
Ella non parlò.
“So del nostro amico Silla che va via dal Palazzo. Pare che non ci è stato affatto il male che si credeva.”
“Papà” disse Edith alzandosi “lo sa don Innocenzo quello che mi hai detto prima?”
“Un poco, solo un poco.”
Ella guardò un momento il grosso macigno a cui era quasi appoggiata e si rizzò sulla punta de' piedi per cogliere un fiorellino che usciva da un crepaccio. Lo chiuse nel medaglione d'onice e disse quindi a suo padre:
“Un ricordo di questo luogo e di questo momento. Dimmelo ancora” soggiunse teneramente “dimmi che sei felice e che questi pensieri sono proprio nati nel tuo cuore. Tornamelo a dire. papà.”
“Guarda dove sono!” disse una voce dalla strada. Edith non la udì, si ripose a sedere sull'erba presso a suo padre, che riconobbe la voce di don Innocenzo, ed esclamò volgendosi a lui raggiante:
“Così presto?”
Don Innocenzo vide, comprese, non rispose.
“Signor curato” disse Edith risalita con suo padre sulla strada. “Ella ritrova un'altra Edith.”
Don Innocenzo si provò a far l'ingenuo, ma ci riusciva solo quando non lo faceva apposta.
“Possibile?” disse, con tale accento di meraviglia da far credere che prendesse alla lettera queste parole: un'altra.
Ma poi non vi ebbero più domande né spiegazioni. Edith camminava a braccio di suo padre, appoggiandogli quasi il capo alla spalla. Don Innocenzo teneva lor dietro soffiando perché il capitano aveva preso un passo di carica. Attraversarono così i prati senza parlare. Don Innocenzo non ne poteva più; si fermò trafelato.
“Bella” diss'egli “quella striscia di lago, non è vero?”
Forse non la vedeva neppure. Gli Steinegge si fermarono.
“Povero conte Cesare” disse il padre dopo un momento di contemplazione. “A proposito, signor curato, avete inteso anche voi che il signor Silla parte questa sera dal Palazzo?”
Edith si staccò da lui, si girò a guardar i prati da un'altra parte.
Oh, furia amorosa di fiori protesi al sole onnipotente, erbe tripudianti, ubbriache di vento, qual ristoro esser voi, viver la vostra vita d'un giorno, sentirsi tacere la memoria, il cuore, quel tumulto faticoso di pensieri assidui a lottar insieme, a fare e disfare l'avvenire; non essere che polvere e sole, non aver nel sangue che primavera!
“Andiamo, Edith” disse Steinegge. Quella cara voce la scosse, la tolse al pensiero non degno.
Salendo alla canonica, Edith precedeva d'un passo a capo chino, il curato e suo padre, vedeva le loro due ombre spuntarle a fianco sulla via. Steinegge incominciò ancora a parlare del Palazzo, ed ella vide l'ombra del curato accennar con la testa; dopo di che Steinegge lasciò cadere il discorso.
Quando rientrarono in casa, Marta li avvertì che il pranzo sarebbe pronto fra pochi minuti. Edith si fece dare da lei la chiave della chiesa, corse via, sorridendo a suo padre.
Tutto era vivo per la campagna, tutto si moveva e parlava nel vento; tutto era morte nella vôta chiesa fredda, tranne la lampada dell'altar maggiore. Una luce debole si spandeva dagli alti finestroni laterali sugli angeli e i santi vinosi del soffitto estatici nelle loro nuvole di bambagia. Edith si inginocchiò sul primo banco, ringraziò Dio, gli offerse tutto il suo cuore, tutto, tutto, tutto; e più ripeteva il suo slancio di volontà devota, più la fredda chiesa muta e persino la fiamma austera della lampada le dicevano: no, non lo puoi, non è tuo; tu speri che quegli ti ami ancora e torni degno di te, sino a che tu possa appoggiarti per sempre al suo petto virile, affrontare con esso e attraversar la vita. Ma ella non voleva che fosse così, e pareva ritogliere quello che aveva liberamente offerto, e si sentiva invadere il cuore da un arido disgusto di se stessa.
Marta venne a chiamarla.
“Signora! Oh signora! Presto ch'è in tavola! Oramai il Signore lo sa cosa ci vuole per lei.”
Edith sorrise.




(continua)

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I classici - Malombra - di Antonio Fogazzaro


7. Malombra


Alle due pomeridiane il commendatore e Silla lavoravano in biblioteca. Preparavano lettere e telegrammi d'affari, liste di persone a cui mandare la partecipazione di morte. Il Vezza aveva una parlantina inesauribile. Seduto al tavolo del conte Cesare, di fronte a Silla, discorrendo, scrivendo, buttando da parte una carta, pigliandone un'altra, non taceva che per guardare la punta della penna, per rileggere con un tal brontolìo inarticolato quello che aveva scritto o per spremersi con la sinistra dalle gote e dal mento qualche frase che non gli veniva pronta come le altre. Ogni tanto, discorrendo, dava un'occhiata a Silla e un tocco discretissimo nell'argomento della misteriosa comunicazione avuta da Marina. Ma quegli rispondeva a monosillabi o non rispondeva affatto. Pensava al colloquio avuto lì col povero conte nell'agosto precedente, la sera dopo il suo arrivo al Palazzo. Gli pareva udire ancora il vocione solenne e quel furibondo pugno sul tavolo. Adesso il sole fendeva obliquo la sala dalle finestre verso il lago, la empiva d'un chiaror verde dorato; e l'uomo giaceva in una camera vicina, senza vita. Quale mutamento! Scriveva, scriveva, buttando egli pure una carta per pigliarne un'altra, non rileggendo mai, trasalendo a ogni tratto nell'accorgersi di una parola omessa o sbagliata. Richiamava i pensieri a raccolta e tosto gli sfuggivano daccapo.
“I telegrammi son fatti” disse il Vezza. “Adesso suoniamo per farli portare. Vuol favorire? Grazie. E le lettere per gli agenti, per i fittabili? Almeno quelli là di Oleggio bisognerebbe informarli subito. Chi ne sa il nome? Mi secca cercare i registri prima che venga il pretore da C... E cosa fa quel benedetto uomo? Sa ch'è anche organista quel pretore lì? Capace, se v'è per caso una funzione in chiesa, di non venire ad apporre i sigilli prima di stasera. E verrà pescando, probabilmente, per guadagnarsi la cena. Non Le pare, Silla, che vi sia un certo odore qui? No? Le assicuro che non vedo l'ora di essere a Milano. E Lei, scusi, che progetti ha?”
Silla rimase un po' sorpreso.
Entrò il cameriere.
“Questi telegrammi” disse il Vezza. “Mandare qualcuno subito.”
“Sa?” ripigliò parlando a Silla “desideravo sapere se ha progetti, perché io avrei una proposta a farle.”
“Quale proposta?”
“Non si prenderebbe intanto una boccata d'aria pura?”
Uscirono nel giardinetto pensile. Il vento passava alto nel vigneto, scendeva a sfuriare nel cortile curvando in qua e in là sulla ghiaia lo zampillo ondulante della fontana: lì taceva.
“Che bellezza e che allegria!” disse il commendatore. “Mi dica un po' se pare che sia morto il padrone?”
“A me sì” rispose Silla.
“A me no. Fa niente, senta. Io ho l'incarico di cercare un insegnante di storia e di letteratura italiana per un eccellente istituto privato di Milano. Ventidue ore alla settimana, due mesi di vacanze, duemila e duecento lire di stipendio. Ci va?”
Silla gli stese la mano, lo ringraziò con effusione.
“Ma” diss'egli “non ho abilitazione.”
“Peuh! non è una difficoltà. M'impegno io per questo. Che diavolo fanno quelli là?”
Quelli là erano il giardiniere e Fanny affaccendati a cogliere fiori nelle aiuole di fronte all'arancera, che di lì s'intravvedevano con una striscia di lago fra l'ala sinistra del palazzo e la muraglia verde semicircolare del cortile.
Il Vezza accennò con la mano a Fanny, che attraversò correndo il cortile e venne sotto la ringhiera del giardinetto.
“Cosa fate?” diss'egli.
“È la mia signora” rispose Fanny in aria di mistero inarcando le sopracciglia e porgendo le labbra.
“Perché? Per il funerale?”
“Off! Sì che gliene importa del funerale! Per il pranzo! Come, non lo sa? Non gliel'ha detto il signor Paolo, che la ci ha ordinato un fior di pranzo, che anzi lui ha detto in cucina che non avrebbe fatto niente senza un ordine suo, di Lei?”
“Signora Fanny?” chiamò il giardiniere.
“Vengo! - E lo sa dove c'è l'ordine di preparare il pranzo? In loggia. Dico io, con questo vento! E io devo star qui a cogliere fiori, che patisco tanto il vento, io!”
“Signora Fanny!” gridò ancora il giardiniere.
“Vengo! - Una bella roba anche questa, neh! Io già a momenti pianto tutto. Non voglio mica diventar come lei, con quest'ariaccia e questo demonio di sole sulla testa.”
“Signora Fanny!” chiamò il giardiniere per la terza volta. “Viene o non viene?”
“Vengo, vengo! - L'è perché se non faccio io, quell'altro là non sa far nulla con garbo. - Me lo diceva anche il signor don Cecchino Pedrati che Lei già lo avrà inteso nominare, perché è una casa grande quella...”
“Sì sì, vada pure” disse il Vezza.
Fanny andò via gridando al giardiniere se non vedeva che i signori le parlavano.
Il commendatore si voltò a Silla.
“Voglio andar a sentire di questo pranzo” diss'egli. “Quella bestia del cuoco che non viene a dirmi niente!”
“È una cosa impossibile” disse Silla.
“Lo credo bene. Non gliel'ho detto, io, stamattina? Tutt'altro che guarita! E il dottore, quando viene.”
“Veramente dovrebb'essere qui a momenti. È venuto stamattina, un minuto prima che la si svegliasse e ha detto che non poteva tornare prima delle due. Adesso c'è a letto con la febbre anche la Giovanna.”
“Signor Silla” disse il Rico dalla porta della biblioteca “ha detto così la signora donna Marina di far piacere ad andar su da lei un momento.”
"Ci siamo" pensò il commendatore. "Bel dramma, però".

