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Notizie dai giornali (cartacei o del web)- 67° - Poche sorprese. Francesco è fatto così

Ultimo Aggiornamento: 04/04/2013 18:23
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20 luglio 2011

CATASTROFE AFRICANA

Somalia, gli imbarazzi e i silenzi «laici»


Un silenzio che imbarazza, che pone domande, che a volte fa arrabbiare, magari anche ar­rossire. È il silenzio indifferente del mondo laico, dei mass media, della classe politica, di in­tellettuali, personag­gi della cultura e del­lo spettacolo, tutti pronti a moraleggia­re nei talk show e dal­le piazze, eppure as­senti di fronte alla ca­tastrofe che investe il Corno d’Africa. Dove dieci milioni di per­sone stanno moren­do. Letteralmente.

Di sete, di fame, di sten­ti. Un silenzio nel quale hanno echeg­giato forti solo le pa­role del Papa e le di­verse forme di solida­rietà concreta della Chiesa, la stessa che si incontra viaggian­do nelle lande più misere del mondo: dove il rischio ha in­dotto anche i più co­raggiosi a fare le vali­gie, resta sempre un missionario, una suora, un medico ar­mato di Vangelo. E i laici che fanno? «È vero, di fronte a u­na forte risposta dei credenti e dei religio­si, il mondo laico ri­sulta molto più as­sente – analizza Pie­ro Angela, con lo sti­le che gli è proprio –, ma ci possono essere varie ragioni: tutti i giorni emergono nuove emergenze, per cui i governi oltre a proclami e gesti simbolici hanno difficoltà a fare in­terventi reali. Da parte cristiana, poi, la visibilità e la presenza sono molto più evidenti perché è attiva una gran­de rete di sostegno che il mondo lai­co non possiede, fatta di associazio­ni, missionari, religiose», anche se e­sistono filantropi ed eroi del quoti­diano pure tra i laici, «basti pensare a medici e volontari, dei quali sentiamo parlare solo quando vengono rapiti o uccisi», sottolinea il popolare divul­gatore scientifico. L’indifferenza al­l’appello dell’Onu e del Papa derive­rebbe poi dalla 'lontananza' dell’A­frica, vicina solo se si parla di turismo: «Contano l’oggi e l’io, il futuro e l’u­manità non interes­sano quasi», avverte Angela. Una regola quasi matematica, che però non vale quando entra in sce­na la variabile della fede. Una marcia in più, dunque? «Sì, ma non solo quella reli­giosa, molte ong so­no animate da una fede laica nella giu­stizia e nella reden­zione del mondo».

«La Chiesa ha il meri­to di mettere il dito su tante piaghe, non so­lo la fame o l’Africa – sostiene il giornalista Marco Travaglio –, penso all’appello per l’acqua pubblica o contro tutte le guerre senza distinzione, ma anche alle parole del Papa contro la corru­zione e per la mora­lità pubblica. Tra l’al­tro Benedetto XVI, forse perché tedesco, ha un’attenzione for­tissima per l’ambien­te e il rispetto del creato... Eppure que­sti suoi interventi vengono sottaciuti o comunque non enfa­tizzati come altri con cui io, credente laico, non sono d’accordo, ad esempio sui pre­servativi ». Se dunque la nostra società resta sorda e cieca, è anche «colpa di come la stampa italiana gestisce l’informa­zione religiosa, con gli appelli del Pa­pa minimizzati quando non fanno comodo alla politica». La Chiesa ha un «ruolo enorme», anzi, «spesso è la sola a far fronte a devianze, tossico­dipendenze, emergenze che spette­rebbero allo Stato. Il quale invece de­manda e vien meno ai suoi doveri».

«Sono d’accordo, i laici hanno i loro gravi torti, lo si tocca con mano», af­ferma il filosofo, Accademico dei Lin­cei, Emanuele Severino. Non ci sta, però, a vedere tutto oro nella genero­sità della Chiesa: «C’è sì una presen­za caritativa dei credenti che contra­sta fortemente con la assenza quasi totale del mondo laico, ma questo ri­leva anche la disponibilità di un con­sistente patrimonio economico che rende possibile tale impegno carita­tivo». Non solo: «Nella realtà laica non esiste una figura analoga ai missio­nari, che sono un 'corpo' vero e pro­prio, 'reclutato' per fare del bene nel mondo». Dietro a questi, vale la pena ricordargli, ci sono però uomini in carne ed ossa, e la loro scelta di do­narsi... «Ama il prossimo tuo come te stesso dovrebbe essere caratteristica di tutti, è vero – riconosce il filosofo – , ma lo stesso Gesù, dicendo questo, non era ottimista: sapeva che l’amo­re per se stessi è il fondamento col quale ci si deve confrontare per rap­portarsi con il prossimo».

Una deriva 'laica' che tende sempre a prevalere sulla nostra natura umana. «La colpa non è tanto del mondo lai­co, ma di quello dell’informazione, che ha le sue regole. Anzi, la sua man­canza di regole – interviene il mate­matico Piergiorgio Odifreddi –: si ba­da al futile e non ai veri problemi». Un esempio: «In Italia ogni giorno ci sono 300 morti per tabacco e alcol, u­na strage di 120mila persone l’anno a vantaggio del Monopolio di Stato, ma tutti se ne infischiano. Così anche dieci milioni di morti che vuole che siano?». Eppure ci deve essere un mo­tivo, insistiamo, se molti credenti ri­spondono concretamente, in prima persona, al grido che viene dal mon­do povero. È il Vangelo che fa la diffe­renza? «Forse l’ottusità di certo mon­do laico è sintomo della secolarizza­zione – ammette il matematico –, ma lo stesso input arriva anche dai testi sacri di altre religioni». C’è poi da met­tere in conto un senso di impotenza «che ci prende sa­pendo che tanto nes­suno di noi può risol­vere la fame nel mon­do. Solo la politica può cambiare le co­se, ma individual­mente cosa possia­mo fare? O parti e fai il missionario e il me­dico senza frontiere, oppure che cosa fai?». Eppure, diceva Ma­dre Teresa, il mare è fatto di milioni di gocce: non sa di alibi, allora, la risposta del matematico? «Forse è invece coscienza dei propri limiti», sorride. Poi sogna anche lui, «un mondo meno i­niquo, dove i beni della terra vengano distribuiti dove c’è bi­sogno». Che senza volerlo stia citando il Vangelo? «Sono più i­spirato da Socrate, ma anche Cristo non mi dispiace».

La pensa diversa­mente Alessio Boni, attore molto amato dal pubblico televisi­vo, per il quale «ogni coscienza personale potrebbe davvero cambiare le sorti del­l’umanità ». Il suo è un appello concreto a un piccolo sacrificio, «tre caffè in meno al me­se, vi assicuro che non moriamo ma riusciamo a manda­re tanti di quei fondi! Purché con co­stanza ». Quella costanza «che nessu­no ha più perché pensa che il piane­ta finirà con la sua morte», denuncia l’attore. Che odia il buonismo a bre­ve gittata: «Sa perché con lo tsunami in Thailandia c’è stata tanta solida­rietà? Perché è avvenuto il 26 dicem­bre, quando tutti si era ancora buoni per il Natale. In Giappone è accadu­to in marzo, e chi se n’è fregato?».

Dieci e lode alla Chiesa dal giornali­sta Piero Sansonetti, zero ai laici: «Ab­biamo una colpa cui vorrei rispon­dere con un silenzio di vergogna. Av­verto in modo netto la superiorità morale dei cattolici, nonostante io sia in polemica feroce verso la Chiesa per molti altri aspetti... La generosità al di fuori della fede la vedo sempre meno, nella nostra epoca i soli va­lori sono successo e competizione, neces­sariamente in con­trasto con la solida­rietà ». Che poi è un termine già di per sé sbagliato: «La vita di dieci milioni di per­sone non è questione di solidarietà ma di diritto assoluto. Se nego il quale, non è che sono egoista, so­no ladro. Ladro di vi­te, e quindi assassi­no».

