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"TRACCE" - Riflessioni quotidiane di Anna Foa

Ultimo Aggiornamento: 14/09/2013 10:14
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03/08/2013 09:49



Letture e destino



Il ghetto di Varsavia fu creato dai nazisti nel 1940 e fu svuotato per tre quarti, con destinazione il campo di sterminio di Treblinka, nell'estate del 1942. In quei due anni, fra la morte, l'attesa della morte, la fame e le malattie, il ghetto fu vivo. I bambini morivano nelle strade, ma i teatri e i cabaret funzionavano. C'erano biblioteche, si leggeva, mentre il grande pedagogista Janus Korczak insegnava ai suoi piccoli orfani a recitare la morte perché ne avessero meno paura quando sarebbe inevitabilmente arrivata. Ma che cosa leggevano gli ebrei chiusi nel ghetto di Varsavia e negli altri ghetti? Che traccia abbiamo delle loro letture? Uno dei libri più letti, ci dicono le testimonianze, era il romanzo di Franz Werfel I quaranta giorni del Mussa Dagh, pubblicato nel 1933, che descriveva lo sterminio armeno del 1915. Chi lo leggeva nei ghetti nazisti era ben consapevole di leggerlo con tanta passione perché vi ritrovava la sua storia e il suo destino, di leggere cioè del genocidio degli armeni pensando al genocidio che si stava compiendo sugli ebrei. Forse, c'era anche una piccola speranza, perché la storia dei villaggi armeni in rivolta contro i turchi aveva un lieto fine: i protagonisti erano messi in salvo da una nave francese. Niente salvò gli ebrei chiusi nei ghetti.


Anna Foa



_________Aurora Ageno___________
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04/08/2013 11:34



Mai nulla è uguale


Con il passar del tempo, è noto, i nostri ricordi subiscono una serie di selezioni successive. Il progredire del tempo li riorganizza, li risistema in accordo alle nostre esigenze attuali, fino ad arrivare, nell'estrema vecchiaia, a cancellare le memorie più recenti, facendo invece riemergere quelle del passato più antico. Parlando del passare del tempo, evidentemente, non ci riferiamo solo allo scorrere del calendario, all'età anagrafica insomma, ma a tutto quello che questo processo comporta, traumi, lutti, eventi felici, viaggi, conoscenze. Ci sono anni che scorrono lievi senza quasi lasciar tracce ed anni pesanti come macigni, anni che non si cancellano mai e anni banali e superficiali. Le tracce che la memoria lascia su di noi sono sempre diverse e pochi sono i ricordi fissati indelebilmente nella nostra coscienza senza essere modificati, mutati, smorzati dal nostro cambiamento. È il panta rei degli antichi filosofi, applicato al nostro sguardo invece che alla realtà? E potremmo allora dire non soltanto che l'acqua di un fiume ci scorre davanti sempre diversa ma che non solleciteremo mai un ricordo nello stesso modo, non rileggeremo mai un libro con gli stessi occhi. Per questo da vecchi amiamo rileggere i classici, per ritrovarvi le tracce della nostra giovinezza.


Anna Foa



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06/08/2013 11:26



Non solo parole



Il primo marito di Hannah Arendt, Gunther Anders, era un filosofo come lei, allievo di Husserl mentre Hannah lo era di Heidegger, che com'è noto fu anche il suo grande amore. Il loro matrimonio durò poco, ma Anders, che sopravvisse di molti anni alla Arendt, mostra di aver conservato negli anni l'amore che le aveva portato quando erano ambedue giovani filosofi sconosciuti. Anders ne ha anche scritto, rievocando le battaglie filosofiche che i due sostenevano, discorrendo di Leibnitz e di Dio, del copernicanesimo e della superiorità degli esseri umani, di fronte ad un grande cesto di ciliege che snocciolavano per farne marmellata e di cui Hannah si cibava golosamente. Gli schizzi che il marito traccia della filosofa, allora giovane e bella, sono al tempo stesso vivaci e delicatissimi. Colpisce l'immagine di lei che, sorda alla musica e cieca all'arte figurativa, chiede al marito di tradurgliela in parole. Solo attraverso la razionalità passava, in realtà, per Arendt la comprensione. Confidava così assolutamente nella lingua, che non pensava che esistessero altri linguaggi privi di parole. E quando Anders le spiega i dipinti, le pareti diventano per lei “vetrate” e confessa umiliata di non aver mai saputo che dei dipinti bisognasse imparare le lingue.


