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"IN VIAGGIO" - riflessioni quotidiane di Marina Corradi

Ultimo Aggiornamento: 01/04/2013 12:05
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02/01/2013 10:58



Due ragazze in Terrasanta


Terrasanta, primi anni 80. Due amiche ventenni vanno alla scoperta di Israele. On the road: auto a nolo, mappe, nei kibbutz a dormire. Nessuna delle due è credente. Una però si è portata una Bibbia. «Per documentazione», ha precisato.
Girano Israele da Gerusalemme fino a Nazareth, giù nel Negev e oltre il confine egizio. Tacciono entrambe, una notte, attonite sotto la vertiginosa stellata del Monte Sinai. Quella che s'è portata la Bibbia continua a sfogliarla. Sul lago di Tiberiade contempla l'acqua calma e dice all'altra: pensa, quel tale è passato di qui. Nell'Orto degli Ulivi rilegge di Cristo solo, i suoi caduti nel sonno, e ripete: pensa, è successo qui. «Non capisco» replica l'amica continuando a scattare foto «perché ti interessi tanto». In effetti, nemmeno l'altra lo capisce.
Le sembra quasi di stare camminando sulle tracce di quell'uomo, di cui peraltro ha solo un vago ricordo di catechismo, una memoria sbiadita e irrilevante. Eppure, come la seduce la stanza dell'Ultima Cena, in un silenzio tanto denso e forte che le pare assordante.
Così, senza accorgersene, una di quelle due si mette in viaggio, cercando qualcosa che non saprebbe chiamare per nome. Ignara di quel frammento dei Pensieri di Pascal che dice: «Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato».


Marina Corradi


_________Aurora Ageno___________
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03/01/2013 11:42



Un male oscuro



Milano, 1981. Un uomo si è barricato in un ufficio in centro e tiene in ostaggio gli impiegati. Minaccia una strage. Sotto al palazzo si va radunando la folla. Nella giornata grigia il lampeggiare intermittente delle volanti colora Milano di un blu surreale. Sirene, in lontananza. In un angolo, un crocchio di cronisti, il taccuino in mano. Non oso avvicinarli: oggi è la prima volta che dalla redazione mi mandano su un fatto di cronaca nera.
La folla continua ad aumentare. Poi dall'alto, secco, uno sparo. Il folle ha ucciso un ostaggio. Lo fermeranno? La gente, sotto, attende, cupa, e sale la tensione.
Finalmente la polizia blocca l'uomo. Eccolo, ammanettato, che esce dal portone. In quel momento un'onda percorre la folla. Scoppia, improvvisa, una rabbia furiosa; chi grida «ammazzatelo!», chi agita i pugni e spinge, e nella calca ti trascina. Solo grazie agli agenti lo sconosciuto scampa al linciaggio.
Guardo sbalordita l'assembramento di milanesi in loden, con il Corriere sottobraccio, o in tuta da lavoro. Brava gente. Cosa in un attimo li ha contagiati e travolti? Che cosa alberga in noi, silenzioso, e, eccitato dalla violenza e dall'essere in tanti, viene alla superficie? Come un'antica violenza, un male profondo, radicale. Ma di questo male oscuro nessun giornale parlerà, domani.


Marina Corradi


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04/01/2013 09:20


Una ragazza come me


Bologna, 23 dicembre '84 – Stanotte una bomba è scoppiata su un treno, in una galleria tra Firenze e Bologna. Dal giornale siamo partiti di corsa, dentro una gran nebbia. Io sono stata mandata all'obitorio. Al mattino vado a casa di una ragazza, che non si trova né fra i vivi né fra i morti. Tremo, nell'allungare il dito sul citofono di un palazzo borghese.
Mi apre un signore che potrebbe essere mio padre. Dico che sono una giornalista, e mi aspetto che mi cacci via. Lui invece mi guarda assorto, poi: «Si accomodi, le preparo un caffè?».
Io sbalordita mi siedo rigida su una poltrona. L'uomo si siede davanti a me. Sua figlia ventenne tornava da Firenze, era andata a comprare i regali. Di lei, dodici ore dopo, niente. «Vede – fa lui, calmo – mia figlia è un'atleta. Sarà scappata dalla galleria, sarà nei boschi, smarrita».
Capisco che in quella assurda speranza il padre si va disperatamente cullando. E che devo tacere, e andarmene in punta di piedi, e non svegliarlo. Poi mi cade lo sguardo su una foto in cornice. Una ragazza bruna, i tratti da emiliana; un po' le somiglio. Ora, quell'uomo mi verrebbe da abbracciarlo. Possibile che ci si possa trovare, fra sconosciuti, così vicini? Come se nessuno, in realtà, ci fosse estraneo. (Della figlia verrà trovato, fra le lamiere, solo un anello).


