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LIPIKA - Biglietti dall'India - di Rabindranath Tagore

Ultimo Aggiornamento: 01/11/2009 09:35
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31/01/2008 06:55



Lo stesso gioco




1


Quel giorno le notizie sulla guerra non erano favorevoli. Il re, preoccupato, andò a passeggiare in giardino. Vicino al muro di cinta, sotto un albero, vide giocare un bambino e una bambina.
Il re chiese: « A che cosa state giocando? ».
« Giochiamo a Rama e Sita in esilio » risposero. Il re si mise a sedere.
Il bambino disse: « Questa è la nostra foresta di dandak (*) e qui stiamo costruendo una capanna ». Aveva raccolto rami spezzati, stecchi e frasche, ed era tutto affaccendato.
La bambina cucinava senza fuoco con un giocattolo; pensando che Rama avrebbe voluto mangiare, Sita non aveva un momento da perdere.
Il re disse: « C'è quasi tutto, ma non vedo l'orco », e il ragazzo dovette riconoscere che la loro foresta di dandak non era perfetta.
Il re allora propose: « Va bene, farò io la parte dell'orco ».
Il ragazzo l'osservò attentamente, poi disse: « Ma dovrai avere la peggio ».
« Sono abituato ad avere la peggio! Proviamo. »
Quel giorno l'orco fu ucciso con tanto entusiasmo che il ragazzo non voleva lasciar partire il re. Egli dovette morire la morte di dieci o dodici orchi, finché fu stanco.
Quel giorno nel boschetto cantavano gli uccelli come secoli prima avevano cantato nella foresta di Panchabati (**). E le luci del mattino danzavano come una tenera musica sulle foglie verdi degli alberi.
Il re dopo il gioco diventò allegro. Quando tornò a palazzo fece venire il ministro e gli chiese: « Di chi sono quei bambini? ».
» La bimba è mia figlia e si chiama Rucira. Il piccolo invece è Kousik, figlio di un brahmano povero, che vive facendo il sacerdote » rispose il ministro.
« Quando saranno grandi voglio che si sposino » esclamò il re allegramente.
Al ministro mancò il coraggio di replicare e non gli rimase che chinare la testa.


2


Il re mandò Kousik a studiare presso il più grande sapiente del reame, i cui discepoli erano tutti di nobile origine. Anche Rucira, la figlia del ministro, andava a scuola da lui.
Il maestro non fu molto contento che Kousik frequentasse la sua scuola perché i suoi compagni si vergognavano di lui. Ma si piegò al desiderio del re.
Anche Rucira aveva grandi problemi: gli studenti bisbigliavano tra loro additandola, e allora il suo viso arrossiva di vergogna e lacrime di rabbia cadevano dai suoi occhi.
Se qualche volta Kousik le porgeva un libro, lei lo respingeva, se le parlava di studio, non rispondeva. L'affetto del maestro per Rucira era sconfinato e voleva che ella superasse Kousik in tutte le discipline scolastiche.
Anche Rucira lo voleva, e la cosa sembrava facile, perché Kousik non si applicava allo studio: nuotava, andava nelle foreste, cantava e suonava.
Il maestro lo rimproverava: « Bada allo studio ».
« Amo non solo lo studio, ma molte altre cose » rispondeva lui.
« Dimenticale » intimava il maestro.
« Ma così perderei anche l'amore per lo studio » replicava Kousik.


3


Così trascorse del tempo. Un giorno il re chiese al maestro: « Chi è il migliore dei tuoi discepoli? ».
« Rucira ».
« E Kousik? »
« Mi sembra che abbia imparato poco. »
« Ma io desidero che si sposino. »
Il maestro sorrise: « Sarebbe come il matrimonio dell'alba con il crepuscolo ».
Il re chiamò il ministro e gli disse: « Non indugiare più, concedi in sposa tua figlia a Kousik ».
Il ministro rispose: « Signore, mia figlia non desidera questo matrimonio ».
« E' forse possibile sapere ciò che le donne desiderano da quello che dicono? »
« Ma il suo pianto testimonia pur qualcosa. »
« Forse ritiene Kousik indegno di lei come sposo? »
« Sì, è proprio così. »
« Va bene, voglio che sostengano gli esami al mio cospetto. Se Kousik vincerà la gara si sposeranno. »
Il giorno seguente il ministro comunicò al re che la proposta era gradita a sua figlia.


