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Il pensiero del Papa e le sue parole - Articoli

Ultimo Aggiornamento: 27/02/2013 17:52
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30/12/2007 20:41

Oggi il papa: "La famiglia va difesa, ne dipende il bene della società"

da la Repubblica.it - 30 dicembre 2007






Nell'ultimo Angelus del 2007 Benedetto XVI si collega in diretta tv
con i manifestanti che a Madrid protestano contro le leggi di Zapatero



Il Papa: "La famiglia va difesa
ne dipende il bene della società"



CITTA' DEL VATICANO - "Il bene della persona e della società è strettamente connesso alla buona salute della famiglia: perciò la Chiesa è impegnata a difendere e promuovere la dignità naturale e l'altissimo valore sacro del matrimonio e della famiglia". Questo il messaggio che Benedetto XVI ha voluto riproporre con forza nell'ultimo Angelus del 2007. Parole che il Papa ha rivolto ai moltissimi fedeli riuniti in piazza San Pietro prima di collegarsi in diretta televisiva con i cattolici spagnoli, un milione circa, radunati a Madrid in difesa della "famiglia cristiana" a loro avviso messa a repentaglio dalle leggi del governo Zapatero.

Rivolgendosi poi in spagnolo ai manifestanti di Plaza de Colon, papa Ratzinger li ha incoraggiati "a dare testimonianza davanti al mondo della bellezza dell'essere umano, del matrimonio e della famiglia". La famiglia "fondata nell'unione indissolubile fra un uomo e una donna, costituisce l'ambito privilegiato in cui la vita umana viene accolta e protetta, dal suo inizio alla fine naturale", ha proseguito il Pontefice.

Contestando implicitamente le leggi di Zapatero, Benedetto XVI ha poi aggiunto che "i genitori hanno il diritto e il dovere fondamentale di educare i loro figli nella fede e nei valori morali che danno dignità all'esistenza umana". "Vale la pena - ha scandito - impegnarsi per la famiglia e il matrimonio, perché vale la pena impegnarsi per l'essere umano, la realtà più preziosa fra quelle create da Dio".

Sempre in spagnolo, il Papa si è poi rivolto "in particolare ai bambini, perché vogliano bene ai loro genitori e preghino per loro; ai giovani, perché stimolati dall'amore dei loro genitori seguano con generosità la loro vocazione matrimoniale, sacerdotale o religiosa; agli anziani e ai malati, perché trovino l'aiuto e la comprensione di cui hanno bisogno". "E voi cari sposi - ha concluso Benedetto XVI - contate sempre sulla grazia di Dio, perché il vostro amore sia sempre più fecondo e fedele".


(30 dicembre 2007)



_________Aurora Ageno___________
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04/02/2008 18:11

La vita ha immenso valore, va servita e tutelata


da Panorama.it

Il Papa, i ginecologi, l’aborto: si riaccende il dibattito sulla 194

Redazione - Domenica 3 Febbraio 2008


La vita deve essere essere “tutelata” e “servita” sempre , “ancora più quando essa è fragile e bisognosa di attenzioni e cure, sia prima della nascita che nella sua fase terminale”: è quanto Benedetto XVI ha riaffermato davanti alla folla domenicale di fedeli presenti in Piazza San Pietro per la preghiera dell’Angelus.
Il nuovo appello di Ratzinger contro l’aborto e l’eutanasia è servito a rinforzare l’impatto della trentesima Giornata per la Vita, promossa dalla Conferenza episcopale italiana, e celebrata il 3 febbraio 2008 in tutte le parrocchie del Paese.

A dare nuovi argomenti alla battaglia della Cei era arrivato sabato un documento firmato dai direttori delle cliniche ginecologiche universitarie di Roma, in cui si afferma che è dovere dei medici quello di rianimare i neonati prematuri, anche contro il volere della madre.
“Così come appare è un messaggio che ci fa piacere”, ha affermato monsignor Elio Sgreccia, presidente del Pontificio Consiglio per la Vita, il quale però, prudentemente, ha rimandato qualsiasi commento ufficiale ad una lettura più analitica del testo. Più esplicito l’appoggio che al documento hanno dato la senatrice del Pd Paola Binetti ed il direttore de Il Foglio Giuliano Ferrara e che per questo sono stati contestati a Cassino al grido ‘’vergogna, vergogna'’ da attivisti favorevoli alla legge 194 sull’aborto.

“Ognuno, secondo le proprie possibilità, professionalità e competenze - ha detto da parte sua il Papa - si senta sempre spinto ad amare e servire la vita, dal suo inizio al suo naturale tramonto”.
Benedetto XVI ha poi voluto incoraggiare “quanti, con fatica ma con gioia, senza clamori e con grande dedizione assistono familiari anziani o disabili, e a coloro che consacrano regolarmente parte del proprio tempo per aiutare quelle persone di ogni età la cui vita è provata da tante e diverse forme di povertà”. Nel convocare la Giornata della Vita, nell’ottobre scorso, i vescovi italiani avevano sottolineato come “la civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di servire la vita'’.

Di aborto e eutanasia hanno parlato oggi in tutta Italia semplici parroci, vescovi e porporati. Nella sua omelia a Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, ha invitato i cattolici ‘’a fare di più e meglio'’ a servizio della vita. Senza citare esplicitamente la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, Tettamanzi si è chiesto: “In questo campo abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare, tutto quello che dovevamo fare?”





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13/03/2008 20:23


da Virgilio Notizie - 13 marzo 2008


PAPA: L'UOMO HA LA SPAVENTOSA POSSIBILITA' DI ESSERE DISUMANO

Rito confessione in basilica di San Pietro in vista di Pasqua


Città del Vaticano, 13 mar. (Apcom) - L'uomo ha "la spaventosa possibilità di essere disumano", secondo il Papa, che questo pomeriggio, in vista della Pasqua, ha presieduto il rito della confessione nella basilica di San Pietro.

Benedetto XVI ha fatto riferimento al film tedesco 'Seelenwanderung' (Metempsicosi), durante la sua omelia. "Il film racconta di due poveri diavoli che, per la loro bontà, non riuscivano a farsi strada nella vita. Un giorno a uno dei due venne l'idea che, non avendo altro da mettere in vendita, avrebbe potuto vendere l'anima. Questa venne acquistata a poco prezzo e sistemata in una scatola. Da quel momento, con sua grande sorpresa, tutto cambiò nella sua vita. Iniziò una rapida ascesa, diventò sempre più ricco, ottenne grandi onori e alla sua morte si ritrovò console, largamente provvisto di denari e di beni. Dal momento in cui si era liberato della sua anima non aveva avuto più riguardi né umanità. Aveva agito senza scrupoli, badando solo al guadagno e al successo".

"E' ovvio - ha spiegato il Papa - che l'essere umano non può gettare via letteralmente la propria anima, dal momento che è essa a renderlo persona. Egli infatti rimane comunque persona umana. Eppure ha la spaventosa possibilità di essere disumano, di rimanere persona vendendo e perdendo al tempo stesso la propria umanità. La distanza tra la persona umana e l'essere disumano è immensa, eppure non si può dimostrare; è la cosa realmente essenziale, eppure è apparentemente senza importanza".





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06/04/2008 14:48

Aborto, divorzio, eutanasia

da Il Giornale di Vicenza 6 aprile 2008


Benedetto XVI esorta ad aiutare chi sbaglia e condanna l'eutanasia: « E' cultura di morte »

Città del Vaticano


La Chiesa ha tra le sue missioni di « accostarsi con amore e delicatezza, con premura e
attenzione materna » alle persone dopo un aborto o un divorzio, perché « ne portano le ferite
interiori » e cercano « la possibilità di una ripresa ».
Benedetto XVI è tornato ieri su due delle questioni che gli stanno a cuore, sottolineando che
l'interruzione di una gravidanza o la rottura di un vincolo coniugale sono sempre «colpe gravi »,
che « ledono la dignità della persona umana, implicano una profonda ingiustizia nei rapporti
umani e sociali e offendono Dio, garante del patto coniugale e autore della vita ».
Joseph Ratzinger, è tornato a intervenire su questi temi ieri ricevendo in udienza i partecipanti
al congresso internazionale « L'olio sulle ferite. Una risposta alle piaghe dell'aborto e del
divorzio », promosso dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II. Il Pontefice ha posto l'accento sul
dolore che le « gravi colpe » portano con sé, causando « tanta sofferenza nella vita delle
persone, della famiglia e della società ». Bambini ai quali, ha sottolineato il Papa, è impedito di
nascere, altri ai quali in fasi delicate della loro vita sono sottratte le figure del padre e della
madre a causa di separazioni. Aborto e divorzio provocano così « una profonda ingiustizia nei
rapporti umani e sociali ».
Tuttavia « la Chiesa ha sempre di fronte le persone concrete », uomini e quelle donne che « si
sono macchiati di colpe e ne portano le ferite interiori, cercando la pace e una possibilità di una
ripresa ». E' un voler concedere a chi sbaglia un'opportunità, nell'ottica ecclesiale per cui tutti
hanno pari dignità, perché « i no che la Chiesa pronuncia nelle sue indicazioni morali e sui quali
talvolta si sofferma in modo unilaterale l'attenzione dell'opinione pubblica, sono in realtà dei
grandi sì alla dignità della persona umana, alla sua vita e alla sua capacità di amare
».
Anche a chi sbaglia, afferma il Papa, « la Chiesa ha il dovere primario di accostarsi con amore e
delicatezza, per annunciare la vicinanza misericordiosa di Dio ».

Ieri Benedetto XVI è tornato anche sul tema dell'eutanasia, ricevendo i partecipanti
all'assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia. La terza età è « insidiata », ha
spiegato, da una crescente « cultura della morte », e « con sempre maggiore insistenza si
giunge persino a proporre l'eutanasia come soluzione per risolvere certe situazioni difficili ».
Per questo, ha esortato il Papa, « occorre sempre reagire con forza a ciò che disumanizza la
società
».





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30/05/2008 10:12


- Panorama.it - Redazione - giovedì 29 maggio 2008



La “gioia particolare” di Benedetto XVI per il nuovo clima politico






“Particolare gioia” è quella espressa da Benedetto XVI per i segnali di “un clima nuovo, più
fiducioso e costruttivo” tra le forze politiche italiane, e le istituzioni, “in virtù di una percezione
più viva delle responsabilità comuni per il futuro della Nazione”.
Intervenendo questa mattina all’Assemblea della Conferenza episcopale italiana, il Santo Padre
ha detto che “ciò che conforta è che tale percezione sembra allargarsi al sentire popolare, al
territorio e alle categorie sociali”. “È diffuso infatti” ha detto il Pontefice “il desiderio di
riprendere il cammino, di affrontare e risolvere insieme almeno i problemi più urgenti e più gravi,
di dare avvio a una nuova stagione di crescita economica ma anche civile e sociale”.
Per questo, i vescovi italiani non possono e non debbono “chiudere gli occhi e trattenere la voce
di fronte alle povertà, ai disagi e alle ingiustizie sociali che affliggono tanta parte dell’umanità e
che richiedono il generoso impegno di tutti, un impegno che s’allarghi anche alle persone che,
se pur sconosciute, sono tuttavia nel bisogno”. “Naturalmente” ha spiegato il Pontefice “la
disponibilità a muoversi in loro aiuto deve manifestarsi nel rispetto delle leggi, che provvedono
ad assicurare l’ordinato svolgersi della vita sociale sia all’interno di uno Stato che nei confronti
di chi vi giunge dall’esterno”. “Non è necessario” ha aggiunto il Papa rivolto ai vescovi “che
concretizzi maggiormente il discorso: voi, insieme con i vostri cari sacerdoti, conoscete le
concrete e reali situazioni perché vivete con la gente”.
Poi papa Ratzinger si è soffermato sui temi più volte riaffermati. La tutela della vita in tutte le sue
forme e la promozione della famiglia. Per Benedetto XVI l’impegno della Chiesa deve esserci “in
ogni momento e condizione, dal concepimento e dalla fase embrionale alle situazioni di malattia
e di sofferenza e fino alla morte naturale”. Per quanto riguarda la famiglia “deve affermarsi una
cultura favorevole, e non ostile, alla famiglia e alla vita”. Ed ancora la povertà, davanti alla quale
“non possiamo chiudere gli occhi e trattenere la voce”. Il Pontefice sottolinea, inoltre, l’esigenza
che la fede non rimanga chiusa nel privato “in quanto essa può offrire un importante contributo
alla soluzione di grandi problemi”.
Il Papa ha chiesto inoltre che lo Stato italiano sostenga le scuole cattoliche: “È legittimo
domandarsi se non gioverebbe alla qualità dell’insegnamento lo stimolante confronto tra centri
formativi diversi suscitati, nel rispetto dei programmi ministeriali validi per tutti, da forze popolari
multiple, preoccupate di interpretare le scelte educative delle singole famiglie. Tutto lascia
pensare che un simile confronto non mancherebbe di produrre effetti benefici”. L’Italia vive una
grave emergenza educativa che riguarda le giovani generazioni causata dal relativismo
pervasivo e aggressivo della cultura contemporanea: “Quando, infatti, in una società e in una
cultura segnate da un relativismo pervasivo e non di rado aggressivo, sembrano venir meno le
certezze basilari, i valori e le speranze che danno un senso alla vita, si diffonde facilmente, tra i
genitori come tra gli insegnanti, la tentazione di rinunciare al proprio compito, e ancor prima il
rischio di non comprendere più quale sia il proprio ruolo e la propria missione”.
Di conseguenza, ha detto il Pontefice, “i fanciulli, gli adolescenti e i giovani, pur circondati da
molte attenzioni e tenuti forse eccessivamente al riparo dalle prove e dalle difficoltà della vita, si
sentono alla fine lasciati soli davanti alle grandi domande che nascono inevitabilmente dentro di
loro, come davanti alle attese e alle sfide che sentono incombere sul loro futuro”.