Marina Corradi


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05/01/2013 14:19



Davanti a un Caravaggio


Roma, anni 80. A piazza Navona, di maggio. Ho poco più di vent'anni. La luce radiosa del mezzogiorno romano mi acceca. Come cercando un riparo spingo, a caso, la porta di San Luigi dei Francesi.
Nella penombra della chiesa noto un fluire di turisti verso l'angolo sinistro, in fondo. Curiosa, li seguo. Mi trovo di fronte alla Vocazione di Matteo di Caravaggio. Ignorante di arte come sono, tuttavia è come se mi mettessi sull'attenti.
Aspetto che un gruppo di tedeschi si allontani, rimango sola a fissare i pubblicani, e il gesto di Cristo, imperioso, che chiama. Che facce hanno quegli uomini, così pesanti e carnali; e Gesù che non ne è scandalizzato, ma sceglie, e convoca, il peccatore. (Intanto la lampadina in quell'angolo si spegne. C'è un contatore a monete; nervosamente infilo nella fessura degli spiccioli. La luce si riaccende con un clic).
Mi commuove il ragazzo a capo chino, che nemmeno alza gli occhi davanti a Cristo, come fosse già perduto. E se fosse lui in realtà Matteo, mi domando, e non il vecchio che indica se stesso? Mi pare lui l'ultimo, il giovane disperato su una manciata di inutili denari. (Innamorarsi, a vent'anni, di un Caravaggio, e tornare a trovarlo per tutta la vita. Come se ti riguardasse; come sognando di essere stata anche tu, a quella tavola, quel giorno).


Marina Corradi


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06/01/2013 10:59



Una bambina di periferia



Milano, 1984 – Il mestiere di cronista, per strada, tra la gente, è bellissimo. Se poi hai vent'anni, è un mondo che ti si svela, diverso, ogni giorno. Le portinaie nelle guardiole delle case borghesi, che sanno tutto di tutti, ma che bisogna conquistarsi. E, dopo un delitto, le facce attonite dei negozianti; e i passanti, che domandano che è successo e poi: «Era uno spacciatore? Bene, uno di meno». (Ma quel morto a terra era un ragazzo, e sua madre fra poco lancerà un grido straziato, in un palazzo di periferia, di quelli grigi e già sfatti).
Come quello dove sono andata oggi, in via Forze Armate. Un falso allarme. Ma uscendo, in cortile, incontro una bambina. Piccola, sui 5 anni, grandi occhi neri e i capelli completamente rasati, a debellare i pidocchi. Mi guarda e sorride, furba, stringendo un pugno come se dentro avesse un tesoro. Sorrido anch'io. «Cos'hai, lì?» le chiedo. Lei ride, si schermisce, come esitando a rivelare un grande segreto. Poi apre il pugno, trionfante: il tesoro è un ovetto di cioccolato, mezzo fuso.
Sotto a un cielo grigio, in un cortile triste, quel sorriso raggiante. Non so perché mi viene da pensare a un Dio, in cui ancora non credo. E che però, se c'è, è qui accanto, e guarda incantato una bambina coi pidocchi, a Milano, in via Forze Armate.


Marina Corradi


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08/01/2013 11:47



Due vecchi sul Naviglio



Milano, 1985 – Sera di luglio, un'afa irrespirabile sul Naviglio Grande. È domenica, le strade deserte. Sto uscendo da un portone dopo un'intervista. Proprio qui si ferma un'ambulanza, a sirene spente. I lettighieri ne scendono con una lentezza che mi sorprende. Sulla barella giace una donna anziana, mortalmente pallida, gli occhi chiusi. Subito le è accanto il marito: «Cara, siamo a casa». La malata è terrea e immobile. Incrocio lo sguardo di un lettighiere: è già morta, forse lo era già negli ultimi istanti in ospedale, quando, per contentare il marito, l'hanno rimandata a casa. Ma lui non vuole capire. Continua a parlarle, le dice che ha fatto la spesa, che in frigo c'è qualcosa da mangiare.
I giovani lettighieri e io assistiamo ammutoliti a questo addio fra vecchi sposi. Il marito inizia a parlarmi, come lieto di potere per un istante violare la sua murata solitudine. Non so perché, ma mi immagino la loro casa come se la vedessi: piccola, in ordine, con un moscone rimasto prigioniero che sbatte contro un vetro, e nessun altro rumore. E fuori il sole rosso fuoco che va calando, in fondo al Naviglio. Io, che non credo in Dio, vorrei che Dio esistesse, e stasera venisse nella casa di questi vecchi sposi. (E forse, è già una inconsapevole preghiera).


