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"SGUARDI" - Riflessioni quotidiane di Laura Bosio

Ultimo Aggiornamento: 02/03/2013 09:17
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02/10/2012 14:09



Onnivori. O no?



Chi morde e chi bruca. Un'amica mi diceva, uno di questi giorni, che anche gli esseri umani, di fatto onnivori, sono in realtà divisi come gli altri animali in carnivori ed erbivori. Ci sono umani tipicamente carnivori: quando ti incontrano, ti annusano e, ben che vada, ti danno un morso. Poi con l'andare del tempo ti sbranano. Con loro si sente subito odore di sangue: non quello che circola nelle vene e fa cuore, ma sangue rubato. Altri sono meno scoperti, ma ugualmente aggressivi: mordono, azzannano, sbranano, si cibano dell'altro. Gli erbivori non si cibano di carne. Brucano l'erba, sbocconcellano frutti e radici, a volte strappano o fanno a pezzi una foglia. Non uccidono, le parti amputate dei vegetali di norma ricrescono. Gli erbivori sono le prede dei carnivori, salvo quando sviluppano zoccoli da caprone, corna da ariete o zanne e corpo da elefante. In questo caso i predatori cuor di leone se ne stanno lontani. Non parrebbe che gli umani siano stati creati per essere carnivori: i carnivori hanno movimento mandibolare tranciante, gli umani no; hanno incisivi corti e acuminati, gli umani ampi e piatti... Ma quanto ancora andremo avanti a fare i carnivori? Elsa Morante ha scritto che il mondo sarà salvato dai ragazzini. E se invece fosse salvato dagli erbivori?


Laura Bosio



_________Aurora Ageno___________
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03/10/2012 10:52



(in)Sostenibile



Cerco sul Dir, l'ottimo Dizionario Italiano Ragionato, la parola "sostenibilità". Trovo questa definizione circolare: «La qualità di ciò che può essere sostenuto». Guardo allora il verbo di origine, "sostenere", e leggo: «Reggere, Sopportare, Nutrire, Proteggere, Rafforzare con argomenti validi, o simili, sempre con l'idea di un onere, di un incarico da assolvere». In anni recenti, applicato alla società e all'ambiente, il termine è stato scelto per indicare l'equilibrio tra il soddisfacimento delle esigenze presenti e la possibilità per le generazioni future di sopperire alle proprie. Sostenibilità implica la capacità di generare reddito e lavoro per il sostentamento della popolazione; di garantire condizioni di benessere - sicurezza, salute, istruzione - equamente distribuite per classi e genere; di mantenere qualità e riproducibilità delle risorse naturali; di assicurare condizioni di stabilità, partecipazione, giustizia. Sotto ("sostenere" da "sub + tenere") c'è il pensiero che il pianeta e chi di volta in volta lo abita siano un unico grande organismo. Per alcuni è una convinzione e un impegno: sanno che vivere in modo sostenibile significa curarsi di ciò che siamo. Per troppi invece è solo una parola in voga, l'adesione a una tendenza nuova. Cerco sul Dir la parola "insostenibile".

Laura Bosio



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04/10/2012 10:58



Bicicletta e fame



Forse una bicicletta ci salverà. Mentre i ciclisti di professione fanno i loro giri intorno al mondo, un ciclista per passione, Daniele Scaglione, suggerisce che le biciclette potrebbero rigirarlo, il mondo. Nei racconti di un suo libro, intitolato appunto La bicicletta che salverà il mondo, si danno la mano sulle due ruote una venditrice di pesce indiana, un piccolo produttore di caffè in Guatemala, il guidatore di una bici-ambulanza nel Burkina Faso, un coltivatore di cipolle etiope e suo fratello migrante clandestino nella Milano dei cantieri dell'Expo. I racconti sono "tirati" da una volata sotto le terme di Caracalla, con l'apparizione del palazzo della Fao. Già, bicicletta e cibo (o fame) nei paesi poveri sono intrecciati. Francesco Moser, indimenticabile campione, ricorda di aver realizzato - era il 1984 - il record dell'ora nel tribolato Messico con una bici che sembrava l'ultima frontiera della tecnologia: solo sette chili e mezzo. Oggi ci sono biciclette che di chili ne pesano sei. «E nello stesso arco di tempo» commenta Moser «non siamo stati capaci di cancellare la fame dalla faccia della terra». No, forse una bicicletta non ci salverà. Ma dalla comunità delle due ruote possiamo magari imparare a guardare il mondo, senza frontiere e senza classi, e a percorrerne meglio le strade.