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15/08/2008 05:15



IL PAPA E LA PREGHIERA
QUEL FIDUCIOSO ANTIDOTO ALL’IMPOTENZA


di Pierangelo Sequeri - da L'Avvenire


Un Papa non ha in mano le sorti del mondo. Eppure, quando lo senti dire – come ieri mattina
durante l’udienza generale a Castel Gandolfo – «...pregando pongo nelle mani del Signore con
fiducia il ministero che Lui stesso mi ha affidato, insieme alle sorti dell’intera comunità ecclesiale
e civile », percepisci un’intonazione speciale dell’esclusivo ministero di Pietro, che gli è proprio.
Qualcosa che potrebbe toccare l’immaginazione ecclesiale, e anche quella civile, a proposito
delle urgenze del momento presente.
Un Papa che dice di sapere bene che questo è « il primo servizio » che può rendere alla Chiesa
e all’umanità, conferisce un senso forte e concreto al 'primato' della preghiera che – a parole –
nessun credente mette in dubbio. Ma interpreta in modo rigorosamente cristiano anche il '
primato' del singolare ministero che gli compete. La preghiera non è che l’altra faccia della fede,
il fiducioso abbandono che alimenta la speranza nella custodia di Dio. Il Papa, che è il primo dei
servi del Signore, è anche l’ultimo a pensare che il ministero ecclesiale possa essere inteso
come un esercizio di potenza: che dispone il mondo migliore, governa la società perfetta, sottrae
la Chiesa alle prove della storia. L’abitudine dei molti – credenti e anche, più spesso di quanto si
creda, non credenti – di chiedere agli uomini di Dio che li ricordino nelle loro preghiere dovrà
forse essere rivalutata. Essa interpreta il ministero ecclesiale, per la comunità dei credenti e per
l’intera città dell’uomo, più profondamente di quanto forse non apprezziamo.
L’ammissione del fatto che la storia, individuale e collettiva, è continuamen­te esposta a dure
battute d’arresto, che si impongono anche allo slancio più creativo e alla dedizione più
generosa, è lucidità propria della fede autentica. È proprio questa confessione che viene
quotidianamente anticipata nella preghiera: per noi e per i molti che si affidano a noi. È l’esatto
contrario della rassegnazione all’impotenza. Al contrario, è il grembo di un abbandono dal quale
si sprigiona la suprema chiarezza di una testimonianza che è capace di togliere la scena
all’arroganza delle potenze del nulla. Fino all’ultimo atto. Benedetto XVI ieri ha ricordato la
testimonianza di Edith Stein e di Massimilano Kolbe, martiri ad Auschwitz. Ogni volta che il
silenzio e la musica della preghiera – possente e corale, struggente e intima – si leva ad
avvolgere la comunità degli umani, i delusi e gli avviliti della terra drizzano le orecchie. La
preghiera degli uomini e delle donne di Dio custodisce la speranza per tutti gli ostaggi del
nichilismo di questo passaggio d’epoca. Nello squarcio del velo del sacro, che illumina
l’evangelo, gli uomini e le donne che servono Dio in spirito e verità non pregano per i santi, ma
per tutti noi peccatori. Non pregano perché stanno bene e sono riveriti da tutti, lo fanno anche
quando sono feriti a morte e avviliti da molti. Non pregano solo per sé, ma per essere pronti a
offrirsi in sostituzione. E se non ci è ancora morta l’anima, incalzati come siamo ad accettare
come selezione della specie la disperazione dei molti che si erano fidati di noi, lo dobbiamo al
fatto che – nemmeno da morti – gli autentici ministri del vangelo ci hanno escluso dalla loro
preghiera. Non avete nulla da insegnare, signori del tempo e del nulla, alla preghiera.









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20/08/2008 17:12

ECCO LA GIOIA CHE NON SI PUO' TAROCCARE

Parola di Papa

di Davide Rondoni . L'Avvenire 17 Agosto 2008


Ha parlato, ancora una volta, della gioia. Lui, il capo della fede che secondo tanti che non la conoscono renderebbe tristi. Ha parlato ancora di gioia. Ha avuto il coraggio che i più non hanno. Anche coloro che parlano di felicità attraverso mille spot, mille promesse, mille seduzioni, in realtà parlano di una gioia che non dura. Che non sopporta prove serie. Che se ne va come la schiuma delle onde. Loro parlano di una gioia momentanea, cioè illusoria. Lui invece continua a parlare della gioia che non se ne va, che aumenta fino a compiersi. Lo ha fatto da subito e ci torna su spesso. E ieri ha usato una frase strana.
Ricordando la festa della Madonna Assunta, cioè di carne e sangue presi in cielo, ha detto che si può «vivere e morire il quotidiano» rivolti verso la gioia. Ha detto proprio così: vivere e morire il quotidiano. Perché lo sappiamo bene che ogni giorno si vive e si muore. E dunque il Papa, che non tira a ingannare la gente, cioè noi, non potrebbe dirci che la gioia riguarda una quotidianità in cui solamente si vive. Perché nella quotidianità anche si muore. Lo sappiamo bene. Lo vediamo intorno a noi, nelle mille notizie o immagini che ci arrivano. Nella morte altrui. E lo vediamo anche nella morte nostra.
Lo diceva il gran poeta: la morte si sconta vivendo. E il Papa parla di gioia a noi che tutti i giorni viviamo e tutti i giorni moriamo. Perché i giorni passano e perché nella vita si fa esperienza della morte in molti modi. Insomma a noi, mortali, il Papa viene a parlare di gioia. Di quella vera. Che non teme la prova della morte. La gioia vera dei mortali. Non dei finti uomini. Perché la gioia finta è quella che deve dimenticare che si vive e si muore. E si propone come gioia perché "ferma" o "rallenta" l'attimo di godimento o di piacere. E' una gioia taroccata, o meglio che vale solo per vite taroccate. Per vite che fingono di non morire (alla fine e tutti i giorni, nel limite o anche nel dolore per la morte altrui). Nel suo discorso di Ferragosto e in quella frase "strana" ci sta una sapienza, una esperienza di cosa è la gioia che fa quasi venire i brividi e il magone. Perché è come se dicesse: la gioia si può sperimentare anche se c'è il dolore, anche se c'è la sofferenza, e il limite. La gioia vera è più dura, più profonda, più ricca di futuro di ogni limite e dolore. In questa nostra società sentimentale e manichea, invece, i più pensano che dove c'è dolore non ci può essere gioia. Pensano che dove c'è l'uno non ci può essere l'altra. E dunque sono costretti a pensare che la gioia riguarda solo i "perfetti", i ricchi, i senza problemi, senza vene varicose, senza difetti, senza peccati, senza dolori. Senza vita insomma. Gioia finta per uomini finti. E spacciano per gioia la pura e semplice dimenticanza della vita. Una droghetta passeggera, insapore.
Invece il Papa ha detto di guardare il cielo, che è come dire guardare il Mistero, per conoscere una gioia che non se ne va. E di considerare la vita come un viaggio verso una possibile gioia piena. E' la gioia del viaggiatore avventuroso, quella che qui dà i suoi segni veri, i suoi anticipi. Ha detto di alzare gli occhi. Per gustare veramente le gioie che, nel quotidiano dove si vive e si muore, ci passano e splendono sotto gli occhi.




*********************************************

[.......]

Maria assunta in cielo ci indica la meta ultima del nostro pellegrinaggio terreno. Ci ricorda che tutti il nostro essere - spirito, anima e corpo - è destinato alla pienezza della vita; che chi vive e muore nell'amore di Dio e del prossimo sarà trasfigurato ad immagine del corpo glorioso di Cristo risorto; che il Signore abbassa i superbi e innalza gli umili (cfr Lc 1, 51-52). Questo la Madonna proclama in eterno col mistero della sua Assunzione. Che Tu sia sempre lodata, o Vergine Maria! Prega il Signore per noi.

Benedetto XVI




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18/01/2009 23:41

«Il cosmo è l'impronta di Cristo»


Udienza del (14 gennaio 2009)
«Il cosmo è l'impronta di Cristo»


Cari fratelli e sorelle,

tra le Lettere dell'epistolario paolino, ce ne sono due, quelle ai Colossesi e agli Efesini, che in una certa misura si possono considerare gemelle. Infatti, l'una e l'altra hanno dei modi di dire che si trovano solo in esse, ed è stato calcolato che più di un terzo delle parole della Lettera ai Colossesi si trova anche in quella agli Efesini. Per esempio, mentre in Colossesi si legge letteralmente l'invito a "esortarvi con salmi, inni, canti spirituali, con gratitudine cantando a Dio con i vostri cuori" (Col 3,16), in Efesini si raccomanda ugualmente di "parlare tra di voi con salmi e inni e canti spirituali, cantando e lodando il Signore con il vostro cuore" (Ef 5,19). Potremmo meditare su queste parole: il cuore deve cantare, e così anche la voce, con salmi e inni per entrare nella tradizione della preghiera di tutta la Chiesa dell'Antico e del Nuovo Testamento; impariamo così ad essere insieme con noi e tra noi, e con Dio. Inoltre, in entrambe le Lettere si trova un cosiddetto "codice domestico", assente nelle altre Lettere paoline, cioè una serie di raccomandazioni rivolte a mariti e mogli, a genitori e figli, a padroni e schiavi (cfr rispettivamente Col 3,18-4,1 e Ef 5,22-6,9).

Più importante ancora è constatare che solo in queste due Lettere è attestato il titolo di "capo", kefalé, dato a Gesù Cristo. E questo titolo viene impiegato a un doppio livello. In un primo senso, Cristo è inteso come capo della Chiesa (cfr Col 2,18-19 e Ef 4,15-16). Ciò significa due cose: innanzitutto, che egli è il governante, il dirigente, il responsabile che guida la comunità cristiana come suo leader e suo Signore (cfr Col 1,18: "Egli è il capo del corpo, cioè della Chiesa"; e poi l’altro significato è che lui è come la testa che innerva e vivifica tutte le membra del corpo a cui è preposta (infatti, secondo Col 2,19 bisogna "tenersi fermi al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione"): cioè non è solo uno che comanda, ma uno che organicamente è connesso con noi, dal quale viene anche la forza di agire in modo retto.

In entrambi i casi, la Chiesa è considerata sottoposta a Cristo, sia per seguire la sua superiore conduzione - i comandamenti -, sia anche per accogliere tutti gli influssi vitali che da Lui promanano. I suoi comandamenti non sono solo parole, comandi, ma sono forze vitali che vengono da Lui e ci aiutano.

Questa idea è particolarmente sviluppata in Efesini, dove persino i ministeri della Chiesa, invece di essere ricondotti allo Spirito Santo (come 1 Cor 12) sono conferiti dal Cristo risorto: è Lui che "ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri" (4,11). Ed è da Lui che "tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, ... riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità" (4,16). Cristo infatti è tutto teso a "farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata" (Ef 5,27). Con questo ci dice che la forza con la quale costruisce la Chiesa, con la quale guida la Chiesa, con la quale dà anche la giusta direzione alla Chiesa, è proprio il suo amore.

Quindi il primo significato è Cristo Capo della Chiesa: sia quanto alla conduzione, sia, soprattutto, quanto alla ispirazione e vitalizzazione organica in virtù del suo amore. Poi, in un secondo senso, Cristo è considerato non solo come capo della Chiesa, ma come capo delle potenze celesti e del cosmo intero. Così in Colossesi leggiamo che Cristo "ha privato della loro forza i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale" di Lui (2,15). Analogamente in Efesini troviamo scritto che, con la sua risurrezione, Dio pose Cristo "al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro" (1,21). Con queste parole le due Lettere ci consegnano un messaggio altamente positivo e fecondo. Questo: Cristo non ha da temere nessun eventuale concorrente, perché è superiore a ogni qualsivoglia forma di potere che presumesse di umiliare l'uomo. Solo Lui "ci ha amati e ha dato se stesso per noi" (Ef 5,2). Perciò, se siamo uniti a Cristo, non dobbiamo temere nessun nemico e nessuna avversità; ma ciò significa dunque che dobbiamo tenerci ben saldi a Lui, senza allentare la presa!

Per il mondo pagano, che credeva in un mondo pieno di spiriti, in gran parte pericolosi e contro i quali bisognava difendersi, appariva come una vera liberazione l'annuncio che Cristo era il solo vincitore e che chi era con Cristo non aveva da temere nessuno. Lo stesso vale anche per il paganesimo di oggi, poiché anche gli attuali seguaci di simili ideologie vedono il mondo pieno di poteri pericolosi. A costoro occorre annunciare che Cristo è il vincitore, così che chi è con Cristo, chi resta unito a Lui, non deve temere niente e nessuno. Mi sembra che questo sia importante anche per noi, che dobbiamo imparare a far fronte a tutte le paure, perchè Lui è sopra ogni dominazione, è il vero Signore del mondo.

Addirittura il cosmo intero è sottoposto a Lui, e a Lui converge come al proprio capo. Sono celebri le parole della Lettera agli Efesini, che parla del progetto di Dio di "ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra" (1,10). Analogamente nella Lettera ai Colossesi si legge che "per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili" (1,16) e che "con il sangue della sua croce ... ha rappacificato le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli" (1,20). Quindi non c’è, da una parte, il grande mondo materiale e dall'altra questa piccola realtà della storia della nostra terra, il mondo delle persone: tutto è uno in Cristo. Egli è il capo del cosmo; anche il cosmo è creato da Lui, è creato per noi in quanto siamo uniti a Lui. È una visione razionale e personalistica dell'universo. E direi una visione più universalistica di questa non era possibile concepire, ed essa conviene soltanto al Cristo risorto. Cristo è il Pantokrátor, a cui sono sottoposte tutte le cose: il pensiero va appunto al Cristo Pantocratòre, che riempie il catino absidale delle chiese bizantine, a volte raffigurato seduto in alto sul mondo intero o addirittura su di un arcobaleno per indicare la sua equiparazione a Dio stesso, alla cui destra è assiso (cfr Ef 1,20; Col 3,1), e quindi anche la sua ineguagliabile funzione di conduttore dei destini umani.

Una visione del genere è concepibile solo da parte della Chiesa, non nel senso che essa voglia indebitamente appropriarsi di ciò che non le spetta, ma in un altro duplice senso: sia in quanto la Chiesa riconosce che in qualche modo Cristo è più grande di lei, dato che la sua signoria si estende anche al di là dei suoi confini, e sia in quanto solo la Chiesa è qualificata come Corpo di Cristo, non il cosmo. Tutto questo significa che noi dobbiamo considerare positivamente le realtà terrene, poiché Cristo le ricapitola in sé, e in pari tempo dobbiamo vivere in pienezza la nostra specifica identità ecclesiale, che è la più omogenea all'identità di Cristo stesso.