4


I professori erano radunati.
Il re si sedette sul trono e Kousik s'inginocchiò ai suoi piedi.
Il maestro giunse con Rucira.
Kousik s'inchinò di fronte a loro, che non lo degnarono di uno sguardo.
Kousik non aveva mai sostenuto una discussione con Rucira secondo le regole della scuola. Neppure gli altri studenti, in segno di disprezzo, gli avevano mai offerto l'occasione per discutere: e così quel giorno il maestro constatò l'ironia pungente del ragazzo e la sua dialettica, simile al bagliore di un fulmine nel temporale: ne fu irritato, ma anche stupito.
Rucira cominciò a sudare e a confondersi e Kousik la mise alle strette.
Il maestro per la rabbia taceva e alla fine Rucira scoppiò a piangere.
Il re disse al ministro: « Fissa il giorno delle nozze ».
Kousik si alzò e disse al re, con le mani giunte: « Perdonatemi, ma non intendo sposarmi ».
Stupito il re gli chiese: « Non vuoi godere del premio della vittoria? ».
« La vittoria mi appartiene, che un altro si prenda il premio! » esclamò Kousik.
Il maestro implorò: « Mio sovrano, concedetemi un altro anno, un nuovo esame ».
« Va bene, si ripeta l'esame il prossimo anno » accordò il re.


5


Kousik lasciò la scuola. A volte, di mattina, lo si vedeva tra le ombre del bosco, altre volte, di sera, sulla cima del colle.
Il maestro si dedicò totalmente all'istruzione di Rucira. Ma dov'era fuggita la sua anima?
Incollerito, il maestro così la esortava: « Studia, sta' attenta, se non vuoi essere umiliata per la seconda volta ».
Ma sembrava destinata a una nuova sconfitta, e volutamente trascurava lo studio.
Apriva svogliatamente e di rado i libri di filosofia e letteratura e furibondo il maestro urlava: « Giuro sul nome di Kapil e Kanad (***) che non accetterò più studentesse. Conosco a fondo i Veda e il Vedanta (****), ma non sono riuscito a comprendere l'anima delle donne ».
Un giorno il ministro si presentò al re e gli disse: « Ho ricevuto una proposta di matrimonio per mia figlia da parte dei Devadatta, una famiglia impareggiabile per stirpe, educazione, ricchezza e fama. Chiedo il vostro permesso per farla finalmente sposare ».
« Cosa dice tua figlia? »
« E' forse possibile comprendere l'anima di una donna dalle parole che dice? »
« Non sai dunque dirmi che cosa testimoniano le sue lacrime? »
Il ministro confuso chinò il capo e rimase in silenzio.


6


Il re andò a sedersi nel giardino, ordinando al ministro: « Chiama tua figlia, falla venire ».
Venne Rucira e salutò il re, che le disse: « Ti ricordi, cara, il gioco di Rama in esilio? ».
Rucira sorrise e rimase in silenzio con la testa china.
« Vorrei partecipare nuovamente a quel gioco: c'è la foresta, c'è anche Rama, ma mi sembra, mia cara, che manchi Sita. Potresti fare ancora la parte di Sita? »
Rucira si coprì il volto in silenzio, s'inchinò e salutò con un cenno del capo il re, senza parole.
Il re disse: « Questa volta però non potrò fare io la parte dell'orco, la farà forse il maestro? ».
Rucira guardò il re con uno sguardo tenero e malizioso.







(*)Dall'albero di dandak, che resiste molto bene alla siccità e può raggiungere anche 50 metri di altezza, esistono vaste foreste in tutta l'India del Nord.
(**)Nella foresta di Panchabati si erano rifugiati nel loro esilio Rama e Sita, protagonisti della classica saga indiana del Ramàyna.
(***)Due filosofi antichi e molto famosi in India.
(****)Libri sacri di filosofia e religione indiana.