Laura Bosio



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05/10/2012 10:02



Come i faggi



«Pensa al larice / cresciuto lungo il cielo del giardino…» È l'apertura di una delle Poesie sperse di Livia Candiani, che ha il nome buddista di Chandra, in sanscrito Luna. Chandra è una donna minuta e una bambina saggia che convivono nella stessa persona. Nei suoi versi, dove aldiqua e aldilà sembrano sfiorarsi, dolore e gioia si mescolano in un incanto malinconico, bizzarro, colmo di vita. Il larice cresciuto nel giardino sa ormai solo declinare l'invito della terra al moto. Ogni giorno si svia un po', smemorato, e «incrocia la retta argentea delle pupille / lungo la faccia spiegazzata dei trent'anni». Non rispecchiano anche noi queste immagini? Noi, chiusi dentro i nostri confini che pretendiamo quieti, ma sappiamo essere un inganno, incapaci di muoverci, con la nostra faccia sempre più invasa di pieghe. Poco distante dal larice c'è però un faggio: «lo sai che i faggi hanno le radici collettive, tutte insieme, e se uno soffre / soffrono tutti?» Sotto di loro non cresce niente, né fiori né erba, niente. Ma di lato, di fianco, altri faggi. Se come il larice non riusciamo più a muoverci - parlo di movimento vero e non del nostro spostarci senza direzione - non potremmo almeno incrociare le radici come i faggi? Magari nascerebbe, come nella poesia di Chandra Candiani, «un concerto di saggi».

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06/10/2012 10:31



Evaso. E in regola



Riprendo— tornare e ritornare sulle cose è uno dei privilegi della lettura — uno scritto di Giorgio Manganelli, del 1986, che è circolato anche in Rete qualche tempo fa. Con la capacità prospettica che gli consente di racchiudere in poche righe un concetto, una realtà, un mondo, Manganelli spiega, a modo suo, perché gli piace pagare le tasse. «Personalmente» scrive «compiango l'evasore fiscale. Questa figura classica del «cattivo cittadino» evita l'unica forma di riscatto che lo Stato gli offre». Riscatto? Gli italiani, dice Manganelli, vivono sentendosi a piede libero: ogni volta che qualcuno viene arrestato, si stupiscono di non essere stati messi loro in prigione. Già, paese di piccoli o grandi imbroglioni, l'Italia, di colpevoli, più o meno immaginari, che l'hanno fatta franca. Una visione tutt'altro che rasserenante. Però, si chiede Manganelli, se in fondo sa di essere ricattabile, perché l'italiano non paga allegramente quel «naturale riscatto» offerto dal Fisco? Si concederebbe il segreto piacere di sentirsi, non più un evasore, «cattivo cittadino» oppresso dal senso di colpa, ma un «evaso con i documenti in regola». Paradosso o lucida analisi della nostra italianità? In ogni caso, come tutti i capovolgimenti riusciti, ci rovescia come un guanto e ci espone a una qualche responsabilità.


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07/10/2012 11:25



Verso l'alto



Nel terzo capitolo del Giorno del giudizio, grandioso romanzo della Sardegna che George Steiner ha definito «uno dei capolavori della solitudine e della letteratura moderna», Salvatore Satta si perde a guardare il giardino della sua casa: un giardino breve, che è stato riempito di oleandri. Quello che gli si presenta davanti agli occhi, per un momento distesi, è meraviglia. E la meraviglia, o almeno così io credo, deve essere condivisa.. «È un'alba di mezzo agosto… Gli oleandri sono ancora in fiore, e nell'aria umida sembrano ascoltare il canto degli uccelli che Dio ha fatto così mattinieri. Qualcuno guizza tra i rami, le foglie hanno un leggero fremito, subito ricomposto. Ho sempre pensato che tra le piante, gli animali, il vento ci sia un segreto rapporto. Un uccellino non si posa invano tra le fronde, il vento non agita invano le grandi chiome degli alberi che solo noi costruiamo come immobili, classificandoli con orribile e ingiusta parola vegetali. Il loro moto non è certo il nostro, ma è come quello del mare, che non ha senso chiamare immobile, come non ha senso, mi dispiace per Omero, chiamarlo infecondo. E poi il moto degli alberi è verso l'alto, in questa lieta conquista del cielo, che a noi animali (o, come si dice nelle leggi sull'abigeato, semoventi) è negata. Basta».


