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Notizie dai giornali (cartacei o del web)- 67° - Poche sorprese. Francesco è fatto così

Ultimo Aggiornamento: 04/04/2013 18:23
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04/02/2008 18:02

Inseriamo in questo spazio articoli tratti da giornali e riviste, sia cartacei e sia del web, che desideriamo offrire alla conoscenza di tutti noi.

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da Panorama.it:

Quell’immondizia abbandonata nello Spazio


di luca.delloiacovo Lunedì 4 Febbraio 2008 alle 13:50




I rifiuti e le discariche non sono soltanto un problema sulla Terra: le stime della Nasa dicono che almeno il 95% degli oggetti in orbita fino a 2000 chilometri sono satelliti in disuso. Dagli enti di ricerca scientifica agli operatori di telecomunicazioni, il numero di lanci cresce rapidamente. E aumenta l’immondizia spaziale. Come il satellite militare “Us 193": gli Stati Uniti lanciano l’allarme perché non è più sotto controllo e sta precipitando alla velocità di otto chilometri al giorno. Entro poche settimane potrebbe distruggersi completamente avvicinandosi all’atmosfera o arrivare fino al suolo. Se è vero che l’acqua ricopre i tre quarti della superficie terrestre, è anche possibile che resti del satellite cadano sul suolo.

Negli ultimi mesi già alcuni blogger avevano osservato il comportamento anomalo di “Us 193", mandato in orbita il 14 dicembre 2006 con il nome di L-21 dalla base di Vandenberg, e inutilizzabile già poco dopo il lancio. A denunciare il rischio è stato il National Reconnaissance Office, una delle sedici agenzie della comunità d’intelligence Usa. Secondo il Pentagono sono 17mila i satelliti caduti sulla Terra negli ultimi cinquant’anni.



[Modificato da auroraageno 23/08/2012 17:31]

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05/02/2008 18:17

Speriamo tutti vivamente che non cada sulla testa di nessuno!

E pensare quanti satelliti vi sono sopra di noi..!!
E noi, magari, ce ne andiamo in giro sempre pieni di noi stessi... [SM=x832002]


aurora


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07/02/2008 21:17

Telefonini e salute, il vero pericolo viene dal nichel

da Panorama.it - di Roberto Verrastro - Giovedì 7 Febbraio 2008



La leggenda metropolitana che il telefonino possa causare tumori cerebrali ha fatto perdere di vista un rischio più concreto, per quanto meno grave, che deriva dal suo uso. E’ quello messo in luce da un articolo pubblicato dal Canadian Medical Association Journal, che illustra un caso di dermatite allergica da contatto analizzato presso il dipartimento di dermatologia della statunitense Brown University.
L’origine della patologia, in seguito all’osservazione che la reazione allergica era cessata sul volto di un ragazzo diciottenne che aveva cominciato a utilizzare un telefonino privo di parti in nichel, è stata individuata proprio in quel metallo, presente in 10 dei 23 cellulari delle diverse marche testate, soprattutto in aree come il tasto per la selezione delle funzioni, il logo del produttore e i bordi del display.
Il problema, confermato anche dalle prime anticipazioni di uno studio condotto in Danimarca, diventa ancora più rilevante per il fatto che, al contrario di quanto accade, per esempio, per gli occhiali, non esiste una normativa valida su scala europea che stabilisca dei limiti alla quantità di nichel utilizzabile per la produzione delle parti metalliche dei telefonini, che spesso abbondano nei modelli dal design più alla moda.
In attesa di una possibile regolamentazione, potrebbe essere utile seguire il suggerimento dei ricercatori statunitensi, quello di intervenire sui rivenditori affinché favoriscano la sostituzione dei telefonini ai clienti che soffrano di un’allergia alle loro parti metalliche documentata dal medico.





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08/02/2008 15:23

da Panorama.it - di Marta Buonadonna Venerdì 8 Febbraio 2008

A ciascuno il suo sito in 5 minuti: i servizi gratuiti sul web


Se fino a poco tempo fa era il social networking ad attirare pubblico su internet, oggi a nascere come funghi sono i siti che permettono di costruirsi un proprio spazio web. Dalla condivisione totale all’autarchia? In un certo senso sì. Perché a meno di avere un business da mandare avanti che lo richieda, a chi serve davvero avere un proprio sito internet? E soprattutto, come per i blog, una volta che tutti ne avranno uno quanti saranno coloro che andranno a visitare quelli degli altri?

Ma la grande macchina del web 2.0 va avanti e non si pone questi problemi. Così sbarca in Italia il fenomeno Jimdo, nato in Germania per mano di tre baldi giovani (24, 24 e 29 anni) che nei locali di una vecchia fattoria (versione bucolica del garage in cui sono nate Microsoft, Yahoo! e Google) si sono inventati un software che permette di costruire e personalizzare facilmente un sito web. Hanno cominciato nel 2004, vendendo il programma a piccole aziende, poi sono diventati grandi e si sono detti che forse potevano anche permettersi di regalare l’invenzione ai navigatori di tutto il mondo.
Esiste, come sempre più spesso accade nel web 2.0, una versione gratuita del servizio e una a pagamento, che per 5 euro al mese consente spazio per upload quasi illimitato e la possibilità di avere un sito con un dominio proprio. Chi non paga deve accontentarsi di un Url personale solo a metà (nomesito.jimdo.com).
Una volta registrati si riceve nella casella di posta una password che consente di fare il login nel sito e cominciare immediatamente a modificare la pagina standard. Inserendo foto, testi, video, informazioni su di sé, link e quant’altro.

Ma Jimdo non è solo. Da gennaio chi vuole costruirsi un sito ha anche un’altra possibilità, grazie a Webnode. Il sito, per il momento solo in inglese, offre molte gabbie standard tra cui scegliere, con una discreta varietà di temi e colori, e permette di creare diverse sottopagine. Alla maggiore scelta corrisponde però una minore flessibilità: la gestione del proprio sito su Webnode è meno immediata e piacevole che con Jimdo.
Poi c’è Doodlekit che non si vende come website builder gratuito, bensì come la versione gratuita di Doodlebit, società che costruisce siti per professione a pagamento, ma che offre anche la possibilità di averne una versione base gratuitamente.
Non si paga niente con Freewebs, un nome una garanzia, che vanta la creazione di oltre 17 milioni di siti (ma con quanti visitatori ciascuno?). Si deve però passare alla versione Pro, a pagamento qualora si vogliano aggiungere al proprio sito funzionalità di e-commerce. Altri esempi? quanti ne volete: Easysite, SiteKreator, Weebly…

Costruirsi un sito non è mai stato così semplice. Ora la sfida si sposta sulla conquista dell’audience.






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17/02/2008 19:26

Un titanico giacimento di metano

da Virgilio Notizie - 17 febbraio 2008


Sulla maggiore luna di Saturno c'è più energia di quanta ci servirebbe






Ecco la soluzione ai problemi energetici globali: la scoperta di un giacimento che accontenterà tutti, senza bisogno di competizione e rischio di conflitti.
L'unico trascurabile problema è che si trova a 1 miliardo e 207 milioni di chilometri di distanza, su Titano, il più grande satellite di Saturno.

L'astrofisico Ralph Lorenz e il suo team della Johns Hopkins University hanno calcolato che ognuno dei mari (o laghi) di Titano - sono parecchie centinaia - contiene più gas naturale di quanto ce ne sia su tutta la Terra (circa 130 miliardi di tonnellate). Questo significa che la "luna arancione" ha centinaia di volte più idrocarburi liquidi del totale delle riserve naturali a nostra disposizione.

L'equipe si è servita dei dati forniti dalla sonda Cassini, che sta orbitando da quelle parti e che ha per il momento sondato circa il 20% del satellite.

Appare improbabile che si riesca a mettere le mani su tutto quel ben di dio, ma la ricerca ha comunque importanza per comprendere come fosse la Terra allo stato primordiale, quando per molti versi era simile alla luna di Saturno.

Uno dei problemi più stimolanti che pone Titano riguarda l'enorme presenza di metano nella sua atmosfera. Non esistono sul suolo fonti del gas tali da giustificare quei livelli atmosferici.
Ci sono allora due ipotesi: o esistono nel ventre del satellite dei giacimenti nascosti, che periodicamente si sprigionano nell'atmosfera attraverso eruzioni vulcaniche, oppure Titano ha vissuto in passato qualche fenomeno di breve periodo che ha prodotto il rilascio di metano.





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13/03/2008 13:23

da Virgilio Notizie - 13 marzo 2008


Global warming, in fumo anche la mobilità

Ferrovie, strade e ponti, le prossime vittime del surriscaldamento del clima


I treni deragliano per la deformazione delle rotaie, le giunture dei ponti cedono, le metropolitane e le strade si allagano. Tutta la mobilità delle zone costiere va in tilt. Non male come scenario. Avvincente come soggetto di un film catastrofico, un po' meno come prospettiva reale. Eppure è quello che succederà stando ad un recente rapporto delle National Academies, il consiglio nazionale di ricerca americano. La causa? Semplicemente l'aumento delle temperature dell'atmosfera, il fatidico global warming. Un altro dei suoi tanti effetti. Potrebbe sembrare il solito allarmismo catastrofista, ma la fonte più che autorevole non lascia illusioni. Soprattutto perché, oltre a fare delle previsioni, si prende la briga di studiare i rimedi concreti.

Cinque paure...

Dai treni alle auto agli aerei: tutte le modalità di trasporto dovranno fare i conti col surriscaldamento terrestre. Il Rapporto individua cinque principali cause di rischio:

ondate di calore: deformazione delle rotaie dei treni e dei giunti metallici dei ponti (oltre i margini di tolleranza già previsti);
innalzamento del livello del mare: inondazione di migliaia di chilometri di strade costiere;
aumento dei nubifragi: ritardi e difficoltà nel traffico aereo e stradale, allagamenti di metropolitane e tunnel sotteranei, erosione delle basi di appoggio dei viadotti;
aumento delle trombe d'aria: difficoltà per il trasporto navale e aereo, pericoli per la circolazione stradale;
scioglimento del permafrost, lo strato di terreno stabilmente ghiacciato a certe latitudini: perdita di stabilità di tutte le infrastutture (strade, ferrovie, aeroporti).

Escludendo l'ultimo fenomeno, che riguarda solo le aree in prossimità dei poli, tutti gli altri toccano da vicino anche il nostro paese.

... e sei soluzioni

Insomma un danno economico (oltre che ambientale) enorme: nell'era della globalizzazione bloccare la mobilità vuol dire far saltare il sistema. E' per questo che, oltre a lanciare l'allarme, gli scienziati Usa cercano di fornire dei suggerimenti operativi a chi si occupa di pianificazione dei trasporti. Per cominciare sarà necessario rivedere i modelli meteorologici finora utilizzati, che diventano sempre meno affidabili per il futuro. Bisogna infatti considerare una sempre maggiore intensità e frequenza dei fenomeni estremi, ovvero la tropicalizzazione del clima anche alle nostre latitudini.
Ma le autorità dovranno anche muoversi con un percorso preciso in sei tappe:

1. valutare quali sono le regioni e le infrastrutture che risentiranno del cambiamento climatico,
2. stabilire quali infrastrutture risultano essenziali all'interno della rete,
3. non potendo mettere in salvo l'intera rete, fare una valutazione dei costi/benefici per gli interventi sulle singole infrasrtutture,
4. definire le priorità di investimento considerando i punti critici e i vantaggi strategici delle singole infrastrutture (ad esempio, il fatto che una strada sia una via di evacuazione essenziale in caso di calamità),
5. sviluppare e mettere in pratica un piano strategico a breve e lungo termine;
6. verificare periodicamente la validità del piano ed eventualmente ripetere i passaggi da 1 a 5.

Un piano strategico che di fatto corrisponde ad un'ammissione esplicita: il fenomeno non è più evitabile e un azione preventiva ormai è impossibile perché avrebbe dei costi insostenibili. A questo punto si può solo tentare una riduzione del danno. (A.D.M.)






[Modificato da auroraageno 13/03/2008 13:25]

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26/03/2008 09:09

Verso un mondo di megalopoli

Nel 2025 ci saranno 33 città con più di 8 milioni di abitanti

- da Virgilio.it Notizie -


Si va verso l'era delle megalopoli, nonostante fino a qualche anno fa si pensasse che la terziarizzazione dell'economia e lo sviluppo tecnologico avrebbero creato un mondo di piccole comunità collegate in rete.

I dati ci dicono altro: secondo il World Resource Institute, nel 2025 gli abitanti delle città saranno 5 miliardi, il doppio rispetto al 1990.
Le città sopra gli 8 milioni saranno ben 33.