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01/02/2008 07:49

L'eremita




1


L'uomo deve eliminare gli ostacoli che si frappongono alla conquista dell'immortalità. Questo era il pensiero dominante dell'eremita, e intendeva metterlo in pratica. E così, con enorme sforzo, studiava il segreto per diventare immortale.
In meditazione sedeva solitario nella foresta.
Nei pressi viveva la figlia di un boscaiolo, che a volte gli portava della frutta, raccolta nelle cocche del grembiule, e l'acqua di una sorgente, in un recipiente fatto di foglie.
Con il trascorrere del tempo l'eremita si era così profondamente immerso nella meditazione da non mangiare più la frutta, che gli uccelli venivano a beccare, e da non bere più l'acqua, che evaporava nel recipiente di foglie senza essere stata toccata.
La figlia del boscaiolo si domandava: « Che posso fare? La mia offerta è forse vana? ».
Poi coglieva qualche bel fiore, disponendolo ai piedi dell'eremita, ma egli non dava segno di curarsene.
Quando nel meriggio il sole era ardente, con la veste gli faceva ombra, ma quel solitario eremita era del tutto indifferente sia al sole che all'ombra.
E quando saliva il buio della notte, la fanciulla vegliava vigilando, sebbene non ci fosse alcuna ragione di temere per lui.


2


V'era stato un tempo in cui l'eremita, incontrando la figlia del boscaiolo, le chiedeva con tenerezza come trascorresse la sua vita.
La ragazza rispondeva sempre così: « Che io stia bene o male non ha importanza. Ma piuttosto non c'è nessuno che si prenda cura di lei? Non ha la madre o una sorella? ».
L'eremita rispondeva: « Io ho tutti. Ma perché loro dovrebbero curarsi di me? Hanno forse il potere di non farmi morire? ».
La ragazza replicava: « La vita è tanto preziosa proprio perché è breve ».
L'eremita rispondeva: « Io cerco il modo di essere immortale. Io voglio donare all'uomo l'immortalità ».
Poi iniziava dei discorsi totalmente incomprensibili per la fanciulla. Non capiva, eppure il cuore s'impauriva, come una pavoncella quando sente il brontolio dei primi tuoni nel cielo.
Anno dopo anno l'eremita le parlava sempre più raramente, fin quando non rimase del tutto silenzioso.
Alla fanciulla sembrava che fra lei e il suo solitario amico esistesse una lontananza incommensurabile e che non avesse nessuna possibilità, nessuna speranza di avvicinarsi a lui, neppure se fosse trascorso un tempo infinito.
A volte piangeva dicendo tra sé: « Potrei trascorrere tutto il giorno lietamente, se solo mi dicesse qualche parola, e se mangiasse un poco di frutta, io stessa potrei mangiare contenta ».


3


Un giorno si diffuse in paradiso la notizia che un uomo voleva divenire immortale! Il re di quel luogo finse di essere in collera, ma in segreto provava paura.
Disse: « Quando i demoni tentarono la conquista del paradiso, noi li combattemmo e li vincemmo. Ma quest'uomo ci combatte con il dolore: dovremo forse cedergli il paradiso? ».
Comandò quindi a Menaka, la danzatrice del paradiso, di distogliere quell'eremita dalla sua meditazione.
Menaka rispose: « Mio signore, è troppo umiliante per gli dei usare un'arma divina per vincere una creatura mortale. Non sarebbe preferibile che fosse una donna a conquistarlo? ».
Il re rispose: « Sì, hai detto bene, è veramente un buon consiglio ».