C'è poi anche un concetto speciale, che è tipico di queste due Lettere, ed è il concetto di "mistero". Una volta si parla del "mistero della volontà" di Dio (Ef 1,9) e altre volte del "mistero di Cristo" (Ef 3,4; Col 4,3) o addirittura del "mistero di Dio, che è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza" (Col 3,2-3). Esso sta a significare l'imperscrutabile disegno divino sulle sorti dell'uomo, dei popoli e del mondo. Con questo linguaggio le due Epistole ci dicono che è in Cristo che si trova il compimento di questo mistero. Se siamo con Cristo, anche se non possiamo intellettualmente capire tutto, sappiamo di essere nel nucleo del "mistero" e sulla strada della verità. È Lui nella sua totalità, e non solo in un aspetto della sua persona o in un momento della sua esistenza, che reca in sé la pienezza dell'insondabile piano divino di salvezza. In Lui prende forma quella che viene chiamata "la multiforme sapienza di Dio" (Ef 3,10), poiché in Lui "abita corporalmente tutta la pienezza della divinità" (Col 2,9). D'ora in poi, quindi, non è possibile pensare e adorare il beneplacito di Dio, la sua sovrana disposizione, senza confrontarci personalmente con Cristo in persona, in cui quel "mistero" si incarna e può essere tangibilmente percepito. Si perviene così a contemplare la "ininvestigabile ricchezza di Cristo" (Ef 3,8), che sta oltre ogni umana comprensione. Non che Dio non abbia lasciato delle impronte del suo passaggio, poiché è Cristo stesso l'orma di Dio, la sua impronta massima; ma ci si rende conto di "quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità" di questo mistero "che sorpassa ogni conoscenza" (Ef 3,18-19). Le mere categorie intellettuali qui risultano insufficienti, e, riconoscendo che molte cose stanno al di là delle nostre capacità razionali, ci si deve affidare alla contemplazione umile e gioiosa non solo della mente ma anche del cuore. I Padri della Chiesa, del resto, ci dicono che l’amore comprende di più che la sola ragione.

Un'ultima parola va detta sul concetto, già accennato sopra, concernente la Chiesa come partner sponsale di Cristo. Nella seconda Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo aveva paragonato la comunità cristiana a una fidanzata, scrivendo così: "Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo" (2 Cor 11,2). La Lettera agli Efesini sviluppa quest’immagine, precisando che la Chiesa non è solo una promessa sposa, ma è la reale sposa di Cristo. Egli, per così dire, se l’è conquistata, e lo ha fatto a prezzo della sua vita: come dice il testo, "ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25). Quale dimostrazione d'amore può essere più grande di questa? Ma, in più, egli è preoccupato per la sua bellezza: non solo di quella già acquisita con il battesimo, ma anche di quella che deve crescere ogni giorno grazie ad una vita ineccepibile, "senza ruga né macchia", nel suo comportamento morale (cfr Ef 5,26-27). Da qui alla comune esperienza del matrimonio cristiano il passo è breve; anzi, non è neppure ben chiaro quale sia per l'autore della Lettera il punto di riferimento iniziale: se sia il rapporto Cristo-Chiesa, alla cui luce pensare l'unione dell'uomo e della donna, oppure se sia il dato esperienziale dell'unione coniugale, alla cui luce pensare il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Ma ambedue gli aspetti si illuminano reciprocamente: impariamo che cosa è il matrimonio nella luce della comunione di Cristo e della Chiesa, impariamo come Cristo si unisce a noi pensando al mistero del matrimonio. In ogni caso, la nostra Lettera si pone quasi a metà strada tra il profeta Osea, che indicava il rapporto tra Dio e il suo popolo nei termini di nozze già avvenute (cfr Os 2,4.16.21), e il Veggente dell’Apocalisse, che prospetterà l'incontro escatologico tra la Chiesa e l’Agnello come uno sposalizio gioioso e indefettibile (cfr Ap 19,7-9; 21,9).

Ci sarebbe ancora molto da dire, ma mi sembra che, da quanto esposto, già si possa capire che queste due Lettere sono una grande catechesi, dalla quale possiamo imparare non solo come essere buoni cristiani, ma anche come divenire realmente uomini. Se cominciamo a capire che il cosmo è l'impronta di Cristo, impariamo il nostro retto rapporto con il cosmo, con tutti i problemi della conservazione del cosmo. Impariamo a vederlo con la ragione, ma con una ragione mossa dall’amore, e con l’umiltà e il rispetto che consentono di agire in modo retto. E se pensiamo che la Chiesa è il Corpo di Cristo, che Cristo ha dato se stesso per essa, impariamo come vivere con Cristo l'amore reciproco, l'amore che ci unisce a Dio e che ci fa vedere nell'altro l'immagine di Cristo, Cristo stesso. Preghiamo il Signore che ci aiuti a meditare bene la Sacra Scrittura, la sua Parola, e imparare così realmente a vivere bene.








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23/01/2009 18:08

Lo «strordinario potenziale delle nuove tecnologie»


Messaggio di Benedetto XVI per la 43ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (23 gennaio 2009)
Lo «strordinario potenziale delle nuove tecnologie»

Cari fratelli e sorelle,

in prossimità ormai della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, mi è caro rivolgermi a voi per esporvi alcune mie riflessioni sul tema scelto per quest’anno: Nuove tecnologie, nuove relazioni. Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia. In effetti, le nuove tecnologie digitali stanno determinando cambiamenti fondamentali nei modelli di comunicazione e nei rapporti umani. Questi cambiamenti sono particolarmente evidenti tra i giovani che sono cresciuti in stretto contatto con queste nuove tecniche di comunicazione e si sentono quindi a loro agio in un mondo digitale che spesso sembra invece estraneo a quanti di noi, adulti, hanno dovuto imparare a capire ed apprezzare le opportunità che esso offre per la comunicazione. Nel messaggio di quest’anno, il mio pensiero va quindi in modo particolare a chi fa parte della cosiddetta generazione digitale: con loro vorrei condividere alcune idee sullo straordinario potenziale delle nuove tecnologie, se usate per favorire la comprensione e la solidarietà umana. Tali tecnologie sono un vero dono per l’umanità: dobbiamo perciò far sì che i vantaggi che esse offrono siano messi al servizio di tutti gli esseri umani e di tutte le comunità, soprattutto di chi è bisognoso e vulnerabile.

L’accessibilità di cellulari e computer, unita alla portata globale e alla capillarità di internet, ha creato una molteplicità di vie attraverso le quali è possibile inviare, in modo istantaneo, parole ed immagini ai più lontani ed isolati angoli del mondo: è, questa, chiaramente una possibilità impensabile per le precedenti generazioni. I giovani, in particolare, hanno colto l’enorme potenziale dei nuovi media nel favorire la connessione, la comunicazione e la comprensione tra individui e comunità e li utilizzano per comunicare con i propri amici, per incontrarne di nuovi, per creare comunità e reti, per cercare informazioni e notizie, per condividere le proprie idee e opinioni. Molti benefici derivano da questa nuova cultura della comunicazione: le famiglie possono restare in contatto anche se divise da enormi distanze, gli studenti e i ricercatori hanno un accesso più facile e immediato ai documenti, alle fonti e alle scoperte scientifiche e possono, pertanto, lavorare in équipe da luoghi diversi; inoltre la natura interattiva dei nuovi media facilita forme più dinamiche di apprendimento e di comunicazione, che contribuiscono al progresso sociale.

Sebbene sia motivo di meraviglia la velocità con cui le nuove tecnologie si sono evolute in termini di affidabilità e di efficienza, la loro popolarità tra gli utenti non dovrebbe sorprenderci, poiché esse rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre. Questo desiderio di comunicazione e amicizia è radicato nella nostra stessa natura di esseri umani e non può essere adeguatamente compreso solo come risposta alle innovazioni tecnologiche. Alla luce del messaggio biblico, esso va letto piuttosto come riflesso della nostra partecipazione al comunicativo ed unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia. Quando sentiamo il bisogno di avvicinarci ad altre persone, quando vogliamo conoscerle meglio e farci conoscere, stiamo rispondendo alla chiamata di Dio – una chiamata che è impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, il Dio della comunicazione e della comunione.

Il desiderio di connessione e l’istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri. In realtà, quando ci apriamo agli altri, noi portiamo a compimento i nostri bisogni più profondi e diventiamo più pienamente umani. Amare è, infatti, ciò per cui siamo stati progettati dal Creatore. Naturalmente, non parlo di passeggere, superficiali relazioni; parlo del vero amore, che costituisce il centro dell’insegnamento morale di Gesù: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza" e "Amerai il tuo prossimo come te stesso" (cfr Mc 12,30-31). In questa luce, riflettendo sul significato delle nuove tecnologie, è importante considerare non solo la loro indubbia capacità di favorire il contatto tra le persone, ma anche la qualità dei contenuti che esse sono chiamate a mettere in circolazione. Desidero incoraggiare tutte le persone di buona volontà, attive nel mondo emergente della comunicazione digitale, perché si impegnino nel promuovere una cultura del rispetto, del dialogo, dell’amicizia.

Pertanto, coloro che operano nel settore della produzione e della diffusione di contenuti dei nuovi media non possono non sentirsi impegnati al rispetto della dignità e del valore della persona umana. Se le nuove tecnologie devono servire al bene dei singoli e della società, quanti ne usano devono evitare la condivisione di parole e immagini degradanti per l’essere umano, ed escludere quindi ciò che alimenta l’odio e l’intolleranza, svilisce la bellezza e l’intimità della sessualità umana, sfrutta i deboli e gli indifesi.

Le nuove tecnologie hanno anche aperto la strada al dialogo tra persone di differenti paesi, culture e religioni. La nuova arena digitale, il cosiddetto cyberspace, permette di incontrarsi e di conoscere i valori e le tradizioni degli altri. Simili incontri, tuttavia, per essere fecondi, richiedono forme oneste e corrette di espressione insieme ad un ascolto attento e rispettoso. Il dialogo deve essere radicato in una ricerca sincera e reciproca della verità, per realizzare la promozione dello sviluppo nella comprensione e nella tolleranza. La vita non è un semplice succedersi di fatti e di esperienze: è piuttosto ricerca del vero, del bene e del bello. Proprio per tale fine compiamo le nostre scelte, esercitiamo la nostra libertà e in questo, cioè nella verità, nel bene e nel bello, troviamo felicità e gioia. Occorre non lasciarsi ingannare da quanti cercano semplicemente dei consumatori in un mercato di possibilità indifferenziate, dove la scelta in se stessa diviene il bene, la novità si contrabbanda come bellezza, l’esperienza soggettiva soppianta la verità.

Il concetto di amicizia ha goduto di un rinnovato rilancio nel vocabolario delle reti sociali digitali emerse negli ultimi anni. Tale concetto è una delle più nobili conquiste della cultura umana. Nelle nostre amicizie e attraverso di esse cresciamo e ci sviluppiamo come esseri umani. Proprio per questo la vera amicizia è stata da sempre ritenuta una delle ricchezze più grandi di cui l’essere umano possa disporre. Per questo motivo occorre essere attenti a non banalizzare il concetto e l’esperienza dell’amicizia. Sarebbe triste se il nostro desiderio di sostenere e sviluppare on-line le amicizie si realizzasse a spese della disponibilità per la famiglia, per i vicini e per coloro che si incontrano nella realtà di ogni giorno, sul posto di lavoro, a scuola, nel tempo libero. Quando, infatti, il desiderio di connessione virtuale diventa ossessivo, la conseguenza è che la persona si isola, interrompendo la reale interazione sociale. Ciò finisce per disturbare anche i modelli di riposo, di silenzio e di riflessione necessari per un sano sviluppo umano.

L’amicizia è un grande bene umano, ma sarebbe svuotato del suo valore, se fosse considerato fine a se stesso. Gli amici devono sostenersi e incoraggiarsi l’un l’altro nello sviluppare i loro doni e talenti e nel metterli al servizio della comunità umana. In questo contesto, è gratificante vedere l’emergere di nuove reti digitali che cercano di promuovere la solidarietà umana, la pace e la giustizia, i diritti umani e il rispetto per la vita e il bene della creazione. Queste reti possono facilitare forme di cooperazione tra popoli di diversi contesti geografici e culturali, consentendo loro di approfondire la comune umanità e il senso di corresponsabilità per il bene di tutti. Ci si deve tuttavia preoccupare di far sì che il mondo digitale, in cui tali reti possono essere stabilite, sia un mondo veramente accessibile a tutti. Sarebbe un grave danno per il futuro dell’umanità, se i nuovi strumenti della comunicazione, che permettono di condividere sapere e informazioni in maniera più rapida e efficace, non fossero resi accessibili a coloro che sono già economicamente e socialmente emarginati o se contribuissero solo a incrementare il divario che separa i poveri dalle nuove reti che si stanno sviluppando al servizio dell’informazione e della socializzazione umana.

Vorrei concludere questo messaggio rivolgendomi, in particolare, ai giovani cattolici, per esortarli a portare nel mondo digitale la testimonianza della loro fede. Carissimi, sentitevi impegnati ad introdurre nella cultura di questo nuovo ambiente comunicativo e informativo i valori su cui poggia la vostra vita! Nei primi tempi della Chiesa, gli Apostoli e i loro discepoli hanno portato la Buona Novella di Gesù nel mondo greco romano: come allora l’evangelizzazione, per essere fruttuosa, richiese l’attenta comprensione della cultura e dei costumi di quei popoli pagani nell’intento di toccarne le menti e i cuori, così ora l’annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo. A voi, giovani, che quasi spontaneamente vi trovate in sintonia con questi nuovi mezzi di comunicazione, spetta in particolare il compito della evangelizzazione di questo "continente digitale". Sappiate farvi carico con entusiasmo dell’annuncio del Vangelo ai vostri coetanei! Voi conoscete le loro paure e le loro speranze, i loro entusiasmi e le loro delusioni: il dono più prezioso che ad essi potete fare è di condividere con loro la "buona novella" di un Dio che s’è fatto uomo, ha patito, è morto ed è risorto per salvare l’umanità. Il cuore umano anela ad un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi, dove si edifichi l’unità, dove la libertà trovi il proprio significato nella verità e dove l’identità di ciascuno sia realizzata in una comunione rispettosa. A queste attese la fede può dare risposta: siatene gli araldi! Il Papa vi è accanto con la sua preghiera e con la sua benedizione.

Dal Vaticano, 24 gennaio 2009

BENEDICTUS PP. XVI



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28/03/2009 17:10

Udienza ai giovani del Servizio civile (28 marzo 2009)
«Guerre e violenze non cessano mai,
e la ricerca della pace è sempre faticosa»


Cari giovani!

