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LIPIKA - Biglietti dall'India - di Rabindranath Tagore

Ultimo Aggiornamento: 01/11/2009 09:35
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Rabindranath Tagore

 

LIPIKA

 

Biglietti dall'India

 

 

La parola Lipika in Bengali, che è la lingua in cui Rabindranath Tagore scrisse, significa << piccolo scritto >>, << biglietto >>: questo libro è infatti una raccolta di brevi racconti in cui si ritrova tutta la grazia delle poesie di Tagore ma anche il sereno, profondo e, a tratti, ironico stile della sua prosa. Una prosa semplice, libera da ogni retorica, pervasa da un grande senso poetico e che sa esprimere compiutamente la bellezza dei paesaggi naturali e dei caratteri umani, la favolosità dei temi, il realismo dei quadri di vita indiana, la profondità della riflessione filosofica e religiosa.

(dal volumetto "Rabindranath Tagore, LIPIKA, Biglietti dall'India; a cura di Brunilde Neroni - ed. Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2000)





Alla fine del libro, subito dopo i racconti, segue la Postfazione di Brunilde Neroni.




[Modificato da auroraageno 01/11/2009 09:35]

_________Aurora Ageno___________
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Il sentiero



1



Ecco il sentiero che, dopo aver attraversato il bosco e auperato il prato, è giunto sino alla riva del fiume, per interrompersi vicino a quell'albero di Bot (*), Che ombreggia il traghetto in rovina. Al di là del fiume ricomincia tortuoso verso un villaggio, costeggiando campi di lino, passando accanto allo stagno fiorito di loti, incrociando la strada principale, su cui si snoda la processione preceduta dal sacro carro (**), verso chissà quale destinazione sconosciuta.
Molte persone ho incontrato lungo questo sentiero! Alcune mi hanno accompagnato, altre preceduto, altre le ho vedute solo da lontano; alcune le osservavo come da dietro un velo, altre distintamente; alcune erano lì solo per attingere acqua con le brocche.


(*) Bot: pianta della famiglia delle acacie, dal legno molto duro, che ama vivere vicino ai corsi d'acqua.
(**) Un carro serve come altare alla divinità, nella festa sacra detta appunto « del carro ». Questo carro solitamente viene portato di villaggio in villaggio, ricoperto di fiori, ricevendo durante la processione l'omaggio del popolo.



2



Con la sera è calato il buio. Un tempo pensavo che questo sentiero fosse a mia disposizione per sempre, e ora m'accorgo che mi è concesso percorrerlo una sola volta.
Dopo aver attraversato il giardino dei limoni, la riva dello stagno, il traghetto, la piccola isola del fiume, la capanna del venditore di latte, e dopo aver oltrepassato il silos del grano, non posso più tornare indietro non posso illudermi di far ritorno in quella casa dove pensieri, parole e visi mi sono noti.
Il sentiero che percorro mi porta in avanti e ritornare sui propri passi è impossibile: quando oggi alla fine del giorno mi sono voltato per guardare il tratto che avevo percorso, mi è parso segnato da impronte perse nella polvere e dal canto del distacco dei viandanti-musicisti, che da sempre lo percorrono.
Quell'intrico di tracce da oriente a occidente procede verso l'infinito, sia nell'una che nell'altra direzione.



3



Curvo sulla polvere del sentiero per ascoltare le infinite storie lì imprigionate da tempo immemorabile, non sento nulla: il sentiero rimane silenzioso nelle ombre della sera.
E anche se chiedo dove sono mai i tormenti e i desideri dei viandanti che passarono, il sentiero rimane silenzioso: solo lo vedo serpeggiare da oriente a occidente.
E anche se domando dove si diressero i passi degli sconosciuti che lo percorsero, il sentiero resta muto: forse non conosce neppure la sua fine, e non sa dove si sono persi i fiori che caddero, i canti che morirono né dove, al di là delle strade, si celebra perennemente la festa del dolore incessante.







[Modificato da auroraageno 10/01/2008 06:05]

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05/01/2008 20:19


Un giorno di pioggia




Durante il giorno lavoro intensamente e ho sempre intorno un gran numero di persone. Alla sera mi sembra che la mia esperienza si sia esaurita nell'attività e nei colloqui che ho avuto durante il giorno. Non ho mai il tempo per riflettere su cosa sia rimasto dentro di me. Stamane il cielo è ricoperto di nuvole; anche oggi mi attende un intenso lavoro e ci sarà tanta gente intorno a me, eppure sento che così non mi è possibile esprimere compiutamente tutto quello che sento.
L'uomo ha percorso gli oceani, valicato le montagne, si è impadronito di tesori sommersi, ma non è ancora riuscito a manifestare compiutamente agli altri le proprie esperienze interiori.
In questa mattina piovosa la mia interiorità, ancora imprigionata come un animale in gabbia, mi parla dentro.
L'io interiore mi incita a strappare tutta la pioggia dalle nuvole cariche del suo cielo.
E' come scuotere la catena di una porta chiusa, e allora mi chiedo come potrò fare, a chi potrà mai interessare la mia esperienza interiore, chi sarà quell'amico che, al di là della comune cortesia, vorrà ascoltare insieme a me la mia musica, i miei dolori dispersi e la gioia; posso donare solo a chi sa chiedere, a chi ha una voce simile alla mia.
A quale curva della strada incontrerò il mendicante che mi farà richiesta di tutto quello che possiedo?
Questo mio dolore interiore ha il colore ocra della polvere della strada che voglio percorrere, superati tutti i doveri, quella strada su cui risuonano, con i miei, i passi del compagno ancora sconosciuto.






[Modificato da auroraageno 05/01/2008 20:21]

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07/01/2008 20:44


La voce



1



L'acqua che cade dal cielo sotto forma di pioggia si unisce alla terra, ma non si sa da dove provenga. Anche con le donne è così: vengono da un luogo sconosciuto per essere prigioniere su questa terra.
All'interno di questi limiti si consuma tutta la loro esistenza, le loro parole, i loro dolori e le loro inquietudini. Ed è per questo che si celano il volto con un velo, ai polsi hanno bracciali e le loro abitazioni sono ben custodite. Esse sono le regine del limite.
Nel quartiere in cui abito è venuta a vivere una ragazza simile a un sorriso scherzoso, sempre preda dell'irrequietezza: sua madre, quando s'arrabbia, la chiama «birbante», suo padre scherzosamente le ha dato il nomignolo di «pazzerella».
Lei è come l'acqua rapida di un ruscello: salta e si prende gioco di ogni dovere. La sua vitalità la fa simile alla foglia sulla cima di un albero di bambù: trema incessantemente al minimo soffio di vento.


2



Oggi ho visto quella fanciulla indomabile appoggiata alla ringhiera della veranda, immobile, silenziosa, ferma come l'arcobaleno dopo la tempesta. Proprio come un uccello bagnato dalla pioggia, che si riposi su un ramo di tamàl.(*)
Non l'ho veduta mai così serena. Come un fiume che raffreni improvvisamente il suo corso e si trasformi in lago.


(*)tamàl: palissandro, molto ricco di fogliame e prodigo d'ombra.


3



Alcuni giorni fa il sole ardeva forte, l'orizzonte era luminoso, e le foglie degli alberi ingiallivano, ormai rinsecchite e spente.
All'improvviso il cielo si coprì di nuvole nere, che si agitavano come la testa arruffata di un pazzo. Un fulmine scattò nel cielo del tramonto, come una spada sguainata.
A mezzanotte sentii cigolare e sbattere le porte a causa del vento. L'uragano aveva afferrato per i capelli la città che dormiva, scuotendola.
Mi alzai e guardai fuori.
Sotto la pioggia battente la luce della strada sembrava l'occhio torbido di un ubriaco.
Dalla chiesa, attenuato dallo scroscio della pioggia, si udì il battere dell'orologio.
Al mattino pioveva ancora a dirotto. Il sole non accennava a mostrarsi.


4



Durante il temporale la fanciulla era sempre rimasta avvinghiata alla ringhiera della veranda, in silenzio.
Era venuta sua sorella per dirle che la mamma la chiamava. Lei aveva solo scrollato la testa, facendo così muovere violentemente le trecce.
Era venuto anche suo fratello con una barca di carta e aveva cercato di tirarla per una mano; lei si era liberata e quando il fratello aveva continuato a tirarla per gioco, lei gli aveva dato uno schiaffo.


5



Continuava a piovere, anche dopo che era scesa la sera. La ragazza era sempre lì, immobile. All'inizio del mondo il primo linguaggio della creazione fu quello dell'acqua e del vento.
Dopo milioni e milioni di anni quella stessa lingua richiamava con la musica della pioggia la fanciulla che, superando ogni limite, si era persa in una dimensione infinita.
Il tempo è interminabile, il mondo è vasto, sulla terra per secoli e secoli si è consumato il dramma della vita.
Attraverso l'ombra delle nuvole e la musica della pioggia, l'Essere Supremo, il Sempre-lontano, oggi contemplava il volto di quella fanciulla impetuosa.
E così lei rimaneva immobile, come un'immagine ultraterrena, con i suoi grandi occhi sbarrati.






[Modificato da auroraageno 07/01/2008 20:47]

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10/01/2008 06:12



Il messaggio della nuvola




1



Che cosa aveva detto il flauto nel primo giorno di matrimonio?
Aveva detto: << Quella che era lontana, ora è al mio fianco >>. E poi: << Sono riuscito a trattenere colei che sfugge anche quando la si possiede; ho trovato colei che, anche se conquistata, non si è mai certi di possedere >>.
Perché da allora il flauto non suona più ogni giorno? Forse perché ho perduto una parte della visione? Un tempo pensavo che mi fosse solo vicina e non mi rendevo conto che era anche lontana.
Ho visto solo una metà dell'amore, l'unione con un'altra persona; ma non mi sono accorto dell'altra, la separazione: per questo non conosco la terribile esperienza del totale distacco, il volo della vicinanza la nasconde.
Nel grande spazio che divide due anime tutto è silenzio, le parole non trovano posto.
Questo profondo vuoto si può colmare soltanto con la musica del flauto, che risuona solo nello spazio infinito.
Quello spazio tra noi è pieno di buio, popolato dalla stoltezza, dall'inquietudine e dalla viltà della vita quotidiana.