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07/08/2013 10:42



Il fantomatico regno


In un giorno d'inverno del 1523, uno strano personaggio sbarcò a Venezia da una nave che veniva dall'Oriente. Diceva di essere l'ambasciatore del regno ebraico di Habor, popolato di trecentomila sudditi. Accolto con diffidenza dagli ebrei del ghetto veneziano, si portò a Roma dove fu ricevuto dal papa Clemente VII e dal cardinal Egidio da Viterbo, dotto ebraista. Era latore di una proposta di alleanza del suo re ai principi cristiani in funzione antimusulmana. Andò per mare in Portogallo, allora privo di ebrei ma popolato fittamente di conversos, e fu da loro accolto come un liberatore. Scacciato dal re, timoroso che i suoi sudditi recentemente battezzati a forza tornassero a professarsi ebrei, finì i suoi giorni in Spagna nel 1538, su un rogo dell'Inquisizione spagnola, non prima di aver tentato, sembra, di convertire al giudaismo nientedimeno che l'imperatore Carlo V. Lasciò un diario in ebraico e molte memorie della sua avventura. Per i suoi seguaci, era il Messia, anche se a considerarlo tale furono solo i conversos, mentre gli ebrei italiani, da Venezia a Roma, mantennero su di lui e sul suo fantomatico regno un diffuso scetticismo. Ma incuriosì e affascinò i dotti, quelli cristiani più ancora di quelli ebrei.



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08/08/2013 10:11



La poetessa il cagnolino


Nel 1933, nel suo Flush, Virginia Woolf raccontò la storia di un grande ed esclusivo amore, quello fra la poetessa inglese Elizabeth Barrett, poi divenuta la moglie del poeta Robert Browning, e il suo cane, uno spaniel fulvo dal nome Flush. Per amore della Barrett, a cui viene regalato cucciolo mentre lei giace malata e reclusa nella sua camera, Flush rinuncia alle corse nei prati, agli amori canini, e si sdraia ai piedi della padrona, fedele compagno. I due finiscono per assomigliarsi, come ci mostra un ritratto di Elizabeth che la mostra con i boccoli laterali simili alle orecchie cascanti di Flush. A turbare questo amore esclusivo, l'apparizione di Robert Browning, foriera di distrazioni e gelosie. Ma poi, la grande pacificazione all'interno del nostro triangolo: Elizabeth fugge di casa con Flush per seguire Robert, verso l'Italia. Saranno da allora in poi in tre, fino alla morte di Flush e poi di Elizabeth. Della storia di Flush Virginia Woolf ha trovato le tracce nei versi e nei diari della poetessa, ridando vita con delicatezza alle emozioni amorose di un cane e di una poetessa, che riposano da tanto tempo distanti, l'uno nella cantina di una casa di Firenze, l'altra nel cimitero degli Inglesi, come ad ogni umano che si convenga.


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09/08/2013 10:49



Oltre la catastrofe



Mentre in Giudea infuriava la guerra tra i romani e gli zeloti, un semplice studioso, Johannan ben Zakkai, uno dei leader della comunità dei farisei, riuscì a far rinascere dalla catastrofe l'ebraismo e a salvarne la continuità, sia pure trasformandolo radicalmente da culto fondato sul sacrificio nel Tempio a culto centrato sulla lettura e la trasmissione della parola di Dio. Secondo la leggenda, ché ben poche e più tarde sono le fonti storiche che ne abbiamo, il rabbino durante l'assedio di Gerusalemme fu trasportato dai suoi discepoli nascosto in una bara fuori dalla città, parlò con il generale Vespasiano e predicendogli il trono riuscì ad ottenere il suo assenso alla fondazione di una scuola rabbinica nella città di Yavne. Da quella scuola sarebbe risorto l'ebraismo. Di questo rabbino, avverso agli zeloti e favorevole al compromesso, abbiamo un bel ritratto letterario che ci consola almeno un poco della mancanza di altre fonti. Lo ritrae Lion Feuchtwanger, un romanziere tedesco degli anni Trenta autore di una bella e purtroppo dimenticata biografia in tre volumi di Giuseppe Flavio: «un giudeo vecchissimo, molto piccolo, molto ragguardevole, i cui occhi azzurri spiccavano con strana freschezza nel suo volto tutto rughe incorniciato da una barbetta stinta».