Silla entrò in casa senza dir parola.
Il Rico lo accompagnò di sopra, gli aperse l'uscio della camera dello stipo antico.
Marina era ritta in mezzo alla camera, nella luce delle finestre spalancate.
“Lascia aperto” diss'ella al ragazzo, prima di rivolgersi a Silla. “E adesso scendi in giardino, va ad aiutare tuo padre e Fanny. Subito!”
Ella uscì nel corridoio, vi si trattenne un momento ascoltando il ragazzo scender le scale; poi si voltò rapidamente a guardar Silla.
Portava la stessa veste bianca a ricami azzurri della sera precedente; aveva i capelli in disordine, il viso livido.
Silla s'inchinò, ossequioso. Rialzando il viso, la vide voltargli le spalle, muover lenta verso la finestra. Ella tornò poi a furia sulla porta del corridoio, chiamando:
“Rico!”
Ma il ragazzo era già lontano e non intese. Si fermò allora a guardar Silla per la seconda volta e disse:
“Nessuno. Non c'è nessuno.”
Egli non poté fraintendere il lungo sguardo pieno di appassionate domande mute, sentì ch'ella aveva ingannato il Vezza, ma rimase impassibile.
Tutto il fuoco degli occhi di lei si spense a un tratto.
“Buon giorno” diss'ella.
Il saluto parve cader gelato dal terzo cielo.
“Vezza Le ha parlato” soggiunse.
“Sarei partito subito, marchesina, se...”
“Lo so, lo so.”
Silla tacque. Lo stipo d'ebano a tarsie d'avorio, i fiori ancora sparsi per la camera gli ripetevano la terribile storia della notte precedente.
“Lo so” ripeté Marina con voce risoluta e sdegnosa “ma non basta.” E fece un passo verso Silla.
“Lo ha inteso, dunque” diss'ella “che la mia fu una allucinazione?”
Silla accennò di sì. Era a qualche distanza da lei, dall'altra parte del piano. Essa si rovesciò quasi bocconi sul piano, alzando il viso a guardar l'uomo.
“E lo ha creduto?” disse. “Ed è contento di andarsene?” Silla non rispose.
“Già” mormorò Marina, socchiudendo gli occhi come una fiera blandita. “Una cosa naturale, una cosa semplice, una cosa comoda! Va bene!” esclamò rialzandosi.
V'era sul piano un vaso con delle rose e de' grappoli di glicine, sciolti. Ne strappò una manciata, li avventò sul pavimento.
“Partire va bene” diss'ella “ma non basta. Non si sente in dovere di fare altri sacrifici per me?”
La sua voce fremeva, così parlando, d'ironia amara.
“Sono ai Suoi ordini, marchesina” rispose Silla gravemente. “Qualunque sacrificio.”
“Grazie. Dunque sarebbe anche disposto di scrivere al conte Salvador!”
“Al conte Salvador?” esclamò Silla sorpreso. “Cosa dovrei scrivergli?”
“Ch'Ella parte di qua per sempre e non cercherà mai di rivedermi.”
“Questo Le basta?”
“Com'è buono!” disse Marina sottovoce.
“Posso esserlo col signor conte Salvador” rispose Silla freddamente. “Mi sono posto stanotte a sua disposizione, l'ho aspettato un'ora, ed egli non si è lasciato vedere.”
“Ah, lo odia, Lei?”, esclamò Marina con due occhi lampeggianti.
“Io? No.”
Ella si pose a camminare su e giù per la camera, si fermò un tratto, dicendo:
“Ma iersera sì, eh, che lo odiava? Iersera alle undici?”
Silla pensò un momento e rispose:
“Marchesina, è stata un'allucinazione anche la mia.”
Ella rise forte, d'un riso che strinse il cuore a Silla.
“Allora” disse “Le perdono tutto ed è affare finito.”
“Dunque la marchesina non desidera più nulla da me?”
“Grazie” rispose Marina sorridendo amabilmente. “Nulla. Ci vedremo ancora a pranzo, non è vero? Lei pranza qui? Ne La prego” soggiunse perché Silla esitava.
Egli sapeva che questo pranzo non si farebbe, ma non credette prudente di entrare nell'argomento e s'inchinò ringraziando.
Mentr'egli usciva, Marina batté con la mano sullo stipo antico, e disse:
“Sa? Distrutto!”
Silla si voltò, vide la bella mano bianca ch'esprimeva in aria, con un breve gesto, lo sparir di qualche cosa, la bella testa che salutava ancora, sorridendo.
“Meglio” diss'egli.
Appena percorso il corridoio e posto il piede sulla scala si udì, alle spalle, un grido acutissimo. Balzò indietro alla porta ond'era uscito, vi stette in ascolto, trattenendo il respiro. Udì accorrere un fruscìo d'abiti, la chiave girò nella toppa. Silla si allontanò, discese le scale pieno d'inquietudini.
Era Marina che aveva gettato quel grido e poi chiuso l'uscio a chiave. Si diede dei pugni nella fronte per domarsi, aperse lo stipo, trasse il manoscritto sulla ribalta calata, e puntosi il braccio sinistro scrisse col sangue sotto le ultime parole di Cecilia:

C'est ceci qui a fait cela.
3 Mai 1865
Marquise de Malombra,
jadis comtesse Varrega.