Benvenuti e grazie per questa vostra gradita visita. Per me è sempre una gioia incontrare i giovani; in questo caso, sono ancor più contento perché voi siete volontari del servizio civile, caratteristica questa che rafforza la mia stima per voi, e mi invita a proporvi alcune riflessioni legate alla vostra specifica attività. Prima, però, desidero salutare il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il senatore Carlo Giovanardi, che ha promosso questo incontro a nome del Governo italiano, ringraziandolo anche per le sue gentili parole. Come pure saluto le altre Autorità presenti.

Cari amici, che cosa può dire il Papa a giovani impegnati nel servizio civile nazionale? Innanzitutto, può congratularsi per l’entusiasmo che vi anima e per la generosità con cui portate a compimento questa vostra missione di pace. Permettete poi che vi proponga una riflessione che, potrei dire, vi riguarda in modo più diretto, una riflessione tratta dalla Costituzione del Concilio Vaticano II Gaudium et spes – "gioia e speranza" – che concerne la Chiesa nel mondo contemporaneo. Nella parte finale di questo documento conciliare, dove viene affrontato anche il tema della pace tra i popoli, si trova un’espressione fondamentale sulla quale è bene soffermarsi: "La pace non è stata mai stabilmente raggiunta, ma è da costruirsi continuamente" (n. 78). Quanto reale è questa osservazione! Purtroppo, guerre e violenze non cessano mai, e la ricerca della pace è sempre faticosa. In anni segnati dal pericolo di possibili conflitti planetari, il Concilio Vaticano II denunciava con forza – in questo testo – la corsa agli armamenti. "La corsa agli armamenti, alla quale si rivolgono molte nazioni, non è la via sicura per conservare saldamente la pace", ed aggiungeva subito che la corsa al riarmo "è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri" (GS, 81). A tale preoccupata constatazione i Padri Conciliari facevano seguire un auspicio: "Nuove strade – essi affermavano – converrà cercare partendo dalla riforma degli spiriti, perché possa essere rimosso questo scandalo e al mondo, liberato dall’ansietà che l’opprime, possa essere restituita la vera pace" (ibid.).

"Nuove strade", dunque, "partendo dalla riforma degli spiriti", dal rinnovamento degli animi e delle coscienze. Oggi come allora l’autentica conversione dei cuori rappresenta la via giusta, la sola che possa condurre ciascuno di noi e l’intera umanità all’auspicata pace. È la via indicata da Gesù: Lui – che è il Re dell’universo – non è venuto a portare la pace nel mondo con un esercito, ma attraverso il rifiuto della violenza. Lo disse esplicitamente a Pietro, nell’orto degli Ulivi: "Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno" (Mt 26,52); e poi a Ponzio Pilato: "Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù" (Gv 18,36).

È la via che hanno seguito e seguono non solo i discepoli di Cristo, ma tanti uomini e donne di buona volontà, testimoni coraggiosi della forza della non violenza. Sempre nella Gaudium et spes, il Concilio affermava: "Noi non possiamo non lodare coloro che, rinunciando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono a quei mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata anche dei più deboli, purché ciò si possa fare senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità" (n. 78). A questa categoria di operatori di pace appartenete anche voi, cari giovani amici. Siate, dunque, sempre e dappertutto strumenti di pace, rigettando con decisione l’egoismo e l’ingiustizia, l’indifferenza e l’odio, per costruire e diffondere con pazienza e perseveranza la giustizia, l’uguaglianza, la libertà, la riconciliazione, l’accoglienza, il perdono in ogni comunità.

Mi piace qui rivolgere a voi, cari giovani, l’invito con cui ho concluso l’annuale messaggio del 1° gennaio scorso per la Giornata Mondiale della Pace, esortandovi "ad allargare il cuore verso le necessità dei poveri e a fare quanto è concretamente possibile per venire in loro soccorso. Resta infatti incontestabilmente vero l’assioma secondo cui «combattere la povertà è costruire la pace»". Molti di voi – penso ad esempio a quanti operano con la Caritas ed in altre strutture sociali – sono quotidianamente impegnati in servizi alle persone in difficoltà. Ma in ogni caso, nella varietà degli ambiti delle vostre attività, ciascuno, attraverso questa esperienza di volontariato, può rafforzare la propria sensibilità sociale, conoscere più da vicino i problemi della gente e farsi promotore attivo di una solidarietà concreta. È questo sicuramente il principale obiettivo del servizio civile nazionale, un obiettivo formativo: educare le giovani generazioni a coltivare un senso di attenzione responsabile nei confronti delle persone bisognose e del bene comune.

Cari ragazzi e ragazze, un giorno Gesù disse alla gente che lo seguiva: "Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà" (Mc 8,35). In queste parole c’è una verità non solo cristiana, bensì universalmente umana: la vita è un mistero d’amore, che tanto più ci appartiene quanto più la doniamo. Anzi, quanto più ci doniamo, cioè facciamo dono di noi stessi, del nostro tempo, delle nostre risorse e qualità per il bene degli altri. Lo dice una celebre preghiera attribuita a san Francesco d’Assisi, che inizia così: "O Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace"; e termina con queste parole: "Perché è dando che si riceve, perdonando che si è perdonati, morendo che si risuscita a vita eterna". Cari amici, sia sempre questa la logica della vostra vita; non solo adesso che siete giovani, ma anche domani, quando rivestirete – ve lo auguro – ruoli significativi nella società e formerete una famiglia. Siate persone pronte a spendersi per gli altri, disposte anche a soffrire per il bene e la giustizia. Per questo assicuro la mia preghiera, affidandovi alla protezione di Maria Santissima. Vi auguro un buon servizio e vi benedico tutti di cuore insieme con i vostri cari e le persone che quotidianamente incontrate.



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25/09/2009 09:06

«I credenti amino la Chiesa senza abbandonarla e tradirla»

Udienza del (23 settembre 2009)


Cari fratelli e sorelle,
a Roma, sul colle dell’Aventino, si trova l’Abbazia benedettina di Sant’Anselmo. Come sede di un Istituto di studi superiori e dell’abate primate dei Benedettini Confederati, essa è un luogo che unisce in sé la preghiera, lo studio e il governo, proprio le tre attività che caratterizzarono la vita del Santo al quale è dedicata: Anselmo d’Aosta di cui ricorre quest’anno il IX centenario della morte. Le molteplici iniziative, promosse specialmente dalla diocesi di Aosta per questa fausta ricorrenza hanno evidenziato l’interesse che continua a suscitare questo pensatore medievale.

Egli è noto anche come Anselmo di Bec e Anselmo di Canterbury a motivo delle città con le quali è stato in rapporto. Chi è questo personaggio al quale tre località, lontane tra loro e collocate in tre Nazioni diverse – Italia, Francia, Inghilterra –, si sentono particolarmente legate? Monaco di intensa vita spirituale, eccellente educatore di giovani, teologo con una straordinaria capacità speculativa, saggio uomo di governo ed intransigente difensore della libertas Ecclesiae, della libertà della Chiesa. Anselmo é una delle personalità eminenti del Medioevo, che seppe armonizzare tutte queste qualità grazie a una profonda esperienza mistica, che sempre ebbe a guidarne il pensiero e l’azione.

Sant’Anselmo nacque nel 1033 (o all’inizio del 1034) ad Aosta, primogenito di una famiglia nobile. Il padre era uomo rude, dedito ai piaceri della vita e dissipatore dei suoi beni; la madre, invece, era donna di elevati costumi e di profonda religiosità (cfr Eadmero, Vita s. Anselmi, PL 159, col 49). Fu lei, la mamma, a prendersi cura della prima formazione umana e religiosa del figlio, che affidò, poi, ai Benedettini di un priorato di Aosta. Anselmo, che da bambino – come narra il suo biografo - immaginava l’abitazione del buon Dio tra le alte e innevate vette delle Alpi, sognò una notte di essere invitato in questa reggia splendida da Dio stesso, che si intrattenne a lungo ed affabilmente con lui e alla fine gli offrì da mangiare «un pane candidissimo» (ibid., col 51). Questo sogno gli lasciò la convinzione di essere chiamato a compiere un’alta missione. All’età di quindici anni, chiese di essere ammesso nell’Ordine benedettino, ma il padre si oppose con tutta la sua autorità e non cedette neppure quando il figlio gravemente malato, sentendosi vicino alla morte, implorò l’abito religioso come supremo conforto.

Dopo la guarigione e la scomparsa prematura della madre, Anselmo attraversò un periodo di dissipazione morale: trascurò gli studi e, sopraffatto dalle passioni terrene, diventò sordo al richiamo di Dio. Se ne andò da casa e cominciò a girare per la Francia in cerca di nuove esperienze. Dopo tre anni, giunto in Normandia, si recò nell’Abbazia benedettina di Bec, attirato dalla fama di Lanfranco da Pavia, priore del monastero. Fu per lui un incontro provvidenziale e decisivo per il resto della sua vita. Sotto la guida di Lanfranco, Anselmo riprese infatti con vigore gli studi e, in breve tempo, diventò non solo l’allievo prediletto, ma anche il confidente del maestro. La sua vocazione monastica si riaccese e, dopo attenta valutazione, all’età di 27 anni, entrò nell’Ordine monastico e venne ordinato sacerdote. L’ascesi e lo studio gli aprirono nuovi orizzonti, facendogli ritrovare, in grado ben più alto, quella familiarità con Dio che aveva avuto da bambino.

Quando, nel 1063, Lanfranco diventò abate di Caen, Anselmo, dopo appena tre anni di vita monastica, fu nominato priore del monastero di Bec e maestro della scuola claustrale, rivelando doti di raffinato educatore. Non amava i metodi autoritari; paragonava i giovani a piccole piante che si sviluppano meglio se non sono chiuse in serra e concedeva loro una «sana» libertà. Era molto esigente con se stesso e con gli altri nell’osservanza monastica, ma anziché imporre la disciplina si impegnava a farla seguire con la persuasione.

Alla morte dell’abate Erluino, fondatore dell’abbazia di Bec, Anselmo venne eletto unanimemente a succedergli: era il febbraio 1079. Intanto numerosi monaci erano stati chiamati a Canterbury per portare ai fratelli d’oltre Manica il rinnovamento in atto nel Continente. La loro opera fu ben accetta, al punto che Lanfranco da Pavia, abate di Caen, divenne il nuovo arcivescovo di Canterbury e chiese ad Anselmo di trascorrere un certo tempo con lui per istruire i monaci e aiutarlo nella difficile situazione in cui si trovava la sua comunità ecclesiale dopo l’invasione dei Normanni. La permanenza di Anselmo si rivelò molto fruttuosa; egli guadagnò simpatia e stima, tanto che, alla morte di Lanfranco, fu scelto a succedergli nella sede arcivescovile di Canterbury. Ricevette la solenne consacrazione episcopale nel dicembre del 1093.

Anselmo si impegnò immediatamente in un’energica lotta per la libertà della Chiesa, sostenendo con coraggio l’indipendenza del potere spirituale da quello temporale. Difese la Chiesa dalle indebite ingerenze delle autorità politiche, soprattutto dei re Guglielmo il Rosso ed Enrico I, trovando incoraggiamento e appoggio nel Romano Pontefice, al quale Anselmo dimostrò sempre una coraggiosa e cordiale adesione. Questa fedeltà gli costò, nel 1103, anche l’amarezza dell’esilio dalla sua sede di Canterbury.

E soltanto quando, nel 1106, il re Enrico I rinunciò alla pretesa di conferire le investiture ecclesiastiche, come pure alla riscossione delle tasse e alla confisca dei beni della Chiesa, Anselmo poté far ritorno in Inghilterra, accolto festosamente dal clero e dal popolo. Si era così felicemente conclusa la lunga lotta da lui combattuta con le armi della perseveranza, della fierezza e della bontà. Questo santo arcivescovo che tanta ammirazione suscitava intorno a sé, dovunque si recasse, dedicò gli ultimi anni della sua vita soprattutto alla formazione morale del clero e alla ricerca intellettuale su argomenti teologici. Morì il 21 aprile 1109, accompagnato dalle parole del Vangelo proclamato nella Santa Messa di quel giorno: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno…» (Lc 22,28-30). Il sogno di quel misterioso banchetto, che da piccolo aveva avuto proprio all’inizio del suo cammino spirituale, trovava così la sua realizzazione. Gesù, che lo aveva invitato a sedersi alla sua mensa, accolse sant’Anselmo, alla sua morte, nel regno eterno del Padre.

«Dio, ti prego, voglio conoscerti, voglio amarti e poterti godere. E se in questa vita non sono capace di ciò in misura piena, possa almeno ogni giorno progredire fino a quando giunga alla pienezza» (Proslogion, cap.14). Questa preghiera lascia comprendere l’anima mistica di questo grande santo dell’epoca medievale, fondatore della teologia scolastica, al quale la tradizione cristiana ha dato il titolo di «Dottore Magnifico» perché coltivò un intenso desiderio di approfondire i Misteri divini, nella piena consapevolezza, però, che il cammino di ricerca di Dio non è mai concluso, almeno su questa terra. La chiarezza e il rigore logico del suo pensiero hanno avuto sempre come fine di «innalzare la mente alla contemplazione di Dio» (Ivi, Proemium).

Egli afferma chiaramente che chi intende fare teologia non può contare solo sulla sua intelligenza, ma deve coltivare al tempo stesso una profonda esperienza di fede. L’attività del teologo, secondo sant’Anselmo, si sviluppa così in tre stadi: la fede, dono gratuito di Dio da accogliere con umiltà; l’esperienza, che consiste nell’incarnare la parola di Dio nella propria esistenza quotidiana; e quindi la vera conoscenza, che non è mai frutto di asettici ragionamenti, bensì di un’intuizione contemplativa. Restano, in proposito, quanto mai utili anche oggi, per una sana ricerca teologica e per chiunque voglia approfondire le verità della fede, le sue celebri parole: «Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché non posso neppure da lontano mettere a confronto con essa il mio intelletto; ma desidero intendere, almeno fino ad un certo punto, la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire» (Ivi, 1).