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09/10/2012 11:28



Uguali e diversi



Di nuovo Giorgio Manganelli, per riflettere brevemente assieme a lui, grazie alla sua sottilissima prosa, sul viaggio. Nella premessa all'Infinita trama di Allah. Viaggi nell'Islam 1973-1987, Manganelli racconta come un suo amico – quello che gli somigliava di più e che è vissuto in coabitazione forzata dentro di lui per tutta la vita – si sia staccato dalla sedentarietà che credeva connaturata, un unico letto, poche sedie, vitto semplice e ripetitivo, e si sia scoperto viaggiatore. Un giorno, con un certo stupore, si accorge che l'atlante non è un trucco e che il mondo è pieno di uomini in modo scandaloso. Questa consapevolezza lo trasforma in un essere frastornato, tremulo, affannato. Ma dopo dubbi, tachicardie, entusiasmi seguiti da panico, si rende conto che l'alternativa al viaggio è il «nonviaggio», una condizione di stallo, «aria viziata», una resa passiva, e che deve viaggiare perché la sua vita non si sbricioli. Il viaggio allora si fa pellegrinaggio, dentro un Islam – sono gli anni Settanta e Ottanta – che era ancora «anima e mondo». Ma, al di là della meta, scopre soprattutto che, mentre molti suoi compatrioti sprecano la vita in modesti litigi, «il mondo esiste» (semplificazione ironica che mi sembra salutare per tutti) e che viaggiare insegna che gli uomini sono uguali, e sono diversi.


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10/10/2012 10:55



Orientamento


Viaggiare per monasteri, oggi di moda, si direbbe una contraddizione di termini: il movimento irrequieto e la fermezza contemplativa. Ne è una prova che la domanda, «Hai trovato il monastero giusto?», è destinata a rimanere senza risposta. Occorre prima partire da noi stessi, dal nostro io asfittico e asfissiante, e metterlo un po' a tacere per recuperare respiro interiore, con ricadute non soltanto personali, ma sociali, forse persino politiche. Deve averlo fatto Giorgio Boatti quando si è incamminato per il suo viaggio Sulle strade del silenzio, verso monasteri italiani - una ventina, quasi tutti benedettini - tra paesaggi intatti che mettono nostalgia: non per quello che era e non è più, ma per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. L'esperienza che Boatti ha cercato e vissuto è scandita da pasti dai sapori spogli, consumati senza parole, gli occhi posati a interrogare piccoli gesti; da freddo e sonni interrotti, da corte passeggiate nella campagna che possono diventare infiniti itinerari indietro e avanti nel tempo, perché misura del tempo è solo la vita. Il sospetto nutrito alla partenza alla fine appare confermato: questi luoghi, che consentono ancora modalità e ritmi più naturali di quelli a cui siamo assuefatti, hanno luci nascoste in grado di offrire qualche orientamento.


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11/10/2012 14:02



Zingari



Esemplare il viaggio dello scrittore Antonio Moresco e del fotografo Giovanni Giovannetti dentro il mondo degli zingari. Che cosa si sa effettivamente di loro? Da dove viene la massa migrante che si sta spostando verso il nostro paese? Sui rom non esistono racconti scritti, o testi sacri, che ne delineino una tradizione, una religione, una cultura, una storia. Ma quanti sono pronti a scagliarsi contro un intero popolo appena una notizia di cronaca nera riguarda "qualcuno di loro": Zingari di merda, come dice il titolo del libro che è di per sé una critica a un certo linguaggio razzista corrente. In compagnia di uno zingaro, il loro Virgilio, Moresco e Giovannetti hanno affrontato la discesa agli inferi, in un mondo già povero che è venuto a vivere qui in condizioni ancora più povere e disperate. Perché? Da dove ha iniziato a sanguinare la ferita? È un sintomo di una società che si illude ancora benestante e non si accorge di avere una Calcutta, una favela, uno slum dietro casa? Niente di manicheo che faccia di ogni verità una propaganda, in questo viaggio, ma una testimonianza che sopperisce forse alla sommarietà spicciola e lapidaria della cronaca e permette di intuire le diversità in un popolo che, tuttavia, incarna perfettamente lo spauracchio sacrificale su cui scaricare ogni pulsione negativa, primitiva.