Dopo di che aperse un cassetto dello stipo e ne tolse un elegantissimo astuccio da pistole, in cuoio, con lo stemma della famiglia di Malombra, uno scudo d'azzurro alla cometa d'argento, al canton franco di nero, caricato d'un giglio d'argento.
“Sapete” diss'ella, parlando alle armi “ha accettato di partire. Non ha inteso ch'era una prova.”
Silla trovò in biblioteca il commendatore che lo aspettava frugando gli scaffali con il naso e con gli occhi ghiotti. Gli raccontò il colloquio, le ultime parole cortesi di donna Marina, il grido udito dal corridoio; disse che non aveva rifiutato espressamente l'invito a pranzo perché vedeva una donna malata, verso la quale bisognava procedere con le maggiori cautele.
Secondo lui era necessario un sollecito provvedimento medico. Suggerì di telegrafare a questi parenti di Milano che procurassero di portarla via subito dal Palazzo, soggiorno pessimo per lei. Il Vezza rispose che lo farebbe, che intanto aveva sospeso il pranzo e contava sul medico onde persuadere donna Marina di rinunciarvi spontaneamente. Mentre diceva questo, comparve il medico.
Questi ascoltò la relazione dello stato di tranquillità relativa in cui s'era trovata la marchesina svegliandosi e accettò di adoperarsi per farle abbandonare l'idea del pranzo. Promise che sarebbe tornato a dar conto della sua missione.
Stette assente a lungo. Quando ricomparve aveva la sua faccia de' sinistri presagi, la più scura.
“Dunque?” gli chiese il Vezza.
Il medico guardava Silla, esitava a rispondere.
“Ella può parlare liberamente” osservò il commendatore.
“Bene. Io, già, signori, parlo da medico, senza riguardi personali, e dico: andiamo male, dipende da Loro che non vada peggio.”
“Ma guardi!” disse il Vezza. “Pensare che stamattina era tranquillissima!”
“Oh, anch'io l'ho trovata tranquillissima. Al primo vederla mi sono consolato, meravigliato anzi; un minuto dopo, la sua calma non mi piaceva più. Vedono, dopo il travaglio nervoso di stanotte quella donna lì doveva essere a terra, oggi, sfasciata. Ma no; non abbiamo che il pallore veramente straordinario e la cerchiatura livida degli occhi. Manca ogni altro sintomo di stanchezza, di depressione. Abbiamo apiressi completa e un polso di cento battute almeno. Qui, mi son detto subito, l'accesso nervoso sussiste ancora, questa calma non è fisiologica, è una coazione della volontà; e forse tale antagonismo esagera alcuni fenomeni nervosi, la frequenza del polso, per esempio. Le ho parlato di quel tale argomento. La presi pel verso della salute, le dissi che aveva bisogno di quiete, che farebbe bene a restare tutto il giorno in assoluto riposo, e non uscire di camera neppure pel pranzo. Ah!”
Qui il dottore agitò le braccia come se la parola non bastasse più al racconto.
“Confesso che due occhi simili non li ho mai visti. In un minuto secondo è cresciuta un palmo. Mi ha investito con una veemenza! Anzi, se debbo dire il vero, si è scagliata più contro di lei, signor commendatore, che contro di me, perché ha compreso subito, con l'acume de' monomaniaci, che dovevo aver parlato con Lei. Si vede ch'era in sospetto d'una opposizione. Ha detto che si vuole imporle, che non prende lezioni da nessuno, che le rincresce non aver invitate cinquanta persone; e via di questo passo con una irritazione che la soffocava, la faceva tremare come una foglia. Io cercavo di chetarla. Oh, sì, non era possibile, si adirava sempre più. Finalmente dovetti prometterle che tutto si sarebbe fatto secondo i suoi desideri e che anzi mi sarei fermato a pranzo anch'io; e credano, signori, bisogna finirla così. Non consiglierei a nessuno di contraddire una donna che esce da una crisi come quella di stanotte e offre indizi così minacciosi di ricadervi. Ecco.”
“Dunque?” domandò il commendator Vezza.
“Dunque io, per parte mia” rispose il dottore con fermezza “farei quello che desidera, benché non ci avrò davvero tutti i gusti.”
“E se noi due ci astenessimo, Lei crede...”
“Ma! Ripeto che non lo farei.”
Il commendatore consultò Silla con gli occhi.
“Quanto a me” disse questi “non c'interverrò in nessun caso. Si potrà dirle che non sentendomi bene non ho voglia di pranzare e che sono ancora occupato in queste lettere. Meglio ancora; potrò partir prima del pranzo. Del resto, dottore, supponga che donna Marina abbia subìto sino a stanotte l'influenza di una forte scossa morale, e che adesso, per una ragione o per l'altra, se ne sia liberata: non ammette Lei che dei nervi tanto turbati, quantunque rimessi a posto, vibrino ancora per un po' di tempo? Non ammette che, se la causa del male è distrutta, debba ritenersi improbabile una recidiva?”
Il dottore considerò per qualche tempo Silla, prima di rispondere.
“Badi, sa” diss'egli “che quand'anche la causa del male fosse distrutta, non ne discenderebbe mica che adesso si potesse impunemente irritare questa donna, i cui nervi, come dice Lei, vibrano ancora tutti: una donna, noti, molto mal disposta inizialmente se ha potuto accogliere certi fantasmi. Ma, domando io se n'è poi liberata?”
“Parrebbe di sì” rispose Silla “o almeno c'è qualche ragione di sperarlo. Lei stessa lo dice, intanto.”
“E io” replicò il medico “mi perdoni, ne dubito.”
Gli altri due lo guardarono silenziosi, aspettando.
“Stavo per lasciarla” diss'egli “ero già sulla soglia, quando mi richiamò "Dottore, venga qua." Me le avvicino, ella si scopre l'avambraccio sinistro, mi dice: "Vuol vedere delle ferite profonde?". Mi mostra due o tre punture di zanzara e soggiunge: "Si può morire di questo?". Io non capisco, eh; la guardo. "Non crede" dice lei "che un'anima possa passare di lì? Pure le assicuro" dice "che ha cominciato; un pensiero e un segreto ne sono già usciti." Così mi ha detto. Ma facciano grazia, signori, queste parole, nella loro assurdità, non generano il sospetto che sussista sempre la forte preoccupazione morale di cui parlava il signore? Del resto, a quella signora bisogna pensarci sul serio e subito. Qui non può stare.”
“Provvederemo” rispose il Vezza. “Adesso Lei va dalla Giovanna?”
“Vado dalla Giovanna.”
“E ci rivedremo alle cinque?”
“Alle cinque.”
“Oh sì, ho un gran piacere che allora Lei si trovi qui.”
“Io partirò alle cinque” disse Silla.
Il commendatore parve poco contento.
“A che ora” diss'egli “passa da... l'ultimo treno per Milano?”
“Alle nove e mezzo.”
“Oh, allora può partire anche dopo le sei. Così vede come va questo pranzo.”
Il dottore uscì. Gli altri due sedettero al tavolo e ricominciarono a lavorare.




(continua)