La ricerca, ripresa da Forbes, fa anche una classifica previsionale delle prime 10 megalopoli, collocandole soprattutto in Asia e America Latina. Tra queste, Mumbai e Calcutta in India, Karachi in Pakistan e Shanghai in Cina. Città del Messico e San Paulo saranno i "mostri" latino-americani.

Stupisce che nella lista non siano inserite città africane, ma forse il Continente Nero sconta ancora una volta la mancanza di attenzione del resto del mondo.

Stupisce anche l'assenza della cinese Chongqing, per alcuni già la città in assoluto più grande del mondo.
Qui forse la questione è metodologica, perché si tende a distinguerne l'area urbana strettamente intesa - che ha "solo" 3.5 milioni di abitanti - dalla municipalità estesa: una sorta di enorme periferia urbana senza fine, popolata da oltre 32 milioni di abitanti.
Un numero che, a detta di molti urbanisti, rende già del tutto ingestibile il funzionamento del sistema-città.

E il futuro del mondo rischia di essere proprio così: urbanizzazione disordinata e senza soluzione di continuità in cui trasporti, alloggi e inquinamento saranno le emergenze universali.

Secondo le previsioni, l'unica città del mondo "ricco" che terrà il passo sarà New York, l'unica in grado di gestire i grandi numeri con progetti adeguati.
La crescita esponenziale delle metropoli del terzo mondo ha una causa ben precisa: l'esistenza di un'enorme popolazione rurale che tende a catalizzarsi verso le aree urbane alla ricerca di nuove opportunità.






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06/04/2008 17:00


- da Virgilio Notizie -




CINEMA; E' MORTO CHARLTON HESTON, LA LEGGENDA DI "BEN-HUR"

L'attore americano, malato di Alzheimer, aveva 84 anni

Los Angeles (California), 6 apr. (Ap) - E' scomparso all'età di 84 anni Charlton Heston, l'attore americano entrato nella leggenda con un'interpretazione da Premio Oscar nel colossal "Ben-Hur".
A dar notizia del decesso è stato un portavoce dell'artista, secondo il quale Heston è morto ieri con la moglie Lidia al suo fianco.
Vincitore con "Ben-Hur" del Premio Oscar per la migliore interpretazione nel 1959, l'attore legò il suo nome a un periodo forse irripetibile del cinema hollywoodiano. Negli anni Cinquanta e Sessanta, i colossal degli studios provarono spesso con notevole successo a rappresentare grandi vicende del passato storico e religioso.
Oltre al ruolo in "Ben-Hur", racconto della vita di un nobile coraggioso ai tempi dell'imperatore romano Tiberio, Heston interpretò personaggi leggendari come Mosé, Michelangelo e l'eroe dell'epica spagnola El Cid Campeador.
Nel 2002 rivelò di essere affetto dal morbo di Alzheimer. "Devo - disse una volta - conciliare in egual misura coraggio e rassegnazione".
Muscolatura poderosa, i tratti del viso regolari e severi, Heston si dimostrò adattissimo nel ruolo dell'eroe del passato. "Ho un volto - scherzava l'attore - che appartiene a un altro secolo".

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Arrivederci Charlton...
Grazie per le emozioni che hai dato con le tue splendide interpretazioni!


[SM=x832013] [SM=x832013] [SM=x832013]





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11/04/2008 20:44

Bastano due euro per registrare le opere d’arte online

da Panorama.it

Bastano due euro per registrare le opere d’arte online
di daria.bianchi Venerdì 11 Aprile 2008


Internet: gioia e dolore per gli artisti. Se da un lato aumenta in misura esponenziale la visibilità pubblica delle loro opere d’ingegno, dall’altro le espone costantemente a copie non autorizzate. Quanti fotografi non professionisti pubblicando le foto dell’ultimo viaggio sul proprio blog, rischiano il furto delle immagini da parte di editori sconsiderati? E quanti musicisti in erba depositando nella vetrina Myspace i loro brani, vivono sotto la minaccia del plagio dei loro ritornelli?
I meno risoluti sanno che per proteggere le loro creazioni devono registrarle alla Siae pagando tra i 50 e i 220 euro. Quello che forse non sanno è che potrebbero ricevere lo stesso servizio pagando soli due euro sul sito www.enghe.com, con annessa anche la difesa legale dell’opera inedita in caso di plagio.
L’iniziativa, che porta la firma di Luca Olivetti, l’avvocato dei lettori di Tv Sorrisi e Canzoni, sfrutta la non esclusività del servizio da parte della Siae (il deposito dell’opera non crea il diritto, ma dà soltanto la prova, confutabile, dell’esistenza dell’opera e della provenienza di questa dall’autore), a un costo più basso grazie alla semplificazione della procedura fatta online. Sul sito di Enghè, che entrerà a regime a fine aprile, qualsiasi utente potrà depositare, virtualmente, un file di 2 Megabyte a due euro e venderlo o darlo in concessione a terzi. In questa fase di start-up sia il deposito sia le transazioni di sfruttamento economico delle opere, sono ancora gratuite.







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15/05/2008 05:58


da Virgilio Notizie Cronaca - 14 maggio 2008





Gli extraterrestri sono tra noi

Nel giorno in cui la Gran Bretagna svela al pubblico i suoi file top-secret, il Vaticano dichiara la sua apertura all’esistenza degli UFO


Ha cominciato la Francia, nel febbraio del 2007, pubblicando dopo trent’anni, primo paese al mondo, il suo archivio segreto di documenti relativi agli avvistamenti di UFO. Oggi anche la Gran Bretagna fa il grande passo e rende scaricabili dal sito degli Archivi Nazionali i suoi dossier.

Sono solo otto i file consultabili per ora, ma presto, entro i prossimi quattro anni ne saranno disponibili quasi 200, per circa mille pagine di documenti fino a questo momento considerati top-secret. Un portavoce degli Archivi Nazionali ha dichiarato che sono state numerose le richieste di pubblicazione dei dossier in conformità al Freedom of Information Act, la legge sulla libertà di informazione.

La maggior parte dei documenti è costituita da segnalazioni dei cittadini al governo britannico, che si sono risolte quasi tutte con una spiegazione.
Ma alcuni casi lasciano ancora spazio a supposizioni e ipotesi.
E se gli extraterrestri esistessero davvero?

In tal caso, secondo un’intervista dell’Osservatore Romano al teologo-astronomo José Gabriele Funes, secondo il Vaticano credere nell’esistenza di forme di vita aliene non è incompatibile con la fede in Dio, poiché, “Come esiste una molteplicità di creature sulla terra così potrebbero esserci altri esseri, anche intelligenti, creati da Dio” su altri pianeti. Essi potrebbero addirittura essere liberi dal peccato originale e naturalmente vanno considerati “fratelli” dell’uomo.






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14/06/2008 09:06


da Virgilio.it - Notizie - 2 giugno 2008




Terremoti, adesso si possono prevedere

Il sisma cinese segnalato dalla Nasa con due settimane di anticipo

Forse sarà possibile prevenire un terremoto a migliaia di chilometri di distanza, con un margine di tempo accettabile per salvare tantissime vite umane.

A sostenerlo un gruppo di ricercatori della Nasa. L’Ente Spaziale americano sta approntando uno studio rigoroso che dovrebbe consentire notevoli passi avanti nella diagnosi tempestiva delle scosse telluriche. Il progetto si basa su una controversa teoria scientifica, non accettata comunque da tutta la comunità internazionale, che trae origine dai rilevamenti contenuti in un database della Agenzia spaziale degli Usa sul terrificante sisma che ha colpito la provincia cinese di Sichuan il 12 maggio scorso.

I ricercatori sperano di attivare una rete globale, approssimativamente di 20 satelliti che dovrebbe monitorare costantemente l’attività tellurica, con metodi infrarossi. Le scosse di assestamento captate dai sismografi spesso sono preliminari ai terremoti di grande magnitudo. Lo scopo è creare un sistema di allerta che dovrebbe dare almeno due settimane di “preavviso” per prevenire, in qualsiasi parte del mondo, un terremoto, attivando le misure di sicurezza e salvando potenzialmente migliaia di vite. Un vantaggio enorme se si pensa che gli attuali sistemi possono anticipare le calamità di una manciata di minuti al massimo e sono soggetti al problema ricorrente del falso allarme.





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30/06/2008 19:02

Ricerca sul cancro, nuove prospettive dal cromosoma 8


da Panorama.it - di Roberto Verrastro - lunedì 30 giugno


Ricerca sul cancro, nuove prospettive dal cromosoma 8



L’elica del Dna



Mentre da Londra arriva la notizia del primo caso di analisi genetica che sventa in un embrione la possibilità di sviluppare il cancro al seno, un importante passo avanti nella comprensione dell’origine di alcune forme tumorali molto diffuse è stato compiuto da un gruppo di ricercatori coordinato da Maya Ghoussaini, biologa dello Strangeways Research Laboratory di Cambridge. Il loro studio, pubblicato dal britannico Journal of the National Cancer Institute, parte dalla recente scoperta, avvenuta attraverso studi di associazione sull’intero genoma, che varianti genetiche in una regione del cromosoma 8, chiamata 8q24, sono associate al rischio di tumore al seno, alla prostata e al colon-retto. Per capire se la regione in questione, che non contiene geni noti, sia legata a queste forme tumorali singolarmente, o se essa possa essere suddivisa in regioni più piccole che vi svolgono un ruolo, i ricercatori ne hanno eseguito la mappatura, impiegando come marcatori genetici i polimorfismi a singolo nucleotide. Nove di questi ultimi, già conosciuti per la loro associazione con forme tumorali, sono dunque stati distribuiti lungo la regione 8q24 in quattro differenti campioni di dna, ognuno dei quali comprendeva materiale genetico tanto di pazienti colpiti da quattro tipi di tumore (alla prostata, al seno, al colon-retto e alle ovaie), quanto di individui in salute, definiti controlli, necessari per effettuare il confronto. I ricercatori hanno così trovato almeno cinque subregioni all’interno della regione 8q24, ognuna delle quali è associata a diversi tumori. In particolare, la prima è legata a maggiori rischi di tumore alla prostata, la seconda a più ampie probabilità di tumori al seno, a differenza della terza, che tuttavia è implicata nelle neoplasie prostatiche, ovariche e colon-rettali. La quarta e la quinta delle subregioni scoperte sono invece associate a un più rilevante rischio di tumore alla prostata, ma non alle altre tre forme tumorali prese in considerazione dallo studio. La ricerca potrà identificare ulteriori subregioni collegate a specifiche patologie tumorali, aiutando a chiarire i meccanismi molecolari che contribuiscono alla carcinogenesi.





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15/10/2008 16:23

Scoperte le proteine che aprono le porte del Dna

da Panorama.it - Martedì 14 Ottobre 2008


Scoperte le proteine che aprono le porte del Dna


Molti dei nostri geni non vengono letti e interpretati dalla cellula perché è come se si trovassero dietro a una porta chiusa. Il complesso macchinario cellulare addetto a trasformarli in proteine non ha la chiave per entrare. Uno studio svolto dai ricercatori dell’Istituto Telethon Dulbecco, guidati da Davide Corona, appena pubblicato sulla rivista PLoS Biology, getta una nuova luce sul funzionamento di questi meccanismi e su come sia possibile “aprire le porte del Dna” permettendo di elaborare strategie di cura per alcune forme tumorali e diverse malattie genetiche, forse dovute proprio a problemi di accesso di alcuni geni al Dna.
Protagoniste del lavoro sono due proteine. La prima si chiama ISWI ed è stata scoperta proprio dal gruppo di Corona nel 2007: la sua peculiarità è la capacità di determinare la forma dei cromosomi, indicando al Dna come e quanto deve “impacchettarsi” su se stesso (il Dna, infatti, è condensato secondo regole ben precise). L’importanza di questa proteina è confermata dal fatto che nel corso dell’evoluzione si è conservata quasi del tutto intatta: quella della Drosophyla melanogaster (il moscerino della frutta su cui Corona ha condotto i suoi esperimenti) è uguale per il 90 per cento a quella umana e svolge praticamente la stessa funzione.
Quanti e quali sono i geni che regolano ISWI? Qui entra in gioco la seconda proteina, PARP. Degli oltre 100 geni che si sono dimostrati capaci di interagire con ISWI, questo è quello che si è imposto all’attenzione del gruppo di Corona. Spiega Anna Sala, una delle collaboratrici di Corona e autrice di questo studio: «Noto fino a quel momento per lo più per il suo ruolo nella riparazione dei danni al Dna, PARP ha rivelato una stretta relazione con ISWI: è infatti in grado di mettere una sorta di bandierina chimica su questa proteina e di bloccarne l’attività. Il risultato è che – venendo meno l’attività di ISWI – il DNA risulta meno impacchettato e i geni fino a quel momento inaccessibili possono essere espressi». In altre parole, si aprono le porte che prima erano sprangate.