«Oggi siamo tutti e­goisti, ma soprattut­to presi da un senso di impotenza», allar­ga le braccia l’astro­noma Margherita Hack, che trova «am­mirevoli » missionari e religiosi, anche se in fondo «fanno il loro 'mestiere', per così dire. Che prete è se non spende la sua vi­ta per i deboli? Que­sto chiede il Vangelo». Il che, sottolinea, non esime il laico dal fare altrettanto, «anche se per lui non è facile buttarsi tutto alle spalle e donarsi agli altri». «Della religio­ne – è comunque cer­ta – non c’è alcun bisogno, l’amore per il prossimo è vocazione indipen­dente dall’idea di Dio». Eppure ai margini più miseri dell’umanità, chi­ni sul fratello sofferente, si trovano quasi sempre persone di fede... Il da­to è incontrovertibile e l’astronoma non lo contesta, ma nemmeno lo spiega: «La scienza non mi dà queste risposte».

Lucia Bellaspiga

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segue:

L'EMERGENZA CARESTIA


La solidarietà della Cei Come aiutare il Corno d'Africa
In risposta all’accorato invito del Santo Padre a operare per sollevare le popolazioni nel Corno d’Africa, colpite da una grave siccità e dalla conseguente carestia, la Presidenza della Conferenza episcopale italiana invita a pregare per le comunità e a sostenere le iniziative di solidarietà promosse dalla Caritas italiana. La Presidenza della Cei, per far fronte alle necessarie emergenze e ai bisogni essenziali delle persone colpite, ha stanziato un milione di euro dai fondi derivanti dall’otto per mille. L’apposito Comitato per gli interventi caritativi a favore del Terzo Mondo provvederà all’erogazione della somma accordata, accogliendo le richieste che stanno pervenendo o perverranno, sostenendo direttamente progetti di enti ecclesiali locali che operano in collegamento con le istituzioni caritative della Conferenza episcopale o delle diocesi del luogo.
La Presidenza della Cei


COME AIUTARE

La Caritas Italiana ha subito messo a disposizione 300mila euro per i primi interventi. E ha avviato una sottoscrizione per sostenere le azioni in corso da tempo nel Corno d’Africa in collaborazione con le Caritas locali. Si possono quindi inviare offerte a Caritas Italiana tramite: <+nero_bandiera>C/c postale n. 347013 specificando nella causale: «Carestia Corno d’Africa 2011». Offerte sono possibili anche tramite altri canali, tra cui: UniCredit, via Taranto 49, Roma - Iban: IT 88 U 02008 05206 000011063119; Banca Prossima, via Aurelia 796, Roma - Iban: IT 06 A 03359 01600 100000012474; Intesa Sanpaolo, via Aurelia 396/A, Roma - Iban: IT 95 M 03069 05098 100000005384; Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma - Iban: IT 29 U 05018 03200 000000011113. Inoltre: CartaSi e Diners telefonando a Caritas Italiana 06 66177001 (durante gli orari d’ufficio).


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30/07/2011 20:18


Vince 3 milioni di dollari, ma continua a lavorare come bidello





Nel 2006, quando Tyrone Curry vinse alla Lotteria dello Stato di Washington, stava lavorando come bidello alla Evergreen High School di Seattle. Ma dopo cinque anni continua ancora a fare lo stesso lavoro e ad abitare nella stessa villetta, insieme alla famiglia. Dopo aver vinto 3.410.000,00 di dollari e pagato tutti i debiti, dopo aver installato una nuova caldaia in casa, piantumato la siepe e costruito un nuovo vialetto, i coniugi Curry hanno deciso che con il resto della vincita avrebbero aiutato i vicini di casa e i conoscenti in difficoltà. "Mia madre era considerata la mamma del quartiere” ha detto Tyrone “Casa nostra era sempre piena di ragazzini, ecco perché oggi anche la mia casa è aperta a tutti. Prima di vincere, ho passato momenti molto difficili, ma mi sono sempre ricordato delle parole di mia madre: Tu potresti anche possedere qualcosa, ma i tuoi vicini potrebbero non avere nulla”.

Dopo la vincita, molti avrebbero smesso di lavorare, ma Tyrone non ha lasciato il posto di lavoro. "Non si può stare con le mani in mano. Questa è la mia filosofia di vita". Tyrone aveva cominciato lavorare alla Evergreen High School come assistente insegnante, ma, a causa di tagli al bilancio, perse l’insegnamento e decise di restare nella scuola come bidello. Col tempo diventò anche allenatore della squadra di atletica della scuola. Quest’anno ha donato alla Evergreen High School 40.000,00 dollari per rifare la pista di atletica e, siccome, la scuola ha solo 4 campi da tennis per un centinaio di ragazzi, ha dichiarato che farà un’altra donazione per costruirne di nuovi. Recentemente, quando il capitano della squadra di atletica, il 18enne DeVante Botello, è rimasto solo al mondo a causa della morte della madre, Tyrone si è offerto di pagargli gli studi al college. “L’allenatore è la persona più incredibile che abbia mai incontrato in vita mia", ha detto DeVante. “È il mio eroe - un vero eroe. Vorrei essere buono come lui. Non dimenticherò mai ciò che ha fatto per me. Qualsiasi cosa farò in vita mia, sarà in onore di Tyrone, il milionario che si preoccupa più dei sogni degli altri che dei propri”.


Tyrone Curry

19/7/2011 di Buonenotizie.it



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22/08/2011 10:54






INDIA

Orissa, i tre anni d'inferno dei cristiani

tre anni dalle peggiori violenze anticristiane della storia dell’India, la situazione del distretto del Kandhamal, nello Stato indiano orientale di Orissa, a prima vista, sembra tranquilla. Non si registrano aperte aggressioni di battezzati da parte degli estremisti indù e questo va a sostegno del governo locale che vuole far passare la tesi di una «completa pacificazione».

Dietro l’apparenza, però, cova ancora la violenza, come testimoniano la recente uccisione di un pastore protestante, la seconda dall’inizio dell’anno. O i tanti atti di aggressione e di intimidazione perpetrati o ancora le morti rimaste senza un responsabile. Inoltre, l’impossibilità del rientro a casa per migliaia di profughi da un lato, la lentezza e la difficoltà nel perseguire i colpevoli da parte del Tribunale speciale per il Kandhamal dall’altro disegnano un quadro dalle tinte quantomeno fosche.

L’ondata di violenza – che dal 23 agosto colpì il Kandhamal e marginalmente distretti limitrofi per poi estendersi con una rapidità e con logiche forse preordinate ad altre regioni dell’India – ha cancellato l’immagine di un Orissa “laboratorio di convivenza”. Ora che gli scontri aperti sono finiti, nelle foreste e nei villaggi della regione si vive un clima di paura e sospetto. Novanta morti, 6.500 case distrutte, decine di chiese devastate o bruciate, molte di migliaia di profughi sono il bilancio dei fatti dell’agosto 2008. Un’eredità destinata a pesare a lungo.

In piccoli centri che tre anni fa videro le uccisioni, i roghi e le sofferenze, la popolazione cristiana permane nell’ansia e nell’insicurezza. Villaggi e cittadine come Bodimunda, Shankharakhole e Beticale, sono anche quelli dove più è sentito il boicottaggio economico, parte della nuova strategia dell’induismo militante per “ripulire” la regione dai battezzati, in maggioranza tribali e fuoricasta. Una situazione che non ha solo ragioni religiose. I ricchi commercianti e imprenditori, insieme ad alcuni gruppi politici, cercano di strumentalizzare la situazione per impadronirsi di terre, di risorse e di voti.
Indubbiamente, poi, in una condizione spesso di povertà condivisa, sospetti e gelosia contribuiscono ad allungare i tempi del ritorno alla normalità. Al di là della propaganda, molti indù vorrebbero che i cristiani vivessero in povertà, senza libertà d’espressione o di pratica religiosa. In diverse località rifiutano ogni tentativo di riconciliazione e anche di ammettere che qualcosa di drammatico sia accaduto in Kandhamal.