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Il vento durava a fischiare e urlare, le onde schiamazzavano intorno al Palazzo, selvaggi spettatori accorsi a un dramma che non cominciava mai, invasi dalle furie dell'impazienza. Era, intorno alle vecchie mura impassibili uno scatenamento di passioni feroci che volevano subito lo spettacolo, volevano veder soffrire, morire, se possibile, uno di questi piccoli re superbi della terra. Che si aspettava? Le onde schiaffeggiavano, insultavano l'edificio, balzavano sullo scoglio a piè della loggia, tempestavano su tutte le rive, si rizzavan lontano, le une dietro le altre, con un largo clamore di folla fremebonda. Il vento saltava a destra, a sinistra, in alto, in basso, impazzito, furioso, passava e ripassava per la loggia stridendo, ingiuriando gli attori invisibili. Anche i cipressi grandi dondolavan la punta, le viti stormivano, i gelsi e i miti ulivi sparsi pe' campicelli si contorcevano, si dimenavano, colti dalla stessa follìa. Le montagne guardavan là, severe. Ma la scena taceva sempre: i personaggi si tenevano ancora nascosti.
Dopo le tre, infuriando sempre il vento, entrarono in loggia Fanny, il cameriere, il giardiniere e il Rico, si affacciarono alle arcate verso il lago, guardando un po' il cielo, un po' i monti, un po' le onde tumultuanti al basso, che urlavano "no, no, non voi!". Parvero consultarsi. Fanny uscì dalla porta di destra gittando col braccio sinistro una imprecazione al cielo ed alla terra; gli altri rimasero. Ella tornò subito, probabilmente con gli ordini della sua padrona, e i tre colleghi le si raccolsero attorno. Uscirono poi tutti insieme da sinistra e rientrarono con un gran tappeto scuro quasi nero, che stesero dalle tre arcate posteriori della loggia a tre delle cinque anteriori, lasciando scoperti a destra e a sinistra due spicchi di pavimento. Poi il giardiniere, aiutato da suo figlio e da due garzoni, portò su dal giardino, con due barelle, moltissimi vasi di camelie, d'azalee, di cinerarie e di calceolarie in fiore e quattro grandi dracene australes. Si portarono pure due gradinate rustiche di legno e si addossarono ai fianchi della loggia tra le due porte e la balaustrata posteriore. Fanny e il cameriere portarono tre piccoli tavoli, quattro poltrone cremisine e una elegantissima giardiniera di metallo dorato, dono giunto a Marina due settimane prima dalla signora Giulia De Bella. Poi donna Marina stessa, stretta nel suo scialletto bianco che le disegnava le forme, entrò lentamente, negligentemente in loggia, si fermò davanti all'arcata di mezzo e cominciò a dare degli ordini senza muovere un dito, indicando i luoghi e le cose col girar della persona e del viso.
L'ombra della costa boscosa a ponente del Palazzo avanzava rapida verso levante. Il vento si rabboniva, le onde si azzittivano come se avessero visto Marina entrar in scena.
Ella vi si trattenne fino a che fu bene avviata l'esecuzione de' suoi ordini, poi si ritirò accennando al Rico di seguirla.
Una scena sontuosa, elegante apparve, a opera finita, dentro dalle colonne austere, dal cornicione accigliato della loggia. Agli angoli le dracene sprizzavan su come getti verdi dall'enormi azalee in fiore aggruppate a' lor piedi, spandevano in alto una piova di sottili foglie ondulate, ricadevano graziosamente. A destra e a sinistra le due gradinate gremite di cinerarie e di calceolarie versavano dall'alto due cascate di mille colori sul tappeto cupo. Sei grandi vasi di camelie, ritti sulla balaustrata posteriore, chiudevano il fondo della scena. Il meno piccino dei tavoli, con due posate, stava quasi addossato all'arco di mezzo; gli altri, a una posata per ciascuno, posti per isghembo a' lati del primo, si fronteggiavano. Tovaglie grigio giallognole di Fiandra li coprivano tutti e tre sino a terra, mettevano in quella nervosa musica di colori tre note quiete e gravi su cui si smorzavano anche i toni acuti dei cristalli e degli argenti. Sul davanti e nel mezzo, la giardiniera dorata di donna Giulia posava sul fondo scuro del tappeto una tenera nudità di giacinti delicati, spogli d'ogni verde, stretti nel baglior del metallo, che tentavano, come un dolce odoroso, il palato, promettendo squisitezze voluttuose, penetranti nel sangue.
“Ai signori e ai matti obbedisce anche il vento” disse Fanny che aveva pensato veder tutto l'apparecchio sossopra in un attimo.
Dopo le quattro e mezzo il commendatore e Silla entrarono in loggia dalla biblioteca; quasi contemporaneamente vi entrò dall'altra parte il medico. Tutti e tre si fermarono attoniti, considerando l'ordine elegante della scena, la pompa dei colori che spiccavano sul tappeto oscuro.
“Tutto lei, capite!” disse il Vezza, ancora più sgomentato che sorpreso.
Era lei, sì, che aveva disposto tutto e vi si vedeva l'immagine sua; un cuor nero, una fantasia accesa, una intelligenza scossa ma non caduta.
“Io torno in biblioteca” disse Silla, “finisco quegl'indirizzi, poi me ne vado dalla scaletta.”
“No, no, La prego!” esclamò il Vezza. “Se assolutamente non vuol pranzare con noi, almeno ci stia vicino. Io le assicuro che ho la febbre addosso. Avremo fatto male, dottore, a essere condiscendenti? Ho dovuto far avvertire i domestici, sa, ch'era ordine Suo di accontentare donna Marina. Per carità, Silla, stia vicino, stia lì nel salotto, almeno. Faccia questo favore a me.”
“Bene” rispose Silla “mi porterò là da lavorare; ma si ricordi, appena finito il pranzo vado via.”
Il dottore era agitatissimo, si giustificava del consiglio che aveva dato, adduceva una quantità di ragioni buone e cattive. Si capiva che dubitava egli stesso di avere sbagliato.
“Non sapevo poi tutto, stamattina” diss'egli “non avevo parlato con la Giovanna.”
Accennò agli altri due di avvicinarglisi.
“Lo sanno Loro come la è stata del povero conte?”
Sapevano e non sapevano. Il dialogo continuò sottovoce.
Silla guardò l'orologio; mancava un quarto alle cinque. Andò in biblioteca a pigliarsi le carte e passò poi nel salotto a lavorare.
Gli altri due, discorrendo, videro passare sotto la loggia il battello di casa condotto dal Rico.
“Dove vai?” gli gridò il Vezza.
“A R... Ordine della signora donna Marina” rispose quegli.
“Doveva ben parlare con me, prima di obbedire a lei” brontolò il commendatore, e riprese il suo discorso.
“Ecco” diss'egli “io lo avrei preparato così, il telegramma. Noti che la persona cui lo dirigo ha molto cuore e una coscienza scrupolosa, ma stenta un poco a muoversi, a pigliare risoluzioni gravi. Dunque direi così: "Per espresso volere medico curante, onde togliermi grandi responsabilità, avverto Lei più stretta parente signorina di Malombra sua salute esige pronto allontanamento questa dimora".”
“Metta prontissimo” disse il dottore.
“Metterò prontissimo.”
“Metta anche...”
Il dottore non poté compir la frase, perché donna Marina comparve sulla soglia.
Vestiva un abito ordinato da lei alla sua antica sarta di Parigi che ne conosceva bene l'umor bizzarro, un ricco e strano abito di moire azzurro cupo, a lungo strascico, da cui le saliva sul fianco destro una grande cometa ricamata in argento. Sul davanti della vita accollata, attillatissima, era inserto un alto e stretto scudo di velluto nero arditamente traforato nel mezzo, in forma di giglio, sulla pelle bianca. Marina non era più così pallida; un lieve rossor febbrile le macchiava le guance; gli occhi brillavano come diamanti.
“Musica!” diss'ella sorridendo e guardando il lago. “Quella che vuoi, lago mio! Non è vero, Vezza, che la musica è ipocrita come un vecchio ebreo e ci dice sempre quello che il nostro cuore desidera? Non è per questo che ha tanti amici?”
“Marchesina” rispose quegli cercando di fare il disinvolto “fuori di noi non c'è musica, non c'è che un vento. Le corde sono dentro di noi e suonano secondo il tempo che vi fa.”