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10/08/2013 10:20



Un dubbio che resta


Fra gli ebrei dell'epoca della distruzione del Tempio doveva essere noto che Vespasiano, oltre ad avere tutte le carte in regola per diventare presto imperatore, era particolarmente sensibile a quanti gli predicessero la sua prossima assunzione al trono. Fu così che anche Josef ben Matitiahu, uno dei capi della guarnigione di Iotapata dove erano asserragliati gli zeloti ribelli, catturato dai romani e condotto di fronte a Vespasiano, salvò la pelle, passò dalla parte dei romani e divenne storico della Corte dei Flavi. Prese il nome di Giuseppe Flavio e usò il greco nelle sue opere fondamentali, La guerra giudaica e Le antichità giudaiche. Quale il confine tra il compromesso e il tradimento, potremmo domandarci? Giuseppe Flavio era un grande scrittore e molto di ciò che sappiamo sul mondo ebraico di questi anni ci viene soltanto da lui. È anche vero che la sua storia della guerra giudaica è apertamente orientata in senso favorevole ai romani. Tradimento o compromesso, insomma? Come allo storico Vidal Naquet, che ne ha autorevolmente scritto, anche a me Giuseppe Flavio piace molto di più di quanto non mi potrebbero mai piacere gli zeloti, chiusi e fanatici. Eppure, il dubbio resta.


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12/08/2013 10:16



Il labile confine



Nel mio mestiere di storica, la possibilità di tracciare un confine tra tradimento e compromesso mi ha sempre intrigata. È un altro dei mille intrecci tra morale e storia che si ripresentano a chi studia il passato, a volte come una sfida all'interpretazione, altre più sottilmente, come insinuandosi nelle fessure tra i fatti e nelle discordanze tra le interpretazioni. A partire dal processo Eichmann, per citare uno di quei casi in cui questo confine rappresenta un problema irrinunciabile, molto ci si è interrogati sui consigli ebraici nei ghetti nazisti e sul giudizio da dare sulla loro opera. Per salvare almeno una parte degli abitanti dei ghetti essi dovettero ad un certo punto sacrificare vecchi e bambini. In questa circostanza, ci fu chi, come il presidente del ghetto di Varsavia si suicidò, e chi sopravvisse per tentare di continuare a salvare il salvabile o anche, in alcuni casi, corrotto dal potere. Dopo la guerra, questi uomini furono visti come collaborazionisti da quegli stessi che avevano salvato e di cui avevano mandato alla morte figli e genitori. Come biasimare questi sopravvissuti, privati dei loro cari? Ma resta aperto il problema di quale sia stato il momento in cui il compromesso è divenuto vera e propria collaborazione con il nemico.


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14/08/2013 11:11



Le biblioteche e il sempre



Nonostante il dominio del digitale, il libro esiste ancora. E con i libri, le biblioteche, piccole o grandi, pubbliche o private. Ci sono biblioteche antiche, gioia degli occhi e del cuore, in cui i volumi disegnano arabeschi sullo sfondo, come la Biblioteca Angelica a Roma con la sua alta volta foderata di antichi volumi. Ci sono biblioteche modernissime di vetro e acciaio, pensate come indistruttibili. Eppure, nella storia le biblioteche sono state distrutte. La loro distruzione è rimasta a segnare un trauma e i contemporanei hanno vissuto la loro scomparsa come una perdita incancellabile. Pensiamo alla biblioteca di Alessandria, sulla cui distruzione gli studiosi ancora discutono, o alla biblioteca di Sarajevo, completamente distrutta durante l'assedio serbo con la stragrande maggioranza dei suoi libri, dei suoi incunabuli, dei suoi preziosi manoscritti di cui non resta più traccia. E ancora ricordiamo la Biblioteca Nazionale di Firenze allagata con l'alluvione del 1966, i libri e i manoscritti nel fango, i giovani che giungevano da ogni parte del mondo a cercare di recuperarli, di farli asciugare, di evitarne la distruzione. Sì, le biblioteche esistono ancora e creano forti emozioni negli animi. Sarà ancora e sempre così?