Una situazione che permane per l’inazione de governo. Come sostiene un attivista cristiano della regione: «Nessuno si interessa del benessere del Kandhamal, eccetto la Chiesa e gli stessi cristiani». C’è da chiedersi se ci sarà mai una “vera normalità” in Orissa, se si raggiungerà di nuovo quella pace sociale che tanti sembrano non volere e a cui sempre meno sembrano credere. Ci si domanda anche se vi sarà mai giustizia per le vittime. Le indagini superficiali della polizia e processi che si concludono troppo spesso con sentenze blande oppure con assoluzioni piene lasciano al momento poche speranze e molta rabbia. «I veri colpevoli della violenza restano in libertà e di conseguenza, chi può sapere se le violenze del Natale 2007 e quelle del 2008 saranno le ultime? In ogni caso ci vorranno altri anni per ricostruire il Kandhamal», dice con amarezza padre Ajaya Kumar Singh, direttore dei servizi sociali dell’arcidiocesi di Cuttack-Bhubaneswar.

Che avverte: «Le forze dell’hinduttva (“induità”, ovvero dei fautori di un’India esclusivamente indù) potrebbero fare cose ancora peggiori in futuro. Il governo sarà in grado di prendere efficaci misure preventive? Potrà applicare la legge in modo concreto e evitare sul territorio violenza e persecuzione? Sarà in grado il governo di rendere disponibili fondi per il benessere dei cristiani, come dei poveri e degli emarginati in termini si istruzione, sicurezza sociale, assistenza sanitaria e pari opportunità?».
«Se c’è una cosa che abbiamo imparato da quanto accaduto – dice ancora padre Singh – è che non possiamo aspettarci protezione. Occorre invece che leader cristiani riescano ad accedere a posti di responsabilità nell’amministrazione locale e centrale, come nella politica». Sono in molti ad avvertire che se la persecuzione ha colpito i cristiani dell’Orissa tre anni fa, potrebbe avvenire lo stesso altrove in un prossimo futuro, per un’altra minoranza. Anche perché la carta religiosa non è la sola giocata dagli estremisti. L’Orissa è uno Stato ricco di risorse naturali, ma la sua popolazione è tra le più arretrate dell’India. Qui la collusione politica e uno sviluppo che interessa le sole aree costiere rendono i distretti più isolati regioni sottosviluppate, riserve di voti da comprare, blandire, minacciare.

L’Orissa è insieme un laboratorio sociale e un esempio per il Paese e i suoi responsabili. Certamente la persecuzione religiosa è in qualche modo endemica nel grande Paese asiatico e l’Orissa non è eccezione. Tuttavia qui i gruppi radicali indù hanno deciso di giocare la carta della “pulizia religiosa”, una strategia pianificata meticolosamente e non un fenomeno improvvisato.

Da qui, proprio per questo può però partire la riscossa delle forze sane del Paese, qui si può aprire un laboratorio per una nuova coscienza. Davanti al tentativo dell’induismo militante e del sistema di egemonia castale, si può avviare un processo verso una società più uguale, dove ciascuno possa godere di dignità, diritti, avere la giusta parte e risorse e opportunità. Una forte volontà politica è quello che serve per avviare questo processo. La Chiesa dell’Orissa, dal canto suo,w sta facendo la sua parte.


Stefano Vecchia

da L'Avvenire




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25/08/2011 11:17



25 agosto 2011

Il bene compiuto, il bene denigrato

Il servizio e l'onore



L’esperienza umana è piena di ingiustizie, più o meno grandi. Una delle maggiori è forse quella compiuta da chi trasforma il bene in male, insinua che i buoni possono essere malvagi. In questo modo non si rende onore a chi merita, si rovesciano i valori e il senso dell’agire umano. Co­sì è accaduto nei giorni scorsi quando una cam­pagna martellante ha tentato di far passare per privilegiati quanti, nella Chiesa, dedicano la pro­pria vita a servizio degli altri, senza nulla chiede­re, né alla Chiesa né allo Stato, se non che gli sia consentito di seguire la propria vocazione.

Nel suo primo incontro da presidente della Repubblica con Benedetto XVI, nel novembre 2006, Giorgio Napolitano riconobbe il valore della «tradizione di vicinanza, aiuto e solidarietà verso i bisognosi e i sofferenti che è propria della Chiesa – e per es­sa della Caritas, del volontariato cattolico, delle parrocchie – e, guardando anche a una comune missione educativa, là dove sia ferito e lacerato il tessuto della coesione sociale, il senso delle isti­tuzioni e della legalità, il costume vicino, l’ordina morale».

Questo riconoscimento nobile, esplicito, del capo dello Stato lo si ritrova in ogni analisi della nostra società, in ogni libro della nostra storia, riguarda quella funzione di sostegno, e di supplenza, etica e solidaristica alle insufficienze di uno Stato che può realizzare istanze di giustizia, ma non riesce a trasmettere solidarietà, amore per gli altri, dedi­zione e abnegazione, dove più ce n’è bisogno. Que­sta funzione è promossa dalla Chiesa istituziona­le perché è tra i suoi compiti originari, ma è rea­lizzata da uomini, donne, giovani, in carne ed os­sa, che rendono testimonianza con la propria vi­ta a princìpi e valori evangelici, rispondendo a un moto della coscienza che non conosce avidità né utilità, ma solo sacrificio di sé, rispetto per la di­gnità di ogni essere umano, in primo luogo di chi non ha forza per agire o voce per farsi sentire.

Se dunque si deve parlare di numeri, parliamo delle decine di migliaia di preti, di religiosi e di religio­se, che dedicano la vita ad assistere spiritualmen­te e la popolazione, e che assieme a centinaia di migliaia di giovani (e no) agiscono attraverso la Caritas e le strutture parrocchiali e associative per andare incontro agli indigenti di casa nostra, agli immigrati, a chi non ha famiglia, a chi deve esse­re sostenuto per bisogni primari dell’esistenza u­mana come a chi vuole ritrovare se stesso. Tutti sanno che in Italia le strutture di accoglien­za cattoliche (e laiche) hanno sin qui costituito u­no dei più solidi ammortizzatori sociali per la que­stione dell’immigrazione impedendo dolorose e pericolose lacerazioni sociali.

Sappiamo tutti che in ogni città, o piccolo centro, chiunque ha un pa­rente, un amico, un conoscente che non sa dove andare perché la disgrazia l’ha colpito dalla na­scita, o nel corso dell’esistenza, si rivolge a una struttura religiosa con persone consacrate e laici, che danno tutto se stessi per realizzare l’impossi­bile, che diventa possibile soltanto attraverso l’e­sercizio (a volte eroico) della carità cristiana. Tut­ti conoscono questa realtà. E allora è bene ren­derle onore, e rendere onore a quegli sconosciuti che in silenzio, senza mai apparire, lavorano per i più deboli tra noi, perché la nostra società non perda quel senso prezioso di umanità che il cri­stianesimo le ha donato.