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15/11/2008 14:59

Mostro di Loch Ness, una leggenda lunga 75 anni

Il mistero di Nessie: testimonianze, filmati, racconti horror. Tutto quello che c'è da sapere sulla creatura che turba i sonni della località scozzese a quindici lustri dalla prima foto


Pubblicato il 13/11/08 in Cronaca| - Alice Notizie





Il solo nome evoca paura e mistero. Ricorre in questi giorni il settantacinquesimo anniversario dalla prima "foto segnaletica". Nel 1933, infatti, Hugh Grey scattò la prima istantanea che ritrae il mostro in emersione, contribuendo alla nascita della leggenda e alla conseguente popolarità del mostro di Loch Ness. In quell'occasione la foto finì nella prima pagina dello 'Scottish Daily Record' con il titolo "Misterioso oggetto nel lago di Loch Ness". Di Nessie circolano foto, video, testimonianze, contatti sonar "anomali", ma questo non basta a spazzare via lo scetticismo da parte della scienza ufficiale e della maggior parte dell'opinione pubblica.

La leggenda
Quando si sente parlare di creauture misteriose subito il pensiero corre al più famoso di questi, il mostro di Loch Ness. Sulla sua presunta esistenza si dibatte da decenni senza riuscire a trovare la prova definitiva che possa dare una risposta certa in un verso o nell'altro. C'è chi spergiura sulla sua esistenza in Scozia e chi, è sicurissimo che il mostro non esista e che sia tutto un bluff per attirare turisti.

Nessie
Ipotesi su cosa sia il celebre animale marino, ammesso che esista, ne sono state fatte parecchie. La più seguita, al momento, è quello che dice che possa essere un Plesiosauro e cioè una specie di dinosauro che si credeva estinta milioni di anni fa. Altre ipotesi (tesi sostenuta dai negatori dell'esistenza di Nessie) parlano di un grosso pesce o di una foca che spesso si vedono nuotare nel lago. Oppure si pensa che possa trattarsi di un pesce che ha subito una mutazione genetica.

La storia
Di avvistamenti e testimonianze ce ne sono stati a migliaia, a cominciare da quel lontano 565 d.C. quando, a quanto ci dicono le cronache, San Colombano, durante l'opera di evangelizzazione presso la tribù dei Pitti, fece un incontro ravvicinato con questo mostro. Bisogna attendere il 1933 perché la leggenda di Nessie cominci a diffondersi presso l'opinione pubblica. Dopo lo scatto di Grey, il mostro tornò a far capolino, questa volta sul 'Daily Mail', il 21 aprile del 1934 con lo scatto più famoso, quello che raffigura Nessie come un mostro marino dal collo lungo, molto simile a un dinosauro. La foto fu scattata dal ginecologo Robert Kenneth Wilson ma è un falso accertato. Il terzo avvistamento 'documentato' risale invece al 14 luglio del 1951. Questo scatto, preso da Lachlan Stuart, raffigura Nessie con tre gobbe puntute affiorare a pelo d' acqua. Ma anche in questo caso si tratta di un falso costruito ad arte. Gli avvistamenti più o meno clamorosi, le burle, le testimonianze proseguiranno fino ai nostri giorni. L'ultimo presunto avvistamento del celebre mostro è avvenuto il 26 maggio 2007 ad opera di Gordon Holmes, un tecnico di laboratorio che ha filmato una sagoma nuotare nel lago. La leggenda continua e continuerà ancora per molto, anche se tutte le prove continueranno a dire che il mostro non esiste e i tour del mistero prolifereranno.





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Berlino 1989-2009 - Vent'anni dopo - Le coscienze che il Muro non seppe umiliare

- da Il Sole 24 Ore -

Le coscienze che il Muro non seppe umiliare - di Gianni Riotta


Il 9 di novembre del 1989, un pomeriggio qualunque di Manhattan, reduce da un'operazione e stonato di anestetico, cercavo di distrarre mio figlio di poche settimane con la tv. Quando improvvisamente vidi passare sullo schermo i ragazzi e le ragazze beati oltre il Muro di Berlino, pensai che il chirurgo avesse esagerato col sedativo: finiva la Guerra Fredda in diretta, possibile?

Nel celebrare la distruzione del Muro, con commozione stupita per il ritorno alla libertà dei sudditi sovietici in Europa e in Russia, dimentichiamo sempre perché fu costruito, e quanto violenta e sanguinosa sia stata la Guerra Fredda, detta dallo storico Gaddis «the long peace», la pace lunga. Come racconta Frederick Taylor nel suo nuovo saggio «The Berlin Wall», il Muro divise come una piaga l'Europa per fermare l'esodo dei profughi da Est a Ovest, dal comunismo alla democrazia. Né il russo Khrušcev, né il tedesco Ulbricht, potevano lasciare questa arma alla propaganda nemica, un referendum quotidiano a provare come, con tutti i suoi difetti, il sistema occidentale fosse migliore del regime sovietico.

La Guerra Fredda fu confronto militare, dai missili atomici alla Corea, il Vietnam, l'America Latina, l'Africa, ed economico, Wall Street contro «gosplan», il kafkiano «Gosudarstvenny Komitet po Planirovaniyu», l'economia centralizzata di stato. Sfida culturale, la censura della Pravda contro il dibattito aperto da Hollywood alla Sorbona, religiosa, libertà di culto contro la repressione contro il giovane parroco Wojtyla. Di stile, l'eleganza ribelle di James Dean contro le giacche a scacchi dei burocrati a Mosca.

A far crollare il Muro contribuirono tutti i fattori, ma due su tutti. Alla fine, il sistema economico sovietico non resse i costi di un impero da Mosca a Kabul, perché produrre ogni vite, ogni scarpa, ogni mattone in Urss consumava ricchezza, non ne produceva. Con il crack economico giocò la bancarotta morale. Spesso ignorati dall'opinione liberal occidentale, i dissidenti, ortodossi come Soljenitsin, ebrei come Sharansky, progressisti come il poeta Brodsky e lo scrittore e futuro presidente ceco Havel, pagarono un prezzo tragico per non spegnere la verità. Al giudice che si accingeva a condannarlo, intimandogli: «Ma perché lei si dice poeta? Chi le ha dato la tessera da poeta?», Brodsky rispose: «Nessuno, ma se è per questo non mi han dato neppure la tessera di persona umana».

Un mondo in cui si potesse vivere decentemente e senza tessera, questo cercavano tanti a Est come a Ovest e questo il Muro provò, a lungo con crudele efficacia, ad impedire. L'Occidente si macchiò a sua volta di crimini e repressioni, dall'Indonesia al Cile, per mantenere l'equilibrio contro Mosca si alleò con dittatori senza scrupoli, da Franco alle giunte sudamericane, all'apartheid in Sud Africa. Errori e contraddizioni che non mutano l'equazione: trionfò infine il sistema più libero e giusto, più umano, capace di evolvere e maturare.

Perché crollò il Muro? Fu la vittoria dei falchi o delle colombe, di chi predicava la corsa agli armamenti o di chi invece suggeriva di dialogare con l'Urss, contenendola con il «soft power»? La soluzione nel volume The hawk and the dove, il falco e la colomba, con il saggista Nicholas Thompson a ragionare su Paul Nitze e George Kennan, il primo a lungo persuaso che solo i missili potessero salvare la democrazia, il secondo convinto, già dal celebre telegramma che inviò a Washington da Mosca nel 1946, che ci si dovesse limitare a «contenere» l'Urss nei suoi confini. La verità storica prova che fu l'incrocio di falchi e colombe a finire l'impero sovietico. La pressione costante della corsa agli armamenti ne sfiancò i bilanci, mentre il benessere e la cultura che crescevano in Occidente logorarono la propaganda del Cremlino. Leader dallo sguardo acuto, Kennedy, Reagan, Giovanni Paolo II, ebbero la visione di credere che il Muro potesse cadere e incoraggiarono gli eroi dell'Est, dallo sfortunato Dubcek di Praga '68 all'affascinante Havel, allo schietto operaio Walesa. Gorbaciov non potè che far da notaio alla resa.

L'Europa occidentale ha meno glorie. Mitterrand in Francia, la Thatcher a Londra e da noi Andreotti, guardarono la caduta del Muro con scetticismo misto a preoccupazione. «Amo tanto la Germania da preferirne due» ripeteva il premier democristiano con una delle sue battute. L'amore per l'America, e la prudenza verso l'Unione Europea, che ancora animano l'Est hanno radici in questi machiavellismi. Al Pci, il ritardo nell'ammettere la debacle del Muro è fatale. Impressiona leggere sul quotidiano Il Riformista le memorie del parlamentare ex Pci Ranieri, che ricorda un Berlinguer persuaso, quasi in fondo, «solo dei tratti illiberali» del mondo socialista, e di intellettuali come il grecista Canfora che, venti giorni prima della libertà a Berlino, ancora esaltano la Germania Est «antifascista e non capitalista».

Quanto al leader russo Putin la sua gelida posizione è nota: «La fine dell'Urss fu la peggiore tragedia geopolitica del secolo», immaginiamo dunque come giudichi la fine del Muro che la innescò.

Dal 1989 il mondo è mutato con rapidità impensabile, un macinino Trabant dell'Est che si trasforma in Ferrari. La globalizzazione, tanto vituperata, ha sfamato e arricchito miliardi di persone. Cina, India e Brasile sono potenze, il fondamentalismo islamico è il nuovo nemico della libertà, l'economia passa dal boom di Clinton al crack di Lehmann, la democrazia viene di nuovo umiliata a Guantanamo e Abu Ghraib.

La Storia non è finita sotto il Muro di Berlino, come temeva nell'89 il filosofo Fukuyama. Riguardando la felicità di quel giorno, ora che mio figlio studia oltre la vecchia Cortina di Ferro, la lezione è chiara, senza confusione. I valori di libertà e democrazia, che non sono monopolio d'Occidente come insegna Amartya Sen, vincono solo se sorretti insieme da falchi e colombe, se la ragione non è imbelle e la forza non è cieca, se Nitze e Kennan convivono in noi. Se nessuno si arroga la distribuzione di «tessere da persona umana» e se, come la folla che a Praga durante la Rivoluzione di Velluto festeggiava in piazza la libertà suonando felice «I'm waiting for the Man» della banda rock Velvet Underground, anche noi non ci stancheremo, nel mondo nuovo, di aspettare gli uomini e le donne, tutti.



gianni.riotta@ilsole24ore.com





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09/11/2009 14:13

Caduta del muro di Berlino
Conoscevo l'articolo di Riotta (dove e quando lo lessi? eppure lo lessi!) che condivido in ogni sua espressione.
Vissi quei momenti esaltanti, preoccupanti, attesi da tanto. Il comunista Natta, segretario del PCI d'allora, disse ai suoi (credo i fratelli Paietta):"oggi ha vinto definitivamente Hitler" senza capire che il cupo regime sovietico nulla aveva di diverso dal nazionalsocialista col quale si alleò pure. Voglio ignorare le possibili idee e parole del nostro Presidente Napolitano (non quelle espresse oggi e riportate in TV che mi hanno fatto solo sorridere amaramente). Quel giorno mi vennero in mente le immani battaglie contro l'URSS, peraltro inutili, che insanguinarono gli anni dal 1940 al termine del conflitto, alle quali partecipammo con un'armata (ARMIR) lasciandoci un bel pò di penne. Eppure questi sforzi di eliminare una situazione inumana dal mondo anni quaranta, tentata da chi sarebbe stato meglio avesse verificate le condizioni di casa propria, non sortirono effetto. I fattori della caduta del muro e dell'URSS per via endogena. loro interna, furono molteplici, due dei quali i maggiori e inarrestabili, il primo che il blocco delle libertà delle persone non è possibile protrarlo oltre i limiti della pura emergenza, e l'altro, ancor più inesorabile, furono le leggi economiche generaliste applicate ai paesi collettivisti le quali, senza guardare in faccia a nessuno, nera, rossa o altro essa fosse,non hanno mai perdonato qualora infrante o non rispettate.
Non dico con questo che il mondo poi succedutosi sia un campione di perfezione, equità, giustizia, ce ne vorranno di anni, ma almeno l'impostazione di uno status che può essere perfezionato, migliorato, criticato, controllato,non può che soddisfarci tutti.
Al Duce della mia infanzia, pur sempre convinto socialista, dico che ci rese edotti bene sulle discrepanze e inumanità dell'allora regime comunista e che, se non avesse provveduto a variare con sollecitudine gli intendimenti del regime, la stessa fine ingloriosa e catastrofale l'avrebbe fatta pure il fascismo, con ciò di infausto, anche peggio, che ne sarebbe derivato.
Ciao
[Modificato da florentia89 09/11/2009 14:28]
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13/11/2009 08:39