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15/08/2013 09:36



Il senso più inquietante



Mi sono sempre domandata quale sia il movente delle spie. Non intendo gli agenti segreti alla James Bond o alla Le Carré, ma coloro che denunciano e tradiscono i loro compagni di lotta o i loro parenti ed amici, come Celeste Di Porto, la ragazza ebrea che denunciò tanti suoi correligionari durante l'occupazione nazista a Roma. Leggendo i verbali processuali e le denunce, emergono molte spiegazioni interessanti. Primo movente è quello dei soldi, ma non solo. Spesso, i soldi sono collegati ad una vita di lusso, priva di limiti, la cocaina o il gioco per Pitigrilli, la spia dell'Ovra, i gioielli e le cene al ristorante per Celeste Di Porto. Ma c'è qualcosa di più torbido, un misto di senso di onnipotenza e di voluttà di denuncia. Anche in alcuni interrogatori della polizia fascista, in cui colui che viene interrogato decide di denunciare gli altri, si percepisce una volontà netta di nuocere. Di tutti questi moventi, il senso di onnipotenza è il più inquietante e lo troviamo in molte spie che denunciavano gli ebrei nella Roma occupata: ad alcuni elargivano salvezza, ad altri deportazione e morte, ad libitum. Quando l'uomo si crede Dio, in una situazione in cui può molto, molto grande è anche il male che può fare.


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17/08/2013 10:28



Un regno perduto



Mentre i viaggiatori ebrei del Medioevo giravano il mondo a cercare le mitiche tribù perdute, esisteva tra il Mar Nero e il Mar Caspio un regno ebraico, quello dei Kazari. Erano una popolazione seminomade di origine turca, convertitasi all'ebraismo intorno all'VIII secolo. «In Cazaria, scriveva nel X secolo un viaggiatore musulmano, pecore, miele ed ebrei si trovano in grande abbondanza». Il regno dei kazari, durato fino al XIII secolo e poi spazzato via dai mongoli, fece da cuscinetto fra Oriente ed Occidente bloccando nell'VIII secolo l'espansione musulmana sul Caucaso negli stessi anni in cui l'avanzata dell'islam veniva fermata da Carlo Martello a Poitiers. Poco è conosciuto sulla conversione dei kazari all'ebraismo, che riguardò probabilmente solo le fasce alte della popolazione. Una corrispondenza del X secolo tra il re dei Kazari Giuseppe e l'ebreo spagnolo Hasdai Ibn Shaprut ce ne fornisce una versione mitica, come leggendaria è la versione datane intorno al 1140 dal filosofo e poeta ebreo spagnolo Yehuda Halevi, nel suo trattato Al Kuzari, di un confronto tra il re dei kazari e gli esponenti delle tre religioni monoteistiche, da cui sarebbe emersa la superiorità dell'ebraismo. Per quanto poco documentata, però, quella del regno dei kazari è una storia vera.


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18/08/2013 06:09



I paradossi della storia



Dei kazari si occupò anche Arthur Koestler in un suo libro famoso, La tredicesima tribù. Che fine avevano fatto i kazari dopo la loro sconfitta? Si chiede. Koestler riprende una controversa teoria che fa derivare almeno in parte gli ebrei ashkenaziti proprio dalla dissoluzione del regno dei kazari. Di quanta parte si trattasse, è tema ancor più controverso. Che una parte dei kazari si siano volti ad Occidente, approdando in Polonia, dove a partire dal Cinquecento ci fu un forte aumento della popolazione ebraica, è possibile. Meno probabile che essi siano approdati nella Germania renana, dove il fiorire delle comunità ashkenazite è già della fine del primo millennio. Ciò che affascina uno scrittore anticonformista come Koestler è il paradosso che ne deriverebbe: che gli ebrei ashkenaziti potessero essere di origine non semitica, ma “indoeuropea”, per usare un termine controverso, che non fossero ebrei in origine ma convertiti all'ebraismo. Se fosse vero, quegli ebrei orientali che Hitler, in nome della razza, sterminò in Polonia durante la Shoah avrebbero avuto prevalentemente un'origine ariana, non semitica. L'ipotesi è paradossale e certo eccessiva, ma apre possibilità inesplorate di cogliere le stranezze e le bizzarrie della storia.