Marina Corradi



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10/01/2013 11:49



Il crepuscolo degli dèi


Cernobbio, 1988 - I fotoreporter più giovani alzano i flash, nei saloni scintillanti di Villa d'Este, ma a bassa voce disorientati si domandano: e questo, chi è? Questo è Glenn Ford, e gli altri sono Robert Mitchum, June Allyson, Bette Davis e Joseph Cotten. Cinque vecchi divi di Hollywood assieme a Villa d'Este per una serata nostalgica degli anni 40.
Le star dei nostri padri hanno ora ottant'anni. Osservo il lavoro del tempo sulle loro facce. Sono ancora belli, ma con un'ombra drammatica nei tratti, o nei grandi occhi pervinca di Bette Davis. Dalla vita hanno avuto tutto. Ma, ci dicono, nelle giornate in questo sontuoso grand hotel ciascuno ha a disposizione una Rolls Royce con autista, e se ne serve da solo. Ciascuno se ne sta nella sua sontuosa suite, da solo. Non si incontrano neanche per bere un tè. Non si telefonano neppure.
Davanti ai flash sorridono, ma appena dopo sembrano assenti. Non felici, e neppure troppo lieti di essere ancora, dopo avere avuto tanto, sani e vivi. È amaro, penso, avere avuto il mondo nelle mani, e perderlo un giorno alla volta, invecchiando. Io, giovane cronista, lascio Cernobbio immalinconita da questo crepuscolo di dèi. Dunque né i soldi né il successo bastano, alla fine. (Gli splendidi occhi blu di Bette Davis, sotto il trucco, così stanchi).


Marina Corradi



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10/01/2013 16:42

cara Aurora, noto che nessuno risponde a queste riflessioni....
forse nn si può?...perdonami se è cosi...ma l ultimo post mi ha riportato indietro di qualche anno,a quando ero una accanita fan di un cantante purtroppo scomparso, di Lui oltre alle canzoni conosco la sua vita...anche Lui solo...come i(cinque vecchi divi di Hollywood)della riflessione di Marina Corradi...
Lui come Loro...ricco,potente,ma incredibilmente solo...

dunque nè i soldi nè il successo bastano,alla fine.

grazie...calliope
[Modificato da calliope.73 10/01/2013 16:43]
***********************
Non ho nulla da lasciarti in dote figlio mio,posso solo insegnarti l arte del perdono e dell amore incondizionato,solo quello possiedo.
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11/01/2013 10:59



Miracolo a Francoforte



Francoforte, 1988 – Nel grande aeroporto tedesco da mesi hanno preso a arrivare bambini soli, dal Medio Oriente e dall'Asia, con in tasca solo un biglietto: «Da noi c'è la guerra. Per favore, abbiatene cura». La Bilde Zeitung scrive che sono ormai centinaia. Arrivo a Francoforte, scalo immenso, anonimo crocevia di destini; passeggeri di fretta, cento lingue, in una concitazione da Babele.
Eccoli, i profughi: otto, dieci anni, pelle caffelatte, occhi grandi di paura. Un funzionario, il signor Brinkmann, li accompagna in un istituto nei boschi del Taunus: i bambini di Sri Lanka e Eritrea guardano attoniti la neve. La Germania del 1988 concede asilo ai profughi bambini in virtù di una legge del primo dopoguerra. Ma ora i profughi cominciano a essere troppi. Tra i tedeschi si coglie un crescente fastidio. «Però non si può, capisce, mandarli indietro», si accalora Brinkmann.
Già, non si può. Infatti lui, padre di tre figli, una sera dall'aeroporto si è portato a casa quattro piccoli sfiniti eritrei. E la mattina con sua moglie han deciso che non potevano mandarli via: così che ora hanno sette figli. Lo credereste? Nella indifferente Babele del Frankfurt Airport c'è uno così, che apre il cuore a quattro figli in una notte. (Sono silenziosi i miracoli, non fanno rumore).


Marina Corradi



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11/01/2013 11:04

Re:
calliope.73, 10/01/2013 16:42:

cara Aurora, noto che nessuno risponde a queste riflessioni....
forse nn si può?...perdonami se è cosi...ma l ultimo post mi ha riportato indietro di qualche anno,a quando ero una accanita fan di un cantante purtroppo scomparso, di Lui oltre alle canzoni conosco la sua vita...anche Lui solo...come i(cinque vecchi divi di Hollywood)della riflessione di Marina Corradi...
Lui come Loro...ricco,potente,ma incredibilmente solo...

dunque nè i soldi nè il successo bastano,alla fine.

grazie...calliope




Calliope cara, certo si può commentare anche qui. Ma poiché non era mai successo ancora, avevo scelto di inserire tutte le riflessioni in una sola discussione. I frequentatori solitamente amano leggere, raramente intervengono con qualche loro pensiero. Sono felice che tu lo faccia!! [SM=g27987]

Riguardo alla giusta osservazione che hai fatto, sul post precedente, ti dirò che penso anche io così... tutto lo dimostra: il successo, i soldi, il potere non appagano il bisogno vero, profondo che geme nell'intimo profondo delle persone... eh no, vero.