Questi sconosciuti non chiedono nulla perché compiono una scelta pre­giudiziale, di dedicare la propria vita a qualcosa di grande che promana dalla propria coscienza, dal­la fede in Dio, dalla fiducia nell’uomo. Ma non me­ritano di essere raccontati come 'evasori'… Un importante uomo politico della sinistra ha det­to nei giorni scorsi parole di saggezza quando ha ricordato che, prima di parlare, bisogna andare a vedere cosa fanno nella realtà la Caritas, le par­rocchie, le strutture religiose. E ha aggiunto che, se esiste qualche situazione di confine, la si deve esaminare con obiettività. Qualcuno si è subito aggrappato all’idea di una 'zona di confine' per ribadire le false tesi sui privilegi fiscali, ma può sta­re tranquillo.

La Chiesa non ha nulla da nascon­dere ed eventuali situazioni con profili d’incer­tezza sono state affrontate ieri e lo saranno anche domani, perché nulla può offuscare o gettare gra­migna nel grande campo di amore e solidarietà che la Chiesa coltiva da sempre e rappresenta l’o­nore e il vanto della sua fedeltà al Vangelo. Dopo tutto quanto si è detto, senza trovare risposta, sul­la legislazione vigente e sui contenuti delle atti­vità assistenziali e benefiche, resta una sola cosa importante da riaffermare: chi con fede e corag­gio si impegna a favore degli altri, sa che va in­contro a incomprensione, a volte a denigrazione (anche se non in dosi massicce come quelle o­dierne), ma continuerà a farlo perché le motiva­zioni e le finalità della sua scelta appartengono a un’altra dimensione.

Carlo Cardia

L'Avvenire.it


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27/08/2011 11:08



Laica cantonata


Campagna anticattolica
Da 4 anni le stesse bugie



Freezer e microonde sono il toccasana in tante cucine. E pure in certe redazioni. Proprio ieri un "settimanale di politica cultura economia" lanciava una roboante inchiesta dal titolo «La santa evasione», così riassunta: «I vescovi lanciano l’anatema contro chi non paga le tasse, ma i patrimoni della Chiesa vivono di agevolazioni ed esenzioni. Ecco la mappa di un tesoro che conta un quinto degli immobili italiani. E per legge sfugge alla manovra».

Nulla di nuovo. La fonte principale, se non unica, è una vecchia inchiesta di Curzio Maltese apparsa sulla "Repubblica" dal 28 settembre al 17 dicembre 2007, poi raccolta nel volume "La Questua". A ogni puntata dell’inchiesta seguiva una pagina di Avvenire che confutava, dati alla mano, errori, verità dimezzate e omissioni, lavoro poi confluito nel libro "La vera questua" (scaricabile qui). "Repubblica" non rispose mai né mai corresse i suoi sbagli; ma Maltese ripulì il libro dagli errori più madornali, pur senza mai citare "Avvenire", esempio perfetto di mobbing mediatico: ci sei ma non esisti.

Nient’altro di nuovo, se non un misterioso «altro libro» di Piergiorgio Odifreddi, che accuserebbe la Chiesa di un’evasione doppia, rispetto a quella denunciata da Maltese.

A sconcertare è l’assenza totale di fonti che i lettori possano controllare. Si citano vaghe «stime» e «calcoli», magari dei «Comuni». Tutto così generico da risultare inattendibile. Si dice, si ripete, si ridice che «la Chiesa non paga l’Ici», ma da quattro anni non facciamo che ripetere la verità: la Chiesa paga l’Ici per tutti gli immobili di sua proprietà che danno reddito, a cominciare dagli appartamenti (vedi la lettera del parroco romano) e dai cinema con caratteristiche commerciali. E se qualcuno non paga ma dovrebbe pagare, sbaglia e va fatto pagare. Ma chi?

L’inchiesta, se così la si può definire, non lo dice. Sbrina e riscalda. E insinua. Afferma che a Roma gli immobili del Vaticano sono grandi evasori. Ma non si prende la briga di chiedere all’Agenzia delle Entrate della capitale l’elenco degli enti non commerciali contribuenti. Comprensibile: se fosse una vera inchiesta, dovrebbe spiegare che Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica) e Propaganda Fide sono al secondo e al terzo posto tra i contribuenti, dietro un importante istituto di previdenza. Quindi paga, eccome se paga. Ma poiché il teorema esige che evada, le cifre dell’Agenzia vanno oscurate, altrimenti farebbero saltare il teorema.

Son fatte così queste "inchieste". Perfino la Caritas romana viene messa nel mirino come «proprietaria» di ben 70 immobili. La Caritas non «possiede» nulla ma gestisce, in effetti, mense e comunità di recupero per ex tossicodipendenti, case per malati terminali di Aids o per giovani madri in difficoltà... che per il gruppo guidato da Carlo De Benedetti, così in sintonia con le parole d’ordine e le campagne di Radicali italiani e Massoneria italiana, devono fruttare ampi redditi, e quindi vanno ben spremuti.

Nulla di nuovo, dunque. Anche se con ineffabile faccia tosta qualcuno afferma che la Chiesa manterrebbe un imbarazzato silenzio e non avrebbe mai smentito nulla, tutto è già stato ampiamente confutato dal 2007 in poi; ma la campagna militare esige l’applicazione del mobbing mediatico: so perfettamente che ci sei, mi rispondi e cerchi il dialogo, ma ti ignoro e faccio come se tu non esistessi. Via allora con le cifre sparate a casaccio senza citare fonti controllabili. Così gli immobili di proprietà della Chiesa cattolica, in Italia, ieri erano il 30 per cento, oggi calano al 22 e domani chissà... palesi enormità, avvalorate da numeri che si riferiscono a Roma, dove però tutte le congregazioni religiose del mondo hanno una "casa madre" o una rappresentanza, e molte Conferenze episcopali nazionali hanno i loro collegi dove ospitano i propri studenti che frequentano le Pontificie università. Che un collegio di seminaristi o giovani preti, che studiano e pregano, collegio che non produce reddito alcuno ma ha soltanto dei costi, debba pagare l’Ici è una palese sciocchezza. Nessun istituto d’istruzione la paga.

Ma la campagna contro la Chiesa non teme le sciocchezze. Leggiamo infatti l’elogio dell’emendamento dei Radicali «che farebbe cadere l’esenzione dall’Ici (...) per tutti gli immobili della Chiesa non utilizzati per finalità di culto», con questo elenco: «Quelli in cui si svolgono attività turistiche, assistenziali, didattiche, sportive e sanitarie, spesso in concorrenza con privati che al fisco non possono opporre scudi di sorta». La scure decapiterebbe anche innumerevoli ong, enti di promozione sportiva laicissimi, scuole non cattoliche, realtà culturali, politiche e sindacali. Un massacro. E costerebbe una cifra inaudita (la sola scuola paritaria, pubblica esattamente come la statale, fa "risparmiare" 6 miliardi all’anno) a uno Stato costretto a intervenire là dove la Chiesa, e altri, sarebbe costretti a mollare. Ma che importa? La furia demagogica ha bisogno di un facile bersaglio da additare all’odio popolare. E intanto gli evasori, quelli veri, gongolano.
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SE QUESTA VI PARE UNA STANZA DA 300 EURO A NOTTE
«La splendida abbazia di Chiaravalle alle porte di Milano costa 300 euro, ma è un cinque stelle a tutti gli effetti», tuonava il 10 novembre 2007 la "Repubblica". Splendida lo è senza dubbio, Chiaravalle. Ma un albergo a cinque stelle proprio no. Come tanti monasteri, ha una foresteria, nel suo caso di 7 stanze singole (una doppia è in via di realizzazione), dove ospita chi voglia condividere qualche giornata di preghiera con i monaci cistercensi (e in qualche caso familiari di persone ricoverate in ospedali milanesi). Le stanzette, tutte con bagno e in regola con le normative edilizie vigenti, sono come quella che vedete nella foto. Agli ospiti viene chiesto un contributo di 40 euro per la pensione completa, ma se una persona è in difficoltà, viene ospitata gratuitamente per una notte. La cantonata madornale non è mai stata corretta dal quotidiano di De Benedetti, i cui lettori sono ancora convinti che Chiaravalle sia un albergone. Se è con questi metodi che gli anticattolici calcolano la presunta Ici evasa dalla Chiesa, stiamo freschi.