Aborto: - Ru486: perché non ci va giù -

Vivere in democrazia ha vantaggi indiscutibili. Primo fra tutti la libertà di dissentire. Civilmente, s’intende. Perciò nessuno – ribadiamo nessuno – ci potrà impedire, da oggi e sino a quando avremo la forza per ripeterlo, che "no"... questa pillola davvero non ci va giù. La Ru486, la compressa salita agli onori delle cronache per l’effetto taumaturgico che le è stato acriticamente attribuito, sarà presto a disposizione di qualunque donna italiana che voglia intraprendere un percorso abortivo. Questa pillola sostituisce, con un colpo netto, le pratiche chirurgiche che sino a ieri hanno accompagnato, dentro i limiti della legge 194, l’aborto legale. Quello cioè previsto da una legge dello Stato che oltre trent’anni fa fu oggetto di un ampio dibattito, oltre che di profonde divisioni e di confronti culturali di altissimo livello. Sino a giungere al referendum abrogativo che vide soccombere i promotori. È storia di ieri, ma è difficile che i nostri giovani sappiano associare i nomi di alcuni politici del tempo a quelle battaglie. Con ogni probabilità non saprebbero spiegarci neppure quale fosse la posta in gioco nel voto del 17 maggio 1981. Anzi, siamo sicuri che ormai percepiscano l’aborto come un diritto («c’è una legge») e non come una semplice opzione personale alla quale si può ricorrere solo per scelta, mettendo in moto i "tribunali" della ragione e della coscienza. Dunque, nulla di "leggero", come invece si vuol fare intendere.

Ora, nessuno di noi pensa di evocare i confronti di allora. Eppure c’è qualcosa che ci induce ad affermare che il clima di questi giorni, la leggerezza con la quale si è accettata l’introduzione in Italia della pratica dell’aborto chimico, siano il segnale – forse conclusivo – del processo di banalizzazione partito tanti anni addietro. Un processo che porta alla rimozione, mediante l’insostenibile impalpabilità di una pillola, della domanda essenziale: a cosa sto rinunciando? Sostiene Zygmunt Bauman che il nostro è il tempo in cui «la cultura è disimpegno, discontinuità e dimenticanza. In questo tipo di cultura e nelle strategie delle politiche della vita che essa valorizza e promuove, non c’è molto spazio per gli ideali». Cosa di meglio, in questo orizzonte esistenziale, di una pillola che, al pari di un’aspirina, liquida un grande problema con un gesto ordinario e minimale, di quelli che tutti abbiamo interiorizzato nel nostro subconscio come il massimo della semplificazione? Ed è qui, in questa nuda verità, il cuore della questione culturale – se volete antropologica – legata alla Ru486. La pillola, in sé, allontana il dramma dell’aborto e la percezione che di esso possono avere tanto la donna quanto l’uomo. In fondo, se basta una pillola per rinunciare a una vita umana, quella stessa vita perde di valore. Il mezzo, in questa circostanza, reca con sé un profondo rimbalzo simbolico. In sostanza immiserisce, nella sua oggettiva povertà di minuscola componente chimica, anche l’oggetto della rinuncia: una vita unica e irripetibile.

Ora è facile immaginare la replica: i soliti cattolici che vedono la vita dappertutto. Certo, è una vita (ci si passi il gioco di parole) che ci educhiamo a riconoscere la vita in ogni sua espressione. Ed è proprio per questo che non possiamo arrenderci alla cultura della banalizzazione dell’aborto che la Ru486 reca con sé. E non sarà mai nessun medico interessato a sgravarsi la coscienza, lasciando le donne sole con la propria scelta e quindi a gestirsi l’aborto "fai da te", a convincerci che così è tutto più facile. Né ci convincerà la propaganda incessante che saluta come un avanzamento di civiltà ogni cosa che venga approvata in un angolo di questa nostra Europa esausta e dimentica del proprio deposito di umanità. Dunque battaglia culturale dev’essere perché non possiamo legittimamente fidarci di tutte le assicurazioni, di tutti i "vigileremo" che sono stati pronunciati in questi giorni, di tutte le promesse di rispetto della legge 194 (guarda cosa ci tocca chiedere...), perché la storia di questi ultimi trent’anni sta lì a dimostrare che si va in un’unica direzione: l’estensione di massa delle pratiche abortive e la mancata attuazione di tutte le buone azioni preventive. La legge 194 è incompiuta, e tale, purtroppo, temiamo che resti. Non vediamo infatti nel fronte abortista, di varia estrazione culturale, alcun interesse reale ad applicarla in tutte le sue parti, a cominciare dalla promozione della vita. A dimostrazione che le leggi vengono sezionate chirurgicamente dalla prassi medica, e pervicacemente piegate a interessi ideologici. Ora, come non pensar male in queste circostanze? Come non temere che, viste le premesse, la Ru486 diventi ben presto il metodo abortivo più gettonato, grazie anche alla propensione dei medici abortisti ad allontanare da sé la responsabilità dell’aborto, che con la pillola è tutto e solo a carico della donna e della sua coscienza?

Interrogativi culturali legittimi che ci fanno dire, una volta di più, che quella pillola proprio non ci va giù. E che nei prossimi mesi e nei prossimi anni sempre più si dovrà affinare l’analisi dei fenomeni sociali e culturali che essa produrrà. Basti pensare al solo equivoco contenuto nel nome. La pillola Ru486 non è un farmaco, non cura ma produce la morte. Chiamatela diversamente, quella compressa. Almeno non coprite questa somma ipocrisia che offende la medicina ippocratica. Ma forse è chiedere troppo per il politicamente corretto che impera nella bolla culturale che avvolge il Paese. Che preferisce parlare di "interruzione volontaria della gravidanza" (e non di aborto) e di "frutto del concepimento" (e non di embrione). Ma con le parole non si può giocare troppo a lungo: prima o poi presentano il conto. Anche a chi vive e prospera nell’omissione culturale.


Domenico Delle Foglie - Avvenire ottobre 2009


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30/11/2009 08:37

Il dialetto è vivo! Grazie all’italiano...
25 Novembre 2009

DIBATTITO

Il dialetto è vivo! Grazie all’italiano...

Il nostro Paese è formato da oltre ottomila Comuni, in grande maggioranza piccoli. Ognuno di questi centri abitati, spesso antichi, «sedimentati» nel territorio, rappresenta l’insostituibile tassello di uno straordinario mosaico: il Paese europeo più ricco e differenziato dal punto di vista delle varietà di lingua. Come ha osservato acutamente, anni fa, Tullio De Mauro, per ritrovare una diversità linguistica altrettanto «lussureggiante» bisogna spingersi fino al Caucaso o al subcontinente indiano.

Si tratta non soltanto di un fatto di «quantità», ma di una ancora più interessante distanza strutturale: le nostre parlate non solo sono tante, ma non potrebbero essere più diverse fra loro, e spesso la distanza linguistica non è per nulla in rapporto con quella geografica (così accade a esempio, fra Bologna e Firenze, fra Roma e Tivoli). Uno dei grandi linguisti del Novecento, Giovan Battista Pellegrini, ha dimostrato, ad esempio, che la distanza linguistica fra l’italiano e alcune varietà dialettali lucane è addirittura maggiore di quella che passa fra l’italiano e il francese o il portoghese. Ogni discorso su quelli che un uso antico e ben radicato ha denominato e ancora denomina «dialetti» non può che partire da queste constatazioni.

Ovviamente, varie sono le cause del permanere nel tempo di questa varietà. Intanto, però, possiamo forse provare a rispondere a un primo interrogativo: la ricchezza idiomatica, cioè linguistica, dell’Italia è un relitto del passato, destinato a estinguersi con il tempo, o un patrimonio vivo, che occorre ancora studiare e valorizzare? La corretta prospettiva in cui occorre muoversi è la seconda, e tuttavia è bene chiarire perché ciò che pensano in molti, vale a dire che i dialetti siano solo un relitto del passato, non corrisponde quasi mai al vero.

Già nel 1985 un grande linguista, Giorgio Raimondo Cardona, rispondendo alle domande del giovane antropologo Valerio Petrarca osservava: «È opinione corrente che i dialetti siano in via di estinzione in favore dell’italiano (e su questo c’è chi piange nostalgicamente e chi esulta progressisticamente), ma confesso che non riesco a capire per qual motivo si sia tutti d’accordo nel ripetere una constatazione che non poggia su nessun fatto. Basta, non dico un’inchiesta in una zona rurale, ma un giro in tram in una qualsiasi città italiana per rendersi conto che il dialetto, naturalmente con un grado variabile di italianizzazione, è una realtà quotidiana ovunque. Quel che cambia o è già cambiato sono i modi di vita e naturalmente, poiché questi si vanno livellando da un capo all’altro della Penisola, anche una parte della lingua dovrà adeguarsi di conseguenza».

Insomma, si parla da così tanto tempo della morte dei dialetti, che alla fine ci si è convinti che questa sia, sempre e dovunque, la sola verità. Certo, esistono zone d’Italia dove i dialetti hanno subito un regresso anche vistoso (a esempio nell’area milanese, o in alcune zone dell’Italia centrale dove la loro vicinanza all’italiano favorisce una notevole «commistione»), ma nella maggior parte delle regioni e dei Comuni la tenuta delle parlate locali è buona, perfino fra i giovani, che continuano a farne uso, come rivelano oggi anche tanti siti Internet e blog in cui il dialetto emerge o riemerge nei modi più imprevedibili.

La vitalità dei dialetti, naturalmente, non coincide, né potrebbe, con una loro «immobilità», con l’assenza completa di innovazioni e trasformazioni (che, semplicemente, ci metterebbe davanti a delle lingue morte), e non è neppure da ricollegarsi sempre e solo a situazioni socio-economicamente stagnanti o sottosviluppate. Non serve, dunque, piangere nostalgicamente, perché spesso non è necessario; si può invece cercare di prendere coscienza del fatto che le tradizioni linguistiche – tutte, senza scale gerarchiche o punteggi – sono parte integrante dei nostri beni culturali e, anzi, appartengono a quella particolare categoria che oggi viene spesso definita, anche a livello ufficiale, «beni immateriali».

La diversità linguistica del nostro Paese non ha impedito l’esistenza, e la ricerca, di fattori comuni e unificanti. Molto prima che l’unità politica si concretizzasse, infatti, le varie regioni d’Italia strinsero fra loro legami duraturi proprio attraverso la lingua. In modo quasi paradossale, dunque, il Paese caratterizzato dalla maggiore differenziazione delle varietà linguistiche è anche quello che proprio nella lingua ha trovato il primo, e uno dei fondamentali fattori di unità. In un certo senso, in Italia, è la lingua che ha fatto la nazione, piuttosto che il contrario, com’è avvenuto in tutti quegli Stati (la maggioranza) in cui l’unificazione politica ha preceduto, condizionandola, quella linguistica.

E siamo ancora lontani dal registrare la totale scomparsa non solo di soggetti e gruppi che affermano di parlare «tanto italiano quanto dialetto», ma addirittura di coloro che si dichiarano esclusivamente dialettofoni. Non si può non osservare che, come il dialetto ha potuto «farsi le ossa» proprio grazie a una lunga, plurisecolare convivenza con almeno alcuni livelli di italiano, così questi ultimi hanno paradossalmente «difeso anche il dialetto. Sono proprio coloro a cui il possesso della lingua ufficiale ha dato sicurezza – scrive Gianna Marcato – , che gli hanno impedito di fare una brutta fine. La padronanza dell’italiano ha esorcizzato i fantasmi del passato, ha consentito di guardare al dialetto nella sua realtà di piccola innocua lingua locale, che ben poteva essere lasciata almeno vivacchiare accanto alla lingua ufficiale.

E oggi il dialetto non fa più paura a nessuno, o quasi». Italiano e dialetti convivono da secoli, ed è questa convivenza che occorre promuovere e perseguire, rendendo tutti più consapevoli del suo valore, sia in termini generali sia in riferimento allo stesso profilo identitario del Paese.