4


Quando soffia il primo vento di primavera la pianta rampicante di madhovi(*)sussurra gioiosamente; nello stesso modo un giorno il soffio del paradiso percosse la figlia del boscaiolo e il suo corpo e la sua anima avvertirono una nuova, fresca e dolorosa dolcezza.
I suoi pensieri cominciarono a volare come api inebriate dal profumo del miele.
Proprio in quel tempo si era concluso un ciclo di meditazione dell'eremita, che era in procinto di ritirarsi in una caverna ancora più solitaria.
Aprendo gli occhi, egli vide dinanzi a sé la figlia del bosciolo. Aveva un fiore di asoka(**) tra i capelli, la sua veste era stata tinta con il colore di kusumka(***).
Gli parve di conoscerla, sebbene non la ricordasse così. Era come una melodia conosciuta, le cui parole non si possono ricordare, come un quadro che una volta era stato solo tratteggiato e ora appariva compiutamente dipinto.
L'eremita si alzò e disse: « Voglio andarmene lontano ».
« Perché? » domandò la figlia del boscaiolo.
L'eremita rispose « Per approfondire la mia meditazione ».
La fanciulla pregò giungendo le mani: « Perché vuole privarmi della gioia di vederla? ».
Egli nuovamente si sedette. Meditò lungamente, ma rimase in silenzio.


5


Quando vide esaudito il suo desiderio, alla fanciulla parve che degli aghi le trafiggessero il cuore.
L'eremita si disse: « Sono un essere di poco valore, perché ho voluto turbarla con le mie parole? ».
La fanciulla trascorse la notte sul suo letto di foglie, insonne, temendo se stessa. Al mattino si recò dall'eremita portando della frutta.
Egli per la prima volta stese la mano e ne prese. La ragazza gli portò anche dell'acqua. L'eremita la bevve. Il cuore della ragazza era colmo di felicità. Ma quando andò sotto l'albero di siris(****), vicino al fiume, non poté frenare le lacrime. Chissà quali pensieri si agitavano nella sua mente!
Il giorno seguente, al mattino, la figlia del boscaiolo si recò dall'eremita e gli disse: « Mi benedica ».
Lui ne chiese il motivo, e la fanciulla rispose: « Vorrei andare lontano ».
E l'eremita, benedicendola: « Vai, e ti auguro di ottenere ciò che desideri ».
Un giorno la meditazione si concluse e allora giunse il re del paradiso e disse all'eremita: « Hai finalmente ottenuto il diritto al paradiso ».
L'eremita rispose: « Non lo desidero più ».
Il re gli domandò: « Cosa chiedi allora? »
L'eremita rispose: « Desidero la figlia del boscaiolo ».






(*)Il rampicante di madhovi è un arbusto somigliante al tamarindo, dai bei fiori stellati.
(**)Asoka: ciliegio indiano, i cui fiori sono stati descritti infinite volte nella poesia bengalese.
(***)Kusumka: pianta delle Sapindacee, il cui fiore serve, essiccato, alla tintura delle stoffe.
(****)Siris: albero appartenente alle Leguminosae Mimosaceae, dai bei fiori delicati.








[Modificato da auroraageno 01/02/2008 07:53]

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02/02/2008 06:46


La prima lettera



1


Partiva, lasciando per la prima volta la sua casa dal giorno delle nozze.
Mentre stava per allontanarsi intravide, riflesso nello specchio, il pianto segreto di sua moglie.
Disse fra sé: « E' meglio che torni indietro e le parli ». Ma non c'era tempo. Non aveva mai veduto piangere qualcuno per la sua partenza.
Durante il viaggio, nella luce del tramonto, la terra gli apparve come popolata di pene d'amore. Il pensiero che anch'egli contribuiva allo sconfinato dolore del mondo, riempì il suo essere di stupore.
Il paese dove lavorava era in montagna. La via tortuosa, ombreggiata d'alberi di debdaru(*), saliva abbracciando il colle come una supplica silenziosa, e le piccole cascate precipitavano come se cercassero segretamente qualcuno.
L'uomo vedeva riflessa nella natura quell'immagine che aveva intravisto nello specchio, l'immagine del segreto dolore della giovane moglie.