Umberto Folena

da L'Avvenire.it



[Modificato da auroraageno 27/08/2011 11:08]

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LA RIVOLUZIONE

Il digitale torna all’età della pietra



All’inizio (o quasi) c’era l’uomo (meglio: l’ominide) che scoprì la pietra. E su di essa fondò la sua civiltà. La scrittura non esisteva ancora. Ma nella nostra immagine (grazie a fumetti, film e cartoon) abbiamo spesso rappresentato i nostri antenati mentre incidevano sulla pietra i loro messaggi e disegni più importanti. E in quel modo consegnavano al futuro per migliaia di anni. Oggi siamo tornati, più o meno, a quel punto. Per merito della società Milleniata, anche il nostro futuro digitale sarà inciso nella pietra.

Con un salto in avanti e al tempo stesso all’indietro nel tempo, capace di saldare in qualche modo i prossimi mille anni con l’era del paleolitico. Tutto merito degli M-Disc che, dopo anni di esperimenti e test, da domani arriveranno nei primi negozi americani. Si tratta di rivoluzionari dvd (con la stessa capacità di quelli tradizionali: 4,7 gigabyte), in tutto e per tutto simili a quelli che usiamo già, ma con una particolarità unica: grazie ad uno strato «simile a pietra» posto al loro interno promettono di conservare i dati digitali incisi su di essi per mille anni.

Difficile dire come sarà il mondo nel 3011, ma a viene spontaneo pensare a un nostro pronipote all’ennesima potenza che, scavando nel suon giardino ipertecnologico di allora, si imbatterà per caso in un M-Disc e si ritroverà a sfogliare foto, filmini e scritti di un tempo che pensava ormai perduto. A patto, ovviamente, di riuscire a procurarsi un lettore in grado di leggere «i dvd dal cuore di pietra». Perché il vero problema dell’uomo moderno (e di quello del futuro) è proprio questo: inseguire la tecnologia. E quindi essere obbligato a cambiare ogni pochi anni i supporti sui quali salva i suoi beni digitali (documenti, foto, filmati, immagini). Lo sanno molto bene i possessori di film in super8 o in vhs, registrazioni su musicassette e album fotografici. Se non li convertono al più presto in digitale, rischiano di perderli per sempre. Non solo e non tanto perché i supporti su cui sono stati «fermati» si deteriorano fino a farli diventare inutilizzabili, ma soprattutto perché stanno sparendo o sono già spariti gli apparecchi in grado di riprodurli.

Peccato che anche dopo avere salvato i loro preziosi film super8, i vhs o le musicassette in digitale, il problema non sarà finito. Oggi, infatti per le fotografie va per la maggiore il formato jpg, ma in futuro? Inutile farsi illusioni: ogni cinque, sei o al massimo dieci anni, dovremo riconvertire tutti i nostri beni digitali in nuovi formati, altrimenti non avremo più apparecchi o programmi in grado di riprodurli. Una «condanna» che vale anche per gli M-Disc, che possono essere incisi da lettori speciali (per fortuna non costosissimi) ma utilizzati da qualunque lettore di dvd (finché esisteranno). Tutto bene. Ma allora, direte voi, cosa serve avere un supporto nato per durare mille anni, se fra dieci o venti non ci saranno in giro più lettori in grado di leggere questi nuovi dvd? Serve. Perché l’utilità degli M-Disc – ultimo paradosso di questi dvd millenari col cuore di pietra – è legata all’immediato futuro. Alzi la mano, infatti, chi non si è mai trovato tra le mani un dvd diventato inservibile a causa dei graffi e delle troppe «manipolazioni» dei propri figli. Chi non ha mai perso preziose foto perché gli si è rotto un hard disc portatile o gli si è rovinata una chiavetta Usb. Oppure chi non riesce più a leggere quel compact disc dei Beatles che gli piaceva tanto. Gli M-Disc serviranno a non incappare più in simili problemi. A garantirci cioè che fra 10, 20 o 30 anni ritroveremo intatti gli scatti e i filmini dell’infanzia dei nostri figli e dei nostri nipoti.

E l’ultimo paradosso di questa invenzione (testata persino nei laboratori militari americani) è che a farci rivivere delle grandi, vere emozioni sarà un disco dvd con un cuore di pietra. Un’emozione così – direbbe la pubblicità – non ha prezzo. Invece, come ogni oggetto commerciale, ce l’ha, eccome. Ma stavolta non è proibitivo. Ogni singolo M-Disc costerà 2,99 dollari (poco più di 2 euro), 13,89 dollari ogni pacco da 5 e 26,59 dollari per le confeziono con 10 dischetti. Su Amazon.com c’è in vendita uno «starter-kit» che comprende un lettore di M-Disc e 25 dischetti a 208,99 dollari, poco più di 144 euro. Pagabili, quindi, senza dovere chiedere una dilazione di mille anni.


Gigio Rancilio

da L'Avvenire.it


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12/09/2011 18:53





Luna, ancora a caccia dei suoi segreti





Due veicoli spaziali si stanno allontanando dalla Terra per scoprire i misteri lunari. Intanto, nuove foto della Nasa dimostrano che le spedizioni sulla luna ci furono davvero.
11/09/2011 Quarant’anni dopo le missioni Apollo – l’ultima ebbe luogo alla fine del 1972 – la Luna continua ad essere al centro dell’attenzione degli scienziati. Ieri, alle 9,08 (le 15,08 in Italia) la Nasa ha lanciato da Cape Kennedy un razzo con due navicelle gemelle che entreranno in orbita attorno al nostro satellite naturale. Il nome della missione è “Grail”, cioè “Graal”, e ha l'obiettivo di misurare con precisione il campo gravitazionale della Luna. In particolare quelle piccole variazioni, già rilevate all'epoca dell'Apollo, che potrebbero svelare il segreto della sua nascita.





L'ultima ipotesi al riguardo è affascinante. In un lontano passato, infatti, la Terra avrebbe avuto non una, ma due lune. Entrambe generate dalla collisione, avvenuta circa quattro miliardi di anni fa, fra il nostro pianeta appena nato e un altro corpo celeste delle dimensioni approssimative di Marte. Per un certo periodo il più piccolo dei due satelliti sarebbe rimasto in equilibrio fra l'attrazione gravitazionale della Terra e quella del fratello più grande. Poi si sarebbe schiantato su quest'ultimo creando la Luna che noi conosciamo. Una teoria discussa, ma che potrebbe spiegare fra le altre cose la profonda diversità tra le due facce: dominata dai grandi “mari” di lava quella rivolta a noi, aspra e montuosa quella nascosta.

Mentre scriviamo, i due veicoli spaziali – Grail A e Grail B – si stanno allontanando dalla Terra. L’ingresso in orbita lunare è previsto a Capodanno, dopo un viaggio assai più lungo di quello – tre giorni per andare e altrettanti per tornare – dell’Apollo. Allora, con gli uomini a bordo e scorte limitate di ossigeno, la rapidità era essenziale. In questo caso si è preferito utilizzare una diversa traiettoria “a bassa energia”, che non richiede un razzo molto potente e costoso. I tre mesi e mezzo di viaggio serviranno, fra l’altro, a calibrare i delicati strumenti scientifici.