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12/01/2013 11:05



L'alba del Mondo Nuovo



Milano, 1989 - È il giorno di Ognissanti, ma la sala d'attesa è piena. Donne non giovanissime, con il marito, o sole. Aspettano per ore. Il dottore, è un pioniere. "Mago della provetta", lo chiamano già i giornali.
Nel suo studio, in un angolo, c'è una specie di damigiana metallica, panciuta, chiara. Dentro, spiega il dottore, congelati nell'azoto liquido stanno una ventina di embrioni, fermi nell'atto di una delle prime moltiplicazioni cellulari. Aspettano il giorno, eventuale, in cui le loro madri decideranno di tentare una nuova gravidanza. Li chiamano "sovrannumerari": un surplus delle fecondazioni in provetta. Dottore, che effetto fa avere qui delle "cose" che potrebbero diventare uomini? Lui sorride come a una domanda sciocca: «Guardi che sono quattro cellule, mica bambini...».
Ma è una domanda difficile da non farsi. Chi c'è lì dentro, sospeso tra la vita e il nulla? Ne verrà al mondo qualcuna, di queste creature in fieri, o appassiranno nel loro limbo freddo finché si deciderà, con termine squisitamente industriale, di "smaltirli"?
Il dottore ora ha fretta. Gli luccica al polso un Rolex d'oro. Questa sua nuova specializzazione, di oro è una miniera. L'alba del Mondo Nuovo è una damigiana metallica sotto a una scrivania, piena di figli che è scorretto chiamare bambini.


Marina Corradi



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14/01/2013 11:45



Padroni di morire



Amsterdam, 1989 - Lairessestraat 152, una villetta di periferia. Margaretha Bakker, 68 anni, fondatrice della prima associazione olandese per l'eutanasia, è una signora gentile che ogni estate, a settembre, va a Rimini. Mentre lei va a preparare un tè mi guardo attorno. Su un manifesto c'è l'orso Yoghi, che sorridente, sdraiato dentro una bara, se ne cala addosso il coperchio. «Men moet ten slotte bet recht essen om als een er te sterven», dice Yoghi. «Che vuol dire?» domando. «Ciascuno — traduce lei — dovrebbe avere il diritto di morire come un gentiluomo».
In Olanda nell'89 l'eutanasia non è legalizzata, ma non è perseguita penalmente. Già si parla di concederla non solo a malati terminali, ma anche a chi è vecchio e stanco di vivere. Finita l'intervista, la Bakker mi chiede se sono cattolica. «Sa — dice — io da ragazza lo ero. Poi qui sono arrivati i nazisti e la mia migliore amica, ebrea, è morta ad Auschwitz. Da allora ho smesso di credere a un Dio buono».
Quanti, mi dico andandomene, dei ragazzi degli anni 40 sono passati per persecuzioni e massacri. Una intera generazione si è chiesta dov'era, Dio. Ora quei ragazzi invecchiano, orfani, ma padroni di sé. Padroni di morire "dignitosamente", quando sono stanchi. Come Yoghi, che sorride dalla bara, e toglie il disturbo.


Marina Corradi




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15/01/2013 10:27



L'ostinazione di Budapest



Budapest, agosto 1990 - Il Muro è caduto da un anno. Davanti ai primi negozi occidentali gli adolescenti si affollano, adoranti. Cosa sognano i ragazzi del nuovo Est? Il Black Hole è un locale dark, in un sotterraneo, adornato da una serie di tv non sintonizzate, sugli schermi solo linee grigie. Zsol, 23 anni, fa il poliziotto. È contento della fine del comunismo perché, dice, «finalmente la gente che mi vede in divisa non mi insulta appena volto le spalle». Prende 8000 fiorni al mese e ne spende 6000 di affitto. Guarda avidamente le tartine sul bancone, ma costano troppo. Gli pago un panino e una birra, e parliamo. Poi gli chiedo se crede in Dio. Alza le spalle: «Mia nonna mi diceva di pregare, ma Dio non mi ha mai risposto». Ma c'è qualcosa in cui credi? «Boh, no. Ah sì, agli extraterrestri. Ho un amico che se ne intende, dice che sono sbarcati in California, mi ha mostrato le foto».
A un tavolo siede una ragazza molto truccata. Dice che sogna una casa sua, e un'auto che non la lasci a piedi. E basta? «Beh — ride — sogno di essere felice». (Imbarazzata, come chi dica una cosa assurda).
Sono in molti, nel 1990 a Budapest, a sognare. Le librerie sono piene di testi di astrologia, chiromanzia, magia. Nella smemoratezza di Dio, un povero, ostinato bisogno, comunque, di sperare.