2


Era giunta la prima lettera della sposa, che scriveva: « Quando ritornerai? Vieni, vieni presto, te ne supplico! ».
Chi avrebbe pensato che in questo mondo, dove si va e si viene di continuo, la sua partenza e il suo ritorno avrebbero avuto tanto valore?
Riflettendosi nello sguardo di quegli occhi tristi, il suo cuore si riempì di stupore.
All'alba uscì portando con sé la lettera e s'incamminò per la solita strada tortuosa, ombreggiata dagli alberi di debdaru.
Ogni volta che toccava la lettera con la mano, gli sembrava di udire: « Tutto il cielo del mio mondo è bagnato dalle lacrime che io verso perché non posso vederti ». Pensava tra sé: « Valgo forse tante lacrime? ».


3


Il sole sorgendo dalla cima del colle azzurrino splendeva attraverso la cortina di foglie bagnate dalla rugiada.
All'improvviso quattro donne straniere con due cani lo incrociarono a una curva della strada.
Doveva trasparire qualcosa di strano dal suo viso, dal suo abbigliamento, dal suo contegno.
Le donne si voltarono incuriosite, guardandolo. Le due più giovani invano si sforzavano di non ridere, ma l'una eccitava l'altra, finché entrambe scoppiarono in una risata.
Il loro ridere, pieno di ironia pungente, parve mutare anche la melodia delle cascate.
Le donne giunsero perfino a battere le mani. Egli camminava a testa china e pensava: « Vale la mia vista tante risate? ».
Gli fu impossibile procedere e fece ritorno a casa: seduto in solitudine nella sua stanza aprì nuovamente la lettera e lesse: « Quando ritornerai? Vieni presto, te ne supplico ».





(*)Gli alberi di debdaru sono di una qualità selvatica, della famiglia del ciliegio indiano, e crescono soprattutto in montagna.






[Modificato da auroraageno 02/02/2008 06:48]

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03/02/2008 06:53



La festa del carro




Il giorno della festa del carro(*) era vicino.
La regina disse al re: « Andiamo ad ammirare la festa del carro ». Il re accondiscese.
I cavalli furono condotti fuori dalla scuderia, gli elefanti dalla stalla, le portantine si succedevano a schiere; i soldati armati di lance marciavano in fila, e il corteo era chiuso da frotte di servi.
Soltanto una persona non si mosse, un raccoglitore di saggina per le scope della reggia. Il maggiordomo ne ebbe pietà e gli disse: « Vieni, se vuoi ». Congiungendo le mani, rispose: « Non è possibile che io venga ».
Giunse agli orecchi del re che tutti erano con lui, tranne quel povero uomo. Ne provò compassione e disse al ministro: « Chiama anche lui ».
La sua casa era lungo la strada. Quando gli elefanti la raggiunsero, il ministro lo chiamò dicendo: « Esci, Dukhi, vieni anche tu a vedere il Signore, che viene sul carro ».
A mani giunte rispose: « Quanto lontano potrei andare? E come mi sarebbe possibile giungere fino alla porta del tempio? ».
Il ministro rispose: « Non aver timore, andrai con il re ».
Egli esclamò: « Giusto cielo! La strada del re non è la mia strada ».
« Come potresti fare diversamente? Forse che il destino ti vieta di partecipare alla festa del carro? ».
« Niente affatto, anch'io partecipo alla festa! il Signore è giunto sul suo carro sino alla mia porta. »
Il ministro rise e chiese: « Dove sono le tracce del carro davanti alla tua porta? ».
« Il suo carro non lascia tracce. »
« Come puoi dirlo? »
« Perché egli viene su un carro di fiori. »
« E dov'è quel carro? Dove sono quei fiori? » Per tutta risposta Dukhi indicò due girasoli e gli stipiti della sua porta.






(*)Un carro serve come altare alla divinità, nella festa sacra detta appunto « del carro ». Questo carro solitamente viene portato di villaggio in villaggio, ricoperto di fiori, ricevendo durante la processione l'omaggio del popolo.