Intanto, proprio alla vigilia del lancio della nuova missione, la Nasa ha divulgato alcune nuove fotografie dei siti di allunaggio delle missioni Apollo 12 e Apollo 17 scattate due anni fa con un potente teleobiettivo dalla sonda LRO. Si distinguono chiaramente gli stadi di discesa dei moduli lunari, alcune apparecchiature scientifiche, le tracce delle ruote della vetturetta elettrica Lunar Rover e persino quelle degli astronauti. Al di là della testimonianza di un momento straordinario nella storia dell'esplorazione spaziale, questi scatti sono la prova definitiva, se mai ce ne fosse bisogno, che l'uomo sulla Luna c'è stato per davvero. Non illudiamoci, però, che servirà a zittire gli “scettici”: si troverà sempre qualcuno pronto a dire che sono state ritoccate con Photoshop.


Giancarlo Riolfo
Fonte: FamigliaCristiana.it


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24/09/2011 18:49


24 settembre 2011

LA SCOPERTA

Il neutrino che mandò in pensione Einstein



I neutrini hanno davvero superato la barriera della velocità della luce e la conferma di questa notizia sensazionale viene dal seminario tenuto ieri pomeriggio a Ginevra. Antonio Ereditato, il fisico italiano che guida il team di ricercatori che hanno effettuato la scoperta, ha dichiarato che il fatto «è così sorprendente che, per il momento, tutti dovrebbero essere molto prudenti e – ha concluso – non voglio neanche pensare alle possibili implicazioni».

La scoperta che ha messo in subbuglio l’ambiente dei fisici di tutto il mondo è stata una sorta di serendipity, termine con cui si intende un colpo di fortuna inaspettato grazie al quale ci si trova fra le mani una scoperta interessante mentre in realtà si stava lavorando per cercarne un’altra. E qualcosa del genere è accaduto ai fisici del Cern che stavano effettuando esperimenti senza pensare alla velocità della luce.

I neutrini, secondo le previsioni, avrebbero dovuto percorrere i 732 chilometri, che dividono il Cern dal Gran Sasso, in 2.4 millesimi di secondo, invece hanno impiegato 60 nanosecondi in meno rispetto alla tabella di marcia normale (un nanosecondo corrisponde a un miliardesimo di secondo!). I neutrini, dunque, si sono trasformati in Superman e la fantascienza è diventata realtà.
L’esperimento, ovviamente, è stato ripetuto diverse volte. Sono stati esaminati ben 15mila fasci di neutrini e, per tentare di spiegare questo superamento della velocità della luce, si è pensato anche che il risultato potesse essere stato influenzato dal terremoto che ha sconquassato l’Aquila nel 2009 o da altri eventi come la deriva dei continenti. Da ultimo si è pensato anche a un errore umano o a un difetto della strumentazione, ma oggi è arrivata la conferma ufficiale che la velocità della luce è stata superata.

I responsabili della scoperta invitano comunque alla cautela e attendono ulteriori verifiche da altri analoghi esperimenti che sicuramente saranno effettuati negli Stati Uniti e in Giappone. Prudente, con una punta di scetticismo, appare ad esempio Stephen Hawking: «Un’affermazione straordinaria richiede un’evidenza altrettanto straordinaria. Saranno necessari altri esperimenti e chiarimenti». La posta in gioco, in effetti, è molto alta perché coinvolge una delle “costanti” della fisica prevista dalla teoria della relatività ristretta di Einstein. Attenzione, però. Di fronte a scoperte del genere si sente dire che la fisica andrà completamente riscritta, ma non bisogna dimenticare che difficilmente la scienza, di fronte a nuove scoperte, getta via tutto. La relatività di Einstein, ad esempio, non ha affatto rinnegato le teorie di Newton, ma ha semplicemente circoscritto l’ambito della loro validità.

Sicuramente ci troviamo di fronte a qualcosa di veramente sconvolgente e l’esistenza di questi neutrini "superluminali" potrebbe infliggere un duro colpo alla relatività di Einstein, che in qualche modo andrebbe riscritta o comunque ridimensionata. Ma non dobbiamo dimenticare che tutte le volte che la relatività è stata “attaccata” ne è sempre uscita vincente. Sarà così anche questa volta? Nessuno, al momento, può saperlo e la risposta comunque non sarà di certo immediata. La scienza non ama gli scoop e infatti, prima di divulgare la notizia, ha atteso tre anni e chissà quanti altri occorrerà attenderne per venire del tutto a capo della questione.

Considerando i neutrini che hanno superato la barriera della velocità della luce, il pensiero corre al fisico Paul Dirac, uno dei padri della fisica quantistica, che negli anni Trenta del secolo passato aveva messo sul tappeto il problema della “costanza” delle costanti fisiche. Nessun esperimento l’aveva mai messa in discussione, ma adesso sembra che non sia così. C’è ancora molto da imparare e la lezione ci viene impartita da questi “misteriosi” neutrini. Impalpabili e velocissimi. Mentre state leggendo queste righe, siete attraversati da un flusso incredibile di neutrini che provengono dal Sole. Nel laboratorio del Gran Sasso, per catturarli, è stato allestito un rivelatore che pesa ben 4mila tonnellate. E anche questo, se volete, è uno di quei misteri che lega il macrocosmo con il microcosmo, l’infinatamente grande con l’infinitamente piccolo.


Franco Gàbici

da L'Avvenire.it

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25/09/2011 19:27


Cosa insegna l’esperimento sui neutrini più veloci della luce

Un colpo alla relatività ma soprattutto allo scientismo




I neutrini possono superare la velocità della luce. La scoperta, compiuta da un gruppo di ricercatori del Cern, mette in crisi la teoria della relatività di Einstein, fondata proprio sul presupposto che "C" sia una costante e un tetto insuperabile, una specie di coperchio che grava su tutto quanto avviene in questo nostro universo. Minuscola è la misura della quale il neutrino batte la luce, ma si tratta di fenomeni di fronte ai quali qualsiasi cosa giudicassimo lillipuziana apparirebbe gigantesca: il neutrino è il corpo più piccolo di cui si parli, al punto che per esso noi e la nostra Terra siamo trasparenti quanto un cristallo lo è per la luce, e al punto che si dubita se abbia veramente una massa.

Dubbio: ecco comparire il termine cruciale che chi si appella alla scienza - o almeno alle sue versioni usualmente diffuse sui media e molto spesso accettate acriticamente - vorrebbe esorcizzare, cancellare, sopprimere. Perché viviamo nell’epoca in cui la scienza ha preso il posto della magia, seppure conviva allegramente con l’astrologia che ci propina bollettini quotidiani sulle cui elucubrazioni pare non manchi chi modula la propria esistenza, come solevano fare gli antichi Romani coi verdetti dei loro aruspici. La scienza dei nostri giorni ha la "S" maiuscola e ci regala certezze assolute, sulle quali si sono incardinati interi sistemi di vita. Il marxismo era la "scienza" ultima dell’organizzazione sociale, e ha dato quel che s’è visto in tante parti del mondo, in tanti decenni di lacrime.

Il trionfante liberismo è oggi la "scienza" sopraffina che fa del campo etereo dell’economia un labirinto di certezze, e con assoluta nonchalance ci regala crisi di bibliche proporzioni, come se non fosse intercorso niente tra il tempo in cui si parlava di vacche grasse e magre, e quello attuale. Ma regina tra tutte è la fisica, scienza per eccellenza, fondandosi sulla quale ogni tanto esperti vari (Margherita Hack, tanto per dire) propinano sul proscenio massmediatico urbi et orbi lezioni cosmologiche parlando del momento in cui è cominciato l’universo con la stessa olimpica sicurezza con cui si riferirebbe di un certificato di nascita.