Marina Corradi


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16/01/2013 14:32



La Provvidenza alla Centrale



Milano, inverno 1990 - Sotto ai binari della Stazione Centrale c'è un androne enorme e semibuio. A sera, allineate sul cemento, decine e decine di brande; tutte, però, con le lenzuola ben ravviate. Una Madonna in fondo, e un Crocefisso. Fuori, ogni sera, in coda, quelli che la città non vuole: clochard, irregolari, sbandati. Nel suo Rifugio fratel Ettore - un vecchio camilliano santo e matto, dicono a Milano - come il pescatore della canzone di De André non fa domande, ma sfama e dà un letto a tutti.
Stasera eccolo che arriva con un manipolo di profughi sbarcati da chissà dove. La notte è sottozero, e le coperte non bastano. Lui non sembra preoccupato. Poco dopo vedo fermarsi in via Sammartini un furgone. «Volete delle coperte usate, ma pulite?» domanda, senza scendere, l'autista. Trenta vecchie preziose coperte di lana, da chissà dove. Il volontario alla porta sorride del mio stupore: «Qui va così. Se ci manca il pane, o la pasta, prima di cena, non si sa come, da qualche parte arriva».
Sopra di noi i viaggiatori del Pendolino non immaginano nemmeno, chi c'è qui sotto: la Provvidenza, che si presenta sotto l'apparenza dimessa di un furgone di panificio, o droghiere. Scarica in via Sammartini,: poi si confonde, anonima, nel traffico della sera.


Marina Corradi



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17/01/2013 11:03



Dormi, papà, sei stanco



Milano, 1990. Mio padre è morto all'alba, in ospedale. Quando arrivo, nella camera ardente non c'è ancora nessuno. Lui, sembra che dorma. C'è qualcuno in me che non realizza, che non vuole capire. Come fossi ancora bambina. (Per i bambini piccoli la parola "morte" non rappresenta nulla, è un concetto astratto). Dopo un po' me ne vado, dicendo fra me: papà, ti lascio dormire, se sei così stanco. Allungo una mano a carezzare la sua: è fredda, e sussulto – come fossi sul punto di aprire gli occhi.
Per molti giorni mi pare di averlo sempre accanto. Per mesi, quando mi chiedo come fare un'inchiesta, automaticamente alzo il telefono sulla scrivania e digito: 02 349..., il suo numero. Mi interrompo solo all'ultima cifra, e riattacco. È come se l'idea che è morto bussasse per entrare, ma io non aprissi.
Infine, sono passati tre mesi, in autostrada sto guidando, da sola. D'improvviso la coscienza che mio padre è morto si palesa, lacerante. Mi fermo sulla corsia d'emergenza, perché piangendo non vedo più dove vado.
Quanto tempo occorre, dopo un lutto, per capire che è vero? Sembra che la nostra mente si barrichi, ci protegga; e, come si fa con i bambini, parli solo quando ha operato in noi una misteriosa pietà. Che, misericordiosa, comincia a cicatrizzare la ferita.


Marina Corradi



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18/01/2013 10:53



Nel cuore del mondo



Gerusalemme, 1990 — Stasera la Basilica del Santo Sepolcro è quasi deserta. È tardi, stanno per chiudere le porte. Un vecchio monaco mi vede sulla soglia e mi dice che si può restare dentro, la notte, a pregare, però non si può più uscire fino all'alba, quando il portone riapre. Entro, mentre i battenti mi si chiudono alle spalle.
Ombra lucente di ori, profumo di incenso e, sulle pietre antiche, solo i miei passi. Il Santo Sepolcro deserto è un sogno in cui mi aggiro adagio, gustando ogni prospettiva. Mi affascinano le candele che si approssimano alla fine: allungano verso l'alto la fiamma, non volendo morire. Fa freddo, qui dentro, e ti senti addosso la penetrante umidità di queste mura. A cadenze regolari, da un angolo all'altro l'eco di preghiere in lingue sempre diverse. Mi pare d'essere, stanotte, dentro il cuore del mondo. Ma tremo e mi stringo nella giacca, e mi assopisco.
Mi sveglio che è quasi l'alba. Stanno accendendo i lumi nell'edicola del Sepolcro. Ora, di nuovo, nessuno. Abbasso la testa sotto al pertugio angusto. Tocco la lastra di marmo. Senza parole sul luogo dell'Anastasis, della Resurrezione — della rivoluzione. Rimango finché una campana annuncia la prima funzione. Poi, per i vicoli della città vecchia all'alba - quasi temendo che questa notte sia stata un sogno.