Cari fratelli e sorelle, l’amore per la verità e la costante sete di Dio, che hanno segnato l’intera esistenza di sant’Anselmo, siano uno stimolo per ogni cristiano a ricercare senza mai stancarsi una unione sempre più intima con Cristo, Via, Verità e Vita. Inoltre, lo zelo pieno di coraggio che ha contraddistinto la sua azione pastorale, e che gli ha procurato talora incomprensioni, amarezze e perfino l’esilio, sia un incoraggiamento per i pastori, per le persone consacrate e per tutti i fedeli ad amare la Chiesa di Cristo, a pregare, a lavorare e soffrire per essa, senza mai abbandonarla o tradirla. Ci ottenga questa grazia la Vergine Madre di Dio, verso la quale sant’Anselmo nutrì tenera e filiale devozione. «Maria, te il mio cuore vuole amare – scrive san’Anselmo – te la lingua mia desidera ardentemente lodare».









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06/11/2009 09:55

«Media rispettino valore e dignità della persona»

DISCORSO

Papa: «Media rispettino valore e dignità della persona»

Benedetto XVI chiede ai media "il rispetto per la dignità e il valore della persona umana". I professionisiti impegnati nel settore, e in particolare quelli cattolici, debbono, spiega alla plenaria del Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali, promuovere "una cultura" imperniata su questi elementi e "un dialogo radicato nella ricerca sincera della verità, dell'amicizia non fine a se stessa, ma capace di sviluppare i doni di ciascuno per metterli a servizio della comunità umana".

Per il Papa, siamo in presenza di "una vera e propria rivoluzione nell'ambito delle comunicazioni sociali, di cui la Chiesa va prendendo sempre più responsabile consapevolezza. Tali tecnologie, infatti, rendono possibile una comunicazione veloce e pervasiva, con una condivisione ampia di idee e di opinioni; facilitano l'acquisizione di informazioni e di notizie in maniera capillare e accessibile a tutti". Occorre dunque cogliere "le varie dimensioni di questo fenomeno, incluse soprattutto quelle antropologiche". E considerare che "la cultura moderna scaturisce, ancor prima che dai contenuti, dal dato stesso dell'esistenza di nuovi modi di comunicare che utilizzano linguaggi nuovi, si servono di nuove tecniche e creano nuovi atteggiamenti psicologici". Mentre "il carattere multimediale e la interattività strutturale dei singoli nuovi media, ha, in un certo modo, diminuito la specificità di ognuno di essi, generando gradualmente una sorta di sistema globale di comunicazione, per cui, pur mantenendo ciascun mezzo il proprio peculiare carattere, l'evoluzione attuale del mondo della comunicazione obbliga sempre più a parlare di un'unica forma comunicativa, che fa sintesi delle diverse voci o le pone in stretta reciproca connessione".

Da parte sua, ricorda il Pontefice, "la Chiesa esercita quella che potremmo definire una 'diaconia della culturà nell'odierno 'continente digitalè, percorrendone le strade per annunciare il Vangelo, la sola Parola che può salvare l'uomo". Così, "al Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali tocca approfondire ogni elemento della nuova cultura dei media, a iniziare dagli aspetti etici, ed esercitare un servizio di orientamento e di guida per aiutare le Chiese particolari a cogliere l'importanza della comunicazione, che rappresenta ormai un punto fermo e irrinunciabile di ogni piano pastorale". Secondo il Papa teologo, "proprio le caratteristiche dei nuovi mezzi rendono, peraltro, possibile, anche su larga scala e nella dimensione globalizzata che essa ha assunto, un'azione di consultazione, di condivisione e di coordinamento che, oltre a incrementare un'efficace diffusione del messaggio evangelico, evita talvolta un'inutile dispersione di forze e di risorse". "Per i credenti - avverte - la necessaria valorizzazione delle nuove tecnologie mediatiche va sempre però sostenuta da una costante visione di fede".





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06/11/2009 09:58

Papa: un «rischio» dimenticare le radici cristiane dell'Europa

19 Ottobre 2009
BENEDETTO XVI
Papa: un «rischio» dimenticare le radici cristiane dell'Europa


Dimenticare le radici cristiane dell’Europa è esporre il continente europeo al «rischio» di vedere il suo «slancio originale soffocato dall’individualismo e dall’utilitarismo». E’ quanto ha sottolineato Papa Benedetto XVI ricevendo questa mattina in Vaticano le Lettere credenziali di Yves Gazzo, capo della delegazione della Commissione delle Comunità Europee presso al Santa Sede. Per essere «uno spazio di pace e stabilità», ha detto il Papa – l’Unione Europea non deve dimenticare i valori che «sono frutto una lunga e silenziosa storia nella quale, nessuno potrà negarlo, il cristianesimo ha giocato un ruolo di primo piano. L’uguale dignità di tutti gli esseri umani, la libertà dell’atto di fede come radice di tutte le altre libertà civili, la pace come elemento decisivo del bene comune».

«Quando la Chiesa – ha proseguito il Santo Padre – ricorda le radici cristiane dell’Europa, non lo fa per chiedere uno statuto privilegiato per se stessa. Vuole fare opera di memoria storica», ricordando «l’ispirazione decisamente cristiana dei Padri fondatori dell’Unione Europea». Verità – ha aggiunto il Papa - «sempre più taciuta». Ma «più profondamente», la Chiesa “desidera affermare anche che il solco dei valori risiede principalmente nella eredità cristiana che continua ancora oggi a nutrirlo».

Questi valori – ha proseguito Benedetto XVI non costituiscono un «aggregato aleatorio, ma formano un insieme coerente che si ordina e si articola, a partire da una visione antropologica precisa». Il Papa, a questo punto, pone alcuni interrogativi: «L’Europa – chiede - può omettere il principio organico originale di questi valori che ha rivelato all’uomo sia la sua eminente dignità sia il fatto che la sua vocazione personale lo apre a tutti gli altri uomini con i quali è chiamato a costituire una sola famiglia?

Lasciarsi andare a questo oblio, non significa esporsi al rischio di vedere questi grandi e bei valori entrare in concorrenza o in conflitto gli uni contro gli altri? O ancora che questi valori rischiano di essere strumentalizzati da individui e gruppi di pressione desiderosi di far valore interessi particolari a scapito di un progetto collettivo ambizioso, che gli europei perseguono, avendo come scopo il bene comune degli abitanti del Continente e dell’intero mondo? Questo pericolo è stato più volte percepito e denunciato da numerosi osservatori appartenenti ad orizzonti diversi. E’ importante che l’Europa non lasci che il suo modello di civiltà si disfi a poco a poco. Il suo slancio originario non deve essere soffocato dall’individualismo dall’utilitarismo».




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30/11/2009 08:29


28 Novembre 2009

INIZIA L'AVVENTO

Il Papa: «Sostare in silenzio
per capire una Presenza»



"Dio è qui, non si è ritirato dal mondo, non ci ha lasciati soli" ma per sentire la sua presenza occorre "sostare in silenzio" e non farsi travolgere dal "fare": è questa l'esortazione espressa da papa Benedetto XVI che questa sera, nella Basilica di San Pietro, ha celebrato i Vespri della prima domenica di Avvento.

"Tutti facciamo esperienza, nell'esistenza quotidiana, di avere poco tempo per il Signore e poco tempo pure per noi. Si finisce per essere assorbiti dal 'farè. Non è forse vero che spesso è proprio l'attività a possederci - chiede il pontefice - la società con i suoi molteplici interessi a monopolizzare la nostra attenzione? Non è forse vero che si dedica molto tempo al divertimento e a svaghi di vario genere? A volte - aggiunge - le cose ci 'travolgono".

Il senso dell'Avvento, liturgia che conduce al Natale, può aiutare, invece, "a sostare in silenzio per capire una Presenza". Così, "i singoli eventi della giornata" diventano "cenni che Dio ci rivolge, segni dell'attenzione che ha per ognuno di noi".






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04/12/2009 10:18


3 Dicembre 2009

GIORNATA DEL MALATO

Il Papa: «La vita sia tutelata
dal concepimento alla fine»


"Nell'attuale momento storico-culturale", i cattolici sono chiamati ad "una presenza ecclesiale attenta e capillare accanto ai malati, come pure nella società capace ditrasmettere in maniera efficace i valori evangelici a tutela della vita umana in tutte le fasi, dal suo concepimento alla sua fine naturale". Lo scrive Benedetto XVI nel messaggio, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana, per la Giornata mondiale del malato che si celebrerà l'11 febbraio 2010, in coincidenza con il 25esimo di istituzione del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari.

Con queste iniziative, spiega il Pontefice, "la Chiesa intende, in effetti, sensibilizzare capillarmente la comunità ecclesiale circa l'importanza del servizio pastorale nel vasto mondo della salute, servizio che fa parte integrante della sua missione". Di qui il richiamo all'Ultima cena con la lavanda dei piedi e alla parabola del Buon samaritano, esempi che "ogni cristiano è chiamato a rivivere". Il Vangelo "si rivolge anche a noi" afferma Benedetto XVI, e "ci esorta a chinarci sulleferite del corpo e dello spirito di tanti nostri fratelli e sorelle che incontriamo sulle strade del mondo; ci aiuta a comprendere che, con la grazia di Dio accolta e vissuta nella vita di ogni giorno, l'esperienza della malattia e della sofferenza può diventare scuola di speranza".

"Non è lo scansare la sofferenza" spiega ancora Benedetto XVI, "che guarisce l'uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l'unione con Cristo". L'azione "umanitaria e spirituale della comunità ecclesiale verso gli ammalati e i sofferenti nel corso dei secoli si è espressa in molteplici forme e strutture sanitarie anche di carattere istituzionale" osserva il Papa richiamando "quelle direttamente gestite dalle diocesi e quelle nate dalla generosità di vari Istituti religiosi", un prezioso "patrimonio" rispondente al fatto che "l'amore ha bisogno anche di organizzazione". "La creazione del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, venticinque anni or sono, rientra in tale sollecitudine ecclesiale per il mondo della salute". Nell'Anno Sacerdotale il pensiero del Pontefice va anche ai sacerdoti, "ministri degli infermi", "segno e strumento della compassione di Cristo, che deve giungere ad ogni uomo segnato dalla sofferenza".

Di qui l'invito a non risparmiarsi: "Il tempo trascorso accanto a chi è nella prova si rivela fecondo di grazia per tutte le altre dimensioni della pastorale". Aimalati il Papa chiede infine "di pregare e di offrire le vostre sofferenze per i sacerdoti, perché possano mantenersi fedeli alla loro vocazione e il loro ministero sia ricco di frutti spirituali, a beneficio di tutta la Chiesa".





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11/12/2009 10:20


CONVEGNO


Fede, Papa: senza Dio
l'umanità si autodistrugge



"Quando Dio sparisce dall'orizzonte dell'uomo, l'umanità perde l'orientamento e rischia di compiere passi verso la distruzione di se stessa". Ce lo insegnano, afferma Benedetto XVI, "le esperienze del passato, anche non lontano". Con queste parole, lette dal segretario della Cei Mariano Crociata, si è aperto il Convegno "Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto", promosso dal card. Camillo Ruini e dal Comitato per il Progetto Culturale della Chiesa Italiana da lui presieduto.

"La questione di Dio - scrive il Papa - è centrale anche per la nostra epoca, nella quale spesso si tende a ridurre l'uomo ad una sola dimensione, quella 'orizzontale', ritenendo irrilevante per la sua vita l'apertura al Trascendente". "La fede in Dio - ricorda Ratzinger - apre all'uomo l'orizzonte di una speranza certa, che non delude; indica un solido fondamento su cui poter poggiare senza timore la vita; chiede di abbandonarsi con fiducia nelle mani dell'Amore che sostiene il mondo". E dunque, "la relazione con Dio è essenziale per il cammino dell'umanità e la Chiesa e ogni cristiano hanno proprio il compito di rendere Dio presente in questo mondo, di cercare di aprire agli uomini l'accesso a Dio".

Benedetto XVI incoraggia quindi la Chiesa Italiana a operare sul piano della cultura riproponendo il Vangelo "in una situazione culturale e spirituale come quella che stiamo vivendo, dove cresce la tendenza a relegare Dio nella sfera privata, a considerarlo come irrilevante e superfluo, o a rifiutarlo esplicitamente", il Papa auspica che "questo evento possa contribuire almeno a diradare quella penombra che rende precaria e timorosa per l'uomo del nostro tempo l'apertura verso Dio, sebbene Egli non cessi mai di bussare alla nostra porta". "L'ampiezza di approccio alla importante tematica, che caratterizza l'incontro - rileva il Pontefice - permetterà di tracciare un quadro ricco e articolato della questione di Dio, ma soprattutto sarà di stimolo per una più profonda riflessione sul posto che occupa Dio nella cultura e nella vita del nostro tempo".


La prolusione del card. Bagnasco. "La verità cristiana conosce solo la forza persuasiva delle buone ragioni che la sostengono e dell'amore disinteressato che la propone; non segue la via della strumentalizzazione e della persuasione occulta, conosce invece il dialogo, aperto e franco, chiaro nella propria identità e rispettoso dell'interlocutore". Lo ha affermato il card. Angelo Bagnasco nella prolusione da lui tenuta oggi al Convegno. "Generata dall'amore", la verità cristiana, ha scandito, "non comprime ma esalta la libera scelta dell'uomo". "In un mondo fatto incerto e quasi scettico dal diffondersi della sindrome relativistica, in cui la passione e la stima per le grandi questioni paiono assopite, in cui la ragione strumentale e pragmatica sembra farla da padrona - ha detto Bagnasco - ogni discorso su realtà certe, assolute e trascendenti, rischia di essere respinto, inesorabilmente, nel
recinto circoscritto dell'opinabile soggettivo".

La questione di Dio, ha ricordato il presidente della Cei, "non è un interrogativo astratto, ma penetra nel profondo le fibre dell'uomo interiore". Ed è una "domanda che si fa pressante proprio in questo nostro tempo, proprio quando diffusi processi di rimozione culturale tendono ad emarginarla". Soprattutto nel mondo occidentale, la questione di Dio è lasciata fuori dai percorsi abituali della cultura", ha rilevato il cardinale sottolineando che "emarginata e psicologicamente rimossa, essa si presenta però, insopprimibile com'è nel profondo del cuore umano, sotto mentite spoglie". Secondo il cardinale Bagnasco, "molte forme del cosiddetto ritorno del sacro, purtroppo, segnate da sentimentalismo ed emotivismo, finiscono per avallare l'opinione diffusa che religione e ragione appartengano a due mondi, se non contrapposti, quantomeno incomunicabili". Di fronte a tale rischio, per il porporato, è necessario
"rivendicare con rispettosa parresia la dignità e la rilevanza culturale del Vangelo, capace di interpretare l'esistenza e di orientare l'uomo viandante del nostro tempo, di ogni tempo".