“Da Lei ci deve far sempre sereno, eh? Un sereno cattolico: e queste onde Le dicono: come è dolce ridere, come si balla bene, qui! - Dov'è il signor Silla?”
“Ecco...” incominciò il Vezza imbarazzato.
“Partito no!” esclamò donna Marina fieramente, afferrandolo per un braccio e stringendoglielo forte.
“No, no, no, è qui” rispose colui in fretta “ma debbo fare le sue scuse. Non si sente bene, non potrebbe pranzare; e siccome ha avuto la gentilezza di offrirmi il suo aiuto per alcune faccende urgenti, così adesso...”
Ella non lo lasciò finire, gli chiese imperiosamente
“Dov'è?”
Le tremava la voce.
“Ma” rispose il commendatore, titubante. “Non so... poco fa era in biblioteca...”
“Vada e gli dica che lo aspettiamo.”
“È nel salotto” disse il medico. “È occupato a scrivere. Accetti le sue scuse, marchesina, ne La prego.”
Ella rifletté un istante e poi rispose con voce vibrata:
“La Sua parola, ch'è nel salotto!”
“La mia parola.”
“Bene” diss'ella pacatamente “verrà più tardi senza esser chiamato. - Del resto, caro Vezza, da me ci fa nuvolo, un tempo triste. Dica Lei, dottore, non è una malattia la tristezza? Non abbassa la fiamma della vita? Ella mi darebbe dei cordiali se mi sentisse il sangue scorrer più lento; qualche sinistro alcool mascherato. Ma se io prendo invece gli spiriti vitali dei fiori, l'aria pura, la conversazione degli uomini sereni come il nostro amico Vezza, degli uomini esperti del dolore come Lei, chi vorrà censurarmi? Ecco sciolto, signori, l'enigma di questo pranzo, e pranziamo. Lei qua, Vezza, presso a me; e Lei, dottore, lì, alla mia destra.”
Il pranzo incominciò.
I commensali di donna Marina tacevano, gustavano appena delle vivande. Il commendatore deplorava in cuor suo che il pranzo finissimo, servito con eleganza squisita, tra i fiori, da una giovane e bella donna, gli fosse capitato in un momento disadatto e in circostanze tali da non poterlo affatto gustare né con il palato né con lo spirito. E accarezzava la sola idea piacevole che gli sorridesse in mente: raccontar la scena nei salotti di Milano, con arte, a cuore placido. Si guardava cautamente attorno, imparava a memoria le dracene e le azalee, le cascate di cinerarie e di calceolarie, sbirciava il moire della sua vicina, e per quanto poteva, il giglio bianco nello scudo di velluto. Ma gli occhi curiosi dei fiori schierati sulle gradinate come in un teatro, gli dicevano che lo spettacolo non era finito.
Il dottore studiava continuamente Marina, temendo qualche accesso come quello della sera precedente o della notte in cui era entrata la prima volta dal conte. Si teneva pronto, spiava, senza parere, ogni movimento di lei. Egli comprendeva solo adesso l'importanza attribuita da Marina a questo pranzo e si rimproverava di avervi acconsentito. Non poteva difendersi da tristi presentimenti. Il luogo così aperto sul cortile e sul lago gli metteva paura. E gli metteva paura il contegno sempre più inquieto di Marina, che dopo un cucchiaio di zuppa non aveva mangiato punto.
“Che silenzio” diss'ella finalmente. “Mi par d'essere fra le ombre. Somiglio a Proserpina?”
“Oh!” rispose il commendatore storditamente. “Lei farebbe risuscitare i morti.”
Subito gli venne in mente l'uomo sfigurato che giaceva sotto un lenzuolo a pochi passi dalla loggia; gli corse un brivido nelle ossa.
“Pure” replicò Marina “i miei ospiti sono lugubri come giudici infernali. Versatemi del Bordeaux” diss'ella al vecchio cameriere che serviva solo, più lugubre ancora dei convitati. “Anche a questi signori.”
Il cameriere obbedì. Devoto al povero conte da lui servito per ventidue anni, gli pareva d'essere alla tortura. Versava con mano tremante, facendo tintinnare il collo della bottiglia sull'orlo dei calici.
“Vi prego di assaggiar questo vino” disse Marina.
“Pensatelo, adesso. Non vi trovate un lontano sapore d'Acheronte?”
Il commendatore alzò il calice, lo sperò, vi posò ancora le labbra e disse: “Ha qualche cosa d'insolito.”
“Supponga dunque, commendatore Radamanto” disse Marina con voce commossa, contraendo nervosamente gli angoli della bocca “che per certe mie ragioni io abbia pensato...”
Si lasciò cadere sulla spalliera della poltrona, porgendo le labbra, facendo con la mano l'atto di chi butta via sdegnosamente una cosa spregevole.
“Sa” diss'ella “questa vita è così vile! Supponga dunque ch'io abbia pensato di aprir la porta e uscire quando muore il sole, in mezzo ai fiori, portando meco alcuni amici di spirito pel caso che il viaggio fosse troppo lungo. Supponga che in quel Bordeaux...”
Il Vezza trasalì, guardò il cameriere ritto presso la porta di sinistra, impassibile.
“Oh!” esclamò Marina “come mi crede subito!”
Si fe' versare dell'altro vino e si recò il calice alla bocca.
“Sapore insolito?” diss'ella. “Se è puro, questo Bordeaux, come un'Ave Maria! È stato uno scherzo di Proserpina. - Bevete” proseguì concitata “cavalieri dalla triste figura. Provvedetevi di cuore e di spirito”
Il dottore non bevve. Sentiva venire una tempesta. Il Vezza si accostò invece al consiglio di donna Marina e vuotò il suo bicchiere.
“Bravo!” diss'ella facendosi pallida. “Si ispiri per una risposta difficile.”
“Di Proserpina in Sfinge, marchesina?”
“In Sfinge, sì, e vicina a diventar di pietra o più fredda ancora! Ma che prima parlerà, dirà tutto. Dunque...”
Ell'era andata diventando sempre più pallida. A questo punto un tremito di tutta la persona le spezzò la voce. I due uomini si alzarono in piedi. Ella strinse il coltello, ne ficcò rabbiosamente la punta nel tavolo.
“Quieta, quieta” disse il medico pigliandole una mano gelata, piegandosi sopra di lei. Ella si era già vinta, respinse la mano del medico e si alzò.
“Aria!” diss'ella.
Passò con impeto fra il tavolo suo e quello del dottore, e si slanciò alla balaustrata verso il lago.
Il dottore le fu addosso d'un salto per afferrarla, trattenerla.
Ma ella si era già voltata e piantava in viso al Vezza due occhi scintillanti.
“Dunque” esclamò affrettandosi di parlare, di far dimenticare un momento di debolezza “crede Lei che un'anima umana possa vivere sulla terra più di una volta?”
E perché il Vezza, smarrito, sgomento, taceva, gli gridò:
“Risponda!”
“Ma no, ma no!” diss'egli.
“Sì, invece! Lo può!”
Nessuno fiatò. Il giardiniere, il cuoco, Fanny, avvertiti dal cameriere, salirono frettolosi le scale per venire ad origliare, a spiare. Il vento era caduto; le onde lente sussurravano a piè dei muri: "Udite! udite!".
E nel silenzio vibrò da capo la voce di Marina.
“Sessant'anni or sono, il padre di quel morto là” (ell'appuntò l'indice all'ala del Palazzo) “ha chiuso qui dentro come un lupo idrofobo la sua prima moglie, l'ha fatta morire fibra a fibra. Questa donna è tornata dal sepolcro a vendicarsi della maledetta razza che ha comandato qui fino a stanotte!”
Teneva gli occhi fissi sulla porta a destra, ch'era aperta perché avean disposto la credenza nella sala vicina.
“Marchesina!” le disse il dottore con accento di blando rimprovero. “Ma no! Perché dice queste cose?”
In pari tempo le pigliò il braccio sinistro con la sua mano di ferro.
“Là c'è gente!” gridò Marina. “Avanti, avanti tutti.”
Fanny e gli altri fuggirono, per tornar poi subito in punta di piedi a spiare, nascondendosi da lei.
Silla venne sulla porla del salotto. Di là non poteva veder Marina, ma la intendeva benissimo. Adesso diceva:
“Avanti! egli non viene perché la sa la storia. Ma non la sa tutta, non la sa tutta; bisogna che gli racconti la fine. Tornata dal sepolcro, e questo è il mio banchetto di vittoria!”
La voce, subitamente, le si affiochì. Ell'abbracciò la colonna presso cui stava, vi appoggiò la fronte scotendola con veemenza come se volesse cacciarvela dentro, mise un lungo gemito rauco, appassionato, da far gelare il sangue a chi l'udiva.