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12/10/2012 11:24



La rivoluzione



«Sono tutti convinti che solo lo sviluppo tecnologico, la scienza cioè, e il complesso delle sue applicazioni tecniche, segnino il progresso. E siccome il Novecento è il secolo del progresso e dello sviluppo tecnologico, tutti sono convinti che sia giusto occuparsene molto». La sintesi del filosofo Hans-Georg Gadamer pone l'accento su un tutti che, come ogni termine assoluto, finisce per mettere in allarme. Ma saranno poi davvero tutti i beneficati dal progresso? Nell'intervento recente per il Festival della Mente di Sarzana, l'antropologo Marc Augé ha mostrato come, mentre la scienza progredisce, il divario tra chi ne conosce le leggi e le conseguenze e la massa di chi non ha idea della posta in gioco aumenti sempre più velocemente. Il timore è che non si stia preparando un progresso diffuso in tutta la terra, ma che si stia formando una élite planetaria del sapere e del denaro, contrapposta a una folla di consumatori, e a una massa ancora più grande di esclusi sia dal sapere sia dal consumo. L'auspicio è che l'arroganza intellettuale di ogni sorta non miri a imporre, una volta di più, le proprie convinzioni all'umanità, senza preoccuparsi che tutti abbiano la possibilità di comprenderle. Se un giorno ci sarà una rivoluzione, sostiene Augé, sarà una rivoluzione dell'istruzione.


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13/10/2012 11:11



L'ultimo baluardo



In piscina, un palestrato di mezza età sta indottrinando il giovane custode sudamericano sulle diverse razze di alieni. In costume blu elettrico, ne descrive le fattezze, come hanno la testa, le braccia, gli occhi. Passa in rassegna i caratteri: gli alieni estroversi, aperti al mondo esterno, impegnati a fondare società, con una preferenza per le tonalità calde e per il colore rispetto alla forma; gli alieni introversi, cauti nei rapporti sociali, con una predilezione per i simboli, l'immaginazione, le tonalità fredde e per la forma rispetto al colore; e gli alieni ambiversi, con qualità opposte o intermedie rispetto agli altri. In tuta nera, il giovane custode ascolta impassibile, e ogni tanto il palestrato lascia cadere un "capisci?" per assicurarsi di essere seguito nelle sue certezze iperuranie. Niente che lasci trapelare un trasalimento, un dubbio, un sorrisetto sarcastico nella sua recita un po' assurda (e oltre tutto poco fantasiosa). Niente che increspi i muscoli del palestrato e gli faccia sospettare di essersi mutato in un alieno. Oppure sbaglio, e questo è ormai un tratto della normalità? Ogni nostra convinzione personale non ha più bisogno di verifiche e si impone di per sé stessa come verità, anzi come verità universale. Il silenzio ferreo del custode forse è l'ultimo baluardo della resistenza.


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15/10/2012 04:18



Forse una favola



Sono al mare. Un amico pescatore si prepara per la sua piccola spedizione quotidiana. Prende la maschera e i suoi attrezzi e si tuffa. Vedo il galleggiante che segnala la sua presenza allontanarsi verso gli scogli. Dopo un'ora scarsa di ricognizioni riemerge a mani vuote. Ha la faccia pensierosa. «Niente pesci oggi?» gli chiedo come al solito. Mi dico subito che non era il caso di rimarcarlo, ma ormai non posso rimediare. Lui si avvicina con la testa bassa, lascia cadere sulla sabbia la maschera e si siede vicino a me. «Mi vergogno a pescare, sai?» rivela a sorpresa. Questa volta non commento. Aggiunge: «E poi oggi il mare è piuttosto agitato, l'acqua è torbida e quando è così c'è un effetto lente, i pesci ti vedono ingrandito e scappano quando sei ancora distante. Ma anche tu li vedi più grandi e questo» sospira «ti inibisce un po'». Lo guardo incuriosita. Domando: «Scherzi o stai dicendo sul serio?». Scuote la testa, sembra serio. Non ho ancora ben capito se mi abbia raccontato una favola oppure no, io posso abboccare più dei pesci. Ma l'immagine che mi ha fatto intravedere con il suo apologo morale mi frulla per la testa. Il torbido confonde, deforma le dimensioni e le proporzioni, e offusca, fa ondeggiare, vacillare. Il limpido avvicina alla realtà, e la rischiara.