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04/02/2008 06:52



Il regalo




La festa della Puja(*) era vicina.
La stanza interna traboccava di tante cose!
C'erano sete di Benares, ornamenti d'oro, vasi colmi di latte, e piatti pieni di dolci. Erano doni che la madre voleva inviare.
Il primo figlio serviva il governo in una località remota, il secondo era un mercante e viveva anch'egli lontano da casa, gli altri figli avevano litigato tra loro separandosi, i parenti abitavano in luoghi diversi.
Il figlio piccolo rimase tutto il giorno sulla soglia osservando i pacchi dei regali, le file dei servi e i piatti coperti da drappi multicolori.
Il giorno trascorse.
Tutti i regali erano stati spediti. Con la cesta dorata contenente l'ultimo dono, anche l'estremo raggio del sole morente disparve nel sentiero delle stelle.
Il bambino ritornò in casa e rimproverò la madre: « Mamma, hai fatto regali a tutti tranne che a me ».
La madre sorrise e rispose: « Ho donato tutto agli altri, ma ecco quello che rimane per te ».
Così dicendo, baciò sulla fronte il piccolo, che ripeté con voce piagnucolosa: « Non avrò dunque nessun regalo? ».
« L'avrai quando anche tu andrai lontano. »
« E ora che ti sono vicino non mi doni nessuna cosa tua? »
La madre lo sollevò tra le braccia e gli disse: « Ormai sei tu l'unica cosa che possiedo! Ecco, sei tu il mio regalo ».





(*)La festa della Puja, si celebra in autunno nel Bengala; ha un carattere familiare e consiste essenzialmente in uno scambio di doni tra parenti.









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05/02/2008 01:48



Postfazione



La parola lipika in bengali, che è la lingua in cui Rabindranath Tagore pensò e scrisse per tutta la sua lunga vita, significa « piccolo scritto », « biglietto »: il libro che presentiamo, infatti, è una raccolta di brevi racconti, in un primo tempo pubblicati su riviste indiane con il titolo di Kathika. Quando Tagore curò l'edizione inglese delle sue novelle, nel 1916, per l'editore Macmillan di Londra, inserì in Hungry Stones and Other Stories, buona parte di questi racconti brevi. Con l'aggiunta d'impressioni, descrizioni e nuovi racconti li ripubblicò infine nel 1919 a Calcutta con il titolo finale di Lipika.

All'interno della straordinaria produzione artistica di Tagore, questo libro rappresenta un momento molto particolare, essendo scritto nel cosiddetto « chaltibhàsà », o lingua parlata. Nel Bengala, infatti, dopo la creazione del nuovo stile bengalico moderno « shadubàsà », o lingua gentile, da parte del romanziere Bankim Ciandra Ciatterji, romanzi e novelle venivano rigidamente scritti solo in questa forma espressiva. Tagore, che aveva utilizzato quello stile nelle prime opere in prosa, nella maturità operò una profonda riforma linguistica, iniziando a scrivere nella lingua parlata. Una lingua che colpisce per la sua semplicità libera da ogni retorica, pervasa da un grande senso poetico, così chiara e armoniosa da saper rendere la bellezza delle descrizioni sia naturali che umane, la scioltezza dei dialoghi, la favolosità dei temi, il realismo dei quadri di vita indiana.

Lipika è diviso in tre parti, secondo il tema e il contenuto dei racconti. La prima parte presenta essenzialmente descrizioni di ambienti, di fenomeni naturali, di sentimenti, di esperienze vissute. Il mondo e il clima del Bengala, in cui Tagore era nato nel maggio 1861 da nobile e ricca famiglia, viene descritto minuziosamente in quadri d'intonazione impressionistica, com'era già accaduto in un'altra raccolta in prosa di Tagore, Glimpses of Bengala Life, pubblicato a Londra, presso Luzac, nel 1913.

I protagonisti di queste brevi storie sono strade campestri, vecchie case abbandonate, sguardi, sentimenti, e su tutto domina il dolore per la perdita della moglie, Mrnalini Debi, morta il 25 novembre 1902 a soli ventinove anni. Indimenticabile, in questa prima parte del libro, la rappresentazione del sentimento di dubbio nei confronti della morte e del dolore, da parte di un bambino, in Domanda. Tagore si dimostra qui profondo conoscitore del mondo e della sensibilità infantili, come già nella raccolta poetica Sissa, del 1903, e nei numerosissimi saggi di pedagogia, scritti in momenti diversi della sua esistenza (cfr. G. Ottonello, Antologia di scritti pedagogici di R. Tagore, Brescia 1975).