Del resto, ha spiegato l'arcivescovo di Genova, "la questione di Dio non è una investigazione astratta, avulsa dalla realtà del quotidiano, ma la domanda cruciale, da cui dipende radicalmente la scoperta del senso (o del non senso) del mondo e della vita: della propria vita personale". "Dio -
ha aggiunto il porporato - si avvicina al viandante di ogni tempo: se l'uomo ascolta la Sua voce, allora comincia a ritrovare se stesso".


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31/12/2009 07:21

30 Dicembre 2009

L'UDIENZA


Il Papa: «La donna sia compagna,

non schiava né dominatrice»


Tutti, dai teologi ai fedeli, devono attenersi all'insieme degli insegnamenti del catechismo della Chiesa cattolica, perchè la fede "non può essere frammentata": è quanto ha affermato papa Benedetto XVI, nell'ultima udienza generale dell'anno. Ratzinger ha messo in guardia contro gli attuali 'spezzettamenti di ogni singola verità". La rivelazione cristiana "è un apparato completo", ha osservato citando anche alcuni padri della Chiesa, e in particolare Pietro Lombardo, teologo del dodicesimo secolo e vescovo di Parigi.

Dio ha voluto che la donna fosse una "compagna" dell'uomo, non una sua "schiava" nè una sua "dominatrice". È quanto ha affermato papa Benedetto XVI, oggi durante l'udienza generale nell'Aula Nervi.
"Dio creò Eva da una costola di Adamo e non, ad esempio, dalla sua testa, perché fosse non una dominatrice e neppure una schiava dell'uomo ma una sua compagna", ha spiegato Ratzinger, citando il teologo medioevale Pietro Lombardo, che nel racconto biblico della nascita della donna vedeva "una prefigurazione del mistero di Cristo e della Chiesa".


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[Modificato da auroraageno 31/12/2009 07:21]

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06/01/2010 21:50


Angelus


«La Storia ha un senso perché è abitata da Dio»

Cari fratelli e sorelle!

In questa Domenica – seconda dopo il Natale e prima del nuovo anno – sono lieto di rinnovare a tutti il mio augurio di ogni bene nel Signore! I problemi non mancano, nella Chiesa e nel mondo, come pure nella vita quotidiana delle famiglie. Ma, grazie a Dio, la nostra speranza non fa conto su improbabili pronostici e nemmeno sulle previsioni economiche, pur importanti. La nostra speranza è in Dio, non nel senso di una generica religiosità, o di un fatalismo ammantato di fede. Noi confidiamo nel Dio che in Gesù Cristo ha rivelato in modo compiuto e definitivo la sua volontà di stare con l’uomo, di condividere la sua storia, per guidarci tutti al suo Regno di amore e di vita. E questa grande speranza anima e talvolta corregge le nostre speranze umane.

Di tale rivelazione ci parlano oggi, nella Liturgia eucaristica, tre letture bibliche di straordinaria ricchezza: il capitolo 24 del Libro del Siracide, l’inno che apre la Lettera agli Efesini di san Paolo e il prologo del Vangelo di Giovanni. Questi testi affermano che Dio è non soltanto creatore dell’universo – aspetto comune anche ad altre religioni – ma che è Padre, che "ci ha scelti prima della creazione del mondo … predestinandoci ad essere per lui figli adottivi" (Ef 1,4-5) e che per questo è arrivato fino al punto inconcepibile di farsi uomo: "il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14). Il mistero dell’Incarnazione della Parola di Dio è stato preparato nell’Antico Testamento, in particolare là dove la Sapienza divina si identifica con la Legge mosaica. Afferma infatti la stessa Sapienza: "Il creatore dell’universo mi fece piantare la tenda e mi disse: «Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele»" (Sir 24,8). In Gesù Cristo, la Legge di Dio si è fatta testimonianza vivente, scritta nel cuore di un uomo in cui, per l’azione dello Spirito Santo, è presente corporalmente tutta la pienezza della divinità (cfr Col 2,9).

Cari amici, questa è la vera ragione di speranza dell’umanità: la storia ha un senso, perché è "abitata" dalla Sapienza di Dio. E tuttavia, il disegno divino non si compie automaticamente, perché è un progetto d’amore, e l’amore genera libertà e chiede libertà. Il Regno di Dio viene certamente, anzi, è già presente nella storia e, grazie alla venuta di Cristo, ha già vinto la forza negativa del maligno. Ma ogni uomo e donna è responsabile di accoglierlo nella propria vita, giorno per giorno. Perciò, anche il 2010 sarà più o meno "buono" nella misura in cui ciascuno, secondo le proprie responsabilità, saprà collaborare con la grazia di Dio. Rivolgiamoci dunque alla Vergine Maria, per imparare da Lei questo atteggiamento spirituale. Il Figlio di Dio ha preso carne da Lei non senza il suo consenso. Ogni volta che il Signore vuole fare un passo avanti, insieme con noi, verso la "terra promessa", bussa prima al nostro cuore, attende, per così dire, il nostro "sì", nelle piccole come nelle grandi scelte. Ci aiuti Maria ad accogliere sempre la volontà di Dio, con umiltà e coraggio, perché anche le prove e le sofferenze della vita cooperino ad affrettare la venuta del suo Regno di giustizia e di pace.









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14/02/2010 19:11

Papa: diritto alla vita è inalienabile. No a leggi arbitrarie

Discorsi

13 Febbraio 2010


ASSEMBLEA DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA

Papa: diritto alla vita è inalienabile. No a leggi arbitrarie


Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri Membri della Pontificia Academia Pro Vita
Gentili Signore e Signori!

Sono lieto di accogliervi e di salutarvi cordialmente in occasione dell’Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita, chiamata a riflettere su temi attinenti al rapporto tra bioetica e legge morale naturale, che appaiono sempre più rilevanti nel contesto attuale per i costanti sviluppi in tale ambito scientifico. Rivolgo un particolare saluto a Mons. Rino Fisichella, Presidente di codesta Accademia, ringraziandolo per le cortesi parole che ha voluto rivolgermi a nome dei presenti. Desidero, altresì, estendere il mio personale ringraziamento a ciascuno di voi per il prezioso e insostituibile impegno che svolgete a favore della vita, nei vari contesti di provenienza.

Le problematiche che ruotano intorno al tema della bioetica permettono di verificare quanto le questioni che vi sono sottese pongano in primo piano la questione antropologica. Come affermo nella mia ultima Lettera enciclica Caritas in veritate: "Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l'uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell'immanenza" (n. 74). Dinanzi a simili questioni, che toccano in modo così decisivo la vita umana nella sua perenne tensione tra immanenza e trascendenza, e che hanno grande rilevanza per la cultura delle future generazioni, è necessario porre in essere un progetto pedagogico integrale, che permetta di affrontare tali tematiche in una visione positiva, equilibrata e costruttiva, soprattutto nel rapporto tra la fede e la ragione.

Le questioni di bioetica mettono spesso in primo piano il richiamo alla dignità della persona, un principio fondamentale che la fede in Gesù Cristo Crocifisso e Risorto ha da sempre difeso, soprattutto quando viene disatteso nei confronti dei soggetti più semplici e indifesi: Dio ama ciascun essere umano in modo unico e profondo. Anche la bioetica, come ogni disciplina, necessita di un richiamo capace di garantire una coerente lettura delle questioni etiche che, inevitabilmente, emergono dinanzi a possibili conflitti interpretativi. In tale spazio si apre il richiamo normativo alla legge morale naturale. Il riconoscimento della dignità umana, infatti, in quanto diritto inalienabile trova il suo fondamento primo in quella legge non scritta da mano d’uomo, ma iscritta da Dio Creatore nel cuore dell’uomo, che ogni ordinamento giuridico è chiamato a riconoscere come inviolabile e ogni singola persona è tenuta a rispettare e promuovere (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1954-1960). Senza il principio fondativo della dignità umana sarebbe arduo trovare una fonte per i diritti della persona e impossibile giungere a un giudizio etico nei confronti delle conquiste della scienza che intervengono direttamente nella vita umana. E’ necessario, pertanto, ripetere con fermezza che non esiste una comprensione della dignità umana legata soltanto ad elementi esterni quali il progresso della scienza, la gradualità nella formazione della vita umana o il facile pietismo dinanzi a situazioni limite. Quando si invoca il rispetto per la dignità della persona è fondamentale che esso sia pieno, totale e senza vincoli, tranne quelli del riconoscere di trovarsi sempre dinanzi a una vita umana. Certo, la vita umana conosce un proprio sviluppo e l’orizzonte di investigazione della scienza e della bioetica è aperto, ma occorre ribadire che quando si tratta di ambiti relativi all’essere umano, gli scienziati non possono mai pensare di avere tra le mani solo della materia inanimata e manipolabile. Infatti, fin dal primo istante, la vita dell’uomo è caratterizzata dall’essere vita umana e per questo portatrice sempre, dovunque e nonostante tutto, di dignità propria (cfr Congr. per la Dottrina della fede, Istruzione Dignitas personae su alcune questioni di bioetica, n. 5). Contrariamente, saremmo sempre alla presenza del pericolo di un uso strumentale della scienza, con l’inevitabile conseguenza di cadere facilmente nell’arbitrio, nella discriminazione e nell’interesse economico del più forte.

Coniugare bioetica e legge morale naturale permette di verificare al meglio il necessario e ineliminabile richiamo alla dignità che la vita umana possiede intrinsecamente dal suo primo istante fino alla sua fine naturale. Invece, nel contesto odierno, pur emergendo con sempre maggior insistenza il giusto richiamo ai diritti che garantiscono la dignità della persona, si nota che non sempre tali diritti sono riconosciuti alla vita umana nel suo naturale sviluppo e negli stadi di maggior debolezza. Una simile contraddizione rende evidente l’impegno da assumere nei diversi ambiti della società e della cultura perché la vita umana sia riconosciuta sempre come soggetto inalienabile di diritto e mai come oggetto sottoposto all’arbitrio del più forte. La storia ha mostrato quanto possa essere pericoloso e deleterio uno Stato che proceda a legiferare su questioni che toccano la persona e la società, pretendendo di essere esso stesso fonte e principio dell’etica. Senza principi universali che consentono di verificare un denominatore comune per l’intera umanità, il rischio di una deriva relativistica a livello legislativo non è affatto da sottovalutare (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1959). La legge morale naturale, forte del proprio carattere universale, permette di scongiurare tale pericolo e soprattutto offre al legislatore la garanzia per un autentico rispetto sia della persona, sia dell’intero ordine creaturale. Essa si pone come fonte catalizzatrice di consenso tra persone di culture e religioni diverse e permette di andare oltre le differenze, perché afferma l’esistenza di un ordine impresso nella natura dal Creatore e riconosciuto come istanza di vero giudizio etico razionale per perseguire il bene ed evitare il male. La legge morale naturale "appartiene al grande patrimonio della sapienza umana, che la Rivelazione, con la sua luce, ha contribuito a purificare e a sviluppare ulteriormente" (cfr Giovanni Paolo II, Discorso alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 6 febbraio 2004).

Illustri Membri della Pontificia Accademia per la Vita, nel contesto attuale il vostro impegno appare sempre più delicato e difficile, ma la crescente sensibilità nei confronti della vita umana incoraggia a proseguire con sempre maggiore slancio e con coraggio in questo importante servizio alla vita e all’educazione ai valori evangelici delle future generazioni. Auguro a tutti voi di continuare lo studio e la ricerca, perché l’opera di promozione e di difesa della vita sia sempre più efficace e feconda. Vi accompagno con la Benedizione Apostolica, che volentieri estendo a quanti condividono con voi questo quotidiano impegno.



da L'Avvenire



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11 Marzo 2010

L'UDIENZA

Il Papa: «Il confessionale è luogo di Misericordia»

Di fronte alla «perdita del senso del peccato» e alla «crisi» del «sacramento della penitenza» occorre instaurare con i penitenti il «dialogo di salvezza» sull’esempio del Santo Curato d’Ars, e «tornare al confessionale» anche come «luogo in cui "abitare" più spesso».


È l’esortazione rivolta questa mattina da Benedetto XVI ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria apostolica, ricevuti in udienza. Rammentando che il corso «si colloca, provvidenzialmente, nell’Anno sacerdotale» indetto per il 150° della morte di San Giovanni Maria Vianney, il Papa ne ha riproposto il «modo eroico e fecondo» di esercitare il ministero della riconciliazione e “il metodo del «dialogo di salvezza» che in esso si deve svolgere».

«Viviamo in un contesto culturale segnato dalla mentalità edonistica e relativistica, che tende a cancellare Dio dall’orizzonte della vita, non favorisce l’acquisizione di un quadro chiaro di valori di riferimento e non aiuta a discernere il bene dal male e a maturare un giusto senso del peccato» ha spiegato il Pontefice; «un circolo vizioso tra l’offuscamento dell’esperienza di Dio e la perdita del senso del peccato» che «rende ancora più urgente il servizio di amministratori della misericordia divina».

«Nelle condizioni di libertà in cui oggi», a differenza dell’epoca del Curato d’Ars, «è possibile esercitare il ministero sacerdotale, è necessario – ha ammonito Benedetto XVI - che i presbiteri» vivano in «modo alto» la «propria risposta alla vocazione» per poter «suscitare nei fedeli il senso del peccato, dare coraggio e far nascere il desiderio del perdono di Dio».

È necessario, ha aggiunto il Papa, «tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il sacramento della riconciliazione, ma anche come luogo in cui ‘abitare’ più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto».

La «crisi» del «sacramento della penitenza» interpella «anzitutto i sacerdoti» e «chiede loro di dedicarsi generosamente all’ascolto delle confessioni sacramentali; di guidare con coraggio il gregge, perché non si conformi alla mentalità di questo mondo».

Per questo «è importante che il sacerdote abbia una permanente tensione ascetica, nutrita dalla comunione con Dio, e si dedichi ad un costante aggiornamento nello studio della teologia morale e delle scienze umane». «San Giovanni Maria Vianney – ha concluso Benedetto XVI - sapeva instaurare con i penitenti un vero e proprio ‘dialogo di salvezza’ mostrando la bellezza e la grandezza della bontà del Signore”. E’ compito del sacerdote “favorire quell’esperienza».



- da L'Avvenire -


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(da L'Avvenire - 21 novembre 2010)

Omelie

CRISTO RE

Il Papa ai cardinali: seguire la logica dell'umiltà e del servizio

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!