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16/10/2012 09:18



Attori inconsapevoli



Si sfila come su un palcoscenico, attori inconsapevoli. Le attese negli ambulatori medici sono fonte di micro osservazioni. In quello dove mi trovo cardiologia divide con pediatria la sala d'aspetto. Davanti a me c'è un vecchio alto, con la bocca atteggiata a un disgusto rassegnato al peggio, chiusa in una insoddisfazione cupa. La moglie accanto sembra appollaiata su un trespolo e muove gli occhi come un gufo. Va e vieni di passeggini, molti spinti da giovani islamiche con il velo, una ragazzona si fa largo con il suo usandolo come un rostro. Sfilano anche le solite distonie della vita. Una per tutte, il dialogo tra una donna, che tiene per mano un bambino annoiato, e l'infermiera. «Sa dove trovo un'edicola?» chiede la donna. «Quando esce a destra». «Ah, qui dentro non ci sono edicole?». «Sì, al pianoterra vendono i giornali». «Ma io non devo comprare il giornale». «Per i biglietti dell'autobus bisogna uscire». «Ma a me non servono i biglietti». L'infermiera rimane un istante perplessa. Aggiunge: «Vendono anche i tagliandi per i parcheggi». «Devo fare colazione» dice la donna. L'infermiera esita: «Ma in genere nelle edicole...». «Ah, qui dentro non si mangia?». «Sì, al pianoterra c'è un bar». «Ma io non…». La conversazione riprende, circolare. Beckett non avrebbe saputo fare meglio.


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17/10/2012 10:53



Pronto!



Per strada, in una piazza del centro. Mentre cammino, mi supera una donna che parla al telefono. Le cade un guanto e non se ne accorge. Mi fermo a raccoglierlo, la raggiungo e glielo do. La donna lo prende e continua a parlare al telefono. Nemmeno mi vede. Resto immobile, la guardo allontanarsi. Una prima considerazione, per scuotermi dallo sconcerto, la più ovvia, e ormai la più banale: il telefono, celebrato mezzo di comunicazione della nostra epoca, può isolare. Ovunque, persone al telefono che parlano con persone che hanno accanto altre persone che parlano al telefono, mettendo spesso in attesa quelli con cui parlano per rispondere ad altri che telefonano. Chi parla? Chi ascolta? Chi risponde? Chi comunica con chi e per quale impellente motivo? Seconda considerazione, più meditabonda, mentre riprendo a camminare sulla piazza. L'attenzione, quella che fa difetto alla signora telefonante, ha nella sua radice etimologica il tendere verso, il badare a qualcosa, e per estensione di significato il dedicarsi con impegno, l'accudire, o un gesto gentile, la cortesia: «è pieno di attenzioni». Contiene anche l'aspettare (da «tendere» + «ad»). Si potrebbe aggiungere: l'istante in cui l'attesa lascia intravedere un'apertura, un'illuminazione? Quello che in molte tradizioni spirituali si dice un risveglio? Pronto!


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18/10/2012 10:39



Per cortesia



Per anni, su un settimanale di annunci gratuiti di una città di provincia, è uscito un corsivo curioso, ogni volta sorprendente. Lo firmava, con uno pseudonimo rubato a un film di Godard, Pierrot le fou. Osservatore sprovvisto di ideologie consolatorie, rappresentava la realtà così come la vedeva, con i moduli della farsa o del teatro dell'assurdo, «un po' per ridere e un po' per non morire». No, non è morto Pierrot le fou, ma la sua rubrica è stata chiusa. Gli sopravvivono gli articoli. In uno degli ultimi parla di una patologia sempre più diffusa, la Sindrome dell'Aggressività Pedonale, che colpisce i pedoni delle metropoli, già cittadini proverbialmente innocui, provocando episodi di conflittualità interpedonale. Fra le cause è stata individuata la diversa velocità dei camminatori: ultrasessantenni che vanno a 1,11 metri al secondo o obesi che procedono a 1,15 e intralciano trenta-quarantenni in corsa a 1,41. Per difendere i propri diritti gli svelti hanno aperto un gruppo su Facebook: «Segretamente Vorrei Prendere a Pugni nella Nuca Quelli che Camminano Piano». Che fare?, si chiede Pierrot le fou, e stabilisce una strana associazione. E pensare che in Giappone, riflette, si insegnava a scuola come inclinare l'ombrello per non far cadere le gocce sugli altri passanti. Cortesia esagerata?


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19/10/2012 10:36



Corale armonia



Seguo in televisione «Europa Cantat», un festival dedicato ai cori europei. Ogni tre anni si svolge in un Paese diverso e quest'anno per la prima volta in Italia, a Torino. Ci sono cori (un'enormità, una folla) di ogni grandezza e genere, di montagna e di chiesa, di musica classica e contemporanea, di professionisti e di appassionati. Ascolto, guardo i visi dei coristi, la loro serietà e contentezza di cantare insieme, e constato quanto i cori, di tradizione antichissima, siano vivi. Essere "fuori del coro" nei nostri anni è un merito, un vanto: si esaltano le singole voci libere, stridenti in modo consapevole e fiero. Allora, al di là della piacevolezza musicale, mi chiedo che cosa mi affascini in quei cori, se ci sia qualcosa da imparare in quella coralità lontana da dogmi e convenienze. Un aspetto mi colpisce, probabilmente scontato, ma è quello che diamo per scontato ad avere bisogno di maggiore considerazione: come si possa, in uno stesso coro, essere diversi, per età, caratteristiche fisiche, provenienza e, immagino, convinzioni, e nello stesso tempo cantare in comune, estraendo ciascuno dalle proprie differenze un'armonia. L'Inno alla gioia di Beethoven, che l'Europa ha scelto per rappresentarla e che esprime la visione idealistica di Schiller di una fratellanza fra gli uomini, è un coro. È il caso di ricordarlo?