La teoria di Einstein è, appunto, una "teoria": ovvero un insieme organizzato fondato su ipotesi. Ma per tutto quel tempestoso secolo che ci siamo lasciati alle spalle è stata tanto citata e riciclata in ogni salsa, e il suo linguaggio (lo "spaziotempo") è tanto entrato nell’eloquio comune (all’epoca di Dante si diceva "volgare"), da trasferirsi ipso facto nei ranghi delle certezze, come per i marxisti fu l’organizzazione marxiana della società e per i liberisti è il mostro sacro dell’economia di mercato (e quale mercato, e come organizzato, da che leggi regolato, è argomento sempre lasciato un po’ da parte...). Di simili certezze s’è fatta lunga esperienza nella storia, dal sistema tolemaico alla teoria del flogisto. Perché non ne siamo ancora vaccinati ai nostri giorni? Come notava Chesterton: chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto. Soprattutto alle certezze preconfezionate offerte col sigillo dell’autorità.

Oggi l’arrembaggio dei neutrini al castello di carte della fisica einsteiniana offre la grande opportunità di ripensare a questo meccanismo del confezionare certezze basate sulla facile consuetudine. Perché la scienza in realtà è un’altra cosa e nasce dal coraggio del dubbio unito all’ottimismo della fede. Cerca con l’animo di chi ha trovato, trova con l’animo di chi comincia a cercare, diceva sant’Agostino. Ma non cullarti in preconcetti illusori. Oggi è un segno di grande speranza, questo assalto dei neutrini alle illusioni, non di quel grande genio che è stato e rimane Einstein, ma di chi ha voluto adottare la teoria della relatività come culla di acritiche certezze in una nuova fede rivestita di scientismo volgare.



Leonardo Servadio

Fonte: L'Avvenire.it

[Modificato da auroraageno 25/09/2011 19:28]

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15/10/2011 20:41



Aperto in Vaticano il primo incontro internazionale dei responsabili della nuova evangelizzazione


Un popolo in missione

di GIANLUCA BICCINI



"Il passaggio dalla "missione al popolo" a il "popolo in missione" deve far comprendere il cambiamento di prospettiva che muove la nuova evangelizzazione". Con questo auspicio dell'arcivescovo presidente Rino Fisichella, si è aperto stamane, sabato 15 ottobre, in Vaticano il primo incontro internazionale promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Nell'Aula del Sinodo si sono dati appuntamento, con i 14 membri del dicastero, i rappresentanti di 33 Conferenze episcopali e di ben 115 realtà ecclesiali, i cosiddetti nuovi evangelizzatori, convenuti dai cinque continenti con l'obiettivo dichiarato di offrire "risposte adeguate" all'attuale crisi spirituale che investe il mondo, attraverso un "nuovo slancio missionario", nella piena consapevolezza - ha spiegato monsignor Fisichella nell'introduzione ai lavori - che "vi sono realtà differenziate che richiedono impulsi di evangelizzazione diversi".
Nel suo articolato intervento l'arcivescovo presidente ha definito la nuova evangelizzazione "un fiume che irriga il mondo di oggi, là dove le persone vivono e operano". Dopo aver messo in luce come "voler ricorrere a una definizione esaustiva di nuova evangelizzazione rischi di far dimenticare la ricchezza e la complessità della sua natura", il presule ha invitato i presenti a "dare ragione della propria fede, mostrando Gesù Cristo il Figlio di Dio, unico salvatore dell'umanità. Nella misura in cui saremo capaci di questo - ha detto - potremo offrire al nostro contemporaneo la risposta che attende". La nuova evangelizzazione riparte dunque "dalla convinzione che la grazia agisce e trasforma fino al punto da convertire il cuore, e dalla credibilità della nostra testimonianza. Guardare al futuro con la certezza della speranza è ciò che ci consente di non rimanere rinchiusi in una sorta di romanticismo che guarda solo al passato, né di cedere all'utopia perché ammaliati da ipotesi che non possono avere riscontro". Perché - ha aggiunto - "la fede impegna nell'oggi che viviamo, per questo non corrispondervi sarebbe ignoranza e paura". E questo - ha ammonito - "a noi cristiani non è consentito. Rimanere rinchiusi nelle nostre chiese potrebbe darci qualche consolazione, ma renderebbe vana la Pentecoste".
Da qui l'esortazione a "spalancare le porte e ritornare ad annunciare la risurrezione di Cristo. Se qualcuno oggi vuole riconoscere i cristiani deve poterlo fare per il loro impegno nella fede, non per le loro intenzioni".
Per questo è importante individuare alcuni luoghi, particolarmente sensibili, per un'azione pastorale più innovativa. E tra questi ne sono stati illustrati ben sette, ritenuti a giusto titolo quelli maggiormente impegnativi: la cultura, le migrazioni, la comunicazione, la famiglia, la liturgia, la politica, e la pastorale ordinaria nelle parrocchie.

Ciascuno di questi ambiti è stato poi approfondito attraverso gli interventi di altrettanti relatori. Don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha parlato dell'evangelizzazione della cultura; il professor Adriano Roccucci (Comunità di Sant'Egidio), dell'accoglienza ai migranti; la brasiliana Luzia de Assis Santiago, dell'impegno di testimonianza cristiana nei media attraverso l'esperienza di Canção Nova; il fondatore del Cammino neocatecumenale, lo spagnolo Kiko Argüello, dell'importanza basilare della famiglia nella trasmissione della fede; il francese Jean-Luc Moens (Communauté dell'Emmanuel), di come ciò che viene annunciato debba essere poi reso presente e vivo nella preghiera liturgica e nella partecipazione ai sacramenti; Salvatore Martinez, presidente del Rinnovamento nello Spirito, del popolo di Dio chiamato a impedire la marginalizzazione della fede dalla vita pubblica. Molto applaudito, infine, l'intervento di don Pigi Perini, dal 1977 parroco di Sant'Eustorgio a Milano, che si è soffermato sulla pastorale svolta dalle cellule parrocchiali di evangelizzazione. Quasi tutti - anche quanti sono intervenuti successivamente in forma più concisa, a cominciare dal cardinale Wuerl di Washington - hanno fatto riferimento alle radici e agli sviluppi della nuova evangelizzazione: a partire dall'Evangelii nuntiandi, l'esortazione apostolica di Paolo VI del 1975 che può esserne considerata la magna charta, fino alle intuizioni profetiche di Giovanni Paolo II, che per primo ne ha elaborato le implicazioni, e di Benedetto XVI, che un anno fa ha istituito un apposito dicastero per realizzarla nei Paesi di antica tradizione cristiana sempre più secolarizzati.




(©L'Osservatore Romano 16 ottobre 2011)

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24/11/2011 20:28


CULTURA

INTERVISTA


Vallauri: «Mettete più pace nei libri di scuola»


Pace è uno di quei concetti che di norma vengono definiti in negativo: è assenza di conflitto, è non-guerra. Un errore culturale gravissimo per lo storico Carlo Vallauri, che anzi sulla pace “in positivo” ha appena dato alle stampe il suo ponderoso L’arco della pace. Movimenti e istituzioni contro la violenza e per i diritti umani tra Ottocento e Novecento (in tre volumi; Ediesse, pagine 1808, euro 50,00).

Ribaltando la logica dei Romani, quella del «Si vis pacem, para bellum» (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”), Vallauri – una lunga carriera accademica dedicata alla storia e alla sociologia politica tra la Sapienza e la Luiss di Roma e l’Università per stranieri di Siena – argomenta: «È sbagliato ridurre la pace all’auspicio che le nazioni non si aggrediscano le une con le altre. Al contrario, la pace riguarda in positivo la condizione di ogni individuo all’interno del proprio Stato».

In che senso, professor Vallauri?
«Prendiamo a esempio gli Stati totalitari tra le due guerre mondiali, come l’Unione Sovietica: senza il rispetto dei diritti umani elementari, ai cittadini mancava l’esperienza fondamentale anche solo per concepirla, la pace. Quando un cittadino è indifeso davanti allo Stato, allora c’è già una situazione di guerra; l’Unione Sovietica predicava la “pace” nel mondo e negava i diritti fondamentali al proprio interno. Però pace non è solo assenza di guerra tra i popoli, è anche creare le condizioni per la democrazia».