2



A volte, quando soffia il vento nelle notti di luna, mi sveglio e mi siedo sul letto; il cuore pulsa dolorosamente ricordando che ho perduto colei che era al mio fianco.
Come potrà colmarsi questo distacco tra la mia e la sua esistenza infinita?
Chi è colei con cui parlo ancora, la sera, quando ritorno dal mio lavoro? E' solo una tra le infinite anime nel mondo, l'ho conosciuta, e... non c'è altro? Ma dov'è mai quella vita che mi apparteneva, che era solo mia?
In quale oceano di passione potrò nuovamente trovarla? In quale attimo di ozio, in quale tramonto fermo e profumato di gelsomini potrò parlare ancora una volta con lei?


3



Quando sono apparse a oriente le prime nuvole della stagione del monsone, stendendo un manto d'ombra, mi ricordai del poeta di Uggiaini(*) e provai il desiderio di inviare un messaggio al mio amore. Potesse il mio messaggio volare, superando la distanza e il legame della vita in comune.
Per far questo dovrebbe retrocedere fino al primo giorno della nostra unione, quando il flauto aveva suonato la sua dolorosa melodia, dovrebbe mescolarsi al pianto, al profumo di tutte le stagioni di pioggia e delle primavere passate, dovrebbe conoscere i sospiri del bosco di ketaki (**) e l'offerta dei boccioli di sàl(***).
Questo messaggio sulla stagione delle piogge - che parla anche nel mormorio degli alberi di cocco sulla riva dello stagno solitario - possa la mia canzone portarlo fino alle orecchie della mia amata, dai lunghi capelli raccolti, sempre affaccendata nel suo lavoro domestico, con il lembo della veste fermato alla cintura.





(*)Il poeta di Uggiaini è Kalidasa, il grande autore di "çakuntalà".
(**)Ketaki: mandorlo d'India, dalla meravigliosa fioritura bianco-rosata.
(***)Sàl: pianta che può raggiungere grandi dimensioni e che solitamente è usata per rimboschimenti. I suoi fiori hanno boccioli di colore rosso scuro.




4



Il cielo infinito e lontano si china sulla distesa verdeggiante della terra e le sussurra piano: << Io sono tuo >>.
La terra risponde: << Com'è possibile? Tu sei infinito e io sono così piccola al tuo cospetto >>.
<< Ma io ho voluto imporre dei limiti a me stesso valendomi delle nuvole >>.
<< Quante luci brillano sulla tua tavola, mentre io sono priva di luce. >>
<< Oggi ho voluto perdere la luna, il sole, le stelle, oggi tu soltanto esisti per me. >>
<< Il mio cuore è colmo di lacrime e trema a ogni soffio di vento, tu invece sei immobile. >>
<< Oggi posso piangere anch'io: non lo vedi? Divento grigio e convulsamente spargo lacrime, come il tuo tenero cuore. >>
Così dicendo, il cielo colmò la sua eterna distanza dalla terra con il canto della pioggia.



5



Possa, il monsone che è ormai giunto, discendere sulla nostra separazione come la melodia tra il cielo e la terra. Possa ogni cosa sconosciuta nell'esistenza della mia amata vibrare come una corda di arpa. Possa lei appoggiare sui capelli l'orlo del suo abito azzurro come il lembo di una foresta lontana e i deboli suoni della stagione delle piogge possano risuonare nei suoi occhi scuri.
Fortunata la ghirlanda di bakul(*), annodata alle sue trecce!
Quando la notte parla con la voce della cicala nel boschetto di bambù, quando la fiamma della lampada ondeggia e poi si spegne nella tempesta, possa lei abbandonare la sua dimensione e venire nella profonda notte del mio cuore solitario, lungo il sentiero della foresta profumata dall'erba umida.




(*)Bakul: cespuglio simile all'alloro, è usato per ghirlande e le sue foglie sono particolarmente aromatiche.





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10/01/2008 06:17



Il tramonto e l'alba




In questo luogo è ormai sceso il tramonto. O sole, in quale paese, su quale spiaggia stai ora sorgendo?
Qui nella sera trema il fiore di rayanigandha(*), come una fanciulla velata dinanzi alla porta della camera nuziale.
Dove si sta aprendo ora lo champaka(**), il giallo fiore del mattino? Chi si sta destando? Chi ha spento la lampada accesa al tramonto, gettando la ghirlanda di fiori di sheuti(***) intrecciata nella notte.
Qui a una a una le porte si chiudono, là si aprono le finestre. Le barche qui sono già state ancorate alla spiaggia e i marinai ormai dormono, là il vento gonfia le vele. Usciti dalle loro case quei marinai hanno già ultimato i preparativi per il viaggio e ora camminano verso occidente, con il sole del mattino in fronte: dalle finestre che si affacciano sulla strada li fissano sguardi accesi di desiderio.
La strada che si apre dinanzi a loro sembra dire che tutto è pronto: la speranza di successo pulsa in loro come il ritmo del sangue. Qui invece, nel tramonto ormai grigio, tutti stanno scendendo dall'ultimo traghetto del giorno.
Il letto nel cortile della casa è pronto: qualcuno è solo, altri sono stanchi. La strada si perde nella notte, parlano sommessamente del lavoro svolto nel giorno; quando il colloquio si interrompe restano in silenzio e poi guardano in alto, sopra il cortile, verso la costellazione dell'Orsa che è già sorta nel cielo.
O sole, alla tua sinistra è il tramonto, alla tua destra l'alba, fa' che essi s'incontrino e che l'ombra dell'uno riceva la luce dell'altra! E che la canzone della sera possa benedire quella del mattino.




(*)Il fiore di rayanigandha, bianco e somigliante alla mimosa è della famiglia delle Miristicacee.
(**)L'albero di champaka è una magnolia particolarmente diffusa in India, dai grandi fiori giallastri molto profumati.
(***)Fiori di sheuti, dell'albero della Dalbergia, di cui ci sono in India grandi estensioni boschive, che servono per ricavare legno pregiato.







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12/01/2008 06:01



La vecchia casa



1



La casa di cui parlo appartiene a persone che un tempo erano ricche e sono poi cadute in rovina. Ogni giorno la sua miseria si accresce di nuovi particolari. L'intonaco si stacca dalle pareti, i passeri saltellano sul vecchio pavimento e sbattono le ali nella polvere; le colombe si raggruppano nella cappella come nembi di nuvole in un cielo temporalesco.
Nessuno ha fatto caso al battente della porta verso nord, che si è spezzato precipitando; nessuno si cura dell'altra imposta che, come una vedova colpita dal dolore, è continuamente percorsa dal vento.
E' una casa con tre cortili, ma solo cinque stanze sono abitate, mentre le altre restano chiuse.
E' simile a un vecchio per il quale il ricordo del passato rappresenta ormai tutta la vita, e il momento presente non conta.
Con l'intonaco scrostato che mette a nudo i mattoni, la casa sta vicino alla strada come un pazzo che, immobile e coperto di stracci, non si cura né di se stesso né degli altri.


2



Una mattina presto udii un pianto di donna provenire da quella casa. Seppi poi che l'ultimo figlio di quella famiglia, un ragazzo che viveva facendo l'attore in una compagnia di dilettanti, era morto all'età di diciotto anni.
Le donne piansero per qualche giorno, poi la famiglia scomparve.
Da allora tutte le stanze rimasero chiuse, solo quell'unica imposta verso nord non fu chiusa né si ruppe: percossa dal vento batteva sempre come un cuore impaurito.


3



Poi un giorno, di pomeriggio, udii delle grida di bambini nella casa. Osservando di sfuggita nella veranda vidi che una veste femminile dal bordo rosso pendeva ad asciugare.
Dopo tanto tempo degli inquilini sono venuti dunque ad abitare almeno una parte della casa, ma sembra che sia una famiglia povera con molti figli. La moglie indolente s'annoia e bastona i piccoli, che piangono rotolandosi sul pavimento. Una serva di mezza età lavora sempre e litiga con la padrona minacciando di abbandonarla, ma poi rimane.


4



Su questo lato della casa vengono fatte piccole riparazioni ogni giorno.
Le fessure dei vetri sono state chiuse con la carta e hanno messo dei sostegni di bambù dove la ringhiera della veranda si era spezzata. La finestra cadente della camera da letto è stata rinforzata con dei mattoni e hanno imbiancato le pareti, senza riuscire tuttavia a far scomparire del tutto le macchie.
In un vaso sulla terrazza c'è una pianta malaticcia di croton, che sembri si vergogni d'essere nata e vicino a lei s'innalza un arbusto di aswatha (*), spuntato dal pavimento rosso, che sembra irridere la pianticella.
Grande è ora la povertà, come grande fu un tempo la ricchezza. I piccoli espedienti di una mano femminile cercano di coprire la decadenza, che si rivela comunque.
Nessuno però si è mai curato di quella stanza abbandonata nell'ala nord della casa. Flagellata dal vento la sua unica imposta si muove come un infelice che si percuota il petto per il dolore.





(*)L'arbusto di aswatha è il fico indico, che cresce spontaneamente ovunque, dando frutti dolcissimi.