Nella solennità di Cristo Re dell’universo, abbiamo la gioia di radunarci intorno all’Altare del Signore insieme con i 24 nuovi Cardinali, che ieri ho aggregato al Collegio Cardinalizio. Ad essi, innanzitutto, rivolgo il mio cordiale saluto, che estendo agli altri Porporati e a tutti i Presuli presenti; come pure alle distinte Autorità, ai Signori Ambasciatori, ai sacerdoti, ai religiosi e a tutti i fedeli, venuti da varie parti del mondo per questa lieta circostanza, che riveste uno spiccato carattere di universalità.

Molti di voi avranno notato che anche il precedente Concistoro Pubblico per la creazione dei Cardinali, tenutosi nel novembre 2007, fu celebrato alla vigilia della solennità di Cristo Re. Sono passati tre anni e, quindi, secondo il ciclo liturgico domenicale, la Parola di Dio ci viene incontro attraverso le medesime Letture bibliche, proprie di questa importante festività. Essa si colloca nell’ultima domenica dell’anno liturgico e ci presenta, al termine dell’itinerario della fede, il volto regale di Cristo, come il Pantocrator nell’abside di un’antica basilica. Questa coincidenza ci invita a meditare profondamente sul ministero del Vescovo di Roma e su quello, ad esso legato, dei Cardinali, alla luce della singolare Regalità di Gesù, nostro Signore.

Il primo servizio del Successore di Pietro è quello della fede. Nel Nuovo Testamento, Pietro diviene “pietra” della Chiesa in quanto portatore del Credo: il “noi” della Chiesa inizia col nome di colui che ha professato per primo la fede in Cristo, inizia con la sua fede; una fede dapprima acerba e ancora “troppo umana”, ma poi, dopo la Pasqua, matura e capace di seguire Cristo fino al dono di sé; matura nel credere che Gesù è veramente il Re; che lo è proprio perché è rimasto sulla Croce, e in quel modo ha dato la vita per i peccatori. Nel Vangelo si vede che tutti chiedono a Gesù di scendere dalla croce.

Lo deridono, ma è anche un modo per discolparsi, come dire: non è colpa nostra se tu sei lì sulla croce; è solo colpa tua, perché se tu fossi veramente il Figlio di Dio, il Re dei Giudei, tu non staresti lì, ma ti salveresti scendendo da quel patibolo infame. Dunque, se rimani lì, vuol dire che tu hai torto e noi abbiamo ragione. Il dramma che si svolge sotto la croce di Gesù è un dramma universale; riguarda tutti gli uomini di fronte a Dio che si rivela per quello che è, cioè Amore. In Gesù crocifisso la divinità è sfigurata, spogliata di ogni gloria visibile, ma è presente e reale. Solo la fede sa riconoscerla: la fede di Maria, che unisce nel suo cuore anche questa ultima tessera del mosaico della vita del suo Figlio; Ella non vede ancora il tutto, ma continua a confidare in Dio, ripetendo ancora una volta con lo stesso abbandono “Ecco la serva del Signore” (Lc 1,38). E poi c’è la fede del buon ladrone: una fede appena abbozzata, ma sufficiente ad assicurargli la salvezza: “Oggi con me sarai nel paradiso”. Decisivo è quel “con me”. Sì, è questo che lo salva. Certo, il buon ladrone è sulla croce come Gesù, ma soprattutto è sulla croce con Gesù. E, a differenza dell’altro malfattore, e di tutti gli altri che li scherniscono, non chiede a Gesù di scendere dalla croce né di farlo scendere. Dice invece: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Lo vede in croce, sfigurato, irriconoscibile, eppure si affida a Lui come ad un re, anzi, come al Re. Il buon ladrone crede a ciò che c’è scritto su quella tavola sopra la testa di Gesù: “Il re dei Giudei”: ci crede, e si affida. Per questo è già, subito, nell’“oggi” di Dio, in paradiso, perché il paradiso è questo: essere con Gesù, essere con Dio.

Ecco allora, cari Fratelli, emergere chiaramente il primo e fondamentale messaggio che la Parola di Dio oggi dice a noi: a me, Successore di Pietro, e a voi, Cardinali. Ci chiama a stare con Gesù, come Maria, e non chiedergli di scendere dalla croce, ma rimanere lì con Lui. E questo, a motivo del nostro ministero, dobbiamo farlo non solo per noi stessi, ma per tutta la Chiesa, per tutto il popolo di Dio. Sappiamo dai Vangeli che la croce fu il punto critico della fede di Simon Pietro e degli altri Apostoli. È chiaro e non poteva essere diversamente: erano uomini e pensavano “secondo gli uomini”; non potevano tollerare l’idea di un Messia crocifisso. La “conversione” di Pietro si realizza pienamente quando rinuncia a voler “salvare” Gesù e accetta di essere salvato da Lui. Rinuncia a voler salvare Gesù dalla croce e accetta di essere salvato dalla sua croce. “Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32), dice il Signore. Il ministero di Pietro consiste tutto nella sua fede, una fede che Gesù riconosce subito, fin dall’inizio, come genuina, come dono del Padre celeste; ma una fede che deve passare attraverso lo scandalo della croce, per diventare autentica, davvero “cristiana”, per diventare “roccia” su cui Gesù possa costruire la sua Chiesa. La partecipazione alla signoria di Cristo si verifica in concreto solo nella condivisione con il suo abbassamento, con la Croce. Anche il mio ministero, cari Fratelli, e di conseguenza anche il vostro, consiste tutto nella fede. Gesù può costruire su di noi la sua Chiesa tanto quanto trova in noi di quella fede vera, pasquale, quella fede che non vuole far scendere Gesù dalla Croce, ma si affida a Lui sulla Croce. In questo senso il luogo autentico del Vicario di Cristo è la Croce, persistere nell’obbedienza della Croce.

È difficile questo ministero, perché non si allinea al modo di pensare degli uomini – a quella logica naturale che peraltro rimane sempre attiva anche in noi stessi. Ma questo è e rimane sempre il nostro primo servizio, il servizio della fede, che trasforma tutta la vita: credere che Gesù è Dio, che è il Re proprio perché è arrivato fino a quel punto, perché ci ha amati fino all’estremo. E questa regalità paradossale, dobbiamo testimoniarla e annunciarla come ha fatto Lui, il Re, cioè seguendo la sua stessa via e sforzandoci di adottare la sua stessa logica, la logica dell’umiltà e del servizio, del chicco di grano che muore per portare frutto. Il Papa e i Cardinali sono chiamati ad essere profondamente uniti prima di tutto in questo: tutti insieme, sotto la guida del Successore di Pietro, devono rimanere nella signoria di Cristo, pensando e operando secondo la logica della Croce – e ciò non è mai facile né scontato. In questo dobbiamo essere compatti, e lo siamo perché non ci unisce un’idea, una strategia, ma ci uniscono l’amore di Cristo e il suo Santo Spirito. L’efficacia del nostro servizio alla Chiesa, la Sposa di Cristo, dipende essenzialmente da questo, dalla nostra fedeltà alla regalità divina dell’Amore crocifisso. Per questo, sull’anello che oggi vi consegno, sigillo del vostro patto nuziale con la Chiesa, è raffigurata l’immagine della Crocifissione. E per lo stesso motivo il colore del vostro abito allude al sangue, simbolo della vita e dell’amore. Il Sangue di Cristo che, secondo un’antica iconografia, Maria raccoglie dal costato trafitto del Figlio morto sulla croce; e che l’apostolo Giovanni contempla mentre sgorga insieme con l’acqua, secondo le Scritture profetiche.

Cari Fratelli, da qui deriva la nostra sapienza: sapientia Crucis. Su questo ha riflettuto a fondo san Paolo, il primo a tracciare un organico pensiero cristiano, centrato proprio sul paradosso della Croce (cfr 1Cor 1,18-25; 2,1-8). Nella Lettera ai Colossesi - di cui la Liturgia odierna propone l’inno cristologico - la riflessione paolina, fecondata dalla grazia dello Spirito, raggiunge già un livello impressionante di sintesi nell’esprimere un’autentica concezione cristiana di Dio e del mondo, della salvezza personale e universale; e tutto è incentrato su Cristo, Signore dei cuori, della storia e del cosmo: È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (Col 1,19-20). Questo, cari Fratelli, siamo sempre chiamati ad annunciare al mondo: Cristo “immagine del Dio invisibile”, Cristo “primogenito di tutta la creazione” e “di quelli che risorgono dai morti”, perché – come scrive l’Apostolo – “sia lui ad avere il primato su tutte le cose” (Col 1,15.18). Il primato di Pietro e dei suoi Successori è totalmente al servizio di questo primato di Gesù Cristo, unico Signore; al servizio del suo Regno, cioè della sua Signoria d’amore, affinché essa venga e si diffonda, rinnovi gli uomini e le cose, trasformi la terra e faccia germogliare in essa la pace e la giustizia.

All’interno di questo disegno, che trascende la storia e, al tempo stesso, si rivela e si realizza in essa, trova posto la Chiesa, “corpo” di cui Cristo è “il capo” (cfr Col 1,18). Nella Lettera agli Efesini, san Paolo parla esplicitamente della signoria di Cristo e la mette in rapporto con la Chiesa. Egli formula una preghiera di lode alla “grandezza della potenza di Dio”, che ha risuscitato Cristo e lo ha costituito Signore universale, e conclude: “Tutto infatti egli [Dio] ha messo sotto i suoi piedi / e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: / essa è il corpo di lui, / la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose” (Ef 1,22-23). La stessa parola “pienezza”, che spetta a Cristo, Paolo la attribuisce qui alla Chiesa, per partecipazione: il corpo, infatti, partecipa della pienezza del Capo.

Ecco, venerati Fratelli Cardinali – e mi rivolgo anche a tutti voi, che con noi condividete la grazia di essere cristiani – ecco qual è la nostra gioia: quella di partecipare, nella Chiesa, alla pienezza di Cristo attraverso l’obbedienza della Croce, di “partecipare alla sorte dei santi nella luce”, di essere stati “trasferiti” nel regno del Figlio di Dio (cfr Col 1,12-13). Per questo noi viviamo in perenne rendimento di grazie, e anche attraverso le prove non vengono meno la gioia e la pace che Cristo ci ha lasciato, quale caparra del suo Regno, che è già in mezzo a noi, che attendiamo con fede e speranza, e pregustiamo nella carità. Amen.








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OMELIE


27 novembre 2010
VEGLIA PER LA VITA NASCENTE

Dall'Incarnazione un nuovo sguardo sull'uomo


Cari fratelli e sorelle,

con questa celebrazione vespertina, il Signore ci dona la grazia e la gioia di aprire il nuovo Anno Liturgico iniziando dalla sua prima tappa: l’Avvento, il periodo che fa memoria della venuta di Dio fra noi. Ogni inizio porta con sé una grazia particolare, perché benedetto dal Signore. In questo Avvento ci sarà dato, ancora una volta, di fare esperienza della vicinanza di Colui che ha creato il mondo, che orienta la storia e che si è preso cura di noi giungendo fino al culmine della sua condiscendenza con il farsi uomo. Proprio il mistero grande e affascinante del Dio con noi, anzi del Dio che si fa uno di noi, è quanto celebreremo nelle prossime settimane camminando verso il santo Natale. Durante il tempo di Avvento sentiremo la Chiesa che ci prende per mano e, ad immagine di Maria Santissima, esprime la sua maternità facendoci sperimentare l’attesa gioiosa della venuta del Signore, che tutti ci abbraccia nel suo amore che salva e consola. Mentre i nostri cuori si protendono verso la celebrazione annuale della nascita di Cristo, la liturgia della Chiesa orienta il nostro sguardo alla meta definitiva: l’incontro con il Signore che verrà nello splendore della gloria. Per questo noi che, in ogni Eucaristia, “annunciamo la sua morte, proclamiamo la sua risurrezione nell’attesa della sua venuta”, vigiliamo in preghiera. La liturgia non si stanca di incoraggiarci e di sostenerci, ponendo sulle nostre labbra, nei giorni di Avvento, il grido con il quale si chiude l’intera Sacra Scrittura, nell’ultima pagina dell’Apocalisse di san Giovanni: “Vieni, Signore Gesù!” (22,20).

Cari fratelli e sorelle, il nostro radunarci questa sera per iniziare il cammino di Avvento si arricchisce di un altro importante motivo: con tutta la Chiesa, vogliamo celebrare solennemente una veglia di preghiera per la vita nascente. Desidero esprimere il mio ringraziamento a tutti coloro che hanno aderito a questo invito e a quanti si dedicano in modo specifico ad accogliere e custodire la vita umana nelle diverse situazioni di fragilità, in particolare ai suoi inizi e nei suoi primi passi. Proprio l’inizio dell’Anno Liturgico ci fa vivere nuovamente l’attesa di Dio che si fa carne nel grembo della Vergine Maria, di Dio che si fa piccolo, diventa bambino; ci parla della venuta di un Dio vicino, che ha voluto ripercorrere la vita dell’uomo, fin dagli inizi, e questo per salvarla totalmente, in pienezza. E così il mistero dell’Incarnazione del Signore e l’inizio della vita umana sono intimamente e armonicamente connessi tra loro entro l’unico disegno salvifico di Dio, Signore della vita di tutti e di ciascuno. L’Incarnazione ci rivela con intensa luce e in modo sorprendente che ogni vita umana ha una dignità altissima, incomparabile.

L’uomo presenta un’originalità inconfondibile rispetto a tutti gli altri esseri viventi che popolano la terra. Si presenta come soggetto unico e singolare, dotato di intelligenza e volontà libera, oltre che composto di realtà materiale. Vive simultaneamente e inscindibilmente nella dimensione spirituale e nella dimensione corporea. Lo suggerisce anche il testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi che è stato proclamato: “Il Dio della pace – scrive san Paolo – vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (5,23). Siamo dunque spirito, anima e corpo. Siamo parte di questo mondo, legati alle possibilità e ai limiti della condizione materiale; nello stesso tempo siamo aperti su un orizzonte infinito, capaci di dialogare con Dio e di accoglierlo in noi. Operiamo nelle realtà terrene e attraverso di esse possiamo percepire la presenza di Dio e tendere a Lui, verità, bontà e bellezza assoluta. Assaporiamo frammenti di vita e di felicità e aneliamo alla pienezza totale.