“L'infermiera, la donna di stanotte!” disse forte il medico verso la porta, e si voltò poi a Marina, di cui teneva sempre il braccio.
“Andiamo, marchesina” diss'egli dolcemente “ha ragione, ma sia buona, venga via, non dica queste cose che le fanno male.”
Ell'alzò il viso, si ravviò con la destra i capelli arruffati sulla fronte, trapassando ancora con l'occhio avido la porta e la sala semioscura. Sul suo petto ansante il giglio scendeva e saliva, pareva lottar per aprirsi. La moglie del giardiniere si affacciò alla porta. Ella le accennò violentemente, con il braccio libero, di farsi da banda, e disse al medico parlando più con un gesto che con la voce:
“Sì, andiamo via, andiamo nel salotto.”
“E nella Sua camera non sarebbe meglio?”
“No, no, nel salotto. Ma mi lasci!”
Ella disse quest'ultime parole in atto così dignitoso e fiero che il dottore obbedì, e si accontentò di seguirla. A lui premeva sopra tutto, in quel momento, allontanarla dalla balaustrata.
Marina s'incamminò lentamente, tenendo la mano destra nella tasca dell'abito. Il Vezza e il cameriere la guardarono passare, allibiti. Il dottore che la seguiva, si fermò un momento per dar un ordine all'infermiera. Intanto Marina arrivò alla porta.
Fanny, il cuoco e il giardiniere s'erano tirati da banda per lasciarla passare senza esserne visti. In sala le imposte erano chiuse a mezzo e le tende calate.
Silla stava sulla soglia del salotto. Vide Marina venire ed ebbe un momento d'incertezza. Non sapeva se farsi avanti o da parte o ritirarsi nel salotto. Ella fece due passi rapidi verso di lui, disse “Oh, buon viaggio” e alzò la mano destra. Un colpo di pistola brillò e tuonò. Silla cadde. Fanny scappò urlando, il dottore saltò in sala, gridò agli uomini - tenerla! - e si precipitò sul caduto. Il Vezza, il cameriere, l'altra donna corsero dentro gridando a veder chi fosse. Il giardiniere e il cuoco vociferavano, si eccitavano l'un l'altro a trattener Marina, che voltasi indietro, passò in mezzo a tutti, con la pistola fumante in pugno, senza che alcuno osasse toccarle un dito, attraversò la loggia, ne uscì per la porta opposta, la chiuse a chiave dietro di sé. Tutto questo accadde in meno di due minuti.
Il giardiniere e il cameriere, vergognandosi di sé irruppero sulla porta, la sfondarono a colpi di spalla. Il corridoio era vuoto. Si fermarono incerti, aspettando un colpo, una palla nel petto, forse.
“Avanti, vili!” urlò il dottore slanciandosi in mezzo ad essi. Si fermò nel corridoio, stette in orecchi. Nessun rumore.
“Fermi lì, voi” diss'egli e saltò nella camera del conte.
Vuota. Le candele vi ardevano quiete.
Entrarono, egli nella camera da letto, gli altri due in quella dello stipo. Vuote.
Il dottore si cacciò le mani nei capelli, esclamò rabbiosamente:
“Maledetti vili!”
“In biblioteca!” disse il giardiniere.
Saltarono giù per le scale, il dottore primo. Toccato il corridoio, udì un urlìo, distinse la voce del commendatore che gridava:
“La barca! la barca!” Corse in loggia, s'affacciò al lago.
Marina, sola nella lancia, passava lì sotto, pigliava il lago piegando a levante. Sul sedile di poppa si vedeva la pistola.
“Al battello!” disse il dottore.
Il Vezza gli gridò dietro:
“Per la scaletta segreta!”
Scesero per la scaletta segreta. Il dottore cadde e ruzzolò sino al fondo; ma fu tosto in piedi, a tempo di udire una imprecazione del giardiniere che si fermò di botto sulla scala.
“Il battello non c'è” diss'egli. “L'ha mandato via col Rico prima di pranzo.”
“Sarà tornato!” disse il dottore e spinse palpitando l'uscio della darsena.
Vuota. Le catene del battello e della lancia pendevano sull'acqua.
Fu per stramazzare a terra. Lì vicino, lo sapeva bene, non vi erano altre barche.
“Giardiniere!” diss'egli. “Al paese! Una barca e degli uomini.”
Il giardiniere sparve per la porticina del cortile.
“Dio, Dio, Dio!” esclamò il dottore alzando le braccia.
Gli altri continuavano a gridare dalla loggia “Presto! Presto!”
Ed ecco il giardiniere tornare di corsa.
“Occorre anche il prete?” diss'egli.
Il dottore gli mise i pugni al viso.
“Stupido, non vedi che sono venuto via io?”
Colui non capì bene, ma tornò via, e il dottore corse di sopra.
Una finestra dell'ultimo piano si aperse, una voce debole domandò:
“Cosa c'è? Cos'è accaduto?”
Era la Giovanna.
Qualcuno rispose dal cortile:
“È succeduto che hanno ammazzato il signor Silla.”
“Oh Madonna Santa!” diss'ella.
Si udì il giardiniere gridare da lontano. Altre voci gli rispondevano. Il passo d'un contadino che scendeva a salti suonò sulla scalinata; lo seguì un altro. Venivan curiosi, avvertiti da una scintilla elettrica. Il padrone era morto; entrarono in casa arditamente. De' ragazzi passarono il cancello del cortile, scivolarono in casa essi pure, saliron le scale. Volevano entrare nel salotto, sapevano che l'uomo era là. Ne uscì il dottore entratovi un momento prima.
“Via” diss'egli con voce terribile.
I ragazzi fuggirono.
Quegli parlò a qualcuno ch'era rimasto dentro.
“Fino a che non venga il pretore, nessuno!”
Poi chiuse l'uscio.
Il Vezza e gli altri si strinsero attorno affannati.
“Euh?” diss'egli. “Non ve l'ho detto prima? Passato il cuore.”
Una finestra della sala era stata spalancata. Egli vi accorse e dietro a lui, in silenzio angoscioso, tutti: il Vezza, la gente di servizio, i due contadini. Fu aperta anche l'altra finestra. Saetta era già lontana a capo d'una lunga scia obliqua sul lago quasi tranquillo. Marina si vedeva bene, si vedeva l'interrotto luccicar dei remi. Il Vezza, ch'era miope, disse:
“È ferma.”
Intatti non pareva avanzasse.
“No, no” risposero gli altri.
Uno dei contadini, soldato in congedo, ch'era salito sopra una sedia per veder meglio, disse:
“Con una carabina la butterei giù.”
Fanny andò via singhiozzando, poi tornò a guardare.
“Ma, per Dio, dove va?” esclamò il dottore.
Nessuno rispose.
Un minuto dopo, il contadino ch'era in piedi sulla sedia, disse:
“Va in Val Malombra. È dritta in mira alla valle.”
Fanny ricominciò a strillare. Il dottore l'abbrancò per un braccio, la trascinò via e le impose di star zitta.
“Perché in Val Malombra?” diss'egli.
“C'è un sentiero che passa la montagna” rispose l'altro “e mena poi giù sulla strada grossa.”
“Non si può prenderlo quel sentiero dalla riva di Val Malombra” osservò il secondo contadino.
“Si può sì. Basta andar su al Pozzo dell'Acquafonda. È un affare di cinque minuti.”
“Eccoli!” gridò la moglie del giardiniere.
Un battello a quattro remi usciva rapidamente dal seno di R... per gettarsi di fianco sulla lancia.
Il dottore si accostò le palme alla bocca, urlò a quella volta: “Presto!”
“La prenderanno?” chiese il commendatore.
“In acqua, no” si rispose. “La lancia in quattro colpi è a terra: per quelli là ci vogliono dieci minuti.”
Saetta si avvicinava al piccolo golfo scuro di Val Malombra. Il battello era in faccia al Palazzo. Ad un tratto due uomini lasciarono i remi e saltarono di prora gridando, non s'intendeva che.
“Una barca!” esclamò il dottore.
“Ferma!” urlò con quanto fiato aveva. “Ferma la lancia!”
Poi si volse ai due contadini.
“È il pretore. In fondo al giardino voialtri! E gridate!”
Urlò ancora, spiccando le sillabe:
“Assassinio! Ferma la lancia!”
Infatti un'altra barca veniva da levante verso il Palazzo, passava allora a un tiro di fucile da Saetta. Malgrado il vociar disperato dal battello e dal Palazzo, quella barca seguiva sempre, tranquillamente, la sua via.
“Non sentono” disse il dottore. “Gridate tutti, per Dio!”
Egli stesso fece uno sforzo supremo.
Il Vezza, i domestici, le donne gridarono con voce strozzata, impotente:
“Ferma la lancia!”
La barca veniva sempre avanti.
Saetta scomparve.