Di certo l'interesse per il mondo infantile fu reso più acuto in Tagore dalla perdita di due figli piccoli: Renuka morto nel 1904, e Somindro, nel 1907, ai quali era particolarmente vicino dopo la morte della moglie. E così in Lipika, come nella maggior parte delle opere di Tagore scritte tra il 1903 e il 1921, ricorre di continuo il tema del ricordo e del rimpianto, che pare placarsi soltanto nella contemplazione della natura. Ricorrenti, in questo senso, sono le descrizioni di paesaggi, di alberi, di fiori; la stessa grande pioggia del monsone assurge a simbolo, ne Il messaggio della nuvola, di unione amorosa tra il cielo e la terra.

La seconda parte di Lipika presenta invece ritratti soprattutto femminili, particolarmente riusciti in Minu e Il desiderio della seconda regina. La donna vi appare come un essere ancora in grado di esprimere i sentimenti allo stato puro: la gelosia, la felicità, l'angoscia, il desiderio e la generosità sono descritti in queste pagine mirabilmente. L'appassionato interesse dello scrittore per la condizione della donna in India è noto: egli, infatti, tentò di favorire il movimento di emancipazione della donna dalla schiavitù dei costumi tradizionali. Tagore esprimerà questa sua sensibilità al problema sia in opere poetiche, teatrali e narrative, sia in numerose conferenze, prima tra tutte Women, tenuta negli Stati Uniti e poi raccolta e pubblicata con altri testi a Calcutta, nel 1917, in Personality. In questo saggio Tagore si fa promotore dell'estensione alla donna dei diritti più elementari, come l'istruzione e il voto, e soprattutto dell'abolizione del sati, cioè dell'uso indi, molto diffuso, di bruciare la vedova con il cadavere del marito. Lo scrittore seguiva anche in questo la tradizione familiare illuministica iniziata con il nonno Dvarkanâth (1794-1846) e poi proseguita dal padre Devendranâth (1817-1905), che nel Bengala si erano battuti a lungo per la modernizzazione della società civile.
Tra gli altri racconti della seconda parte, ricordiamo L'uomo superfluo, allegoria sul significato e sulle finalità dell'arte, Il giullare, amara satira contro la violenza del potere.

La terza parte delle novelle di Lipika è forse la più suggestiva. per la ricchezza fantastica di molti racconti, come Le bambole, Madhovi, Indistinto, L'eremita, e per la tensione pedagogica di altri come Il pappagallo e Lo stesso gioco, che appaiono come una critica spietata di una scuola assurda, basata sull'esercizio della memoria. La satira del pappagallo prigioniero, ingozzato sino alla sazietà con i fogli dei libri da parte di solerti educatori, come la figura di Kousik, che dopo aver sperimentato la scuola raffinata del palazzo reale preferisce completare la propria educazione nel cuore della foresta, ci mostrano un Tagore critico nei confronti di un insegnamento che vede privo di ogni vitalità e gioiosità e di ogni rispetto per le esigenze più profonde e naturali dei giovani. E proprio per opporsi alle concezioni pedagogiche dominanti, Tagore aveva fondato, nel 1901, l'istituzione di Shantiniketan e darà vita poi, nel 1921, all'Università Vishva-Bharati. Le due istituzioni, ancora oggi funzionanti, si fondano sull'antichissima concezione indiana, condivisa da Tagore, secondo la quale un'educazione autentica, per assolvere il suo compito, deve essere congiunta alla gioia e al libero sviluppo della personalità dell'alunno.

Leggendo le brevi novelle di questo libro i lettori ritroveranno tutta la grazia delle poesie di Tagore, ma potranno anche conoscere il sereno e, a tratti, ironico stile della sua prosa, quasi del tutto sconosciuta in Italia. Quello che più stupisce è come, a distanza di decenni e in condizioni culturali completamente diverse, questi racconti sappiano comunicarci un messaggio complessivo di straordinaria profondità e attualità.

Brunilde Neroni












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