Francesco Avolio - L'Avvenire -


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07/12/2009 08:46

4 Dicembre 2009

L'AGGRESSIONE

Accuse a Boffo: Feltri ci ripensa

Tardiva, defilata, a denti stretti, con l’errato rimando dalla prima a una pagina pubblicitaria interna, ma l’auto-smentita alla fine è arrivata. Novantanove giorni dopo quella prima pagina nella quale esibiva le carte (rivelatesi poi inattendibili) di un presunto "caso", Vittorio Feltri e il Giornale ieri hanno ingranato la retromarcia, esprimendo a Dino Boffo persino «ammirazione» dopo averlo ingiustamente attaccato per giorni. Ora il direttore ammette che s’era sbagliato. E lo fa con molta meno evidenza di quelle sortite agostane, ma lo fa.

La vicenda esplode del tutto inattesa il 28 agosto con una pagina nella quale il direttore del Giornale dice di voler «smascherare i moralisti» prendendosela col collega di Avvenire «in prima fila nella campagna di stampa contro Berlusconi». Boffo gli replica il giorno dopo definendo quella che Feltri ha evocato – l’ammenda per una vecchia querelle giudiziaria a Terni, di nessun rilievo ma rinforzata da una lettera anonima spacciata per "nota informativa" – «una vicenda inverosimile, capziosa, assurda», un’operazione che sa di «killeraggio giornalistico»: «Siamo – scandisce Boffo – alla barbarie». Il presidente della Cei, cardinale Bagnasco, non esita a definire quello del Giornale un «attacco disgustoso e molto grave», rinnovando a Boffo «tutta la stima mia personale e quella di tutti i vescovi italiani e delle comunità cristiane».

Mentre la redazione è sommersa da un’ondata di messaggi di solidarietà, che non si arresterà prima di un mese, Feltri – con il suo vice Alessandro Sallusti – prosegue con titoloni e paginate di "rivelazioni": «Finché questi censori speculeranno su ciò che accade sotto le lenzuola altrui, noi ficcheremo il naso (turandocelo) sotto le loro», scandisce il 29 agosto, fidando in documenti rivelatisi poi quantomeno discutibili.

Il 30 agosto i «fatti» vengono smontati pezzo a pezzo dal direttore di Avvenire: «Come avrà mai fatto il primo degli astuti – si chiede Boffo – a non porsi una domandina elementare prima di dare il via libera alla danza (infernale): questo testo che ho in mano è realmente un’"informativa" che proviene da un fascicolo giudiziario oppure è una patacca che, con un minimo appiglio, monta una situazione fantasiosa, fantastica, criminale?». Ci vorranno tre mesi perché giunga la sola risposta possibile.

Le certezze del Giornale sembrano vacillare, e il 1° settembre sul quotidiano sparisce la "nota" mentre viene esibito a tutta prima pagina – senza spazio per le controdeduzioni di Boffo – il «certificato generale del casellario giudiziale». Ma Avvenire ormai ha chiarito la verità, e la tempestiva verifica del Gip di Terni («non c’è assolutamente alcuna nota che riguardi inclinazioni sessuali» dichiara il magistrato, confermando quanto anticipato dal ministro degli Interni Maroni) rafforza quel che Boffo va dimostrando. Il giudice confermerà poi che non ci sono state intercettazioni telefoniche né processo, e dunque nemmeno un patteggiamento, così come non si deve parlare di condanna ma solo di decreto penale che dispone un’ammenda. Una «bagattella e non uno scandalo», riconosce oggi lo stesso Feltri.

Il 1° settembre è anche il giorno nel quale la Cei informa di una telefonata del Papa al cardinale Bagnasco nella quale Benedetto XVI chiede «notizie e valutazioni» esprimendo «stima, gratitudine e apprezzamento per l’impegno» della Cei e del suo presidente. Un’attestazione indiscutibile che chiude le polemiche su un’ipotizzata differenza di vedute tra Chiesa italiana e Santa Sede su alcune vicende del nostro Paese.

Intanto il Giornale sembra abbassare i toni. Anche perché l’evidenza dei fatti che affiorano giorno dopo giorno chiude ogni spazio alle speculazioni. È il 3 settembre e Avvenire smaschera in modo definitivo le «dieci falsità» con una ricostruzione che avrà poi ampia circolazione su blog, social network e siti di controinformazione (tuttora è su www. avvenire.it). Tra l’altro, si dimostra che Boffo non ha mai avuto relazioni omosessuali e che mai è stato "attenzionato" dalla Polizia.

Niente di niente. Ma lo stesso giorno il direttore di Avvenire decide di dimettersi, e lo fa con una lettera che resta una pagina memorabile di dignità e di giornalismo libero, vergata da un «direttore galantuomo» che chiede solo di sapere – scrive – perché gli «è stato riservato questo inaudito trattamento»: «In questo gesto, in sé mitissimo – spiega Boffo –, è compreso un grido alto, non importa quanto squassante, di ribellione: ora basta. (...) Bisognerebbe che noi giornalisti ci dessimo un po’ meno arie e imparassimo a essere un po’ più veri secondo una misura meno meschina dell’umano».

Solo molto più tardi, Vittorio Feltri comincerà a far intendere che si sta ricredendo: il 22 novembre arriva ad auspicare che Boffo «torni» vista l’entità trascurabile delle vicende sulle quali il <+corsivo>Giornale<+tondo> aveva montato il "caso". Ieri infine l’ultimo atto, il più clamoroso: «La ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire – sono parole di Feltri –, non corrisponde al contenuto degli atti processuali». Non è una «retromarcia», né si tratta di «scuse» o «lacrime», dichiarava ieri sera lo stesso direttore del Giornale, parlando di «doverosa precisazione» su «un particolare» che riguarda «una persona perbene».

Minimizza, ma la tempesta non è proprio possibile dimenticarla.


Francesco Ognibene - L'Avvenire


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17/12/2009 09:48

L'INDAGINE: «Chi scarica film dal web rischia danni al pc»

«Chi scarica film dal web rischia danni al pc»


Sempre più persone accedono alla rete e alle numerose risorse messe a loro disposizione. Il numero degli «heavy user», secondo l’Osservatorio Permanente dei Contenuti digitali, è passato dal 23% del 2007 al 34% nel 2009. «Ma forse non tutti sanno che scaricare file illegalmente vuol dire anche spalancare la porta a virus informatici e alla violazione della propria privacy. Con danni economici che potrebbero arrivare a sfiorare i 500 milioni di euro all’anno». È quanto emerge dai risultati dell’indagine, condotta da Euromedia Research in collaborazione con il professor G. Matteo Brega – docente all’Università Iulm e titolare della cattedra Unesco dell’Osservatorio dell’Immaginario – che disegna una situazione di pericolosa incoscienza.

L’indagine ha unito tre rilevazioni: una quantitativa, sulla popolazione italiana tra i 15 e i 50 anni, e due qualitative, la prima con focus group sullo stesso target e la seconda con interviste agli operatori informatici, chiamati a risolvere i danni ai software dei pc. L’incrocio delle informazioni ricavate dalle tre rilevazioni Euromedia/Iulm permette di leggere in profondità il fenomeno. Il 79,8% del totale è convinto di essere abile ed esperto nell’uso del pc, in realtà l’incompetenza degli utenti è la prima causa di guasti al computer segnalata dai centri di assistenza. A scaricare file audiovisivi dalla rete è il 38,2% degli intervistati, mentre un 7,5% dichiara di farlo fare a terzi: sale così al 45,7% la percentuale di popolazione giovane e adulta che entra in contatto con materiale audio e video preso in rete. Fra quanti scaricano personalmente, il 73% dichiara di preoccuparsi dei rischi ma comunque lo fa, mentre il restante 27% non se ne preoccupa affatto, confidando soprattutto nei propri antivirus. Fra questi, solo il 13% è in grado di cavarsela da solo davanti a un problema.

Dal canto loro gli operatori informatici indicano nel downloading illegale la seconda causa di guasti al software: fra i più frequenti in ordine di ricorrenza, blocco del sistema operativo, malfuzionamento dei programmi, impossibilità di aprire file e di connettersi a internet. La spesa annuale media in Italia per riparare i danni su computer causati da virus è stimata in 405.816.000 euro. Senza contare i danni morali e non solo, come l’accesso alla propria identità (password e carta di credito) e alla privacy: fotografie, documenti, segreti.

Scaricare, quindi, non è affatto gratis, anche se i rischi sono così ampiamente sottovalutati. Davide Rossi, presidente Univideo (Unione italiana editoria audiovisiva), aggiunge: «È grave che nessuno prima di noi si sia sentito in dovere di segnalare questi rischi al popolo della rete. Certo, noi abbiamo finanziato questa ricerca perché la pirateria audiovisiva ci danneggia enormemente, ma mi sento di puntare il dito contro le telecom e i fornitori di accesso ad internet che non si preoccupano di avvisare e tutelare i loro stessi clienti».


L'Avvenire


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31/12/2009 07:15

Senza buonismi né volgarità : Se ci raccontassero ogni tanto qualcosa di bello

L’ultimo film di Christian De Sica ha incassato tre milioni di euro in un solo giorno, e a Roma è proiet­tato in oltre la metà delle sale. Un film volgare? Al Corriere l’attore risponde che i film d’autore fanno incassi pe­nosi, e che un film di Natale come il suo è «lo specchio dell’Italia» di oggi. Al di là della vicenda particolare, l’af­fermazione colpisce. Per prima co­sa, perché occorre riconoscere che c’è del vero. Gli ammiccamenti, le pa­rolacce di un film di grande cassetta non sono in realtà peggiori di quan­to si sente all’uscita di una qualun­que scuola, o in un talk show televi­sivo. È vero, c’è un involgarimento collettivo che è prima che nelle pa­role nello sguardo, nella morbosità con cui per esempio si scrive, e si leg­ge, dei vizi altrui, spiati con avidità. Quasi un compiacimento nell’indu­giare su ciò che è greve; il gusto di un cinismo sorridente che ama i doppi sensi, l’ammiccamento, in un sot­tintendere che così fan tutti, e chi non ci sta è un illuso. Certo, quello «specchio d’Italia» man­ca di tante cose silenziose che rara­mente passano in tv: affetti, lavoro, solidarietà, carità, individuali co­scienze che resistono a questo im­barbarimento collettivo.

E tuttavia non si può negare che tra l’Italia del dopoguerra e questa c’è un tale salto di costume e linguaggio, che chi è vec­chio, e ricorda, ne è spaesato. Ma quel dire che così è l’Italia, sot­tintendendo che dunque bisogna dar­le ciò che le somiglia, colpisce anche per una tristezza che ne viene. La vol­garità vende, dunque si va incontro alla richiesta del mercato. Senonché quel mercato siamo noi, un Paese, i nostri figli. A cui vorremmo lasciare qualcosa di meglio che le battute dei cinepanettoni. Perché dietro a quelle risate c’è ben poco. Perché andiamo al cinema o accendiamo la tv per di­strarci, la sera; ma anche con la ma­gari non riconosciuta attesa di vede­re qualcosa che ci dia una speranza. Di riconoscere, perfino fra le righe di una storia dolorosa o terribile, un sen­so buono, che valga anche per noi. Le fiabe che si raccontano ai bambini hanno sempre un lieto fine – e se non ce l’hanno, i bambini ci restano ma­lissimo. Siamo un po’ bambini anche noi.

In un film, in un libro, magari ac­canto al realismo più crudo, vorrem­mo trovare almeno qualcosa di bello, o una faccia buona. Per non uscire più sfiduciati di quanto eravamo prima. E dunque, può essere che in molti sia­mo come gli italiani allegrotti dei ci­nepanettoni. Però, se ci raccontasse­ro ogni tanto qualcosa di bello. Non agiografie, o buonismi. Se ci venisse mostrata una bellezza: qualcosa che appassiona e sveglia una tensione, u­na domanda. Incontrando gli artisti un mese fa Benedetto XVI ha ricor­dato Platone: secondo il quale la fun­zione essenziale della bellezza « con­siste nel comunicare all’uomo una sa­lutare scossa che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione». La bellezza risveglia, e mette in mo­to.

Come in un bellissimo film di tre anni fa, ' Le vite degli altri' di Florian Henckel von Donnersmarck, dove un agente della polizia segreta della Ddr passa i suoi giorni a spiare e intercet­tare dei sospetti dissidenti. Ma pro­prio le loro speranze e la loro tensio­ne lo contagiano. L’agente non li de­nuncia, e abbandona il suo lavoro di aguzzino. Si sarebbe ben potuto fare un film semplicemente sulla crudeltà degli uomini della Stasi. Sarebbe stato rea­lista. Ma la storia della spia commos­sa dalla bellezza è ancora più realista: è la realtà, attraversata da una spe­ranza. Ciò che in fondo tutti doman­diamo. ( E quanto a successo non è andata male: Oscar per il miglior film straniero. La bellezza, gli uomini la ri­conoscono ancora).