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14/01/2008 03:07



Il vicolo



Ecco il nostro vicolo di ciottoli che si snoda tortuoso ora a destra ora a sinistra, come se fosse alla ricerca di una cosa ignota, ovunque inciampando.
Case a destra, a sinistra, di fronte.
In alto, a perdita d'occhio, egli scorge una striscia di cielo stretta e contorta, così simile a lui, e gli chiede: « Dimmi, piccolo, di quale città celeste tu sei la strada? ».
A mezzogiorno appare il sole, solo per un poco, ed egli tra sé riconosce che ignora ogni cosa.
L'ombra delle nuvole cariche di pioggia si infittisce sulle due file di case. La luce scompare dal vicolo, come la riga scritta di un libro cancellata con un tratto di penna.
L'acqua rotola sui ciottoli del selciato, come se il monsone suonasse il tamburo per far danzare i serpenti.
Il vicolo diventa sdrucciolevole, gli ombrelli dei passanti si urtano, e su di loro si abbatte l'acqua che precipita dalle grondaie, e rimbalza e li schizza.
Confuso il vicolo dice: « Poco fa era sereno, tutto procedeva senza fastidi, perché ora tanti disagi, senza nessuna ragione? ».
Il vento primaverile soffia fastidioso sollevando turbinosamente polvere e cartacce.
Smarrito il vicolo dice: « Un qualche dio è forse impazzito? ».
Stracci, ceneri, bucce, topi morti e altre immondizie che si ammucchiano di giorno in giorno ai suoi lati sono una realtà abituale per lui, e così non si chiede: « Cosa ci fanno qui tutti questi rifiuti? ».
Quando il sole d'autunno tramonta e oltre la terrazza risuonano nell'aria le note della musica sacra, il vicolo per un istante è colto da un dubbio: « Forse esiste qualcosa di più vasto al di là di questo vicolo? ».
Il giorno sale, la luce cala giù dai tetti delle case come il lembo del sari della donna al lavoro; l'orologio suona le nove; con il paniere appoggiato su un fianco una serva torna dal mercato, gli impiegati si affrettano e il vicolo è invaso dal fumo e dall'odore delle cucine. E allora si dice nuovamente: « Tutta la verità è contenuta in questa striscia di selciato, e ogni altra cosa non è che un sogno ».







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14/01/2008 03:09



Uno sguardo




Quando salì sul treno si voltò per un istante, lanciandomi un ultimo sguardo.
Dove potrò mai trovare nell'intero mondo un luogo segreto, al di fuori del tempo che calpesta ogni cosa, in cui custodire questo piccolo tesoro?
Svanirà quello sguardo così come svaniscono, nel tramonto, i colori dorati delle nuvole?
Forse sarà bagnato dalla pioggia come il polline d'oro di un fiore di nàg-asari(*)?
Come potrà durare tra le volgarità della vita, nell'intrico di infinite vicende e dolori?
Superando ogni altro, il suo dono fugace mi ha raggiunto, e io lo conserverò intrecciandolo in un canto e fermandolo nelle parole: sarà custodito così in un sicuro scrigno di bellezza.
Sulla terra la potenza dei re e lo sfarzo dei ricchi esistono solo per perire. Ma a volte non si manifesta forse, in una lacrima, quell'infinito che può rendere immortale uno sguardo fugace?
Il ritmo della poesia dice: « Fammene dono! A me non interessa la potenza dei re né lo sfarzo dei ricchi, ma queste piccole cose sono i miei tesori autentici e con essi io intreccio la ghirlanda dell'infinito ».




(*)Fiore di nàg-asari, dell'albero detto legno-ferro dell'India.




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14/01/2008 03:10



Un giorno



Ricordo quel pomeriggio: a tratti la pioggia si placava, per poi crescere nuovamente d'intensità con il vento.
La stanza era buia, la mente incapace di lavorare.
Presi uno strumento e incominciai a suonare la canzone della stagione delle piogge.
Lei giunse dalla stanza vicina, sostò un istante sulla porta per poi ritirarsi nuovamente.
Dopo riapparve, indugiò ancora sulla soglia, avanzò lentamente e sedette. Aveva un ricamo tra le mani, abbassò gli occhi e incominciò a lavorare.
Dopo breve tempo smise il lavoro e rimase a guardare fuori, verso gli alberi velati dalla pioggia.
Quando il temporale si placò, interruppi la musica. Lei si alzò e andò a pettinarsi.
Solo questo, solo un pomeriggio di pioggia: musica, ozio e penombra.
La storia riferisce sempre di guerre e di re.
Questa piccola storia di un pomeriggio resta celata nella scatola del tempo, come una pietra rara.
Soltanto due esseri la conoscono realmente.







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16/01/2008 06:51



PROFONDO DOLORE




Era morta all'alba.
La mia mente tentò di consolarmi, dicendo: « Tutto è illusione ».
Risposi incollerito: « Ecco, sulla tavola c'è la sua scatola da lavoro, nella terrazza i vasi dei suoi fiori, sul letto il ventaglio col suo nome, e tutte queste cose sono reali ».
La mente mi esortò a riflettere, ma io risposi: « Taci, mente, non vedi? Ecco il romanzo che leggeva, con una sua forcina da capelli per segno, non aveva ancora finito di leggerlo. Se tutto questo è illusione, lei è forse stata un'illusione ancora più grande? ».
La mente tacque; ma giunse un amico e disse: « Ogni autentico amore non può perire, il mondo lo custodisce come una perla infilata nella sua collana ».
Gli risposi furibondo: « Come lo sai? Anche la materia è amore, dov'è dunque svanito il suo corpo? ».
Come un bambino che colpisca la madre accecato dalla collera, così io mi scagliavo contro tutto quello che nel mondo era stata la mia forza.
Dissi: « La vita è crudele! ».
Ma ebbi un sussulto, perché mi parve che qualcuno dietro di me avesse detto: « Ingrato! ».
Guardai fuori nella notte, la luna nuova era sorta dietro il pino, come sempre nasceva il sorriso fugace di lei, che ora era svanita per sempre. Dalla notte stellata mi giunse un rimprovero: « Ti sono stata così vicina e ora mi dici che fui soltanto illusione? E con tanta determinazione lo affermi? Sono andata lontano, semplicemente ».









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17/01/2008 07:08



Diciassette anni




L'ho avuta vicina per diciassette anni.
Quanti viaggi insieme, quanti sguardi e parole e quanti sogni, e immagini, e visioni!
A volte abbiamo visto, risalendo all'alba dal sonno, la luce della prima stella del cielo; a volte abbiamo sentito il profumo dei fiori di chàmeli(*) in qualche tramonto nella stagione delle piogge, a volte abbiamo ascoltato melodie estenuate, al morire del giorno.
Tutte queste sensazioni sono intrecciate al suo essere, e quando mi chiamava per nome l'uomo che le rispondeva non era solo una creatura di Dio, era anche il prodotto di quell'intima unione durata diciassette anni.
Unione di esseri divenuti un solo essere, intimità raggiunta in momenti di apertura e di chiusura, di attività e di ozio, uniti ad altri e in solitudine.
Da allora sono passati altri diciassette anni, ma non più legati a quel nome, e ora sono dispersi i miei giorni e le mie notti, che incessantemente così m'interrogano: « Dove resteremo e chi ci chiamerà? Chi ci proteggerà? ».
Io non posso rispondere.
Resto seduto e medito in silenzio.
Giorni e notti volano nel vento.
M'hanno detto: « Andiamo a cercare ».
« Chi? » ho chiesto loro.
Non lo sanno e vagano come nembi di nuvole che, nella sera, a volte fuggono via. Smarrito, io null'altro riesco a vedere se non questa fuga.




(*)chàmeli: fiori di mirto asiatico







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18/01/2008 06:41



Primo dolore




Il viottolo, nella penombra della foresta, è sepolto dalle erbacce. In quel luogo solitario improvvisamente sento una voce alle mie spalle: « Non mi conosci? ».
Mi volto e lo guardo: « Sì, ti conosco, ma il tuo nome... non lo ricordo ».
« Io sono il tuo dolore, quello di quando avevi venticinque anni ».
I suoi occhi erano umidi e lucenti, come lune riflesse nell'acqua. Sono rimasto allibito: « Una volta eri terribile, come una nuvola carica di pioggia. Ora hai l'aspetto pacato dell'autunno. Forse hai perduto le lacrime di quei giorni? ».
Il dolore sorride in silenzio e mi rivela ogni cosa. La nuvola del monsone ha imparato a sorridere come un fiore di loto d'autunno.
Gli chiedo: « Conservi ancora la mia giovinezza? ».
Risponde: « Guarda la collana di fiori al mio collo ».
Guardo e m'accorgo che nessun petalo è caduto, e dico: « Tutto è invecchiato in me, ma non la mia giovinezza che è ancora fiorita al tuo collo ».
Si toglie lentamente la collana di fiori e me ne cinge il collo, ricordandomi: « Quel giorno dicesti che non volevi conforto, ma dolore ».
Rispondo confuso: « E' passato tanto tempo da allora e ho dimenticato tutto questo, non so neppure dire quando ».
« Io, che sono un dono di Dio, non l'ho dimenticato, e da allora mi sono nascosto. Prendimi, ora ».
Prendo la sua mano nella mia e dico: « Anche il dolore può essere così bello? ».
Mi risponde: « Quello che un tempo fu dolore, ora è solo pace».










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19/01/2008 07:04



Domanda




Il padre era tornato dalla cremazione.
Il figlio di sette anni, nudo, con un talismano al collo, era solo, davanti alla finestra che s'apriva sulla stradina. Non sapeva neppure a cosa pensare.
Il sole del mattino era apparso sopra la cima dell'albero di nima(*) vicino alla casa di fronte. Un venditore di manghi ancora acerbi passò lungo la strada e lanciò il suo richiamo, per poi allontanarsi.
Il padre sollevò il bambino e lo prese tra le braccia. Il piccolo chiese: « Dov'è la mamma? ».
Il padre alzò il capo verso il cielo e disse: « In paradiso ».
Venne la notte.
Prostrato dal dolore il padre si agitava continuamente nel sonno. Sulla porta la luce fioca della lampada, sulla parete il sonno di una coppia di lucertole, di fronte la terrazza aperta.
Il bambino uscì nella notte e rimase incantato. Le case all'intorno, con le luci spente, sembravano soldati che dormissero in piedi a guardia di una città infernale.
Il piccolo, nudo, guardava il cielo, e nella sua mente smarrita salì una domanda:
« Dove sarà mai la strada del paradiso? ».
Il cielo non rispose, solo le stelle scintillavano, lacrime nella notte silenziosa.








(*)Albero di nima: lillà dai bei fiori a pannocchia, di un colore viola cupo.