Dio ci ama in modo profondo, totale, senza distinzioni; ci chiama all’amicizia con Lui; ci rende partecipi di una realtà al di sopra di ogni immaginazione e di ogni pensiero e parola: la sua stessa vita divina. Con commozione e gratitudine prendiamo coscienza del valore, della dignità incomparabile di ogni persona umana e della grande responsabilità che abbiamo verso tutti. “Cristo, che è il nuovo Adamo – afferma il Concilio Vaticano II – proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione ... Con la sua incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Cost. Gaudium et spes, 22).

Credere in Gesù Cristo comporta anche avere uno sguardo nuovo sull’uomo, uno sguardo di fiducia, di speranza. Del resto l’esperienza stessa e la retta ragione attestano che l’essere umano è un soggetto capace di intendere e di volere, autocosciente e libero, irripetibile e insostituibile, vertice di tutte le realtà terrene, che esige di essere riconosciuto come valore in se stesso e merita di essere accolto sempre con rispetto e amore. Egli ha il diritto di non essere trattato come un oggetto da possedere o come una cosa che si può manipolare a piacimento, di non essere ridotto a puro strumento a vantaggio di altri e dei loro interessi. La persona è un bene in se stessa e occorre cercare sempre il suo sviluppo integrale. L’amore verso tutti, poi, se è sincero, tende spontaneamente a diventare attenzione preferenziale per i più deboli e i più poveri. Su questa linea si colloca la sollecitudine della Chiesa per la vita nascente, la più fragile, la più minacciata dall’egoismo degli adulti e dall’oscuramento delle coscienze. La Chiesa continuamente ribadisce quanto ha dichiarato il Concilio Vaticano II contro l’aborto e ogni violazione della vita nascente: “La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura” (ibid., n. 51).

Ci sono tendenze culturali che cercano di anestetizzare le coscienze con motivazioni pretestuose. Riguardo all’embrione nel grembo materno, la scienza stessa ne mette in evidenza l’autonomia capace d’interazione con la madre, il coordinamento dei processi biologici, la continuità dello sviluppo, la crescente complessità dell’organismo. Non si tratta di un cumulo di materiale biologico, ma di un nuovo essere vivente, dinamico e meravigliosamente ordinato, un nuovo individuo della specie umana. Così è stato Gesù nel grembo di Maria; così è stato per ognuno di noi, nel grembo della madre. Con l’antico autore cristiano Tertulliano possiamo affermare: “E’ già un uomo colui che lo sarà” (Apologetico, IX, 8); non c’è alcuna ragione per non considerarlo persona fin dal concepimento.

Purtroppo, anche dopo la nascita, la vita dei bambini continua ad essere esposta all’abbandono, alla fame, alla miseria, alla malattia, agli abusi, alla violenza, allo sfruttamento. Le molteplici violazioni dei loro diritti che si commettono nel mondo feriscono dolorosamente la coscienza di ogni uomo di buona volontà. Davanti al triste panorama delle ingiustizie commesse contro la vita dell’uomo, prima e dopo la nascita, faccio mio l’appassionato appello del Papa Giovanni Paolo II alla responsabilità di tutti e di ciascuno: “Rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicità” (Enc. Evangelium vitae, 5). Esorto i protagonisti della politica, dell’economia e della comunicazione sociale a fare quanto è nelle loro possibilità, per promuovere una cultura sempre rispettosa della vita umana, per procurare condizioni favorevoli e reti di sostegno all’accoglienza e allo sviluppo di essa.

Alla Vergine Maria, che ha accolto il Figlio di Dio fatto uomo con la sua fede, con il suo grembo materno, con la cura premurosa, con l’accompagnamento solidale e vibrante di amore, affidiamo la preghiera e l’impegno a favore della vita nascente. Lo facciamo nella liturgia - che è il luogo dove viviamo la verità e dove la verità vive con noi - adorando la divina Eucaristia, in cui contempliamo il Corpo di Cristo, quel Corpo che prese carne da Maria per opera dello Spirito Santo, e da lei nacque a Betlemme, per la nostra salvezza. Ave, verum Corpus, natum de Maria Virgine!

LA PREGHIERA
Signore Gesù,
che fedelmente visiti e colmi con la tua Presenza
la Chiesa e la storia degli uomini;
che nel mirabile Sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue
ci rendi partecipi della Vita divina e ci fai pregustare la gioia della Vita eterna;
noi ti adoriamo e ti benediciamo.

Prostrati dinanzi a Te, sorgente e amante della vita
realmente presente e vivo in mezzo a noi, ti supplichiamo.

Ridesta in noi il rispetto per ogni vita umana nascente,
rendici capaci di scorgere nel frutto del grembo materno la mirabile opera del Creatore,
disponi i nostri cuori alla generosa accoglienza di ogni bambino che si affaccia alla vita.

Benedici le famiglie,
santifica l’unione degli sposi,
rendi fecondo il loro amore.

Accompagna con la luce del tuo Spirito le scelte delle assemblee legislative,
perché i popoli e le nazioni riconoscano
e rispettino la sacralità della vita, di ogni vita umana.

Guida l’opera degli scienziati e dei medici,
perché il progresso contribuisca al bene integrale della persona
e nessuno patisca soppressione e ingiustizia.

Dona carità creativa agli amministratori e agli economisti,
perché sappiano intuire e promuovere condizioni sufficienti
affinché le giovani famiglie possano serenamente aprirsi alla nascita di nuovi figli.

Consola le coppie di sposi che soffrono
a causa dell’impossibilità ad avere figli,
e nella tua bontà provvedi.

Educa tutti a prendersi cura dei bambini orfani o abbandonati,
perché possano sperimentare il calore della tua Carità,
la consolazione del tuo Cuore divino.

Con Maria tua Madre,
la grande credente, nel cui grembo hai assunto la nostra natura umana,
attendiamo da Te, unico nostro vero Bene e Salvatore,
la forza di amare e servire la vita,
in attesa di vivere sempre in Te, nella Comunione della Trinità Beata.
Amen.







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21/12/2010 18:05


PIETRO E IL MONDO

Il Papa alla Curia romana:
solo la verità salva



Un nuovo, accorato appello per fermare «la cristianofobia» montante soprattutto in Medio Oriente. La «preoccupazione» per la sensazione che «il consenso morale si stia dissolvendo», tanto che «le forze» impegnate nella difesa dei valori sembrano «destinate all’insuccesso». E lo «sconvolgimento» per gli abusi sui minori commessi da appartenenti al clero, che se «hanno coperto la Chiesa di polvere», hanno anche sprigionato «un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento», col sostegno di una fede che «non è una cosa passata», perché «la potenza e la bontà di Dio sono presenti in maniera molteplice anche oggi». È il 2010 che Benedetto XVI, nella "classica" udienza prenatalizia riservata alla Curia romana e al Governatorato per lo scambio d’auguri, ha ripercorso secondo una consuetudine consolidata, passo per passo, i dodici mesi trascorsi. Non tralasciando – e verrebbe anzi da dire quasi sottolineando – le difficoltà con cui la Chiesa ha dovuto e deve misurarsi, e incoraggiando a ripartire da quelle fede le cui radici restano forti, come, ha affermato papa Ratzinger, egli stesso ha una volta di più potuto constatare nel corso dei viaggi compiuti sia in Italia che all’estero (Malta, Portogallo, Gran Bretagna e Spagna).

Difesa dei cristiani. Per la prima volta, nelle parole del Pontefice, s’è affacciato il sostantivo «cristianofobia», per fermare la quale Benedetto XVI ha fatto appello a «tutte le persone con responsabilità politica e religiosa». I leader, ha detto ricordando la situazione del Medio Oriente (dove «nella situazione attuale, i cristiani sono la minoranza più oppressa e tormentata») «si alzino a difendere i profughi e i sofferenti e a rivitalizzare lo spirito di riconciliazione».

Perdita dei valori. Viviamo in un mondo, ha osservato, che pur «con tutte le sue nuove speranze e possibilità», è «al tempo stesso angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano; di conseguenza, le forze mobilitate per la difesa di tali strutture sembrano essere destinate all’insuccesso». Occorre pregare Cristo «di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti, cioè di dare l’ordine giusto alle cose del mondo».

Le colpe dei sacerdoti. Durissime, ancora una volta, le parole di condanna per lo scandalo della pedofilia: «Siamo stati sconvolti – ha detto – quando, proprio in quest’anno e in una dimensione per noi inimmaginabile, siamo venuti a conoscenza di abusi contro i minori commessi da sacerdoti, che stravolgono il Sacramento nel suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita». Per colpa di tali indegni sacerdoti «il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato, per la colpa dei sacerdoti». Per questo, allora, «dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta».

I mali del mondo. Se grave, gravissimo, è il peccato commesso dai sacerdoti, tuttavia, per il Papa, neppure è possibile tacere «circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere questi avvenimenti. Esiste un mercato della pornografia concernente i bambini, che in qualche modo sembra essere considerato sempre più dalla società come una cosa normale», e dai vescovi di Paesi del Terzo Mondo «sento sempre di nuovo come il turismo sessuale minacci un’intera generazione e la danneggi nella sua libertà e nella sua dignità umana». E, ancora, «il problema della droga, che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all’intero globo terrestre, espressione eloquente della dittatura di mammona che perverte l’uomo».

Il primato della coscienza. Parlando della beatificazione di John Henry Newman, papa Ratzinger, rifacendosi al pensiero del cardinale inglese, ha sottolineato che «coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto».

Il saluto di Sodano. È stato il cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, a salutare il Papa a nome di tutti i presenti, e ad annunciare l’esito della colletta fatta tra tutti i porporati – 200mila dollari – che saranno consegnati ai vescovi di Haiti e dell’Iraq prima di Natale, destinati ai poveri e ai malati.


Salvatore Mazza - L'Avvenire



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25 gennaio 2011

GIORNATA MISSIONARIA

II Papa: «Annunciare il Vangelo con lo slancio dei primi cristiani»

“In occasione del Giubileo del 2000, il Venerabile Giovanni Paolo II, all’inizio di un nuovo millennio dell’era cristiana, ha ribadito con forza la necessità di rinnovare l’impegno di portare a tutti l’annuncio del Vangelo «con lo stesso slancio dei cristiani della prima ora» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 58). È il servizio più prezioso che la Chiesa può rendere all’umanità e ad ogni singola persona alla ricerca delle ragioni profonde per vivere in pienezza la propria esistenza”: apre con queste parole il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Missionaria Mondiale 2011, che verrà celebrata il 23 ottobre, col titolo “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”.

Il Papa attribuisce all’impegno missionario un particolare valore. Scrive infatti che “l’incessante annuncio del Vangelo (..) vivifica anche la Chiesa, il suo fervore, il suo spirito apostolico, rinnova i suoi metodi pastorali perché siano sempre più appropriati alle nuove situazioni - anche quelle che richiedono una nuova evangelizzazione”. Indica poi che “destinatari dell’annuncio del Vangelo sono tutti i popoli” e che “questa è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare”.

L’importanza e l’urgenza della missione costituiscono per Benedetto XVI un punto centrale del mandato che la Chiesa ha ricevuto. “La missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, - scrive il Papa - è ancora ben lontana dal suo compimento … Uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio» (GIOVANNI PAOLO II, Enc. Redemptoris missio, 1). Non possiamo rimanere tranquilli al pensiero che, dopo duemila anni, ci sono ancora popoli che non conoscono Cristo e non hanno ancora ascoltato il suo Messaggio di salvezza”. Benedetto XVI sottolinea poi che “si allarga la schiera di coloro che, pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo, lo hanno dimenticato e abbandonato, non si riconoscono più nella Chiesa; e molti ambienti, anche in società tradizionalmente cristiane, sono oggi refrattari ad aprirsi alla parola della fede”. “È in atto un cambiamento culturale, alimentato anche dalla globalizzazione, da movimenti di pensiero e dall’imperante relativismo, - prosegue - un cambiamento che porta ad una mentalità e ad uno stile di vita che prescindono dal Messaggio evangelico, come se Dio non esistesse, e che esaltano la ricerca del benessere, del guadagno facile, della carriera e del successo come scopo della vita, anche a scapito dei valori morali”.

Dopo aver ricordato che “l’attenzione e la cooperazione all’opera evangelizzatrice della Chiesa nel mondo non possono essere limitate ad alcuni momenti e occasioni particolari, e non possono neppure essere considerate come una delle tante attività pastorali”, Benedetto XVI sottolinea poi la complessità dell’ “evangelizzazione globale” oggi. “Si tratta – scrive - di sostenere istituzioni necessarie per stabilire e consolidare la Chiesa mediante i catechisti, i seminari, i sacerdoti; e anche di dare il proprio contributo al miglioramento delle condizioni di vita delle persone in Paesi nei quali più gravi sono i fenomeni di povertà, malnutrizione soprattutto infantile, malattie, carenza di servizi sanitari e per l'istruzione. Anche questo rientra nella missione della Chiesa”. Benedetto XVI conclude poi affermando che “attraverso la partecipazione corresponsabile alla missione della Chiesa, il cristiano diventa costruttore della comunione, della pace, della solidarietà che Cristo ci ha donato, e collabora alla realizzazione del piano salvifico di Dio per tutta l’umanità. Le sfide che questa incontra, chiamano i cristiani a camminare insieme agli altri, e la missione è parte integrante di questo cammino con tutti”.


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26 febbraio 2011
ALLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA

Il Papa: l'aborto è sempre un'esperienza distruttiva

L'attuale sfondo culturale" è caratterizzato "dall'eclissi del senso della vita, in cui si è molto attenuata la comune percezione della gravità morale dell'aborto e di altre forme di attentati contro la vita umana". È il richiamo lanciato dal Papa che, ricevendo in udienza l'assemblea della Pontificia Accademia per la Vita, ha chiesto ai medici di mantenere "una speciale fortezza per continuare ad affermare che l'aborto non risolve nulla, ma uccide il bambino, distrugge la donna e acceca la coscienza del padre del bambino, rovinando, spesso, la vita famigliare".

I medici, inoltre, devono "difendere" le donne dall' "inganno" dell'aborto. Benedetto XVI ha sottolineato che l'aborto non è mai una soluzione nè a difficoltà familiari ed economiche, nè a problemi di salute, mentre "la donna viene spesso convinta, a volte dagli stessi medici, che l'aborto rappresenta non solo una scelta moralmente lecita, ma persino un doveroso atto 'terapeutico ".


- L'Avvenire -


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