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19/08/2013 10:57



I paradossi della storia



Dei kazari si occupò anche Arthur Koestler in un suo libro famoso, La tredicesima tribù. Che fine avevano fatto i kazari dopo la loro sconfitta? Si chiede. Koestler riprende una controversa teoria che fa derivare almeno in parte gli ebrei ashkenaziti proprio dalla dissoluzione del regno dei kazari. Di quanta parte si trattasse, è tema ancor più controverso. Che una parte dei kazari si siano volti ad Occidente, approdando in Polonia, dove a partire dal Cinquecento ci fu un forte aumento della popolazione ebraica, è possibile. Meno probabile che essi siano approdati nella Germania renana, dove il fiorire delle comunità ashkenazite è già della fine del primo millennio. Ciò che affascina uno scrittore anticonformista come Koestler è il paradosso che ne deriverebbe: che gli ebrei ashkenaziti potessero essere di origine non semitica, ma “indoeuropea”, per usare un termine controverso, che non fossero ebrei in origine ma convertiti all'ebraismo. Se fosse vero, quegli ebrei orientali che Hitler, in nome della razza, sterminò in Polonia durante la Shoah avrebbero avuto prevalentemente un'origine ariana, non semitica. L'ipotesi è paradossale e certo eccessiva, ma apre possibilità inesplorate di cogliere le stranezze e le bizzarrie della storia.


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20/08/2013 10:36



Il posto delle donne


Nel Panthéon di Parigi, chiesa in stile neoclassico varie volte sconsacrata e dal 1885 definitivamente divenuta un monumento civile, sono sepolti i grandi uomini a cui la Francia è riconoscente, a partire da Mirabeau, che ne fu poi scacciato, per finire con Alexandre Dumas. E le grandi donne? In realtà ce ne sono due nel monumento, Sophie Berthelot, scienziata sepolta con suo marito grazie alla sua pietà coniugale (morì infatti poche ore dopo il marito) e Marie Curie, sepolta anche lei assieme al marito. Nessun'altra. Recentemente, si è tentato di riparare a questa grave mancanza e il primo nome che è stato proposto è stato quello di Olympe de Gouges, la rivoluzionaria femminista, pacifista, contraria alla pena di morte, anche a quella del re, autrice della Dichiarazione dei diritti della Donna, ghigliottinata da Robespierre sotto il Terrore giacobino. Il suo nome, spiega René Viénet sull'Huffington Post, è in realtà sospetto. Ammetterla nel Panthéon, vorrebbe dire fare ammenda sul Terrore giacobino, che Olympe combatté fino alla ghigliottina. In coda dopo di lei ci sarebbe Charlotte Corday, colei che pugnalò Marat nel bagno. E allora? Meglio rinviare, ancora una volta, e mantenere il Terrore tra i propri miti fondatori, eliminandone le donne?


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21/08/2013 10:02



L'inesorabile nuovo



«Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie» proclamava fragorosamente il manifesto dei futuristi, scritto da Marinetti nel 1909. I futuristi, impegnati a combattere tutto quello che sapeva di vecchio, volevano così far piazza pulita del passato, distruggere fin le tracce più esili della storia, azzerare il tempo alla giovinezza. I vecchi quadri e i vecchi libri raccolti nei musei e nelle biblioteche erano ai loro occhi come cadaveri in un cimitero. Per la prima volta nella storia, dopo secoli passati a ricostituire e a mettere insieme i frammenti del passato, ora esso diventava un disvalore assoluto, un intralcio alla vita. Una provocazione che poteva preludere alle guerre del Novecento, ai roghi nazisti dei libri, agli stermini dei disabili, anche se non era affatto inevitabile che questo ne sarebbe stato il percorso. Fino ad allora, comunque, le distruzioni dei libri e della storia erano state il frutto avvelenato di conflitti fra posizioni politiche, fra culture, fra religioni. Ora diventavano l'esito del conflitto fra il vecchio e il nuovo: ma le lancette dell'orologio non si fermano nemmeno per i distruttori del tempo e il nuovo incalza sempre più nuovo, con potenziali di distruzione sempre maggiori.