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20/01/2008 05:51



Minu



1



Minu era cresciuta nell'India Occidentale. Durante la sua infanzia andava spesso a rubar frutta sugli alberi di gelso vicino al pozzo ed era molto amica del vecchio ortolano che sarchiava le erbacce nel campo di legumi.
Quando si sposò andò a vivere in Giounpur: ebbe un bambino che purtroppo morì subito. Il medico disse: « Forse la madre sopravviverà ». Così la portarono a Calcutta per cercare di salvarla.
Era giovane, Minu, e come un frutto non ancora maturo la sua verde vita era saldata con forza allo stelo della terra.
Tutto ciò che era tenero, verde, pieno di vita, l'affascinava. Nel recinto di casa sua aveva posseduto un lembo di terra coltivato a giardino. Minu amava quella terra come un figlio. Le liane che si arrampicavano sul muro di cinta erano in fiore quando lei dovette partire.
Tutti i cani affamati del quartiere, randagi o domestici, avevano sempre trovato cibo nella sua casa.
Quello che lei prediligeva era un cane dal naso tagliato di nome Mozzo. Minu aveva persino cominciato a infilare una collana di perline da appendergli al collo. Ma non poté terminarla, perché quando il padrone del cane le propose di portarselo via, suo marito rispose che un cane sarebbe stato un inutile fastidio nella città dove andavano.


2



Minu riposa a letto, nella stanza al primo piano della sua casa di Calcutta.
La donna che si cura di lei, nativa dell'India occidentale, è seduta e chiacchiera. Minu l'ascolta solo a tratti.
Una mattina verso l'alba, dopo una notte insonne si accorse che c'era un albero di champaka(*) tutto fiorito sotto la sua finestra, perché il delicato profumo saliva sino a lei, come per chiederle: « Come stai? ».
Quell'albero, che ama tanto il sole, quell'inconsapevole figlio della natura, sembrava ergersi smarrito, quasi non sapesse perché mai si trovava in quello stretto spazio tra una casa e l'altra.
Spossata, Minu si svegliava tardi in quei giorni, ma subito guardava verso quell'albero: non aveva mai visto una fioritura simile.
Disse alla donna: « Dissoda la terra intorno al suo tronco e dagli acqua ogni giorno, poiché è in piena fioritura ».
Dopo qualche giorno non vide più fiori e presto gliene fu chiaro il motivo. Quando la luce dell'alba sbocciava come il fiore di loto che si schiude, un sacerdote con un paniere in mano veniva a scuotere l'albero, come un messaggero di Borghi(**) che voglia impadronirsi del suo tributo.
Minu disse alla donna: « Vai a chiamare quel sacerdote ».
Quando giunse da lei, Minu lo salutò e gli chiese per chi cogliesse quei fiori.
« Per il Signore » rispose il sacerdote.
« Ma se il Signore ha inviato a me questi fiori, perché dovrebbe riprenderseli? »
« Il Signore li avrebbe inviati a te? » chiese il religioso irritato, e andò via.
Il giorno seguente, quando all'alba il sacerdote cominciò a scuotere nuovamente l'albero, Minu disse alla donna: « Non posso tollerare un simile spettacolo, sposta il mio letto dinanzi alla finestra della stanza accanto ».
Di fronte a quella finestra sorgeva il palazzo dei Rojchoudury(***). Minu chiamò suo marito e gli disse: « Guarda che bel bambino hanno! Perché non lo porti qui almeno una volta? »
Il marito rispose: « Come possono mandare il loro bambino in una casa di poveri? »
Minu replicò: « Che dici! Per i bambini esiste forse differenza tra ricchi e poveri? Il trono dei bambini sono le ginocchia di tutti! ».
Il marito andò al palazzo e al ritorno riferì: « Il portiere ha detto che non mi è neppure concesso di vedere il padrone! ».
Il giorno dopo, di pomeriggio, Minu chiamò la donna che le faceva compagnia e le disse: « Guarda, il bambino gioca da solo in giardino. Vai da lui e regalagli questo dolce! »
Di sera, quando il marito tornò, disse: « Si sono arrabbiati ».
« Perché, che ho fatto? » chiese Minu.
« Hanno detto che se la donna entrerà ancora nel loro giardino, chiameranno la polizia ».
Gli occhi di Minu si riempirono di lacrime e disse: « Ho visto: hanno strappato dalle sue mani il dolce che gli avevo donato e l'hanno persino picchiato. Qui non posso vivere. Portami via! ».








(*)L'albero di champaka è una magnolia particolarmente diffusa in India, dai grandi fiori giallastri molto profumati.
(**)I Borghi erano predatori nell'India medioevale, famosi per le loro scorrerie e la loro ferocia.
(***)Famiglia nobile del Bengala.








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21/01/2008 07:07



Il gioco del nome



1



Scriveva versi fin dall'adolescenza. con grande cura disegnava bordi dorati sui fogli di quaderno intrecciando arabeschi, e scriveva nel centro, in inchiostro rosso, i suoi poemi. Poi con molta pompa scriveva sulla copertina: Kedarnath Ghose.
Cominciò a mandare i poemi ai giornali, ma non furono mai pubblicati. Allora decise di pubblicare a sue spese non appena avesse avuto il denaro.
Poi suo padre morì. Delle persone sensate gli consigliavano: « Cerca un'occupazione, non perdere tempo a scrivere ». Egli sorrise e continuò a scrivere; stampò così tre libri, uno dopo l'altro, sperando di suscitare una grande impressione. Invece nessuno notò il fatto.


2



Suscitò una grande impressione solo nell'anima di un piccolo lettore: suo nipote. Aveva imparato l'alfabeto da poco e leggeva ad alta voce qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani.
Un giorno il bambino giunse trafelato dallo zio:
« Guarda, zio, ecco il tuo nome. »
Lo zio sorrise gli pizzicò affettuosamente una guancia, poi aprì una cassa e prese un altro libro dicendo: « Bene, leggi anche questo ».
Il nipote lesse il nome dello zio sillabando lettera dopo lettera; costui gli porse un altro libro e anche su quello il bambino lesse il suo nome. Quando vide il nome dello zio su tre libri, il piccolo si fece più curioso e chiese, mostrando le dita delle mani dispiegate: « Su quanti libri c'è scritto il tuo nome? Su cento, ventiquattro, sette? ».
Lo zio fece un cenno con gli occhi e disse: « Lo saprai quando sarà tempo ». Il nipote corse via saltellando con i tre libri per mostrarli alla sua vecchia nutrice.


3



In quel periodo lo zio aveva scritto un dramma, il cui eroe era Sivagi.(*)
Gli amici dissero: « Avrà successo ». Nella sua fantasia già vedeva strade e stradine della sua città tappezzate di manifesti con il suo nome e con quello del suo dramma.
Era domenica. Egli aspettava sulla strada gli amici, che dovevano riferirgli il giudizio degli impresari. La domenica era giorno di vacanza anche per il bambino, che fin dalla mattina era intento a un nuovo gioco.
Lo zio, distratto, non se n'era accorto. Il bambino aveva raccolto in una tipografia vicino alla scuola dei caratteri di piombo, alcuni grandi, altri più piccoli, per formare il proprio nome, che poi stampava su qualunque libro gli capitasse. Voleva fare una sorpresa allo zio


(*)Eroe popolare della favolistica indiana.


4



E lo zio fu veramente sorpreso. Quando entrò nella sala, vedendo il bambino così assorto nel gioco, gli chiese: « Kanai, cosa stai facendo? ».
Il nipote mostrò entusiasta il suo lavoro. Non su tre libri soltanto, ma almeno su venticinque c'era stampato il suo nome: Kanai.
Lo zio strappò di mano al bimbo le lettere che aveva raccolto con grande fatica, urlando: « Ma bravo! Il bambino non fa che giocare e non si cura dello studio! E sono proprio bei giochi, quelli che fai! ».
Kanai per il dolore cominciò a piangere forte, poi a singhiozzare convulsamente.
La vecchia nutrice accorse, chiedendo: « Che hai? ».
Kanai rispose: « Voglio il mio nome ».
Venne anche la mamma: « Che c'è, Kanai? ».
E ancora Kanai, con voce soffocata, disse che voleva solo il suo nome.
La nutrice gli diede di nascosto un pasticcino, lui lo gettò a terra e ripeté che voleva solo il suo nome.
La mamma andò a prendergli il suo trenino, ma Kanai lo allontanò da sé e disse: « Voglio il mio nome ».
Nel frattempo era tornato dal teatro l'amico dello zio, che gli corse incontro domandandogli: « Cosa hanno detto? »
« Non l'hanno accettato ».
Lo zio rimase per un poco in silenzio e poi disse: « A rischio di perdere tutto, fonderò da solo un teatro ».
L'amico gli chiese: « Non vai ad assistere alla gara di pallone? ».
« No, ho la febbre. »
Nel pomeriggio la madre si recò da lui:
« Vieni a mangiare, il pranzo è ormai freddo ».
« Non ho fame. »
Verso sera venne a trovarlo la moglie: « Vuoi che leggiamo la tua nuova opera? ».
« No, ho mal di testa. »
Alla fine venne da lui il bambino e disse: « Su, ridammi il mio nome ».
Lo zio come risposta lo schiaffeggiò.








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22/01/2008 07:41



L'uomo superfluo



1



Era un perdigiorno, uno sfaccendato e per giunta un po' strambo.
Per lui lavorare significava coprire di terra dei fornelletti di legno e ornarli con piccole conchiglie. Da lontano tutto questo appariva come un quadro in disordine. Le conchiglie sembravano uno stormo d'uccelli, o un campo brullo su cui pascolassero mucche, o una teoria di colline digradanti tagliate da un sentiero o da un ruscello che scendesse lungo il pendio.
I suoi familiari lo rimproveravano di continuo e aspramente. Ogni tanto decideva di lasciare da parte per sempre le sue stranezze, ma le sue stranezze non lasciavano lui.


2



Ci sono ragazzi che per tutto l'anno non studiano mai, e che poi riescono a superare agevolmente gli esami contro ogni previsione.
Al nostro perdigiorno accadde qualcosa di simile. Aveva consumato tutta l'esistenza senza far niente, ma dopo la morte gli fu comunicato che gli veniva concesso di entrare in paradiso.
Ma il suo destino lo seguì anche in quel luogo. Infatti gli angeli lo avevano portato per errore nella zona riservata ai lavoratori. In questo settore si trovava di tutto, tranne che il tempo per riposarsi.
Gli uomini dicevano: « Non c'è tempo per fermarsi » e le donne: « Devo andarmene, ho tanto da fare » e tutti, in coro: « Il tempo è prezioso ». Nessuno diceva: « Il tempo non ha valore ».
Tutti si lamentavano d'essere stanchi e di non poter lavorare di più, ma erano molto felici. Un paradiso con il coro: « Sono stanco » per musica. A quel povero uomo sembrava un inferno: non potendo mai riposare non si sentiva a suo agio. Quando camminava per la strada era sempre distratto e ostacolava il cammino degli altri, perennemente occupati.
Se stendeva il suo mantello per sdraiarsi, qualcuno lo avvertiva che quello era un campo di grano, già arato e seminato, e così doveva alzarsi e andarsene.