Marina Corradi

- L'Avvenire - 30 dicembre 2009


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da L'Avvenire - 23 febbraio 2010


INTERVISTA


«La mia Quaresima tra dolore e speranza»


Per il maestro, oggi al debutto a New York, «la sofferenza si sposa sempre alla certezza di essere parte di un disegno più ampio».


«Ogni volta che arriva la Quaresima la prima cosa che mi viene alla mente è un profumo. Quello intenso dell’incenso, misto a quello delicato dei gigli che sentivo nelle chiese di Molfetta il Giovedì Santo quando con la mia famiglia si faceva la tradizionale Visita ai sepolcri». Il profumo della Quaresima per Riccardo Muti è legato all’infanzia in Puglia. «Ma mi sembra di sentirlo ancora oggi mentre cammino tra i grattacieli di New York» racconta dall’America il direttore d’orchestra. Stasera debutta al Metropolitan. «Anche se la parola debutto – dice sorridendo – dopo tanti anni di carriera suona un po’ strana. Spesso James Levine, direttore musicale del Met, mi ha invitato, ma ho sempre dovuto dire no per gli impegni come direttore musicale al Maggio musicale fiorentino prima e al Teatro alla Scala poi. Ora si è aperta una possibilità. E l’ho colta subito, anche perché con la prossima stagione inizia il mio impegno stabile con la Chicago symphony orchestra e, se le vicende lo permetteranno, con l’Opera di Roma».

Muti dall’America non smette di guardare all’Italia. «È triste per chi cerca con fierezza di rappresentare al meglio il proprio Paese all’estero leggere di una cultura che fa acqua da tutte le parti. Guardandole da fuori, forse, le cose appaiono amplificate. E la stampa estera, devo ammetterlo, tratta l’Italia a volte con troppa severità. Ma è inutile negare che i problemi ci sono». Poi, ti spiazza con un gesto di generosità, tutt’altro che scontato. «Darò la mia disponibilità non solo per rilanciare l’Opera di Roma, ma vorrei essere il testimonial di un progetto ampio e articolato che, partendo dalla Capitale, valorizzi i teatri del Centro-Sud. Un grande patrimonio che non sempre ci ricordiamo di avere: il San Carlo di Napoli, ma anche il Petruzzelli di Bari, i teatri di Catania e Palermo. Però non voglio impormi. Se ci sarà la volontà di tutti i soggetti per realizzare questo progetto bene, sono a disposizione. Altrimenti, mi ritiro in buon ordine». Per intanto Muti ha scelto l’America: Chicago, ma anche la New York philharmonic. E per la sua prima opera al Metropolitan ha voluto l’amato Giuseppe Verdi.

Sul leggio avrà Attila. «Un’opera di un’attualità sconvolgente. Parla di rifugiati. Di oppressi e di oppressori. Dell’amicizia tradita. Della sete di potere. Un’opera che mi mette un brivido sinistro perché, guardando a ciò che capita nel mondo, mi viene il sospetto che la storia non abbia insegnato molto». Muti pensa alle prime pagine dei giornali, ai notiziari televisivi e si dice «sconfortato dal bollettino quotidiano di rapine, saccheggi, stupri, morti. Ma anche colpito nel vedere gente costretta a lasciare la propria terra. E stanco di dover fare i conti con persone che "giocano" con il terrore, tenendo in scacco il mondo con la minaccia di farlo saltare in aria». Uno scenario che, per il direttore d’orchestra, «impone una presa di posizione decisa della comunità internazionale». E che rende ancora più necessaria una seria riflessione sul nostro essere uomini. «Mi piace pensare – e vivere – la Quaresima come un’occasione per riconquistare quella semplicità che la società moderna ha messo in un angolo. Per tornare ad una dimensione spirituale che oggi sembra volutamente dimenticata. Per gettare la maschera indossata a carnevale, ma che spesso, in molti portano anche nella vita di tutti i giorni».

Il passaggio ad Attila è subito spiegato. «La lettura del melodramma verdiano che propongo a New York va proprio in questa direzione. D’accordo con il regista Pierre Audi gli abbiamo tolto la maschera, gli abbiamo levato la pelle di tigre che un’idea fumettistica del re degli Unni suggerirebbe. E lo abbiamo fatto vivere in una dimensione senza tempo (le scene sono di Jacques Herzog, l’architetto del nuovo stadio di Pechino, i costumi di Miuccia Prada) per dire che quello che Verdi ha raccontato nel 1846, mettendo in musica una storia del quinto secolo, lo viviamo ancora oggi». Parlare col maestro di Quaresima, significa inevitabilmente anche toccare temi (considerati da molti tabù) come il dolore e la morte. «Sono entrati prepotentemente nella mia vita, in maniera del tutto particolare, mischiandosi ad altri di gioia estrema. Ho perso mia madre subito dopo la nascita del mio primo figlio, Francesco. E dopo l’arrivo di Chiara, la mia secondogenita, è morta la mamma di mia moglie Cristina. Mi sono sempre chiesto perché la grande gioia di una vita che sbocciava nella mia famiglia venisse sempre sostituita dal dolore di un’altra che si spegneva. Non ho ancora trovato una risposta a questo doloroso quesito, ma col tempo l’ho accettato. Spesso mi tornano in mente le parole di Virgilio: "Sono le lacrime delle cose, toccano le menti dei mortali"».

A sorpresa Muti racconta di aver trovato l’orizzonte entro il quale collocare l’esperienza del dolore in Dante. «"S’accogliea per la croce una melode / che mi rapiva, sanza intender l’inno" si legge nel quindicesimo canto del Paradiso. Me lo ripeto spesso. E mi sento parte di una grande schiera, l’umanità, fatta di gente chiamata ad affrontare le stesse gioie e gli stessi dolori». Un sentimento che il maestro ritrova nella musica di Beethoven. «Specie nel movimento lento della Nona sinfonia dove il musicista racconta il dolore, esperienza che trascende le possibilità umane, ma anche la speranza che deriva dalla certezza di essere parte di un disegno più ampio, di un creato di fronte al quale non si può che esprimere la propria riconoscenza».


Pierachille Dolfini





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4 Marzo 2010

INTERVISTA

Carreras: «Nel dolore della malattia
ho scoperto la speranza»



La porta non l’ha chiusa definitivamente. «Potrei ripensarci solo se mi offrissero il titolo giusto nell’ambito di un progetto artistico serio» dice. Aggiungendo, però, che «per ora titoli e progetti all’orizzonte proprio non se ne vedono». José Carreras ha detto addio all’opera. Quella che negli anni Settanta e Ottanta lo ha visto trionfare nei teatri di tutto il mondo, conteso da direttori come Karajan e Abbado. E non se ne pente. «Perché, guardando indietro, posso dire di aver fatto molto di più di quello che progettavo all’inizio della mia carriera» confida il tenore spagnolo. Ma anche perché gli impegni musicali non gli mancano. L’altra sera era a Brescia. «Uno dei tanti recital che faccio in giro per il mondo per far conoscere e sostenere la mia Fondazione per la lotta alla leucemia».

Scusi, Carreras, ma chi glielo fa fare? A 63 anni, dopo tutti i successi raccolti, non avrebbe voglia di un po’ di riposo?
«Sento che devo assolvere a un dovere. Cantare, impegnarmi per raccogliere fondi da destinare alla ricerca è il mio modo per sdebitarmi. Per dire grazie alla vita. Per dare a chi oggi combatte contro la malattia quello che a suo tempo ho ricevuto gratuitamente. Una speranza. Il coraggio di andare avanti. Quando mi sono ammalato di leucemia, nel 1987, i medici mi avevano detto che avevo una possibilità su dieci di guarire. Mi crollò il mondo addosso. Roba da chiudersi in casa e non uscire più».

Invece cosa le ha dato la forza di non arrendersi?
«La famiglia e gli amici. Le tante persone che in molti modi mi facevano sentire il loro affetto, senza il quale non so davvero se ce l’avrei fatta. È stato fondamentale essere circondato da gente che era sicura che avrei sconfitto la leucemia. Mi ha dato la forza di lottare. Un’esperienza che cerco di trasmettere alle persone malate che incontro: se vi hanno detto che avete una possibilità su un milione dovete credere che quella sarà la vostra possibilità».

Detta così sembra facile.
«Naturalmente non ce l’avrei fatta senza la straordinaria équipe medica che mi ha seguito. Anche perché i momenti di sconforto sono stati tanti. Ma mi hanno temprato, hanno lasciato in me un segno indelebile. E mi hanno aiutato a trovare il lato positivo del dolore: ho modificato la scala delle priorità della mia vita, sono diventato più aperto al dialogo, alla comprensione, a sentimenti di solidarietà e di fratellanza».

Possiamo sintetizzare usando la parola fede?
«La malattia mi ha fatto riscoprire la dimensione spirituale dell’esistenza. Una presenza che da allora è diventata costante nella mia vita. Ogni anno con la mia Fondazione organizziamo un pellegrinaggio a Lourdes: una grande gioia per me, un’esperienza unica a contatto con la sofferenza e la fede».

E la musica l’ha aiutata? O in quei frangenti anche un musicista vorrebbe solo silenzio intorno a sé?
«Mi sono aggrappato in ogni istante alla musica. L’ho sempre considerata un conforto spirituale. E nella mia lotta contro la leucemia mi ha sostenuto il desiderio di poter un giorno tornare a cantare. Anche nei momenti peggiori non ho mai smesso di studiare musica. Ma soprattutto di ascoltarla. Le mie giornate avevano sempre la musica in sottofondo. E non era necessariamente classica. Anche se ascoltavo e riascoltavo il Concerto n.2 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov. Non saprei dire il perché, ma avvertivo una malinconia, un misticismo che mi confortavano e mi davano speranza».

E oggi, in un mondo dove il dolore – quello provocato dalla malattia, ma anche dalle catastrofi naturali – mette molti alla prova, che speranza intravede?
«Nei momenti difficili ho sempre guardato ai più piccoli, ai bambini. Penso che dobbiamo combattere per loro, sforzarci di dialogare tra popoli di fedi e culture diverse, intraprendere la via della pace per garantire loro un futuro. Penso che la musica in questo possa giocare un ruolo fondamentale».

In che senso?
«Può essere uno strumento di dialogo che fa incontrare le persone. Può aiutare gli uomini a riflettere sulla vita. Anche per questo, quando canto, spero sempre di arrivare al cuore degli ascoltatori. Per comunicare emozioni. Per trasmettere quella speranza che per me è stata fondamentale».


Pierachille Dolfini - L'Avvenire



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09/03/2010 11:00


Perché nel benestante Giappone la vita vale così poco

Un suicidio ogni 15 minuti, nel paese più efficiente del mondo. Un'inchiesta esclusiva ne analizza i motivi. Il vescovo e il nunzio: manca la fede in un Dio personale, in un popolo che onora otto milioni di dei

di Sandro Magister


ROMA, 8 marzo 2010 – Si moltiplicano, tra l'Italia e la Cina, le celebrazioni e le mostre in onore del gesuita Matteo Ricci, per i cinesi Li Madou, geniale annunciatore della fede cristiana nel celeste impero di quattro secoli fa.

La genialità di Matteo Ricci fu di capire ed accogliere quanto della cultura cinese poteva essere assunto come propedeutico alla fede cristiana. Egli vide nel confucianesimo – e non nel buddismo e nel taoismo da lui fermamente avversati – le tavole di quella legge universale a cui l'annuncio cristiano poteva aggiungere la sua novità inaudita. E a questo annuncio, quando Matteo Ricci era in Cina, seguirono importanti conversioni ai livelli alti della società e della cultura.

Non altrettanto è avvenuto per un'altra grande nazione e civiltà dell'oriente: il Giappone.

La storia del cristianesimo in Giappone è una storia di martiri. Nessun'altra civiltà al mondo si è mostrata più impermeabile al cristianesimo della giapponese. In passato uccidendone gli annunciatori. In epoche più recenti ospitandoli cortesemente, ma senza mai farvi corrispondere ondate di conversioni.

A loro volta, però, anche gli annunciatori del cristianesimo in Giappone non hanno saputo penetrare a fondo, finora, il mistero di quella civiltà, per "inculturare" il loro annuncio.

*

Un impressionante indizio del mistero della cultura giapponese è il primato dei suicidi.

In media ogni 15 minuti un giapponese si toglie la vita. In un anno sono più di 30.000. "Kamikaze" e "harakiri" sono le parole della lingua giapponese più conosciute nel resto del mondo.

Perché ciò avvenga è oggi discusso molto più pubblicamente che in passato, in Giappone. E l'inchiesta che segue dà conto proprio di questa discussione.