Marina Corradi



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19/01/2013 11:37



Uomini e mosche


Tel Aviv, gennaio 1991. Israele è sotto gli Scud iracheni. I giornalisti stranieri stanno all'Hilton, dove ogni giorno si tiene il briefing dell'esercito israeliano. Questa sera nella grande hall l'atmosfera è rilassata. I camerieri versano Veuve Cliquot, e galantemente gli uomini porgono il calice alle signore. Poi, suona l'allarme aereo.
La folla cambia faccia. Dobbiamo raggiungere la sealing room, la stanza sigillata contro i gas. Tutti corrono agli ascensori, ci si spintona per entrarci a forza. Qualche donna si libera dei tacchi alti per correre più veloce su per le scale; qualche vecchio dopo tre piani ansima e si ferma, e viene quasi travolto.
Ora indossiamo tutti la maschera antigas, con il filtro nero sporgente sul naso. Somigliamo a uno sciame di mosche. Stringe, la maschera: insofferente me la strappo. Incrocio lo sguardo di un vecchio sconosciuto, il solo a viso scoperto. Ci sorridiamo. È un ebreo russo ottantenne che vive a New York. Come se mi conoscesse da sempre prende a raccontarmi di sé, dei figli, di quando era bambino.
Nel rifugio gremito di uomini-mosca, fra ignoti e stranieri, che dono, il racconto di un vecchio. Poi, l'allarme finisce. Tutti tolgono la maschera. Siamo tornati uomini. Nella folla di nuovo beneducata già non vedo più il mio vecchio sconosciuto amico.


Marina Corradi



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21/01/2013 10:53



Vita, contro la morte



Tel Aviv, gennaio 1991 - I giorni di Desert Storm. Sto tornando a Milano dopo dieci giorni di servizio in Israele, che è sotto gli Scud iracheni. All'aeroporto ho restituito la maschera antigas. Sono già sull'aereo, la cintura è allacciata, l'apparecchio nella notte rolla lento. (Bello, mi dico, essermi liberata di quella maschera nera, lugubre, come una faccia sinistra).
L'aereo si arresta sul limite della pista, pronto ad andare.
In quel momento suona la sirena dell'allarme. Di nuovo gli Scud puntano su Tel Aviv. L'aereo si blocca, resta immobile nel buio.
Di colpo penso all' apparecchio fermo sulla pista col serbatoio colmo. Basterebbe una scheggia, una scintilla. Sento la paura: entra nel sangue come una scarica di corrente, e allerta, in una difesa atavica, i sensi, e accelera il battito del cuore.
Volevo vedere la guerra. L'ho, in questi giorni, appena appena intravista. È un'ombra che ti si allarga addosso, e ti sfida: perché negli uomini c'è una radice, che non vuole morire.
Poi, cos'è stato? Istinto vitale, o natura femminile? Quando l'allarme finisce e l'aereo si alza so, per la prima volta, che voglio sposarmi, e avere dei figli. Voglia di vita, contro la morte. Nel bel destino delle madri, da mille e mille anni, cocciutamente, dopo mille guerre: dare alla luce, ancora.


Marina Corradi



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Uomini contenti



Amazzonia, 1992 - La foresta è splendida e terribile. Buia, tanto densa è la vegetazione; e nella penombra fruscii di animali nascosti, corolle spalancate come bocche voraci, grida acute, stridule, di uccelli. In questo lembo di Amazzonia tre missionari italiani vivono con la tribù degli indios Yanomami. Io sono qui con monsignor Ersilio Tonini, che vuole aiutare questo piccolo popolo minacciato di estinzione. Gli Yanomami vanno per la foresta seminudi; a tratti con l'arco scagliano una freccia che, precisa e inesorabile, ricade a terra con una preda trafitta.
Si dorme in amaca, si mangia alligatore bollito, c'è un'afa opprimente e insetti dappertutto. Tuttavia a sera, a tavola, alla fioca luce delle candele, i missionari sembrano uomini contenti. Le facce in pace, ridono volentieri, e non si lamentano di niente. E tu pensi - appena ieri - alla gente in via Montenapoleone, o fuori dalla Scala. Eppure, ti ripeti stupita, questi tre sembrano molto più contenti.
L'indomani, per strada, si arriva a un ponte di legno sospeso su un fiume limaccioso. Uno dei tre saggia la robustezza dell'assito, alza le spalle: «Se Dio vuole, tiene». La jeep passa, in un gemere di vecchi legni. (Quei tre, rimugini maravigliata, non sembravano nemmeno preoccupati. Tranquilli, invece: «Se Dio vuole, tiene»).