3



Una ragazza inquieta veniva ogni giorno ad attingere acqua al ruscello del paradiso. I suoi passi risuonavano sulla strada come la musica allegra del sitar.
Quel giorno si era pettinata in fretta e alcune ciocche le ricadevano sulla fronte e sugli occhi, come se volessero gettare un rapido sguardo verso i suoi occhi neri e stupendi.
Il perdigiorno se ne stava vicino al ruscello, immobile come un albero di tamàl(*).
Il cuore della ragazza si intenerì per lui, così come si può commuovere il cuore di una principessa quando vede un mendicante sulla strada.
« Ehi! Non hai forse lavoro? »
« Non ho tempo per lavorare » rispose il perdigiorno sospirando.
La ragazza non comprese, e aggiunse: « Vuoi che ti dia del lavoro? »
« Con piacere! Io mi trovo qui precisamente per questo. »
« Che lavoro desideri? » chiese lei.
« Dammi una di quelle brocche con cui porti l'acqua. Mi piacerebbe dipingerla. »
La fanciulla, irritata, rispose che non aveva più tempo, che doveva andar via.
Ma quel perdigiorno era un uomo insistente. Nei giorni seguenti l'attese vicino al ruscello, rinnovando ogni volta la sua richiesta: « Dammi una delle tue brocche affinché possa dipingerla ».
Finalmente la ragazza acconsentì, e il perdigiorno cominciò a dipingere la brocca con un'infinità di linee e colori.
Quando il lavoro fu terminato, la ragazza prese la brocca e la osservò da ogni parte. Alla fine, aggrottando le sopracciglia, chiese: « Cosa significano queste figure? ».
Il fannullone rispose che non avevano nessun significato, e la fanciulla se ne andò con la brocca.
A casa, di nascosto, osservò le figure facendo ruotare la brocca sotto la luce. Di notte si svegliò molte volte, e sempre accendeva la lampada e contemplava in silenzio la brocca dipinta. Era la prima volta in vita sua che vedeva qualcosa priva di senso.
Anche il giorno dopo trovò il perdigiorno presso il ruscello, e gli chiese: « Cosa vuoi ancora? ».
« Dammi dell'altro lavoro. »
« Quale lavoro? »
« Se lo desideri, ti farò dei nastri per le trecce con dei fili colorati. »
« A che mi serviranno quei nastri? »
« A niente. »
Il perdigiorno fece delle fettucce con fili di colori diversi e con diversi disegni.
Ormai la fanciulla aveva perduto ogni voglia di lavorare. Rimaneva davanti allo specchio a intrecciarsi i capelli, perdendo così la misura del tempo. Consumava ore e ore senza far niente.


(*)Tamàl: palissandro, molto ricco di fogliame e prodigo d'ombra.



4


In quel paradiso del lavoro gli abitanti avvertivano che qualcosa non funzionava più come un tempo. Il ritmo del lavoro era continuamente interrotto da pause piene di lamenti e di canti.
I vecchi saggi del paradiso, preoccupati, si riunirono in consiglio, e dissero: « Non è accaduto mai nel paradiso qualcosa di simile ».
Il perdigiorno fu presentato al consiglio. Dal suo turbante dai colori vivaci e dalla fascia splendente che gli cingeva la vita, tutti si resero conto che era stato commesso un grave errore. Il presidente dell'assemblea sentenziò: « Tu devi tornare sulla terra ».
Il perdigiorno prese i suoi colori e con un sospiro di sollievo rispose: « Sono felice di andarmene ».
Si presentò la fanciulla e disse: « Vado con lui ».
Il vecchio presidente rimase stupito. Per la prima volta aveva visto una cosa del tutto priva di significato.









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23/01/2008 06:40



Il principe



1


Il principe cammina, cammina instancabile e lascia il suo regno per attraversarne altri sette, raggiungendo infine il paese in cui non regna alcun sovrano.
Questo è l'inizio di favole antiche che non avevano né principio né fine.
Nelle città e nei villaggi tutti vivono la loro vita di sempre: fanno acquisti, chiacchierano, litigano.
Ma il nostro principe favoloso sempre avanza, attraversando un paese dopo l'altro.
Perché?
L'acqua del pozzo rimane nel pozzo, le acque del canale e del lago restano sempre tranquille, ma l'acqua che nasce dalle vette non può fermarsi là in alto e anche quella delle nuvole deve cadere per non traboccare.
Allo stesso modo, chi può trattenere il principe nei confini del suo regno? L'uomo nasce e rinasce e ad ogni generazione ai bambini si narra questa favola antica.
La fiamma della lampada della sera arde senza piegarsi; i bambini fantasticano in silenzio appoggiando la guancia alla mano: « Noi siamo quel principe ».
Nel punto in cui la campagna sconfinata si perde all'orizzonte, il mare si apre e lì giunge il principe.
Nel mezzo del mare si trova l'isola in cui vive prigioniera, nel palazzo dei demoni, la principessa.
Nel mondo tutti inseguono denaro o fama o consolazioni. Ma l'unico desiderio del nostro principe è liberare la principessa; e anche se la tempesta infuria e non c'è nessuna barca per raggiungerla, sempre ugualmente egli cerca una via per liberarla.
Questa è la prima e l'estrema mitologia dell'uomo. I piccoli, da poco nel mondo, devono apprenderla dalle nonne: la principessa prigioniera, il mare in tempesta, il demone invincibile, il piccolo principe solo e indomabile sulla riva del mare, che sogna di liberarla.
Fuori, nell'oscurità della foresta, cade la pioggia o cantano le cicale; ma i bambini, con la guancia appoggiata alla mano, pensano che anch'essi dovranno come il principe attraversare il mare per giungere sino al palazzo del demone.


2


Il principe scende dal suo cavallo dinanzi a un mare increspato d'onde e infinito, un sogno azzurro.
Ma ecco che non appena posa il piede a terra, come per un sortilegio tutto si trasforma.
Appare una città: il tram corre, le vie sono affollate di veicoli che velocemente portano i loro occupanti verso i luoghi di lavoro. E un venditore di flauti di foglia di palma suona per richiamare i ragazzi.
Com'è vestito ora il principe? Come cammina?
La camicia è priva di bottoni, il mantello è sporco, le scarpe sono rotte. Il principe si è trasformato in un ragazzo di campagna, venuto a studiare in città, che si mantiene con lezioni private.
E la principessa?
Vive nella casa vicina, non ha il colore del fiore di ciompa(*), il suo sorriso non splende come una gemma, non è possibile pareggiarla alle stelle; ora è simile ai fiori privi di profumo che spuntano fra l'erba nella stagione delle piogge. E' orfana di madre.
Il padre era povero, ma non voleva che sua figlia sposasse un uomo qualsiasi. La ragazza cresceva in età e i cugini sparlavano di lei.
Quando il padre morì, ella andò ad abitare a casa dello zio.
Poi finalmente le fu trovato un marito: un uomo ricco, ma vecchio e con numerosi nipoti. Lo zio disse: « La ragazza è fortunata ».
Ma quando il giorno del matrimonio era ormai prossimo, scomparvero sia la ragazza che il giovane studente.
Poco tempo dopo giunse la notizia che si erano sposati in segreto; pur essendo di caste diverse, si amavano.
Il matrimonio suscitò uno scandalo. Il vecchio fidanzato voleva vendicarsi e minacciava, in preda all'ira: « Vedremo chi potrà salvare quel mascalzone! ».
Il giovane fu sottoposto a processo e grazie ad avvocati intriganti e a testimoni compiacenti venne rinchiuso in carcere.



(*)Ciompa: fiore simile al gelsomino, ma molto più grande e carnoso, usato abitualmente nelle offerte ai templi, in quanto resistente e profumato.


3


Ciò che accadde in seguito è una storia lunga da narrare.
Il giovane uscì dalla prigione in tempo per ritrovare il suo cammino, interminabile e solitario. Ma se anche non finisce la strada, si conclude il cammino.
Un giorno egli si fermò e non c'era nessuno a guardarlo, tranne una donna gentile che vigilava al suo fianco!
Era la morte.
Quando la morte lo toccò, tutto si trasformò e la città scomparve e anche quel sogno. Sulla fronte il principe aveva nuovamente il segno reale dell'eternità.
In ogni età, in ogni tempo, ai bambini in braccio alle madri viene data notizia di un principe errante, che vaga sempre in località sconosciute. Dinanzi a lui si agitano le onde di sette mari.
Nella favola umana l'identità di quel giovane varia all'infinito, ma al di là della favola la sua identità è unica: egli è il principe.