(continua)

_________Aurora Ageno___________
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I classici - Malombra - di Antonio Fogazzaro


7. Finalmente amato


Un'ombra nera comparve sulla porta aperta del salotto di don Innocenzo, nascondendo il cielo stellato; una voce disse:
“Niente.”
Il curato non la riconobbe, alzò il paralume della lucerna.
“Ah! Niente?” diss'egli.
“Niente?” ripeté Steinegge.
Si alzarono ambedue in fretta, si accostarono al nuovo venuto.
“C'erano sei uomini” disse costui, il sindaco, con la sua soffice e solida placidità lombarda. “Quattro guardie nazionali e due carabinieri. Han girato tutto il bosco. Già, se ci fosse stata, l'avrebbero trovata anche i primi quattro del battello che sono arrivati a terra un dieci o dodici minuti dopo di lei. È bell'e da vedere dov'è quella lì.”
Steinegge gli accennò, con una faccia supplichevole, di tacere, di uscire. Il sindaco non capiva, ma seguì nell'orto gli altri due che, fuori, gli sussurravano una parola.
“Ah!” diss'egli.
Non aveva veduto nel salotto un'altra persona seduta in un angolo tra il canapè e la parete. Ella non aveva dato segno di vita all'apparir del sindaco né durante il suo discorso, ma si alzò poi che il salotto rimase vuoto e venne sulla porta dell'orto dove il lume della modesta lucernetta moriva nelle grandi ombre chiare della notte serena senza luna.
“C'è chi vuol sostenere” diceva il sindaco dilungandosi con il curato e Steinegge verso il cancello “che abbia preso i monti. Ma s'immagini un po' una donna come quella se vuol prendere i monti! Per andar dove, poi? Io non ci metto nessun dubbio. Lei, è giù, quieta come un olio, nel Pozzo dell'Acquafonda, sa bene, quel buco che c'è là in Val Malombra.”
Edith non poté udire altro, perché coloro svoltarono il canto della casa e in cucina c'era crocchio, si parlava forte. Ell'andò a sedere sul muricciuolo in faccia alla porticina chiara che gittava tante chiacchiere nella notte solenne.
Erano tutte donne là in cucina, vecchie comari linguacciute, amiche di Marta.
“Maledette zucche” diceva una voce rude, soverchiando le altre “non capite che la è sempre stata matta, peggio, quasi, di quella d'una volta? Lui era il suo amoroso, che anche l'estate passato, quando fu qui, si trovarono insieme di notte fuori di casa, e questo lo ha raccontato anche il pitòr se vi ricordate bene. Adesso lui voleva piantarla e lei non ha detto né uno né due, e ha fatto il colpo. Eh! Ce ne sono bene tutti i giorni, sulle gazzette di quei fatti lì!”
“Oh anima!” disse un'altra comare. “E come faceva ad averci le pistole?”
“Ce l'ha sempre avute le pistole. Almeno questo agosto ce le aveva di sicuro, perché il giardiniere lo raccontava che la sua padroncina si divertiva a sparare addosso alle statue.”
“E il signor dottore” saltò su una terza “dice che aveva paura che la si volesse ammazzar lei; ma che non ci è mai venuto in mente che volesse ammazzar quell'altro.”
“Non avrà saputo bene la storia. Sì che si voleva ammazzare quella lì! Dicono ch'è giù nel Pozzo dell'Acquafonda. Credeteci voialtre. So anch'io che non l'hanno trovata. Una gamba di quella sorta! L'ho incontrata io due o tre volte su per i boschi. Bisognava vedere che demonio! Chi sa dove l'è a quest'ora. Guardate, se ha incontrato quella compagnia di zingari che c'è intorno, non mi stupirei niente che si fosse messa con loro. E non son mica io sola che la pensi così.”
Le altre non credevano, dicevano che bisognerebbe scandagliare il Pozzo dell'Acquafonda. Ma questo non era possibile per la profondità grande e perché il Pozzo era tutto a gomiti.
Intanto il sindaco, il curato e Steinegge ritornarono, sempre discorrendo, sui propri passi. Essi dovettero vedere bene Edith sul muricciuolo, perché dalla porta della cucina un poco di chiarore giungeva sino a lei.
“Credano pure” diceva il sindaco “qui la è una voce sola: se lei era matta, lui era un poco di buono anche lui. Perché già è stata una gran figura quella di venir qua a far l'amore con la signora donna Marina intanto che il povero signor conte era in punto di morte, e proprio quando lei doveva sposarsi con un altro. Ci pare? Diceva giusto il pretore stasera che la ci sta bene d'aver fatto quella fine.”
Steinegge avea visto Edith, ma pensò che fosse meglio per lei udire queste cose, poiché il curato gli aveva fatto sperare che non si trattasse di una passione profonda.
“Mi sono ingannato anch'io” diss'egli “ed era facile ingannarsi su quest'uomo, perché era simpatico, assai simpatico. Io credo che era infinitamente meglio in parole che in fatti. Non ha mai avuto sentimento vero né per la marchesina di Malombra né per altra persona, io direi. Vedete, ho conosciuto molti di questi letterati. Sono tutti così. Sentono l'amore ora qui ora lì come un male nervoso che non è mai serio. L'altro giorno è corso al Palazzo, oggi andava via, chi sa domani dove si sarebbe attaccato!”
“Bene” disse don Innocenzo “parce sepulto.”
“E ha sentito della lettera?” disse il sindaco.
“No. Che lettera?”
“Questo è il bello. Quel signor commendatore ha come frugato nella roba del signor Silla e ci ha trovato dentro una lettera incominciata. Non c'è su nomi, non c'è su che "caro zio" e poi una pagina di scritto che somiglia a un testamento. Pare proprio che sapesse di esser vicino a fare la fine che ha fatta. Come la spiegano loro?”
“Lo avrà minacciato di ammazzarlo” disse don Innocenzo.
“Gran brutte cose” concluse il sindaco “gran brutti pasticci! Anche viver da galantuomini è una bella roba, non è vero, signor curato? Di quegli affari lì non ne capitano.”
“Non giudichiamo nessuno” rispose il curato.
Dopo un breve silenzio il sindaco tolse congedo. Gli altri due lo accompagnarono sino al cancello. Quando egli si fu allontanato, Steinegge cinse col braccio la vita di don Innocenzo, gli posò la fronte sopra una spalla.
“Povera Edith, povera Edith” diss'egli.
“Non tema, è forte la Sua Edith, e ha poi in sé un'altra forza che vince tutto, anche la morte.”
“Sì, ma soffrirà, soffrirà! Non Le pareva però che gli fosse molto attaccata, non è vero? Me lo ha già detto, ma me lo dica ancora, mi dica proprio sinceramente quel che pare a Lei.”
Era scuro, per fortuna, e Steinegge non poteva vedere sul viso sincero di don Innocenzo i suoi veri convincimenti, il dolore d'aver incoraggiato esso pure l'affetto di Edith per quell'infelice.
“Mi pare di no” rispose strascicando le parole. “Spero di no. Era una conoscenza molto recente. Spero che potrà dimenticare presto ogni cosa come un brutto sogno. Ha pensato bene Lei, di partire domattina. Me ne dispiace, ma è necessario. Là a Milano bisogna non parlarne più, mai più. E adesso zitto.”
Si avvicinarono a Edith camminando adagio, senza parlare. Quando arrivarono a lei, ella si alzò, si unì ad essi. Tornarono insieme, lungo il muricciuolo, sino in faccia alla porta del salotto. Steinegge piegò a quella volta, Edith sedette sul muricciuolo.
“Ah” diss'egli fermandosi “io credeva...”
“Non qui, papà?”
“Mi pare che per te fosse meglio entrare.”
Ella si alzò, abbracciò silenziosamente suo padre e rientrò in salotto con lui, andò a sedere nell'angolo di prima. Steinegge e il curato sedettero anch'essi muti, guardando oscillar l'ombra intorno al piedestallo della lucerna. Le voci della cucina si spensero. Una dopo l'altra le amiche di Marta passarono nell'orto, come ombre di lanterna magica, davanti al salotto, sussurrandovi dentro un riverisco. Si udì il canto dei grilli e delle rane giù per le bassure dei prati.
“A che ora gli hai detto, papà, al vetturino?” chiese Edith.
“Alle cinque e mezzo, cara, per il treno delle otto e mezzo.”
“E adesso che ore sono?”
“Le dieci.”
Non parlarono più. Un quarto d'ora dopo entrò Marta per vedere se vi fossero disposizioni di andare a letto. Guardò un momento, esitante, il suo padrone e si ritirò in punta di piedi come sarebbe uscita di chiesa in un momento solenne. Poco dopo rimise dentro la testa e domandò se doveva chiudere le imposte.
“No no” rispose Edith.
“Non è un poco umido?” disse Steinegge volgendosi a don Innocenzo.
“Oh no, a quest'altezza no” rispose il curato.
Ma Edith, si curava ella se fosse o non fosse umido? Per quella porta si vedeva un arco di cielo azzurro, tutto occhi scintillanti.
Stelle, soggiorno di pace, come siete lontane, dolcezza e speranza nostra! Come si sente, guardandovi quando il cuore è puro, la piccina vanità odiosa di tante cose che paiono grandi al sole, la bellezza sublime della morte! Indefinita via delle anime che salgono eternamente di vita in vita, di splendore in splendore, come si sospira, nella tristezza, che la notte veridica tolga via dagli occhi nostri il chiarore cieco che nasconde te e le tue case lucenti! Allora lo spirito vien meno di desiderio, si figura essere atteso lassù, esser compianto, esser guardato con dolcezza grave da gente che ci ama, conosce il mistero che ci condanna qui al dolore, conosce i nostri pensieri e vede i nostri errori tacendo, perché un'alta potenza inflessibile lo vuole.
Marta girava per la cucina, sprangava gli usci, tossiva, preparava i lumi, battendoli sulla tavola. Allora Edith ruppe il silenzio.
“Sarai stanco, papà” diss'ella “e domani devi svegliarti per tempo.”
Steinegge fu lievemente commosso di udir così calma la dolce voce.
“Io credo che andrò a letto, sì” diss'egli. “Domattina prima di partire debbo stare anche un poco qui col signor curato.”
Questi chiamò Marta, le disse di portare un lume e di porre le chiavi della chiesa in salotto, sul tavolo, prima di andare a coricarsi.
Edith non si moveva.
“E tu” disse Steinegge “non vieni?”
Ella rispose che non aveva sonno, lo pregò di lasciarla ancora un pochino con don Innocenzo, per quest'ultima sera.
Suo padre si dolse affettuosamente che lo mandasse a letto lui.
“Ma tu ne hai bisogno” diss'ella.
Lo abbracciò, gli sussurrò all'orecchio un saluto commosso. Egli balbettò poche parole incomprensibili, prese il lume e salì le scale come se andasse, colla sciabola in pugno, al nemico.
Marta recò un altro lume pel suo padrone; ma don Innocenzo, a un cenno di Edith, congedò la domestica, le disse di andare pure a letto.
Appena si dileguò su per le scale il rumore de' passi di costei, Edith giunse le mani e guardò il curato.
“Dio L'ha esaudita” diss'egli. “Ha accettato il suo sacrificio.”
Ella lo guardava sempre, a mani giunte, e non parlava; ma le si vedevano lagrime negli occhi. Don Innocenzo, guadagnato, oppresso da quel dolore intenso, tacque.
Edith piegò la fronte sul braccio del canapè e disse piano, con voce soffocata:
“Non poterlo difendere!”
Riprese dopo un momento di silenzio.
“Anche mio padre! Tanto ingiusto!”
“Ma no, ingiusto” si provò a dire don Innocenzo.
Ella alzò una mano senza rispondere, indi la posò sul legno, lo strinse nervosamente, mordendosi le labbra e, vinto il singhiozzo che l'assaliva, disse:
“Venga qua.”
Il curato, stretto egli pure alla gola dall'emozione, sedette sul canapè, vicino a lei.
“Vengo” diss'egli “ma non parliamo di questo, parliamo dell'altra buona notizia che Suo padre Le ha dato e che ha dato anche a me. Tutto il resto è stato un cattivo sogno di cui non abbiamo colpa; dimentichiamolo.”
“No” rispose Edith con passione “non me l'ha detto Lei ieri sera che dovevo portarlo nel cuore? E adesso che tutti lo accusano, lo insultano, ed egli non può dire una sola parola di difesa, avendone tante, io, don Innocenzo, lo dimenticherò, lo abbandonerò anche col pensiero? Mai fin che avrò vita, e spero che lo potrà sapere nel mondo più giusto in cui si trova. Lui senza sentimento? Ascolti.”
Il curato piegò il fianco e il capo verso di lei che sempre china sul braccio del canapè, parlava con un fil di voce.
“Vorrei che lo avesse conosciuto come l'ho conosciuto io. Aveva un sentimento vero, sa, più delicato di quello di una donna. Ed è stata la sua sventura, perché così non poteva riuscire nel mondo né intendersi con la gente solita. E si è chiuso in sé, nelle sue amarezze. Quando poi gli è mancato un ultimo appoggio, è caduto. Io credo che avesse religione: ho inteso da lui discorsi pieni di sentimento religioso. Quando parlava di Dio e dello spirito, si esaltava. Aveva capito, egli, i miei segreti pensieri circa mio padre e li approvava nel suo cuore. Me ne sono accorta un giorno dal modo che mi guardò incontrandoci mentre uscivamo dal Duomo, mio padre ed io. Veniva da noi quasi tutti i giorni e non ho mai udita una parola che fosse da riprendere. Era scrupoloso in questo. Noi in Germania non siamo educate come le giovani italiane e conosciamo più il mondo: ma egli aveva un tal rispetto per me, una tal prudenza in tutti i suoi discorsi, come se io fossi una bambina di dieci anni. Anche nella sera al passeggio mi parlò con effusione di cuore, senza una parola sola diretta che potesse turbarmi e farmi arrossire. E adesso sentir quel sindaco fare quei discorsi orribili!”
“No... non mi pare...” balbettò don Innocenzo.
“Ho udito tutto, tutto, signor curato. Io sono sicura che se egli è ritornato al Palazzo, vi fu richiamato da lei, chi sa in che modo, con quali istanze! Mi ricordo troppo i discorsi che mi ha fatto andando all'Orrido. Le dico che sono sicura come se avessi veduta la lettera o il telegramma. E lui allora era negletto o respinto da tutti. Chi sa, chi sa, don Innocenzo, che cattivi pensieri avrà avuto, povero giovane, vedendosi trattar così bruscamente da me, con tutti i miei principii religiosi! Lui che domandava aiuto per non affondare! Potevo ben fare diversamente, esser sincera, parlargli allora come gli ho scritto dopo; ma ho creduto...”
Non poté continuare.
“No, signora Edith” rispose don Innocenzo “non bisogna mettersi in mente queste cose. Come poteva Ella prevedere un caso simile? Volendo compiere un sacrificio tanto nobile, si è comportata nel modo più saggio, con lo scopo di non favorire illusioni, di lasciare il giovane interamente libero. La sua coscienza è purissima e dev'essere tranquilla.”