L'autore dell'inchiesta, Silvio Piersanti, è un giornalista italiano di grande esperienza internazionale, che vive a Tokyo ed è sposato con una scrittrice giapponese. Ha interpellato sull'argomento, tra gli altri, il vescovo cattolico della capitale e il nunzio vaticano in Giappone.

I quali concordano nell'indicare nella questione di Dio la radice ultima della facilità con cui i giapponesi si tolgono la vita.

I giapponesi, dicono, "hanno otto milioni di dei, migliaia di templi e due religioni ufficiali, il buddismo e lo shintoismo", ma mancano di una fede in un Dio personale, onnipotente e misericordioso, vicino e amorevole con ogni uomo.

Ancora una volta, ha visto giusto Benedetto XVI quando ha indicato nella questione di Dio la "priorità" del suo pontificato, sotto ogni cielo.

Ecco l'inchiesta, da Tokyo.

__________



SUICIDI IN GIAPPONE. LA SPINA NEL CRISANTEMO

di Silvio Piersanti


Non è raro che all’ingresso di una stazione della metropolitana di Tokyo si veda l'annuncio di un ritardo a causa di un "ginshinjico", ossia un “incidente con una persona”: è la formula eufemistica con cui si definisce il suicidio di chi si è gettato tra i binari al passaggio di un treno. L’annuncio è ormai di routine. Il corpo viene rapidamente portato via, i moduli di polizia riempiti in tutta fretta e la circolazione riprende in tempi brevi, frenetica ed efficiente come sempre.

Ogni 15 minuti un giapponese si toglie la vita. Secondo dati ufficiali resi pubblici dal comando centrale di polizia, ormai da dodici anni consecutivi, ogni anno in Giappone si uccidono oltre 30.000 persone e i primi dati statistici dell’anno in corso fanno presagire che nel 2010 si potrebbe arrivare a 35.000: il più alto numero di suicidi nel paese più socialmente avanzato del mondo.

Yukio Hatoyama, capo del partito democratico e dell'attuale governo di centro-sinistra che ha interrotto decenni di governi di coalizioni di centro-destra, ha detto che quello dei suicidi è un grave problema sociale che deve essere affrontato con decisione, trovando i mezzi sia finanziari che strategici per arginarlo. Ha cominciato il suo discorso di inizio anno alla nazione con le parole: “Voglio proteggere la vita della gente, la vita di quelli che sono nati, che crescono e diventano adulti". Ed ha proseguito pronunciando la parola “vita” 24 volte, affermando che lo scopo principale del suo governo è appunto quello di “proteggere la vita umana”.

In cinque mesi, la task force creata dal governo per affrontare la questione dei suicidi ha assegnato alle agenzie del lavoro qualche migliaio di psicologi specializzati nel trattamento di depressioni dovute a problemi di lavoro o di soldi, e si è ampliata l’assistenza temporanea ai senza tetto, con alloggio, cibo e vestiario forniti nelle due settimane del periodo natalizio e di fine d’anno, un periodo in cui generalmente il numero di suicidi sale drammaticamente. L’anno scorso a Tokyo ne beneficiarono in 800, quest’anno in 230.000. Ha distribuito opuscoli, ha istituito linee telefoniche amiche, ha predisposto un tirocinio specifico per gruppi di volontari. Ma nessuna di queste misure sembra aver effetto.

Un suicida ogni 15 minuti è un dato agghiacciante, ma se si analizzano i dati statistici l’angoscia aumenta. Si vede infatti che un terzo dei suicidi è di età tra i 20 ed i 49 anni, uomini e donne nel pieno della vita che non vedono nel loro presente e nel loro futuro alcuna ragione per non gettarla via. E se si scende nella fascia dell’età, si scopre che il Giappone ha il primato mondiale di studenti suicidi: 552 nel 2009. Ogni giorno dell’anno scolastico, quindi, due studenti decidono di togliersi la vita, vittime di un sistema scolastico aspramente competitivo e di atti di bullismo di spietata crudeltà.

Forse il risultato più importante ottenuto dal governo è stato quello di mettere il problema dei suicidi davanti agli occhi di tutti. Questo sembra essere in sintesi il messaggio del governo: vediamo insieme cosa si può fare, fateci capire cosa spinge tanta gente a rifiutare la vita in questa nostra società pur così affluente.

Prima d'ora, infatti, il suicidio non era visto dall’opinione pubblica come un problema sociale dell’intero paese. Ognuno lo considerava una disgrazia occorsa alla propria famiglia, su cui era più dignitoso tacere. Ora invece, dopo la divulgazione dei dati statistici e la promessa del premier Hatoyama di farne una priorità del suo programma di governo, televisione, giornali, libri, università discutono apertamente il problema e cercano di capire perché uno dei paesi più ricchi e sviluppati, dove il tasso di criminalità è tra i più bassi del mondo, dove l'elevata longevità dovrebbe testimoniare una vita sociale serena, sia invece il paese con il più alto numero di suicidi.

I giapponesi non sono felici. Dati ufficiali pubblicati recentemente dall’associazione nazionale degli psichiatri e neurologi rivelano che dal 30 al 40 per cento dei pazienti ricoverati negli ospedali giapponesi soffrono di disturbi psichiatrici e che i 13.000 psichiatri in servizio nel paese non bastano a far fronte alla grande richiesta di aiuto da parte di malati mentali.

*

Nel messaggio con cui ha introdotto la Quaresima di quest'anno, Benedetto XVI ha ricordato come il principio del giurista latino Ulpiano, secondo cui ”dare cuique suum” era la formula per assicurare la giustizia nel mondo, in realtà si è rivelato fallace. Per essere felice l’uomo ha bisogno di qualcosa che non può essergli garantito dalla legge: ha bisogno dell’amore gratuito di Dio. Il Giappone che, ignaro di un Dio trascendente, è diventato un paese-guida della giustizia sociale è piagato da questa profonda pulsione suicida. Sembra quindi essere una prova lampante e drammatica della verità del pensiero di Ratzinger: senza Dio l’uomo non può essere felice. I beni materiali sono necessari, ma non garantiscono la felicità, il pieno godimento della vita.

Sarebbe forse semplice legare l’impennata dei suicidi alla crisi economica in cui si dibatte il paese dalla fine della cosidetta "bubble economy" nella seconda meta degli anni ’80, ma quello dei fallimenti e dei disoccupati è solo una, e forse non la principale, delle cause di questa ondata di disperazione che colpisce il paese.

Naturalmente ci sono cause universali come malattie incurabili, delusioni d’amore, crisi di depressione, ecc. Ma quello che si vuole appurare è cosa c’è dietro la apparente facilità con cui il giapponese arriva alla decisione di togliersi la vita. Sociologi e psicologi ritengono che una spinta al suicidio potrebbe trovarsi nella cultura e nella tradizione dei "samurai", ossia di "coloro che servono", il cui suicidio – "seppuku", più conosciuto in occidente con il sinonimo "harakiri" – compiuto con dignità rituale, indossando un kimono da cerimonia ed affondando una lama nel proprio ventre, era considerato l’unico modo onorevole di cancellare l’onta di una sconfitta o di un’umiliazione.

Questa tradizione è stata poi recepita dai piloti "kamikaze", ossia "vento di dio", che durante il secondo conflitto mondiale si sfracellavano con i loro caccia contro le navi da guerra americane. Forse l’ultima manifestazione pubblica di questo stoicismo esasperato è stato il doppio "seppuku" inscenato dal famoso scrittore Yukio Mishima e dal suo più fedele seguace Morita il 25 novembre 1970, davanti a un migliaio di soldati e a decine di telecamere dopo aver occupato con un manipolo di suoi fedelissimi il ministero dell’interno. Era l’estrema protesta di Mishima e del suo piccolo esercito privato contro il patto con cui il Giappone accettava di non avere un proprio esercito ed affidava la difesa del proprio suolo alle forze armate americane.

*

Ci dice il nunzio apostolico in Giappone, l’arcivescovo Alberto Bottari de Castello, a capo della nunziatura di Tokyo da 5 anni: “I giapponesi non hanno un rapporto personale con Dio. Il concetto dell’individuo, che è al centro della cultura occidentale, non fa parte del loro Dna culturale. Si identificano con il gruppo, la società, l'azienda, la nazione. Quando un cristiano arriva alla decisione di togliersi la vita sa che sta per infrangere una regola sacra: la vita gliel’ha data Dio e solo Dio gliela può togliere. Il giapponese tentato dal suicidio non ha questo freno. Non ha il concetto del peccato. Non ha nessuno, non ha niente, all’infuori del proprio mondo materiale e culturale, a cui chiedere aiuto. Ma nel suo mondo chiedere aiuto è disonorevole, e allora deve risolvere all’interno di se stesso il dramma della propria infelicità, divenuta insopportabile. I cristiani, anche nei momenti più bui, possono sempre tendere la mano verso Dio. I giapponesi no. Hanno otto milioni di dei, migliaia di meravigliosi templi, santuari, altari, altarini, due religioni ufficiali, il buddismo e lo shintoismo, ma vivono senza il Dio unico onnipotente e misericordioso, senza il concetto di Dio padre di tutta l’umanità e presente in ciascuno di noi, sempre".

Hiroko Nakamura, apprezzata traduttrice di libri di narrativa italiani, non crede che la relativa facilità con cui i giapponesi giungono alla decisione di rinunciare alla vita sia da imputarsi al loro apparente ateismo: “Al contrario, penso che sia proprio il nostro credo religioso più diffuso, il buddismo, che ci rende più facilmente accettabile l’idea del suicidio come soluzione estrema dei nostri problemi terreni, sia materiali che spirituali. Il buddismo predica la reincarnazione, ossia il trasferimento dell’anima di un individuo in un altro corpo fisico, non necessariamente umano. La vita è considerata una prova d’esame per guadagnarsi una nuova vita, salendo di esistenza in esistenza, verso il nirvana, l'eterna beatitudine celeste. Con questa fede, quando la pressione dei problemi della vita sembra insostenibile, è più facile cedere alla tentazione di lasciarsi tutto dietro le spalle, e tentare di fare meglio nell'esistenza successiva. Buddha, Gesù, san Francesco, Gandhi, li abbiamo conosciuti nella loro ultima esistenza, prima del loro ingresso nel nirvana".

Il vescovo cattolico di Tokyo, Paul Kazuhiro Mori, concorda con il nunzio Bottari de Castello nel ritenere che ai giapponesi manchi il concetto di Dio e quello del peccato. Quando il giapponese decide di togliersi la vita non pensa di infrangere una legge divina, non sente rimorso per il suo atto. Non vi vede nulla di condannabile, di eticamente negativo. Al contrario, con il suicidio il giapponese salva il suo onore e quello della sua famiglia, se ne ha ancora una. “Quando voi giornalisti venite in Giappone”, ci dice il vescovo Mori, “ ammirate i traguardi straordinari nel campo sociale. Scuole, ospedali, abbondanza di beni materiali, stipendi alti, basso tasso di criminalità, sicurezza nelle strade, trasporti pubblici ammirati in tutto il mondo, industrie fiorenti, ordine pubblico molto stabile. Se voi credete che sia il benessere sociale a dare la felicità, allora potete concludere che il nostro è un paese felice, nei limiti umani. Ma se vorrete guardare sotto questa crosta di abbondanza materiale, allora vi troverete di fronte a uno dei paesi più poveri, quanto al rispetto dell’individuo ed al suo nutrimento spirituale".

Le cifre ufficiali, pur nella loro agghiacciante crudezza, sono nulla rispetto a quanto esse nascondono. C’è chi afferma che in realtà i suicidi siano almeno il doppio di quelli denunciati e i tentativi falliti siano almeno una dozzina di volte più numerosi di quelli portati a compimento, e altrettanti siano coloro che stanno pianificando il loro suicidio. "Vivere in Giappone è come vivere in prima linea in guerra", disse una volta il famoso scrittore buddhista Hiroyuki Itsukio. E si chiedeva: se è stata chiamata "una selvaggia guerra civile" quella tra cattolici e protestanti nell’Irlanda del nord che in 40 anni è costata la vita a 5.000 persone, allora come dovremmo chiamare la realtà giapponese che ha visto nello stesso periodo uccidersi almeno un milione di persone? “Sono completamente d’accordo con Itsukio”, commenta il vescovo Mori. “L’opinione pubblica si indignava per le notizie che giungevano da quella guerra fratricida. Ma nessuno sembrava preoccuparsi per questa carneficina che si compie tutti i giorni da tanti anni davanti ai nostri occhi”.