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24/01/2008 06:13



Il desiderio della seconda Regina



La seconda regina stava forse per morire. Ansimava e soffriva.
Fu chiamato il medico, che mescolò una medicina a del miele e le consigliò di prenderla. La regina gettò via tutto.
Il re, informato dell'accaduto, lasciò immediatamente i suoi consiglieri e raggiunse, sedendole vicino, l'ammalata e le chiese: « Cos'hai? Che cosa desideri? »
Con voce dolente lei rispose « Che tutti vadano via. Voglio solo la mia ancella».
E quando giunse l'ancella, la regina le afferrò una mano e così le parlò: « Siedi, amica mia: ho una cosa da raccontarti...
Tre dei sette palazzi della reggia appartenevano alla prima regina, poi ne ebbe due, poi uno soltanto, e alla fine riuscii a scacciarla dalla reggia e da allora non pensai più a lei.
Giunse la Doljàtrà (festa che si celebra durante il primo plenilunio di primavera. E' chiamata anche la sagra del colore). Mi presentai alla soglia del tempio in una portantina ornata con piume di pavone. C'era una gran folla e ovunque suonavano flauti e tamburi.
Vicino alla strada, sul traghetto del fiume vidi una capanna ombreggiata da un albero di champaka. Sulla siepe erano sbocciati fiori di aparàjithà (palma nana, che forma delle siepi molto decorative), dinanzi alla porta erano tracciati simboli divini.
Chiesi alla mia damigella di chi fosse quella capanna e da lei seppi che apparteneva alla prima regina.
Tornata a palazzo rimasi seduta senza accendere la lampada, nel buio silenzioso della notte.
Al re, che mi chiedeva cosa desiderassi, risposi che non avrei più abitato nella reggia. Promise allora di costruirmi un palazzo con le mura di avorio, con il pavimento di polvere di conchiglia, bianco come la spuma del latte, e le stanze ornate di ghirlande di loti intrecciate di madreperla.
Io risposi che volevo vivere in una capanna, nel parco. La capanna fu costruita.
Appena terminata si disfece come un fiore selvatico. Andai ad abitarvi, ma mi vergognavo.
Venne poi la festa del bagno. Mi recai al fiume con le mie centosette schiave. Immersero la mia portantina nell'acqua e ci bagnammo.
Al ritorno, attraverso la cortina semichiusa della portantina, intravidi una donna con braccialetti di conchiglia, vestita di un abito dall'orlo rosso. Sembrava un fiore offerto a un dio, aveva fatto il bagno e portava a casa una brocca piena d'acqua. La luce del mattino risplendeva sui suoi capelli bagnati e sulla brocca umida.
Domandai alla schiava chi fosse quella donna e in quale tempio facesse le sue devozioni. La schiava sorridendo mi rispose che era strano che non la riconoscessi, dato che quella donna era la prima regina.
Tornata a casa volli restare ancora una volta in solitudine e in silenzio e quando venne il re per chiedermi che cosa ancora volessi, gli risposi che desideravo poter fare il bagno ogni mattina al fiume e di portare a casa una brocca d'acqua passando per la strada alberata di bakul.
Il re fece disporre delle guardie lungo tutta la strada e la gente fu fatta allontanare.
Misi braccialetti di conchiglia, indossai un abito orlato di rosso. Dopo il bagno tornai a casa con la brocca piena d'acqua. Giunta alla porta, infransi piena di rabbia la brocca, non essendo riuscita a realizzare quello che mi ero proposta, ottenendo solo vergogna.
Venne la festa della Ràsjàtrà (festa in onore del dio Krisna). Nella notte di luna piena i fedeli s'accamparono nei giardini e per tutta la notte cantarono e danzarono in onore di Krisna.
La mattina seguente salii sull'elefante. Tornando a casa, da dietro il drappo della portantina intravidi un ragazzo che camminava per un sentiero della foresta.
Tra i capelli aveva una ghirlanda di fiori selvatici, in mano un cesto pieno di fiori di sàluk (pianta delle mimosacee dai bei fiori gialli), di frutta di bosco e di erbe di campo.
Chiesi alla mia schiava chi fosse la donna fortunata che aveva generato quel giovane che con la sua bellezza illuminava la strada.
La schiava rispose che era il figlio della prima regina e che portava fiori, frutta ed erbe a sua madre.
Ritornata a casa, nuovamente sedetti in silenzio, e al re che venne a chiedermi cosa ancora desiderassi, risposi che avevo voglia di mangiare ogni giorno fiori di sàluk, frutta del bosco ed erbe di campo raccolte da mio figlio.
Il re disse di non preoccuparmi, mi sedetti sul letto d'oro e vidi mio figlio giungere con un cesto. Sudava abbondantemente ed era molto in collera.
Lasciai stare la cesta e provai una profonda vergogna.
Poi non so che cosa sia accaduto. Siedo sempre qui, sola, in silenzio.
Il re viene a trovarmi ogni giorno e mi chiede che cosa desidero. Ma io, la regina favorita, non posso esprimere a lui i miei desideri, avendone io stessa vergogna.
Per questo ti ho mandato a chiamare. Confido il mio estremo desiderio al tuo orecchio: Vorrei provare il dolore della prima regina ».
L'ancella le pose una mano sul volto e chiese: « Dimmene il motivo ».
La regina rispose: « La prima regina possiede un flauto di bambù e lo suona sempre; io ho un flauto d'oro, l'ho sempre posseduto, custodendolo gelosamente, ma non ho mai potuto suonarlo ».









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25/01/2008 07:39



Il giullare




Il re di Kanci andò a conquistare il paese di Karnat. L'impresa riuscì e i suoi elefanti riportarono un gran bottino di guerra: avorio, sandalo, oro e gioielli.
Sulla via del ritorno verso la patria volle onorare la divinità di Baleswari con feste solenni.
Il cortile del tempio era imbrattato dal sangue delle molte pecore offerte in sacrificio.
Dopo il rito uscì dal tempio in compagnia del ministro e del giullare. Indossava un mantello rosso, al collo aveva una ghirlanda di fiori di giova e sulla fronte, tra le sopracciglia, un segno augurale di sandalo rosso.
Nei pressi della strada dei ragazzi giocavano in un giardino di manghi (l'albero di mango, molto comune nei giardini indiani, produce fiori delicati e frutti saporiti e nutrienti). Il re comunicò al suo seguito che voleva assistere al loro gioco.
I monelli avevano disposto i loro fantocci in due schiere e giocavano alla guerra.
Il re domandò chi fossero i combattenti.
I ragazzi risposero che si combatteva la guerra di Karnat contro Kanci.
Il re chiese chi avesse vinto e chi perduto.
Ed essi risposero orgogliosi: « Ha vinto Karnat, Kanci è stato sconfitto ».
Il volto del ministro si fece grave, per lo sdegno gli occhi del re si iniettarono di sangue, solo il giullare si mise a ridere.
I ragazzi continuarono a giocare finché il re tornò con dei soldati.
Il re ordinò di legarli a degli alberi e di bastonarli.
Dal villaggio accorsero i genitori che supplicarono il re: « Perdonali, sono stati sciocchi ».
Il re chiamò il generale e intimò: « Ammaestrate gli abitanti di questo villaggio, affinché non dimentichino il re di Kanci ».
Poi si ritirò nel suo accampamento.
Alla sera il generale fece ritorno. Salutò il re e gli annunziò che in quel villaggio non si sarebbe mai più udito un rumore che non fosse quello dei cani e degli sciacalli.
Il ministro sostenne che in tal modo si era vendicato l'onore del re. Il sacerdote sentenziò che la dea Vissesvari (la dea Vissesvari aiuta nel potere e nella vendetta) avrebbe aiutato sua maestà. Il giullare invece comunicò alla corte che se ne sarebbe andato.
Il re chiese: « Perché mai? »
Il giullare rispose: « Io, per grazia di Dio, non so uccidere né far guerra, so solo ridere, ma se resto qui dimenticherò anche questo ».








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26/01/2008 06:35



Il pappagallo



1



C'era una volta un uccello del tutto ignorante. Cantava sempre, ma non conosceva le sacre scritture. Saltellava e svolazzava, ma ignorava cosa fosse la buona creanza.
Il re sentenziò che un simile uccello era nocivo poiché si cibava dei frutti del bosco e danneggiava il mercato.
Chiamò allora il ministro e gli ordinò di ammaestrare l'uccello.


2


Il compito di educarlo venne affidato al nipote del re.
I sapienti del regno si riunirono e discussero a lungo sulle cause dell'ignoranza di quell'animale.
La conclusione fu questa: il nido che l'uccello si costruisce con delle semplici pagliuzze è inadatto a contenere sapienza. Per cui, prima di ogni altra cosa, era necessario costruire una buona gabbia.
I sapienti, ottenuta la ricompensa, se ne andarono soddisfatti.


3


L'orefice cominciò la costruzione di una gabbia d'oro.
Era così bella che accorrevano grandi folle da ogni paese per ammirarla.
Qualcuno disse: « Godrà del massimo dell'educazione ».
Un altro disse: « Anche se non verrà educato avrà pur sempre la gabbia. Che uccello fortunato! »
L'orefice ottenne una forte ricompensa e felice fece ritorno anch'egli a casa.
Uno dei sapienti cominciò ad ammaestrare l'uccello. Fiutando tabacco da naso sentenziò che erano necessari molti libri.
Il nipote del re fece chiamare dei copisti, che prepararono per il pappagallo copie dei libri e copie delle stesse copie. Ne scrissero una montagna.
Tutti i presenti dicevano: « C'è tanta scienza che questa gabbia non può più contenerla ».
I copisti caricarono dei buoi con i profitti del loro lavoro. Tornarono alle loro case, ormai liberati dalla povertà.
I nipoti del re sorvegliavano continuamente la gabbia. Vi si facevano riparazioni ogni giorno.
Vedendo la gabbia in ordine, lucida e pulita, tutti asserivano: « La sapienza progredisce ».
La cura della gabbia richiedeva un gran numero di inservienti e per sorvegliare costoro era necessario uno stuolo di persone anche maggiore.
Tutti ricevevano grandi quantità di denaro ogni mese e i loro scrigni erano pieni.
Costoro e i loro parenti erano felici e tutti ormai vivevano in dimore signorili.


4


Nel mondo mancano molte cose, tranne gli scontenti, che sono in numero persino eccessivo.
Costoro dissero: « La gabbia è a posto, però nessuno si cura dell'animale ».
Queste parole giunsero all'orecchio del re, che chiamò il nipote per domandargli se fosse vero.
Il nipote rispose: « Signore, se il re vuole conoscere la verità chiami gli orefici, i sapienti, i copisti, gli artefici e i sorveglianti. Gli scontenti fanno critiche perché non guadagnano nulla ».
Udita questa risposta, il re comprese perfettamente come stavano le cose e immediatamente cinse con una collana d'oro il collo del nipote.