(continua)

_________Aurora Ageno___________
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05/12/2007 15:19



Dopo qualche tempo Edith levò il viso.
“E non esser qui domani!” diss'ella.
“È meglio, creda. Non potrebbe dissimulare con suo padre: e chi sa quanto soffrirebbe di vederla così.”
“Almeno” sussurrò Edith “guardi che qualche pietosa creatura lo segua anche lui. Preghi anche dopo” soggiunse “e faccia pregare.”
Don Innocenzo glielo promise, ma ella non era contenta ancora, aveva qualche penosa parola da aggiungere.
“Hanno scritto a' suoi parenti?”
“Non lo so.”
“Già non lo amavano neppur essi. Vorrei pensare io per una memoria, come posso. Bisognerebbe che mi aiutasse Lei perché nessuno ha da saper niente e mio padre meno di tutti.”
Don Innocenzo le prese una mano, gliela strinse silenziosamente.
“Le manderò un piccolo disegno da Milano” disse ella. “Per questa cosa Lei mi scriverà ferma in posta.”
“Farò tutto” rispose il prete “come per un fratello.” L'olio della lucerna veniva meno, la notte entrava nella camera.
Don Innocenzo si alzò.
“Adesso vada a riposare” diss'egli. Ma Edith chiese di aspettare un poco onde ricomporsi pel caso che suo padre non dormisse ancora e la chiamasse.
“Guardi” disse affacciandosi alla soglia “che pace!”
S'appoggiò allo stipite contemplando il cielo che si veniva coprendo di nubi. Però molte stelle scintillavano ancora in mezzo a grandi finestre azzurre. L'orologio della chiesa suonò le undici.
“Un'ora” disse Edith “e poi è finito anche questo giorno. Mi pare che domani il sole nascerà di un altro colore e che lo vedrò poi sempre così. Quanti anni ancora?”
“Oh molti, molti. Glielo auguro con tutto il cuore.”
“Non so. Penso a mia madre.”
“Perché a Sua madre?”
Edith non rispose, prese un bastone ch'era lì fuori appoggiato al muro e tracciò con la punta dei segni sulla ghiaia.
“Cosa fa?” chiese il curato.
“Nulla” diss'ella e colla punta stessa diede di frego a quei segni.
La finestra di suo padre fu aperta in quel momento. Lo si udì esclamare:
“Cosa è questo? Ancora alzati?...”
“Ancora, papà. Non senti che notte dolce? Non abbiamo sonno.”
“Si fa scuro verso i monti, eh? Io ho paura che avremo acqua domattina. Sai, Edith, ho pensato che a Milano bisogna ricordarsi della lezione in casa Pedulli-Ripa poiché siamo partiti senza avvertire la signora.”
“Sì, papà.”
“Sarebbe bene anche andare dalla signora M..., che riceve domani.”
“Volentieri, papà.”
“Scusa, avresti per caso veduto il mio bastone?”
“È qui.”
“Vuoi essere così buona di portarmelo su per unirlo all'ombrello e di portarmi anche il portasigari che ho dimenticato in salotto?”
“Vengo subito, papà.”
Ella entrò nel salotto e fece a don Innocenzo un saluto silenzioso con la mano. Quegli raccolse il portasigari lasciato da Steinegge sopra una sedia e lo porse a lei che, conoscendone l'origine, lo prese senza guardarlo.
Il curato, rimasto solo, pensò:
"Cos'avrà scritto?"
Spense la lucerna, aspettò che Steinegge chiudesse la finestra e che tacessero i passi sul soffitto del salotto; quindi tolse il suo lumicino, andò fuori e si curvò, inchinandolo sulla ghiaia a guardare.
Certo era stata tracciata una parola nella ghiaia, ma non si poteva decifrarla perché la prima metà n'era cancellata. Ne rimanevano intatte le quattro ultime lettere, rigide lettere straniere che il curato, dopo molto studio, lesse così:

...mweh.


Il resto era illeggibile.
Weh deve significare male in tedesco” disse tra se don Innocenzo. “Ma l'm?”
Finì di cancellare la parola e rientrò, pensoso, in salotto.
Intanto nell'ombre sinistre del Palazzo, l'angelo del Guercino pregava senza posa per l'uomo gettato d'un colpo, a tradimento. nell'eternità. La sua vita era stata breve, povera di opere, macchiata di molte segrete miserie e, sulla fine, di errori già misurati dal duro giudizio umano. Tuttavia, egli aveva sostenute virilmente le battaglie dello spirito, cadendo a ogni tratto, ma rialzandosi, ferito, per combattere ancora; aveva amato sino alla febbre e alle lagrime divini fantasmi che non ha la terra, ideali di una vita sublime che intravvedeva, tribolato e solo, nel futuro; era passato più volte con amaro cuore ma con fermo viso tra la noncuranza degli uomini e il silenzio di Dio, sentendosi sulla testa l'ombra di un nemico derisore; peggio ancora, sentendosi mal connesso nell'intima sua essenza, afflitto da dolorose contraddizioni, inetto alle opere grandi che vagheggiava, alle piccole che lo premevano, a farsi amare, a vivere; sospinto quindi ogni giorno un passo, dalla violenta malignità delle cose e dalle infermità della propria natura, a qualche paurosa rovina.
Scoprendogli il volto lo si sarebbe veduto placido. Forse lo spirito, deposti gli uffici del moto e del senso, sciolto da ogni legame vitale, vi posava ancora tranquillo; come chi è sul punto di lasciar per sempre, dopo lungo soggiorno, una casa onde pur desiderava partirsi, che sta sulla soglia contento, ma senza rancori ormai né impazienze, anzi con un'ombra di pietà per le camere chiuse, abbandonate al silenzio. Sapeva di andare alla pace, al sospirato riposo; e sapeva pure, nella chiara visione appena incominciata per esso, di essere finalmente amato, secondo i suoi sogni della vita terrestre, da un cuore tenero e forte che gli sarebbe fedele senza fine. Sulla faccia opposta di tante cose che guardate da questo nostro lato della morte gli eran parse iniquamente scure, ammirava un ordinato disegno, una luce di bontà e di sapienza.
Ma le fontane, discorrendo tra loro nella notte quieta, dicevano che Marina era passata come Cecilia, il conte Cesare come i suoi avi, che nuovi signori verrebbero per passare alla loro volta e non valeva la pena di turbarsene. Quando, presso l'alba, uscì la luna e si posò sul pavimento della loggia, sulla pompa delle dracene e delle azalee che nessuno avea pensato a rimuovere, ella parve cercar là dentro, col suo sorriso voluttuoso, ciò che non si trovava ancora, quella notte, nel Palazzo, ma che la vicenda delle cose umane vi ha quindi portato: degli altri occhi da empir di chimere, degli altri cuori da muovere alla passione, invece di quelli che se n'erano appena liberati per sempre.





F I N E






_________Aurora Ageno___________
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