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20/10/2012 10:58



Non di sé



«Dirò innanzitutto che vi sono angoli della mia esistenza che fin dall'inizio furono abitati da Mozart. Non mi pare che altri inquilini musicali dovessero essere cacciati per fargli spazio. Avevo una sorella, molto più grande di me, che suonava il piano. Non suonava particolarmente bene, era solo un perfetto metronomo. Ma mi fece conoscere Mozart». Chi racconta (con libertà, invitante, dalle pur dotte indagini musicologiche) è Saul Bellow, lo scrittore americano che ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura nel 1976. Era stato chiamato a Firenze per celebrare il centenario della morte di Mozart, il 5 dicembre 1991. Aveva annunciato che si sarebbe limitato a parlare in nome della massa silenziosa di appassionati del compositore, i milioni di profani che da due secoli provano gioia ascoltando la sua musica. Ha invece offerto una meditazione, poi pubblicata, non solo sul musicista e sul mistero della sua intima felicità creativa, ma su chi, tra noi contemporanei, ascolta musica, e poi sulla tecnologia, sui concetti di modernità, di sincerità, di potere, di gioco e di lavoro. «Mozart era un "diverso" che non comprese mai la natura della sua diversità. Beethoven rivendica la propria grandezza. Mozart no. Mozart non si occupa di sé; piuttosto è assorto in ciò per cui è nato».


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21/10/2012 11:45



Strabiliante



Aproposito di Mozart. Ricerche condotte in diverse parti del mondo hanno proposto, poco più di un anno fa, dati strabilianti. Secondo uno studio dell'Università di Madison nel Wisconsin, ascoltando Mozart le mucche producono una maggiore quantità di latte (il 7,5% in più), mentre all'Università di Tel Aviv è stato verificato che i neonati prematuri acquistano peso e crescono in fretta e il battito cardiaco degli scampati a un ictus si normalizza. In Nuova Zelanda i piccoli criminali delinquono meno. Nel quartiere commerciale della città di Christchurch, dove dal 2009 le autorità hanno fatto installare altoparlanti che diffondono tutto il giorno sonate e sinfonie mozartiane, la microcriminalità è diminuita, quasi scomparsa. Dati che lasciano a occhi sgranati. Nella City Mall i soliti 77 piccoli crimini settimanali (taccheggi, borseggi, furti) dopo un anno si sono ridotti a 2. Nel 2008 si erano contati 16 incidenti per abuso di alcol e droghe, nel 2009 nessuno. La musica avrà davvero un'influenza sulla psiche, come alcune terapie sembrano dimostrare? E quella di un genio che costringe a chiedersi «da dove viene tutto questo», aprirà l'accesso a qualcosa di "superiore"? Chissà. Nel dubbio, qualcuno ha suggerito che la musica di Mozart sia diffusa anche in tutte le sedi istituzionali italiane.


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23/10/2012 11:12



Leggere la vita / 1



Ancora musica. In una scena di Madame Bovary, Emma è al pianoforte e suo marito Charles la guarda. Flaubert scrive: «Batteva sui tasti con disinvoltura, percorrendo senza posa la tastiera da un'estremità all'altra. Così scosso, il vecchio strumento, con le corde che vibravano, si faceva sentire fino in fondo al paese quando la finestra era aperta, e spesso lo scrivano del balivo, passando per la via principale, a capo scoperto e in pantofole di pezza, si fermava in ascolto, il foglio di carta tra le mani». È la creazione narrativa di un mondo: Flaubert doveva costruire un paese credibile dove collocare Emma. Considerando quello che accade nel resto del romanzo, si direbbe che i dettagli, le corde vibranti, le pantofole di pezza, siano accessori. Invece non è così, e Flannery O'Connor, grande indagatrice della scrittura e autrice di racconti dove l'irruzione del divino fa da bizzarro controcanto a storie di sbandati e diseredati, ne trae un insegnamento: «Cura immediata di uno scrittore non sono tanto idee grandiose ed emozioni tumultuose, quanto infilare pantofole di pezza agli scrivani». E di insegnamenti, ne sottintende altri: si può leggere la vita dentro una rigida adesione alla realtà, ma si può anche leggere per la vita, che come l'arte è selettiva e ha bisogno dell'essenziale per risuonare.