5


Il re desiderava verificare personalmente i progressi dell'educazione dell'uccello. Così un giorno capitò nella scuola con un seguito di cortigiani, ministri e amici.
Sin dall'ingresso si udiva un concerto di molti strumenti: campane, conchiglie, tamburi, trombe e flauti.
I sapienti cominciarono a leggere i libri sacri a voce alta, oscillando il capo.
Operai, artefici, copisti, sorveglianti e i loro parenti di ogni grado gridavano di gioia per onorare il re.
Il nipote lo invitò ad ammirare lo spettacolo.
Rispose il re: « E' meraviglioso. Il rumore è grande ».
« Non è soltanto rumore, in tutto questo si esprime un profondo significato! » aggiunse il nipote.
Il re lasciò la scuola soddisfatto e stava per salire sul suo elefante.
E proprio allora uno degli scontenti, che si era nascosto in un cespuglio, esclamò: « Mio re, hai veduto l'uccello? ».
Il re trasalì e disse: « Me ne sono dimenticato! Non l'ho ancora veduto ».
Tornò indietro e disse ai sapienti che voleva vedere in che modo fosse educato l'uccello. Ne fu molto soddisfatto. Il metodo di educazione era più importante dell'uccello stesso, che appariva quasi superfluo.
Il re si persuase che non venivano risparmiati gli sforzi: nella gabbia non c'era cibo né acqua, ma con la punta di una penna si ficcavano nel becco del pappagallo mucchi e mucchi di fogli strappati da una gran pila di libri.
Nella sua gola piena di carta la voce non trovava spazio per cantare. Era uno spettacolo orribile.
Prima di salire sull'elefante il re ordinò alle guardie di torcere per bene le orecchie dello scontento.


6


Quanto più l'educazione dell'uccello progrediva, tanto più le sue forze diminuivano.
I custodi erano pienamente fiduciosi.
Obbedendo, però, ancora all'istinto, ogni mattina il pappagallo si volgeva verso oriente e agitava le ali in modo sconveniente.
Talvolta tentava anche di spezzare le sbarre della gabbia con il becco indebolito.
Il guardiano diceva: « Che svergognato! ».
Venne nella scuola il fabbro armato di martello, soffietto e fuoco. Rinforzò con nuovi fili di ferro la gabbia e fece strappare le ali dell'uccello.
I cognati del re, scuotendo la testa, dicevano con tono solenne: « In questo regno gli uccelli non solo difettano d'intelligenza, ma anche di gratitudine! ».
Nuovamente i dotti con la penna in una mano e il pungolo nell'altra ricominciarono, ricominciarono la fatica dell'istruzione.
I guadagni del fabbro intanto si moltiplicavano e sua moglie era adorna di gioielli d'oro.
Il re ricompensò con il dono di un elmo la solerzia del guardiano.


7



Il pappagallo morì. Ma nessuno al momento se ne accorse.
Il solito scontento annunciò al re ciò che era accaduto.
Il re chiamò il nipote e gli chiese se la notizia rispondesse a verità.
Il nipote rispo: « Sì, e ora l'istruzione dell'uccello è completa ».
Il re domandò: « Salta ancora? ».
« Per niente. »
« Vola? »
« No. »
« Canta? »
« No. »
« Schiamazza ancora quando ha fame? »
« No. »
« Portalo qui. Lo voglio vedere. »
Gli fu portato l'uccello. Il re palpò il pappagallo, che rimase immobile al cospetto di guardie, servi e cavalieri.
Solo nel suo ventre si udì, quando il re lo toccò, il rumore delle pagine accartocciate dei libri.
Fuori, nella brezza della nuova primavera, le giovani foglie della foresta fiorita riempivano il cielo, stormendo, di lunghi sospiri.








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27/01/2008 07:59



Indistinto




Dalle finestre si può vedere, momento dopo momento, come si svolge la vita nelle case di fronte. Quella scena ora si vede, ora no. Un disegno e poi un vuoto...
Un giorno, messi da parte i libri, Banamali si mise a guardare nella casa di fronte e vide due nuovi personaggi su quel palcoscenico di vita domestica che si offriva ai suoi sguardi.
Erano una vedova di mezza età e una fanciulla di sedici, diciassette anni. La donna matura sedeva di fronte alla finestra, pettinando la giovane, che piangeva.
Alcuni giorni dopo l'anziana scomparve. A Banamali sembrò che nella luce del tramonto la ragazza fosse china a ripulire la cornice di una vecchia fotografia.
Dalla sua finestra seguiva lo svolgersi dei lavori domestici in quella casa. Ora, con il paniere davanti, la ragazza puliva i legumi; ora, dopo il bagno, asciugava al sole i capelli, strofinandoli a lungo con la mano sinistra; oppure stendeva delle stoffe al sole sulla ringhiera della veranda.
A mezzogiorno gli uomini tornavano al lavoro, e nelle case alcune donne dormivano, altre giocavano a carte. Sul tetto, nelle colombaie, il tubare dei piccioni si affievoliva.
A quell'ora la ragazza stava seduta con le gambe distese, nell'abbaino, a leggere. A volte poggiava dei fogli di carta sul libro e scriveva delle lettere; i capelli in disordine le cadevano sulla fronte e le dita sensibili sembravano parte della lettera.
Un giorno quella scena fu turbata. Mentre un corvo beccava sul cornicione il nocciolo di un mango mangiato a metà e la giovane scriveva interrompendosi ogni tanto per giocherellare con la penna, la donna anziana riapparve, avanzando di soppiatto alle sue spalle, come una nera nuvola che copre i raggi della luna nuova. Aveva massicci braccialetti e i suoi capelli erano divisi a metà, con la riga dipinta di rosso vermiglio.
La donna strappò letteralmente il foglio scritto a metà dal grembo della ragazza, come un falco che piombi sulla preda.
Da quel giorno la fanciulla non apparve più nell'abbaino e a volte, nel profondo della notte e all'alba, dalla casa provenivano suoni come di una sconvolgente tempesta.
La fanciulla si mostrava a volte alla finestra, mentre puliva legumi o preparava le foglie di betal(*), oppure mentre riempiva sotto il rubinetto una ciotola.
Passò così del tempo, sino a una sera di novembre; la lucerna brillava sul tetto, il fumo delle stalle saliva a spire, come un serpente che volesse soffocare il cielo.
Quando Banamali tornò a casa, aprì la finestra e vide la fanciulla immobile sul tetto a mani giunte, mentre dal tempio della famiglia Mallik(**), all'estremità del vicolo, saliva il suono della campana della sera.
Dopo qualche tempo la ragazza s'inchinò, salutò e disparve.
Quel giorno Banamali scrisse una lettera e scese subito a imbucarla, ma poi di notte, stando a letto, desiderò che la lettera scritta non arrivasse. La mattina dopo non riusciva a guardare verso quella casa, poi partì per Madhupur, senza dirlo a nessuno.
Ritornò all'inizio dell'anno scolastico, una sera. La casa di fronte era buia, con porte e finestre sprangate. Dov'erano la vecchia e la fanciulla?
Banamali esclamò: « E' andata bene! ». Quando entrò nella sua camera, vide un mucchio di lettere sulla tavola, che portavano tutte lo stesso indirizzo tracciato da una mano femminile. La calligrafia gli era sconosciuta, ma il timbro postale era quello del loro quartiere.
Ne prese una e si mise a sedere, senza aprire la busta: l'alzò solo contro la lampada e intravide, attraverso la carta, dei caratteri indistinti, nello stesso modo in cui dalla finestra aveva veduto, in maniera indistinta, il quadro della vita di quella casa.
Rimase a lungo incerto se aprire la lettera, poi la ripose con le altre in un cassetto, che chiuse a chiave.
Giurò a se stesso che non le avrebbe mai aperte.




(*)Betal: arbusto che produce delle foglie cuoriformi molto aromatiche che vengono masticate, giacché profumano l'alito e producono senso di sazietà, favorendo, come la coca, la salivazione.

(**)Nome di una famiglia nobile.










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28/01/2008 06:44



Il quadro



1


Gli abitanti della città dove Aviram viveva, dipingendo quadri raffiguranti gli dèi, lo conoscevano come artista e straniero.
A volte Aviram così pensava: « Ora sono povero, io che un tempo vissi nell'agiatezza, ma non m'importa. Di giorno e di notte penso sempre al mio Dio, ho quanto mi basta per vivere e in molte case, grazie a Lui, con i miei dipinti gli edifico un tempio. E' un onore di cui nessuno può privarmi ».
Un giorno morì il ministro generale dello stato. Il re invitò a corte uno straniero, e lo nominò suo nuovo ministro. Tutta la città quel giorno fece festa, tranne Aviram che non riusciva a toccare il pennello.
Chi era il nuovo ministro?
Il padre di Aviram un giorno aveva raccolto un bimbo lungo la strada e lo aveva educato come se fosse suo figlio. La fiducia che aveva riposto in lui, ancor più che nel suo stesso figlio, era in seguito divenuta lo strumento con cui egli l'aveva spogliato di tutto. E ora proprio lui era divenuto ministro di stato.
Lo studio di Aviram era anche il suo luogo di preghiera. Quel giorno egli entrò nella stanza e giungendo le mani così pregò: « Signore, ti ho forse pregato ogni giorno raffigurandoti con linee e colori per giungere a questo? Un simile insulto è forse la tua ricompensa? ».


2


Poi giunse la festa del carro. Quel giorno una gran folla andò da lui per comperare i suoi dipinti. Venne anche un ragazzo, attorniato da molti servi. Scelse un quadro e disse: « Vorrei acquistare questo ».
Aviram chiese a uno dei servi: « Chi è questo giovane? ».
Il servo rispose: « E' l'unico figlio del nostro ministro ».
Aviram coprì allora il quadro con una tela e disse: « Non lo vendo ».
La sua risposta rese il ragazzo insistente, ma non ci fu nulla da fare. Tornò a casa molto triste e non mangiò nulla.
Il ministro allora inviò al pittore una gran quantità di monete d'oro, ma la sua offerta venne respinta. « Quanta superbia! » disse.
Quanto più le richieste per quel quadro si facevano pressanti, tanto più Aviram gioiva: « Ecco la mia vendetta ».