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22/08/2013 10:03



Il tempo attraversato



Quando sono stati inventati gli orologi digitali, siamo stati testimoni, senza nemmeno accorgercene, di una vera e propria rivoluzione. Si è infatti perduto di colpo il rapporto tra la dimensione spaziale e quella del tempo. Quando diciamo che le lancette dell'orologio non si fermano, in realtà, stiamo usando un'immagine tratta dal passato, una metafora che si basa su strumenti desueti. Il tempo dell'orologio digitale è un tempo statico, in cui ogni passaggio corrisponde ad un'inquadratura staccata. L'inquadratura precedente è cancellata, il tempo di un minuto o di un secondo prima non esiste più. Nell'orologio in cui le lancette camminano, invece, ci troviamo di fronte a un movimento. Il passaggio al minuto successivo è opera di uno spostamento spaziale, non di una cancellazione. Lo spazio e il tempo vanno insieme, e il passato non viene cancellato ma solo attraversato dalle lancette nel loro cammino ripetuto. In un caso, cancellando il minuto trascorso ci abituiamo forse a cancellare anche il passato, cioè la storia. Nell'altro, nulla viene distrutto, tutto viene solo attraversato, per diventare appunto un tassello del passato. Quando l'ho capito, ho ripescato il mio vecchio orologio di tanti anni fa ed ora non uso che quello.


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23/08/2013 11:58



Il peso del ricordo



In ogni famiglia, c'è uno dei figli che si fa tramite fra il passato e il futuro, colui che si interessa di più ai parenti e alla loro storia, che prende sulle sue spalle il compito di trasmettere alla generazione futura il lascito di quella passata. Se così non fosse, ci troveremmo di fronte a pagine bianche, ogni memoria famigliare sarebbe cancellata. Certo, a volte si tratta di un ruolo condiviso, ma è più comune che esso sia assunto, per ogni generazione, da uno solo dei figli. Non deve trattarsi per forza di memorie tragiche o pesanti. Possono anche essere le ricette di cucina della nonna, che trasmettono il sapore perduto delle torte mangiate da bambini. Che il cibo sia un potente vettore di memoria, ce lo ha già detto Proust quando parla del profumo delle madeleines. Succede anche per il passato dei sopravvissuti della Shoah, e una psicoanalista italo-israeliana, Dina Wardi, ha chiamato chi si assume questo compito «le candele della memoria». Le loro responsabilità sono grandi, come grande è, almeno quando si è giovani, l'incomprensione dei fratelli che preferiscono guardare al futuro che tornare indietro al passato. Ma quando tutti si è vecchi, allora talvolta il peso del ricordo si suddivide fra le spalle di tutti.


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24/08/2013 09:27



Il senso dell'assenza



Per chi cerca e fiuta tracce, le assenze sono altrettanto significative delle presenze. Un cane che non abbaia quando i ladri penetrano in casa, un terreno che non è intriso del sangue di chi vi giace sopra assassinato sono indizi preziosissimi in ogni libro giallo che si rispetti. Ciò che non c'è lascia tracce quanto ciò che c'è. Ancora più prezioso è ciò che c'era ma è andato smarrito, ciò che non c'è più. Un manoscritto scomparso, che deve essere esistito perché è all'origine di molti altri testi, ma di cui si sono perdute le tracce, è una sfida alla mente, alla capacità di ricerca, alla ragione. L'assenza deve avere un senso, rispondere ad un intimo collegamento con la presenza. E ancora, di fronte alle assenze si spalanca lo spazio alla fantasia. Scomparsa o inesistente, l'isola di Atlantide non cessa di affascinare, da Platone alle derive ambigue dei nostri giorni. Dalla mancanza, dal vuoto fra le righe, dallo spazio bianco fra le parole, deriva la possibilità di immaginare un intero mondo. È per questo, forse, che l'amore in Occidente nasce, con i trovatori medievali, dall'assenza. Si ama da lontano, come in Jaufré Rudel che si strugge per l'amata mai vista. Il desiderio nasce dalla distanza, la passione dall'impossibilità.


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25/08/2013 08:01



Le armi più potenti



Malala era una bambina del Pakistan che andava a scuola e voleva studiare. Era più decisa e forte delle altre bambine e per questo fu colpita dalle pallottole dei taleban proprio mentre andava a scuola, nel 2012. I suoi assassini, i taleban che l'hanno condannata a morte e si ripromettono di portare a termine il loro compito, l'hanno definita «il simbolo degli infedeli e dell'oscenità». A differenza di tante altre studentesse assassinate, Malala è sopravvissuta e usa questa sua seconda vita per diffondere le sue idee. «Un bambino, un insegnante, un libro, una penna possono cambiare il mondo. Impugniamo i nostri libri e le nostre penne, che sono le nostre armi più potenti», ha detto mentre consegnava al segretario dell'Onu, a New York, una petizione per chiedere il diritto all'istruzione per tutti firmata da quattro milioni di persone. Mi tornano alla mente le fotografie delle bambine afghane che andavano per la prima volta a scuola dopo la sconfitta, purtroppo effimera, dei taleban: sorrisi gioiosi, pieni di attesa, volti illuminati di speranza. Quanti di quei sorrisi si sono spenti, quante di quelle speranze sono state infrante, non lo sappiamo. Ma Malala, avvolta nello scialle rosa di Benazir Butto, si impegna a cambiare il mondo.