Marina Corradi



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23/01/2013 10:23



Il mondo come al principio


Foresta amazzonica, 1992. Tre missionari italiani hanno messo su una scuoletta in una capanna di legno per i bambini della tribù degli indios Yanomami. Dalla finestra vedi i ragazzi seduti ai banchi, a torso nudo come quando vanno a caccia nella foresta con arco e frecce. Quanti millenni di storia ha saltato questo villaggio, irraggiungibile nel fondo dell'Amazzonia?
A sera i missionari ci conducono nella capanna più grande. Nella penombra gli occhi dapprima faticano a vedere. Poi distinguiamo grappoli di donne e bambini, accucciati sulla terra nuda. Le madri, giovanissime, hanno tutte un figlio al collo; quelli appena più grandi barcollano in passi incerti, inseguendo le galline che razzolano tra i giacigli.
Ora che ci siamo abituati al buio vediamo che gli Yanomami sono molti, stretti gli uni agli altri, come a rassicurarsi nella notte nera della foresta. E ci guardano: decine di paia di occhi scurissimi ci seguono – non ostili, perché dei missionari si fidano, ma colmi di un profondo stupore. Noi, altrettanto sbalorditi guardiamo loro.
È l'umanità come era in principio: e istintivamente zittiamo. Come si tace davanti a ciò che è sacro. All'innocenza negli occhi delle madri con i figli al seno; a un popolo dimenticato dalla storia, rimasto vergine, rimasto bambino.


Marina Corradi



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24/01/2013 07:33



Il tessitore



Milano, marzo 1992. Quando l'ho saputo sono rimasta senza fiato. Poi ho richiuso la busta e sono uscita dalla farmacia su corso Buenos Aires nell' aria ancora fredda, in un sole pallido, presa da una incontenibile ebbrezza. Aspetto un figlio, il primo. Un telefono, un telefono per favore, è urgente. Poi, annunciata la notizia, mi sono specchiata in una vetrina, e mi è parso strano, di sembrare uguale a sempre. Solo gli occhi, forse, più assorti. Come è possibile, mi chiedo, che dentro di me vada formandosi un figlio, senza che io debba preoccuparmi di studiare, di sapere niente? E quanto sarà grande adesso, due centimetri? Il cuore, ho letto su un libro, a questa settimana già batte. E le mani, hanno già forma le sue mani? Io, non so fare nulla. Chi tesse mio figlio, chi lo cesella con precisione da orefice? (Mio Dio, fa' che non sbagli, il tessitore).
E a un semaforo, o la sera in cucina, ogni tanto quel pensiero che torna. Io sono qui che faccio da mangiare, e nostro figlio intanto, sapientemente, in un progetto antico, cresce.
Vertigine. Avvertire di essere un niente, una creatura condotta da un creatore. E che questo figlio non è davvero mio, ma gli appartiene. E però, già da madre, domandare: fa', ti prego, che non sbagli, il Tessitore.


Marina Corradi


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25/01/2013 10:52



Coro di furia e di gioia



Milano, settembre 1992 — Com'è sembrata lunga questa notte. Mi pare passato così tanto da quando siamo arrivati qui, ieri sera, mio marito e io. Lui, è nato all'alba. «Maschio!», ha esclamato l'ostetrica. Aveva già gli occhi spalancati: ci siamo scambiati, mi è parso, uno sguardo sbalordito. (La strana sensazione di un ritrovare qualcuno da sempre conosciuto).
Ora fa appena giorno. Nella luce incerta dell'alba potrei finalmente dormire in pace, come una gatta che sappia la sua cucciolata al sicuro. Ma dal fondo di un corridoio si avvicina un rumore sempre più forte, lacerante, mai sentito. Mi affaccio: è un carrello carico di neonati affamati, che urlano nell'ora della poppata. Dieci bambini rossi in volto, soffocati dal loro stesso grido. Non è un piangere, è un impazzire di fame, e forse anche di desiderio: di una madre di cui già sanno la pelle, e il ritmo del cuore. Sembrano un nido di aquilotti tanto strillano, i neonati nei vecchi corridoi di una maternità di Milano.
Ciascuno viene dato alla madre. Improvvisamente, silenzio. E poi, saziata la fame, crollano addormentati fra le sue braccia, come ubriachi, sfiniti. Domattina sarà lo stesso. L'urlo colmerà i corridoi. Coro di furia e di gioia. La voce della vita stessa ho sentito, questa mattina, all'alba.