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24/10/2012 10:01



Leggere la vita / 2



Torno sul «leggere la vita». In uno degli scritti raccolti in L'altrui mestiere, Primo Levi osserva che nell'Italia del Nord, in un uso colloquiale e soprattutto tra le donne, questa espressione significa «sparlare, spettegolare». Il senso letterale però non è chiaro: perché «leggere»? e perché «la vita»? Dopo ricerche minuziose, che spaziano dalla fraseologia tedesca ai dizionari dialettali piemontesi, Levi arriva a una inattesa conclusione (tra l'altro vicina al suo cognome). Pare che nei conventi, a mattutino, «dopo la lettura delle Sacre Scritture e in specie del Levitico, il priore si rivolgesse poi individualmente ai singoli monaci, lodandoli per i loro adempimenti e più spesso rimproverandoli per le loro mancanze». A poco a poco «leggere il Levitico» o «i Leviti» avrebbe assunto il significato di «fare una ramanzina» e si sarebbe in seguito trasformato, per prossimità di suono, in «leggere la vita». Ma non è tutto. In Liguria, e non solo tra le donne, «gli ho letto la vita» vuol dire «gli ho detto in faccia quello che si merita». Poco distante, sulle colline dell'Alessandrino, il modo di dire è diventato più concreto, e più minaccioso: «Gli ho aperto il libro». Alla mutevole vita non sono concesse altre prove d'appello, lì comincia e lì finisce.


Laura Bosio



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25/10/2012 11:31


Vinti vincenti



I decenni precipitano, economia, lavoro e il resto pure, ma una parola procede con fronte metallica: «vincente», contrapposta, va da sé, a «perdente». La si attribuisce alle persone, eppure i vocabolari, anche i più aggiornati, la riferiscono in primo luogo alle cose, «un biglietto vincente», «un numero vincente», o a un animale in gara, «un cavallo vincente». Solo in secondo luogo la collegano alle persone, e in senso figurato: «Chi riesce bene in tutto quello che fa». L'accento è messo su un altro verbo, «riuscire», accompagnato da un avverbio interessante, «bene», oltre che da un termine assoluto come «tutto». Si può dire che «riescano bene in tutto» quelli che ci vengono per lo più proposti come «vincenti»? «Basta guardarli» ha scritto Giuseppe Pontiggia in un aforisma che collega la parola all'evidenza della realtà. Ma poi, ci siamo mai fermati a pensare che la maggior parte degli uomini e delle donne che ammiriamo come eroi molto spesso sono stati dei vinti? Persone il cui valore, nella società dove vivevano, non era riconosciuto, e che a volte hanno pagato con la vita. Vinti che alla fine hanno vinto. Che cosa dobbiamo dedurne? È questo che ci dobbiamo aspettare? La lotta, con la possibilità piuttosto concreta di perdere? Chissà, anche. Di certo, un'idea più complessa di cosa è «vincere».


Laura Bosio



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26/10/2012 10:47


Mai irresponsabili



Riapro un saggio del filosofo Hans Jonas, uno degli iniziatori del dibattito sulla bioetica. Il titolo contiene una parola che sempre di più si fa strada come una delle più importanti, o dovrebbe: Principio responsabilità. Responsabilità verso le generazioni future, mentre svaniscono le ultime certezze sui modelli di sviluppo prefigurati dalle «euforie della modernità». Responsabilità nello sfruttamento della natura da parte delle tecnologie, che hanno smesso di essere una sfera neutrale dell'agire umano. L'uomo è diventato più pericoloso per la natura, sottolinea Jonas, di quanto la natura lo sia stata per lui: non è più la nuda natura, ma il potere conseguito per dominarla a minacciare l'individuo e la specie. Alle tante fratture sociali che ostacolano il cammino verso una «umanità unificata» si sono aggiunte le contraddizioni che oppongono come antagonisti non più il passato e il presente, ma il mondo di oggi e il mondo di domani. Il problema della responsabilità non riguarda soltanto la sopravvivenza, ma l'unità della specie e la dignità della sua esistenza. Se siamo liberi di essere irresponsabili verso la nostra vita, possiamo esserlo verso la vita di chi verrà dopo di noi? «Anche se Dio è morto» ammonisce Jonas «l'uomo deve poter continuare a essere concepito a sua immagine e somiglianza».