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27/08/2013 13:25



In fondo, l'uomo


«Lo storico è come l'orco delle favole, va là dove sente odore di carne umana», scriveva uno dei più grandi storici del Novecento, Marc Bloch. L'immagine dell'orco che annusa le tracce dell'uomo è di grande effetto e dipinge con maestria il senso della storia. Cercare, frugare nelle tracce del passato, senza tuttavia perdere di vista che ciò che si cerca è fatto di carne e sangue, come te. Oggetto del cercare e cercatore si identificano in questa immagine dell'orco che annusa l'odore dell'uomo, che pure non è tanto diverso dal suo. Fuor di metafora, si tratta di ricomporre l'unità del soggetto e dell'oggetto, reinserire la soggettività nella ricerca, acquisire rigore alla soggettività attraverso l'oggetto. La domanda dello storico ne è il punto di partenza. Solo l'odore di carne umana ti è consentito cercare, anche se devi passare attraverso barriere di pietra e metallo, che di nulla odorano. Alla fine, in fondo al pozzo della ricerca, ritroverai l'uomo. Ma, a differenza dell'orco, che annusa l'odore della carne umana per divorarla, tu dovrai pazientemente ricomporre le membra disgiunte, ricostruire uomini, donne e bambini ed infine, attraverso le tue domande, insufflare loro la vita. Così lo storico da orco si fa demiurgo.


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28/08/2013 08:55



Intuizione e presunzione



Mi ha sempre colpita il tragico destino di un giovane medico ungherese dell'Ottocento, Ignaz Semmelweiss. Nel 1847 prestava la sua opera in un ospedale di Vienna, nel reparto di ostetricia, dove all'epoca, data la situazione assai degradata degli ospedali, venivano a partorire solo le donne povere, le prostitute, le senza tetto. La percentuale di infezioni era altissima, come del resto avveniva in tutti i reparti, dove essere sottoposti ad un intervento chirurgico era realmente un rischio molto alto. Semmelweiss intuì un collegamento fra le infezioni che si portavano via le sue partorienti e il fatto che il reparto fosse affidato a giovani studenti che passavano, senza disinfettarsi, dalle autopsie alle sale parto. Impose la disinfezione e la percentuale di infezioni si ridusse radicalmente. Ma le abitudini sono dure a morire, anche quando non coinvolgono interessi materiali ma solo l'immagine che i medici avevano di sé. Portatori di infezioni, loro che guarivano? E così Semmelweiss fu cacciato, passò a Budapest dove incontrò le stesse ostilità ed infine, in preda ad un crollo nervoso, fu ricoverato in una clinica psichiatrica dove morì. Non dovevano passare vent'anni che le ricerche di Pasteur e Koch gli avrebbero dato ragione.


Anna Foa



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29/08/2013 06:31



Realtà romanzesca



Alla metà del Cinquecento, un ebreo veneziano, tal Simele da Montagnana, si innamorò di una ragazza cristiana. Aveva moglie e figli e stava con loro in ghetto, ma l'amore fu più forte e finì per convertirsi, prendendo il nome di Gian Giacomo de' Fedeli. Ma non voleva rinunciare alla sua prima famiglia, e fu così che cominciò a fare una vita doppia, un po' vivendo da cristiano con la nuova moglie, un po' da ebreo in ghetto con la moglie precedente e i figli. Della sua conversione non aveva detto nulla. All'Inquisizione diceva di portare pazienza, che continuando a tenere il segreto sperava di riuscire a portare tutti nelle braccia della Chiesa. Quando era in mezzo ai cristiani, mangiava naturalmente di tutto, porco compreso, ma se per caso passavano per la casa degli ebrei subito gli portavano via dal piatto i cibi «proibiti», ché gli ebrei non ne traessero indizio della sua conversione. Durò cinque anni, poi l'Inquisizione si stancò di aspettare e lo mise sotto processo per apostasia. Fu assolto, non prima però di aver fatto battezzare i figli. E la vecchia moglie? Restò in ghetto, dal momento che i convertiti non erano obbligati ai vecchi legami famigliari. La favola insegna che a volte la realtà è più romanzesca della fantasia.