3


Di mattina, appena alzato, Aviram incominciava subito a dipingere. Era quella la sua preghiera e altre non ne conosceva.
Un giorno però si accorse che non era più in grado di farlo come un tempo. Si sentiva diverso: non riusciva a concentrarsi, avvertiva nel cuore come una ferita tormentosa.
Ogni giorno quel mutamento, all'inizio impercettibile, diveniva più profondo. Finalmente ne comprese l'origine, tremò e disse a se stesso: « Ho capito ».
E si accorse che col trascorrere dei giorni il volto di Dio nei suoi quadri somigliava sempre più a quello del ministro...
Buttò via il pennello e disse: « Ha vinto il ministro ».
E quello stesso giorno andò da lui, portandogli quel quadro che suo figlio aveva desiderato acquistare.
Il ministro ne chiese il prezzo, ma Aviram rispose: « Questo quadro mi ha distolto dal mio Dio: io potrò ritrovarlo solo regalandovelo! ».
Il ministro naturalmente non fu in grado di capire.








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29/01/2008 06:52



Le bambole



1



Nel cortile del palazzo del re si teneva ogni anno la fiera delle bambole: tutti i venditori avevano sempre riconosciuto la superiorità di un artigiano, che fabbricava da tempo immemorabile le bambole per le principesse reali.
Quando quest'artista ebbe ottant'anni, si presentò alla fiera un nuovo artigiano.
Era un giovane, si chiamava Kissenlal e costruiva bambole con un'arte del tutto nuova: sembrava, infatti, che non fossero ultimate e che non si sarebbero potute ultimare mai.
I giovani dissero che aveva del coraggio, i vecchi che era superbo. Ma i nuovi tempi portano gusti nuovi.
Le giovani principesse richiedevano le nuove bambole e malgrado la disapprovazione delle loro vecchie nutrici le desideravano sempre più ostinatamente.
Il laboratorio del vecchio artista era quasi del tutto trascurato e dopo un anno o due tutti avevano persino dimenticato il suo nome. Kissenlal, il giovane, era divenuto il più famoso artigiano di bambole del regno.


2



Il vecchio era avvilito e ormai viveva poveramente. Alla fine sua figlia lo invitò ad andare a vivere con lei. Anche il genero gli propose: « Venga da noi, le daremo tutto ciò di cui ha bisogno, non dovrà far altro che proteggere l'orto da mucche e uccelli ».
La figlia del vecchio era una brava casalinga. Il genero modellava lampade di terracotta e andava ogni giorno in città con la barca piena della sua mercanzia, per venderla.
Nello stesso modo in cui il vecchio non si rendeva conto del mutare dei tempi, così non s'accorgeva che sua nipote Suvodra aveva già sedici anni.
Il vecchio stava sempre seduto sotto un albero a guardia dell'orto e a volte sonnecchiava; un giorno la nipote lo abbracciò e quando le chiese cosa desiderasse, lei disse: « Vorrei che mi costruissi una bambola ».
« Cara, la mia bambola non ti piacerà. »
« Chi può costruirne una meglio di te? »
« Kissenlal. »
« Ma va', che può mai fare Kissenlal! »
Parlarono a lungo su questo argomento...
Alla fine il vecchio estrasse il materiale dalla sua borsa e inforcò gli occhiali rotondi sul naso.
Poi disse alla nipote: « Se lavoro, mia cara, i corvi mangeranno il granoturco ».
Ma Suvodra rispose: « Non preoccuparti, caccerò io i corvi ».
Passa il tempo, da lontano si ode il cigolio del pozzo dove un toro, girando, fa salire l'acqua, la nipote scaccia i corvi, il vecchio costruisce la bambola.


3



Il vecchio aveva paura di sua figlia, che era una donna severa.
Mentre era assorto nella costruzione della bambola, non s'avvide che alle sue spalle si avvicinava la figlia, facendo dondolare le braccia.
Quando gli fu vicina lo chiamò ed egli si tolse gli occhiali, guardandola con uno sguardo di bambino, implorante.
La figlia disse: « Invece di mungere le mucche passi il tempo con Suvodra! E' una donna di sedici anni, ti sembra che abbia ancora l'età per giocare con le bambole? ».
Il vecchio rispose subito: « La bambola non è per i giochi di Suvodra. Io voglio venderla: quando la mia nipotina si sposerà, mi piacerebbe donarle una collana d'oro. Per questo voglio mettere da parte per tempo del denaro ».
Irritata, la figlia lo schernì: « Forse qualcuno della casa reale comprerà una tua bambola? ».


4



Due giorni dopo Suvodra mostrò un pezzo d'oro alla madre e le disse: « Ecco quanto hanno dato per quella bambola ».
« Dove l'hai venduta? » chiese la mamma.
« Al palazzo reale » rispose la ragazza.
Il vecchio era allegro ed esclamò: « Cara, ho fatto questo, anche se sono miope e mi tremano le mani mentre lavoro! »
Sua figlia era contenta e disse che sedici pezzi d'oro sarebbero bastati per la collana di Suvodra.
Il vecchio la esortò a non preoccuparsi.
Suvodra lo abbracciò: « Caro nonno, non preoccuparti per il marito » sussurrò.
Il vecchio si mise a ridere, ma gli salirono le lacrime agli occhi.


5



Il vecchio ritrovò la sua giovinezza.
Ogni giorno si sedeva sotto l'albero e fabbricava bambole. Suvodra gli stava vicina e scacciava i corvi. Da lontano giungeva sempre il cigolio del pozzo intorno a cui il povero toro faticava per far salire l'acqua.
A uno a uno tutti i sedici pezzi d'oro per la collana furono guadagnati.
La figlia disse: « Ora aspettiamo il marito ».
Suvodra bisbigliò all'orecchio del nonno: « Nonno, sai che ho già trovato il fidanzato? ».
Il nonno chiese: « Dimmi, dove l'hai trovato? ».
Suvodra rispose: « Quel giorno in cui andai al palazzo reale per vendere la prima bambola alle principesse, il portiere mi cacciò via dicendo che era un giocattolo fuori moda. Un giovane, vedendomi piangere, mi si avvicinò chiedendomi la bambola: mi disse che l'avrebbe un po' ritoccata, affinché potessi venderla.
Così è stato, se a te piacerà quel giovane vorrei mettergli la collana di fiori intorno al collo ».
« Dov'è questo ragazzo? » chiese il nonno.
« E' fuori, sotto l'albero di pial.(*)»
Quando il giovane entrò nella stanza il vecchio esclamò: « Oh! Ma è Kissenlal ».
Kissenlal salutò il vecchio dicendo: « Sì, sì, sono proprio Kissenlal ».
Allora il nonno l'abbracciò, dicendogli: « Mio caro, un giorno hai rubato le bambole dalle mie mani e ora sei venuto a rubare anche la bambola del mio cuore? »
Ma Suvodra, abbracciando a sua volta il vecchio, sussurrò: « Non solo ha rubato la bambola del tuo cuore, ma ha conquistato anche il tuo ».



(*)L'albero di pial è l'anacardo, che produce ottimo legno e noci squisite.







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30/01/2008 07:05



Madhovi



1


Nel paese del re Voja ogni mattina, all'alba, una fanciulla si recava al tempio a cantare, un'orfana raccolta su una strada.
Narra il maestro che l'aveva trovata: « Una notte, durante le prime ore del sonno giunsero alle mie orecchie dei suoni indistinti, e quando al mattino uscii per raccogliere i fiori vidi la bambina sotto un albero ».
Da quel giorno l'aveva allevata ed educata come un vero padre, e ancor prima di saper parlare lei aveva imparato a cantare.
Ormai la voce del maestro è debole e vedono poco i suoi occhi, così la fanciulla lo accudisce come un bambino. I giovani giungono da lontano per ascoltare il suo canto.
Il maestro l'osserva e il suo cuore a volte ha paura, e le dice: « Il fiore lascia lo stelo quando si è indebolito ».
La fanciulla risponde: « Io non potrei vivere senza di te ».
Il padre l'accarezza e le dice: « La musica che mi ha abbandonato, nel tuo essere ha assunto una forma. Se tu mi lasciassi io perderei ciò che ho cercato per tutta la vita ».


2


Una sera di luna piena, in primavera, il discepolo prediletto del maestro, Kumarsen, depose ai suoi piedi un ramoscello fiorito di mango e lo salutò dicendo: « Madhovi mi ha donato il suo cuore. Ora, se lei lo permette, ci sposeremo e la serviremo come figlio e figlia ».
Gli occhi del maestro si riempirono di lacrime. Disse: « Portami la mia tombura e sedete dinanzi a me come re e regina ».
Il maestro suonò la tombura e cominciò a cantare. Disse: « Questa sera canterò l'ultima canzone della mia vita. »
Cercò d'intonare il primo verso, ma invano. Le note tremavano nella sua voce come trema un fiore di gelsomino nel vento, dopo la pioggia. Alla fine consegnò il suo strumento a Kumarsen, affinché lo tenesse per sempre. E posando la mano di Madhovi in quella di Kumarsen sussurrò: « Ecco, prendi il mio cuore ».
Poi aggiunse: « Cantate voi la mia canzone, sino al termine, io ascolterò ».
Madhovi e Kumarsen cominciarono a cantare. Quella musica sembrava la voce del cielo e della luna.


3


Proprio in quel momento giunse un messaggero del re, e i due giovani interruppero la musica. Il maestro si alzò trasalendo: « Cosa ordina il re? » chiese.
« Sua figlia è fortunata, il re la chiama a corte ».
« Cosa farà di lei? »
« La principessa partirà domani per raggiungere suo marito, a Kamboj, e Madhovi sarà la sua accompagnatrice. »
Arrivò il nono giorno. La principessa stava per partire e sua madre, la regina, chiamò Madhovi e le disse: « Devi fare in modo che mia figlia sia felice nel paese in cui abiterà ».
Gli occhi di Madhovi, ardenti come il sole d'estate, rimasero asciutti: nessuno s'era curato della sua felicità.
Dietro la portantina della principessa c'era quella di Madhovi.
Kumarsen stava immobile sul bordo della strada. Il maestro era morto come un ramo di quercia che la tempesta abbatte nella polvere.
Gli uccelli cantavano sugli alberi e l'aria era piena del profumo dei fiori di mango.
Nel palazzo del re, tutti sospiravano tremando che la piccola principessa, nelle future sere di primavera, potesse soffrire di nostalgia nel paese lontano in cui avrebbe vissuto.








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