Laura Bosio



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27/10/2012 10:28



Lo scambio



Sono in una piccola stazione e aspetto il treno su una delle sedie di metallo dell'unico stanzone accanto alla biglietteria chiusa. Fuori sta piovendo. Di fronte al quadro luminoso che annuncia arrivi e partenze ci siamo io e tre vecchi. Sono seduta nell'ultima fila e vedo le loro spalle, non i visi, ma sento chiaramente che non parlano. Dicono solo «ciao» a un uomo più giovane che entra insieme all'umidità, strizza il berretto di lana e va a sedersi vicino a loro. La voce irreale dell'altoparlante annuncia che il mio treno è in ritardo di venti minuti. Nel tramonto del pomeriggio già buio i quattro uomini lentamente si riducono a ombre, testimoni muti di inutili attese. Perché è evidente che loro non aspettano nessun treno. «Ottobre è il più crudele dei mesi» esprimerebbe il sentimento più immediato e condivisibile. Vecchi e nuovi pensionati che non possono più stare all'aperto sulle panchine, e al bar non vanno per non spendere in caffè i soldi necessari ad altro, si adattano a ritrovarsi in una stazione vuota, dove l'unica cosa viva sono le luci gialle del tabellone. Eppure, non sono solo malinconia e rabbia i sentimenti che provo. Quegli uomini si aiutano a consumare le ore della vita. Domani sarà lo stesso, e per i pomeriggi che resteranno. Non è anche questo uno scambio di carità, di amore?


Laura Bosio



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29/10/2012 12:00



Piccola felicità


Don Fabrizio, principe di Salina, poco prima di incontrare la Signora in nero che lo accompagnerà nel suo ultimo viaggio, ricorda la vita trascorsa. Rievoca i pochi momenti felici, rari intervalli. Il Gattopardo scopre così, nell'ora del congedo, della perdita irreparabile, che nella sua esistenza infelice era stato a tratti, sia pure per poco, felice. La felicità, diceva Cechov, è come la salute, quando la possiedi non te ne accorgi. Bisognerebbe saperlo invece, ma è possibile? Molti, nelle pagine di libri e blog, insistono nel dire di sì. Secondo uno dei sostenitori, lo stato di beatitudine sarebbe raggiungibile nei seguenti modi: comprando paste la domenica; bevendo birra o Porto; guidando di notte in autostrada; facendo colazione con il giornale sul tavolo; mangiando un croissant appena sfornato. Un mio amico, scettico e divertito, ha voluto mettere alla prova queste dicerie. Si è seduto al tavolo di un bar, ha ordinato la colazione e intanto ha sfogliato il giornale. Lo hanno aggredito i titoli catastrofici, la tragica e assurda insania del mondo. Ha alzato gli occhi e ha visto la cameriera con il vassoio: «La brioche con marmellata, vero?» gli ha chiesto sorridendo. Lui ha lasciato perdere le cattive notizie. Ha bevuto il cappuccino e mangiato la brioche. Racconta di essere stato felice.


Laura Bosio


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30/10/2012 10:59



Cercando trasparenza



Uno spettatore guarda un tg del mattino. La giornalista, durante il servizio in esterni a Roma, intervista un noto politico, che risponde alle domande sul governo attuale e sui possibili, o impossibili, governi futuri. Niente di nuovo per la giornalista, e neppure per il politico. Lo spettatore si distrae e, in modo inconsapevole, sposta l'attenzione sullo sfondo, su quello che succede dietro le figure che parlano. Si accorge intanto che il luogo è curioso: la Galleria Alberto Sordi. Poi arriva alla sua percezione un uomo, che vede di spalle. Indossa una giacca di cotone blu con una scritta sulla schiena e sta lavando un'ampia vetrata, probabilmente di un negozio. Con una mano spruzza il detersivo e con l'altra strofina il vetro con un panno. Indietreggia di qualche passo per controllare se siano rimasti aloni, si riavvicina, spruzza di nuovo il detersivo e riprende a strofinare. Lo spettatore si dice che quello che accade in primo piano ha sempre minore importanza. Quello che accade sullo sfondo, invece, può averne, a livello concreto e simbolico. Fra quelle tre figure che si sono incrociate per caso nella Galleria Alberto Sordi, l'unico forse a cercare la pulizia e la trasparenza è l'uomo in secondo piano, che non si lascia distrarre dalle telecamere che lo riprendono.


Laura Bosio



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