Anna Foa



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30/08/2013 09:32



Uguali e diverse



Molte le donne che nella storia hanno raggiunto fama e onori in vari campi del sapere e dell'arte. Solo che, lontane com'erano da ogni progetto di emancipazione, tendevano a vedere la loro eccellenza come il risultato di un animo più maschile che femminile. La pittrice Artemisia Gentileschi, che operò nella prima metà del Seicento, diceva di sé «di avere lo spirito di Cesare nell'anima di una donna». Le sue opere ci mostrano ritratti di donne forti, come Giuditta che decapita Oloferne aiutata dalla sua ancella, o piene di concentrazione come nel bellissimo autoritratto in veste di allegoria della pittura, del 1638. Ma per giustificare la propria uscita dai ranghi, bisognava pretendere di essere anche una donna diversa, simile più ad un uomo che alle proprie simili. La stessa Elisabetta d'Inghilterra amava definirsi come la regina vergine, dove vergine stava per chi, sottraendosi al matrimonio, era libera e padrona di se stessa. Anche Cristina di Svezia si sottrasse al matrimonio, ed accettò con ironia l'accusa di essere un ermafrodito che le veniva rivolta nelle satire popolari: né uomo né donna, e per questo superiore comunque al suo sesso. Solo molto più tardi, le donne potranno rivendicare l'uguaglianza senza rinunciare al loro sesso.

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31/08/2013 11:40



Leggenda, o forse no



Tra le tante storie più o meno leggendarie che il Medioevo ci ha lasciato, ce n'è una che ci narra di una regina delle tribù ebraiche della Berberia, Kahina, che alla fine del VII secolo sarebbe stata a capo di una coalizione militare di ebrei e cristiani contro gli arabi e sarebbe poi morta in battaglia. Il più grande storico del mondo arabo, Ibn Khaldun, ne riconferma l'autenticità alla fine del Trecento nella sua Storia dei Berberi. Del resto, che cristiani ed ebrei popolassero il Nordafrica prima dell'invasione araba, e che la maggior parte di loro abbiano finito per convertirsi all'islam, è un fatto storico. Poco si sa di questa regina guerriera, e quel che sappiamo è avvolto nelle nebbie della leggenda, ma il fatto che Ibn Khaldun, sempre attento a ricostruire i fatti della storia liberandoli delle loro incrostazioni leggendarie, ne abbia parlato come di una realtà storica è significativo. La leggenda d'altronde ci riporta ad un Mediterraneo in cui ancora i giochi sono aperti, in cui bizantini, ebrei, cristiani d'Occidente e musulmani si scontrano gli uni con gli altri, combattono, stringono alleanze. I fronti si sarebbero irrigiditi solo più tardi, con la scomparsa degli ebrei dal teatro dello scontro e la divisione tra cristianità e islam.


Anna Foa



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02/09/2013 11:04



Senza tempo e confine



«Il gesto di scrivere è un gesto solitario», scrive Edmond Jabès, aggiungendo che «la scrittura è una scommessa con la solitudine». Sono pensieri che mi toccano e che appartengono ad uno dei testi pieni di illuminazioni di questo scrittore straordinario, fuori da tutti gli schemi, Il libro della sovversione non sospetta, apparso in Francia nel 1982. Scrittore di confine per eccellenza, anche nella forma spezzata e compressa della sua scrittura, Jabès era nato al Cairo, in un Egitto ricco di storia e cultura, dove visse fino a che negli anni Cinquanta fu costretto all'esilio perché ebreo. A Parigi, dove si stabilì, aveva abitato a lungo già negli anni Trenta, in stretti rapporti con scrittori come Caillois, Bounoure, Jacob, Char, Blanchot e tanti altri intellettuali che hanno lasciato un segno importante nella cultura europea. Quando, ormai tanti anni fa, ho scoperto uno dei suoi libri in una traduzione italiana capitatami casualmente fra le mani, ne sono stata folgorata. Nelle sue parole tutto diventava metafora, il deserto, la pagina scritta, il libro. E al tempo stesso, la metafora apriva innanzi al lettore impaziente distese infinite di sabbia, scritture e segni nascosti, spazi senza tempo e senza confine.


Anna Foa



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