Marina Corradi



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26/01/2013 08:43



Con lui in braccio


Milano, 1993. Ora ha sei mesi. Me ne sto con lui in braccio alla finestra, e guardo fuori. Davanti a casa c'è una caserma, si intravvedono nel cortile dei soldati, si sente il gridare rauco di un sergente. Sopra il muro c'è il filo spinato; e all'angolo, dentro una garitta, un ragazzo col fucile. A un mio movimento mio figlio quasi si sveglia, socchiude gli occhi, mi si rannicchia più stretto addosso. Dalla caserma ancora l'eco di passi cadenzati. È questo che mi fa pensare alla guerra? Con uno strano doloroso strappo però, come non mi era mai accaduto.
Deve essere per via del bambino tra le braccia. Per la prima volta mi è evidente che tutti i soldati uccisi, massacrati, morti di stenti nelle trincee di ogni guerra, nel mondo intero, tutti, inesorabilmente, sono stati un giorno come questo mio figlio. Così fiduciosi, così inermi.
È strano, non ci avevo mai pensato, neanche guardando i film, o le foto dai fronti. Vedevo i soldati e non pensavo alle madri. Per le madri i figli sono sempre figli, e non pedine di eserciti, o bandierine su mappe militari. Come mai lo capisco solo ora? È per via di questo figlio in braccio. Come una voce di viscere, che prende la parola. («Misericordia» in ebraico significa: con viscere materne. Un'altra pietà, che tutto perdona).


Marina Corradi



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27/01/2013 09:11



«Mamma, se posso torno»


Col primo figlio in braccio ho scoperto che tutti i soldati di tutte le guerre sono stati, un tempo, figli, fra le braccia di una madre. Ma in fondo questo sguardo è speculare a un altro, imparato da bambina.
Nel fienile della vecchia casa delle Dolomiti in cui passavamo l'estate un giorno, rovistando fra arcolai e rastrelli coperti di ragnatele, avevo trovato un elmo: un rugginoso elmo della Grande Guerra, sanguinosamente combattuta fra queste montagne. Delle trincee delle Tofane avevo sentito i vecchi raccontare, e conoscevo il grande sacrario dei caduti a Pocol, una torre alta e cupa che custodisce i resti di migliaia di morti. Ma ciò che mi colpì, di quell'elmo, fu una scritta, graffiata sopra con un temperino: «Mamma, se posso torno». Era la promessa di un soldato - qualcuno di quella casa, a me sconosciuto, forse già morto. Quella scritta mi folgorò: perché perfino io, bambina di dieci anni, in quelle quattro parole intuivo la guerra - che cos'è, davvero. Capivo la infinita nostalgia dei ragazzi lassù nelle trincee fra le cime, nel gelo e nel sangue. Ragazzi che, quando taceva il fuoco, guardavano giù, verso la valle, e il paese; cercavano un tetto, il tetto di casa, dove la madre aspettava. «Mamma, se posso torno». Quattro parole graffiate su un elmo, come una ferita.


Marina Corradi



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29/01/2013 10:16



La cosa più vera



Lourdes, anni 90 - È appena giorno. Non c'è ancora nessuno. Davanti alla Grotta pochi pellegrini, mentre finiscono di consumarsi i ceri accesi la sera prima. Ma se vai oltre e arrivi alle piscine, già c'è una folla: silenziosa, ordinata, in attesa. Nella fila una donna anziana, le gonne nere e lunghe, parla a bassa voce con una vicina in una lingua slava. Un'ucraina delle campagne, forse? Una di quelle in cui una vita intera nel socialismo reale non ha scalfito la memoria cristiana.
La donna ha la faccia marchiata da rughe dure, da contadina. È strano vederla accanto a una signora elegante, che potresti incontrare in Faubourg Saint Honorè a Parigi, con la sua borsa di Chanel e i capelli platinati. E quest'altra, con due bambini? Uno, più piccolo, mai fermo, un terremoto; l'altra, molto pallida, impensierisce a guardarla, con quel viso affilato. Io, sono qui come giornalista; ma nella lunga attesa me ne dimentico quasi.
C'è una tale domanda in queste donne, in fila all'alba per domandare una grazia. Fuori, nel mondo, la gente grida, protesta, rivendica. Queste aspettano zitte, come affamati a una mensa per poveri. Le mani vuote, chiedono una grazia. Eppure è così grande e umano il loro domandare; come fosse questa, la cosa più vera che possiamo fare.


Marina Corradi



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