*

Il reverendo Samuel Koji Arai, 80 anni benissimo portati, è pastore della Chiesa protestante interdenominazionale del quartiere di Mabashi. Ha circa mille fedeli in gran parte del ceto medio-alto. “Ma erano solo una dozzina quando sono arrivato 46 anni fa” ci dice. Per darci il benvenuto, ha interrotto una fuga di Bach che stava suonando all’organo. Accanto all’organo ci sono due pianoforti ed un violoncello. “Facciamo molta musica dal vivo”, sorride, “classica per gli anziani, rock per i giovani. Anche quando parlo ai miei fedeli debbo usare due lingue, una per i giovani e una per gli anziani. Vivono in mondi diversi. Per i giovani è più facile capire il messaggio del Vangelo, perché il Vangelo è rivoluzione. Mentre i vecchi hanno radici così profonde nella tradizione giapponese che per loro il Vangelo è spesso incomprensibile. I suicidi? Non ho il minimo dubbio sul perché: è la mancanza di Dio nella vita dei giapponesi. La loro vita frenetica, consumistica, edonistica, mi ricorda gli ebrei che danzavano attorno al vitello d’oro, dimentichi di Dio. Sfumata l’ebbrezza dell’alcol, l’eccitazione della danza, ci si ritrova soli, senza uno scopo, senza un valore che trascenda il benessere fisico. Si vede la vita come una corsa a chi arriva all’ultimo traguardo. Dietro il traguardo, il buio. E ci si domanda se valga la pena di continuare a lottare per guadagnare sempre di più, per spendere sempre di più, per curarsi sempre di più per poi finire comunque soli in qualche residence per anziani benestanti o in qualche ospizio. E allora l’idea di gettarsi sotto un treno comincia a entrare in testa sempre piu spesso fino a che un giorno si scendono le scale della metropolitana per l’ultima volta. Sarebbe bastato poter dire 'Gesù, aiutami', sarebbe bastato alzare gli occhi al cielo, senza bisogno di dire neanche quelle due parole e la vita avrebbe avuto tutto un altro sapore, tutto un altro senso. Quattro volte ogni ora io mi sento in colpa, quattro volte ogni ora sento un pugno nello stomaco. Quei quattro fratelli che ogni ora del giorno e della notte se ne vanno senza conoscere Dio, li sento come quattro fallimenti della mia missione di pastore. Noi Chiesa dovremmo fare molto di più".

“La Chiesa cattolica ha fatto molto in Giappone, ma certamente può fare di più". ci dice il nunzio Bottari. “Abbiamo costruito scuole, ospedali, collegi, università. Le nostre scuole sono molto apprezzate. L’Università Sophia di Tokyo è una delle più prestigiose della nazione. Stiamo anche finanziando un telefono amico gestito da protestanti per fornire assistenza psicologica a chi ha deciso di togliersi la vita. Ma qui siamo di fronte a un grande dramma nazionale. Per incidere positivamente sul fenomeno dei suicidi dobbiamo far penetrare il concetto di Dio e della sacralità della vita all’interno della cultura giapponese. Per ora è un obiettivo ancora lontano. Ci sono poco più di un milione di cattolici in Giappone, di cui più della metà sono immigrati. Abbiamo ogni anno circa 4 mila conversioni, la nostra visione di Dio avanza, ma lentamente. C'è una domanda che mi pongo da anni senza trovare una risposta soddisfacente. Perchè i giapponesi, che hanno fatto della cortesia e del rispetto del prossimo la base del loro comportamento sociale, sono così refrattari al messaggio di amore universale del Vangelo? Perché non si convertono? Credo che l’ostacolo principale sia il profondo radicamento nella loro millenaria cultura, che fa loro apparire la conversione a una fede monoteistica occidentale come un tradimento delle tradizioni, della patria e dell’intera civiltà orientale in generale".

*

In effetti, i giapponesi hanno un classico rapporto di odio e amore per l’occidente. Sono attratti dai valori espressi dalla cultura occidentale in ogni campo: scienze, arti, letteratura, architettura, musica, medicina, ricerca spaziale, ma allo stesso tempo si sentono vittime di una colonizzazione intellettuale. “In ogni campo siete voi che stabilite le regole, i criteri di giudizio, l’estetica e anche l’etica”, ci dice la scrittrice giapponese Kyoko Asada. “ Siete voi che da secoli vi arrogate il diritto di stabilire cosa è bene e cosa è male, cosa è bello e cosa è brutto, qual è il dio vero e qual è quello falso".

Il vescovo Mori le dà in parte ragione, quando ci dice: "In Giappone c’è in realtà un grande bisogno di valori religiosi, ci sono fedeli che praticano anche due diverse religioni. Ma la Chiesa non riesce a soddisfare questa sete di religiosità perche sbaglia strategia: la Chiesa non deve limitarsi a far conoscere la dottrina, la fede e le tradizioni cattoliche, ma deve trovare il modo di coniugarle con la cultura ed i problemi della vita quotidiana dei giapponesi, evitando la frattura tra l’insegnamento della dottrina e la quotidianità della vita in Giappone. Ovviamente è un compito difficilissimo, reso ancora più arduo dalla diminuzione di vocazioni e dall’invecchiamento dei preti locali".

C’è speranza, vescovo Mori? “Sì, credo di sì. Mi basta pensare all’esempio di madre Teresa che ha saputo trovare il modo di parlare al cuore degli indiani al di sopra delle differenze di fede, con il semplice linguaggio delle sue azioni. Se riusciremo anche noi a dare una così grande testimonianza dell’amore di Gesù, penso che potremo anche rallentare in modo significativo la valanga di suicidi che affligge questo paese".

In un recente dibattito televisivo a cui hanno partecipato tre giovani donne che avevano tentato il suicidio, una di esse, la 26nne Shinohara Eiji, ha raccontato il suo dramma, iniziato alle scuole medie superiori dove era presa in giro peeché grassa. La continua umiliazione, anno dopo anno, la portò alla decisione di togliersi la vita. Al ritorno a casa dall’ospedale dove era stata ricoverata con le vene dei polsi tagliate, fu accolta dal padre che l’abbracciò. Era la prima volta in tutta la sua vita che riceveva un abbraccio da suo padre. “Non ci siamo detti una parola, ma in quel momento, tra le sue braccia, ho capito che la vita era bella e degna di essere vissuta".

Tutte e tre le giovani si sono trovate d’accordo nel ritenere che ciò di cui avrebbero avuto bisogno per vincere la disperazione era “ai o kometa osekkai”. "Ai o kometa” significa “essere accompagnate, motivate, dall’amore”, mentre “osekkai” vuol dire “essere oggetto di interesse e di cura”: un modo giapponese per far capire che avrebbero avuto bisogno di qualcuno che si fosse interessato con amore dei loro problemi. In parole più semplici, un po’ di amore le avrebbe trattenute da quel gesto estremo. E non ci sono beni materiali ed eque ridistribuzioni di ricchezze che possano garantire quell’amore. Dio lo può.

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da L'Espressoonline



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14/05/2010 08:00

La poesia è cibo spirituale

INTERVISTA

Loi: «La poesia è cibo spirituale»


Domani alle 19, nel Battistero del Duomo di Milano, Franco Loi, uno dei più apprezzati poeti italiani, parlerà di «Educazione spirituale della poesia» nella conferenza «Tremare insieme come Dio vuole». L’incontro è promosso dal Vicariato per la cultura e dal Coordinamento dei Centri Culturali Cattolici dell’Arcidiocesi di Milano, curato dall’Associazione Sant’Anselmo e dall’Assessorato alla Cultura. Ne è nata questa conversazione.

Un titolo che fa pensare al tremito dell’aria che annuncia l’arrivo dell’amata nella poesia medievale, e al tremare di emozione del poeta. C’è un legame?
«C’è e non c’è. È un indice di sensibilità: una persona che sta attenta alla vita ha tante occasioni di tremore. Quello a cui penso è il tremare, o forse meglio il vibrare dell’essenza spirituale che ogni cosa possiede e che dà impulso alla vita. Quando questa vibrazione si prova in due, allora si ha il senso di aver toccato il mistero. È in momenti come questo che si risveglia la consapevolezza del Dio che è dentro di noi. I poeti se ne rendono conto, ma non tutti. La grande importanza dell’arte, non solo della poesia ma anche della musica, per esempio (e la poesia è anche musica) sta in questo: ti fa vibrare in tutto il tuo essere. Il corpo, lo spirito, e anche l’essenza profonda di cui parlavo prima. È come il ripercuotersi di un’onda musicale nell’universo intero: non riguarda solo te e chi ti ascolta. Quando ascoltavo la <+corsivo>Passione secondo Matteo<+tondo> di Bach, mi toccava delle corde così profonde che a volte mi scendevano le lacrime, anche se non pensavo a niente».

È questa "l’educazione" che la poesia può attuare?
«Certo: compito della poesia è portare alla consapevolezza della propria essenza divina. Quando dico "tremare" intendo l’essere travolti da qualcosa che non sappiamo bene che cosa sia. Noi gli diamo dei nomi, come ai colori, ai fiori, alla dolcezza di una stella: gli diamo inesorabilmente una veste corporale, ma sentiamo anche di aver raggiunto le corde divine dentro di noi. Dice Cristo: il regno dei cieli è dentro di voi. È questa dignità che vibra: il Dio che portiamo dentro. Io ho provato, in poesia, l’importanza che ha questo "lasciarsi dire" da ciò che si muove dentro. L’ho provato nei più bei momenti della mia vita. È quello di cui parla Leopardi quando scrive alla sorella Paolina: finalmente sono tornato all’allegrezza dello scrivere poesia. Anche la Cvetaeva diceva che quando scriveva poesia era come se qualcuno dentro di lei volesse disperatamente emergere. È il fenomeno che Dante descrive quando dice "I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, / e a quel modo / ch’ e’ ditta dentro vo significando": quando amore lo ispira ascolta e prende nota. Non è il tuo consapevole io, né la tua sapienza a farti scrivere, ma qualcosa che avviene dentro di te. I momenti della scrittura sono momenti di grande gioia, ineguagliabili: io mi sono sentito unico al mondo. Ma succede anche a chi ascolta: non sa dire perché, gli si risveglia dentro il senso di qualcosa che non sa, o non ricordava. Un tremare dell’amore divino».

Nella scuola di oggi si potrebbe fare un investimento sulla poesia?
«No. Perché si fa la scuola pensando che sia imparare dai libri, mentre nessuno si preoccupa della ragione fondamentale per cui è nata, far crescere la consapevolezza profonda di sé, il "regno dei cieli" in noi. Lo fa a volte qualche professore bravo: i ragazzi quando lo incontrano se ne innamorano, perché è così difficile che qualcuno parta da loro. La scuola era nata per fare scoprire all’uomo la sua profondità infinita, la spiritualità viva dentro di lui e farla crescere. Don Milani diceva che la scuola c’è quando c’è un maestro. A me nessun professore ha mai spiegato il vero significato di quel "noto" di Dante, messo non a caso tra due virgole, né che cosa ascoltava Dante».

Che rapporto c’è fra l’essere poeta e l’attività di critico?
«Io sono un critico sui generis: quando trovo un po’ di poesia, cerco di aiutare chi la fa, partendo sempre dalla qualità, ma senza fare dei discorsi letterari. Credo poco nelle linee letterarie, non ho in mente tutto il ciarpame letterario o l’ideologia attraverso cui alcuni considerano la poesia. Mengaldo mi ha definito "la voce del sottoproletariato milanese", Fortini diceva che ho una vena anarchica: non so perché. Certi critici o partono dall’ideologia o dai canoni della letteratura. Invece io parto da quello che c’è scritto e ne parlo».

Che cosa pensi delle polemiche sulle antologie di poesia? È giusto chiedere spazio per i poeti più giovani?
«Non credo che facciano bene alla poesia: ritengo che dietro le polemiche si nasconda la vanità. Non si può chiedere attenzione per i poeti. Faccio un paragone col ciclismo: una volta c’erano i grandi corridori, e c’erano i gregari. Che magari erano bravissimi, però non chiedevano più attenzione, e nessuno proponeva che diventassero i leader della squadra. Restavano gregari, e tutto procedeva. Chi fa polemiche sulla poesia non ha il senso di quanto sia importante la poesia. Non è un poeta. Mi sembra che la polemica sia un segno della decadenza della nostra civiltà, come le scenate dei politicanti. E non credo che neanche le antologie servano a molto. Io mi sono lasciato convincere a farne una, ma non lo rifarei: le scelte di un’antologia sono troppo parziali, legate alle conoscenze personali».


Bianca Garavelli - L'Avvenire 15 maggio 2010






_________Aurora Ageno___________
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