Il pensiero corre immediatamente alle recenti rivolte nel mondo arabo...
«Sì, è un accostamento corretto. La cosiddetta Primavera araba ha mostrato che prima di tutto viene la richiesta di libertà individuale, di autonomia, di capacità di scelta. Quella degli ultimi mesi è stata sostanzialmente una stagione positiva, una svolta per il Mediterraneo, nonostante le complicazioni che ne sono derivate».

Come la guerra aperta combattuta in Libia?
«Io mi sono schierato fin dall’inizio contro la partecipazione dell’Italia alle operazioni militari. Le Nazioni Unite hanno sbagliato a non considerare nessuna alternativa alla guerra per risolvere il problema libico».

Quale dovrebbe essere il ruolo della comunità internazionale in simili situazioni?
«La comunità internazionale... Il problema è che è composta da Stati che si osteggiano fra loro. Ma la realtà sotto gli occhi di tutti è che quando manca la democrazia, cioè la tutela dei diritti umani, allora c’è di per sé una condizione di guerra. È quindi essenziale che si affermi la democrazia come priorità internazionale; gli Stati non possono disinteressarsi di quel che accade in altri Paesi, come invece adesso stiamo facendo con la Siria».

“Esportare le democrazia” si è dimostrato essere un percorso scivoloso...
«Certo, se lo si fa con la guerra, una contraddizione in termini. Altri devono essere gli strumenti: prima di tutto viene l’educazione alla pace».

Quello che lei ha fatto come membro della commissione Unesco incaricata di «promuovere nei manuali scolastici la conoscenza e il valore del rispetto dei diritti umani, della cooperazione internazionale e dell’educazione alla pace»?
«Esatto. All’Unesco verificammo che in effetti nei testi scolastici erano molto rari gli accenni alla necessità della pace e si dava per scontato che ci fossero le guerre. Al contrario noi proponemmo, soprattutto agli Stati che dovevano ancora costruire la propria organizzazione scolastica, una serie di documenti utili per impostare l’educazione alla pace. Io suggerii la <+corsivo_bandiera>Pacem in Terris<+tondo_bandiera>, che era stata appena pubblicata da Giovanni XXIII: curiosamente a opporsi non furono i rappresentanti sovietici, ma quello della Germania Orientale. Non tollerava alcun cenno, nemmeno indiretto, al nazismo».

Il suo lavoro in effetti è ricco di richiami al ruolo svolto dalle religioni nella costruzione della pace...
«Io sono di formazione cattolica. Ma, a parte questo, scrivendo da italiano un libro sulla pace non potevo non dare alla Chiesa il rilievo dovuto. Al di là di qualche passaggio critico, l’apporto della Chiesa per la pace è stato fondamentale. Per esempio, dobbiamo ricordare l’importanza ricoperta, fin dagli anni Venti, dal grande rilancio dello spirito ecumenico, con un gran numero di convegni. Un impegno che non solo non è più venuto meno, ma che anzi con il passare del tempo si è sempre più radicato e ampliato».


Edoardo Castagna

da L'Avvenire.it


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21/01/2012 20:48

20 gennaio 2012

SANTA SEDE




Il Papa approva le celebrazioni

del Cammino Neocatecumenale



​Ieri la Santa sede, attraverso un decreto del Pontificio Consiglio per i laici, ha comunicato l’approvazione delle celebrazioni contenute nel Direttorio catechistico del Cammino neocatecumenale, dopo aver avuto il parere favorevole della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. «Un momento storico», ha commentato Kiko Argüello, iniziatore del Cammino, assieme a Carmen Hernández.
È importante capire infatti che il Neocatecumenato come recita l’articolo 5 del suo Statuto è «uno strumento al servizio dei vescovi per la riscoperta dell’iniziazione cristiana da parte degli adulti battezzati». Infatti l’Ordo Initiationis Christianae Adultorum pubblicato nel 1972 sulla scia della riscoperta del catecumenato fatta dal Concilio Vaticano II, suggerisce al capitolo IV l’utilizzazione della catechesi e di alcuni riti propri dell’iniziazione per la conversione e maturazione nella fede non solo per i non battezzati, ma anche per quei cristiani che si siano allontanati dalla Chiesa o non siano sufficientemente evangelizzati.
Il Cammino neocatecumenale è arrivato a riscoprire tutto ciò attraverso una prassi di oltre 40 anni a partire dalle esperienze degli ultimi, i baraccati di Palomeras Altas a Madrid nel 1964. È lì che si è cominciato a sperimentare che il kerygma, cioè l’annuncio della resurrezione di Cristo, aveva il potere di trasformare le persone. Così è stata avviata una prassi catechetica che la Chiesa nel 2008, con l’approvazione definitiva degli Statuti, ha riconosciuto come «un itinerario di formazione cattolica, valida per la società e per i tempi odierni».
La Chiesa ha disposto di studiare il contenuto concreto della predicazione del Cammino, strutturata in varie fasi come il catecumenato della Chiesa dei primi secoli, e nel 2011, dopo un attentissimo studio portato avanti per vari anni dalla Congregazione per la dottrina della fede, ha approvato il Direttorio del Cammino. Le varie tappe del Neocatecumenato sono scandite e si concludono con celebrazioni che, come ha detto Benedetto XVI, «non sono strettamente liturgiche, ma fanno parte dell’itinerario di crescita nella fede». Tali momenti sono contenuti nel Direttorio. Pur essendo stata approvato il suo contenuto dottrinale, la Congregazione del culto divino e la disciplina dei sacramenti ha voluto esaminarlo da un punto di vista liturgico. «E adesso viene il sigillo – osserva Kiko Argüello – che dice che anche queste celebrazioni, che marcano le tappe di crescita dell’itinerario di maturazione dell’uomo nuovo, sono magnifiche e sono veramente ispirate, aiutano l’uomo a crescere nella fede e a unirsi a Gesù Cristo, a farlo cristiano».
Dunque ieri è stato un giorno di grande felicità per il Cammino. «Dopo tanti anni come non possiamo essere contenti – osserva il suo iniziatore – e grati a Dio che, dopo tante sofferenze e tanto lavoro in tutto il mondo, la Chiesa riconosca ufficialmente che questa iniziazione cristiana è valida per la costruzione di un cristiano, di un uomo nuovo. Valida per fare un cristiano adulto. Noi questo cristiano lo inseriamo in una comunità cristiana, perché oggi bisogna dare i segni che nell’antichità chiamavano i pagani alla fede, quando gridavano "guardate come si amano i cristiani"».


Pier Luigi Fornari - L'Avvenire.it
[Modificato da auroraageno 21/01/2012 20:49]

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Infibulazione: violenza psico-fisica mai finita



http://www.net1news.org/infibulazione-violenza-psico-fisica-mai-finita.html




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VITA

ETEROLOGA

3 Maggio 2012

Perché diciamo no al figlio con tre genitori




Martedì 22 maggio la Corte costituzionale dovrà decidere sulla questione di legittimità del divieto di fecondazione eterologa (creare cioè embrioni con un donatore di seme esterno alla coppia), sollevata dai tribunali di Milano, Firenze e Catania. Si tratta di una norma di civiltà giuridica che merita di essere confermata. Ora un nuovo fronte contro tale divieto sembrava essersi aperto dopo la decisone della Corte europea dei diritti dell’uomo che aveva stabilito l’incompatibilità con la Convenzione europea (segnatamente del richiamo al «diritto alla vita privata e familiare» e al «divieto di discriminazione» di cui agli artt. 8 e 14) di un divieto in parte analogo previsto dalla legge austriaca. Decisione che però è stata annullata il 3 novembre 2011 in seconda istanza dalla Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Occorre fare un po’ di chiarezza. Come ricordato dagli stessi giudici della Corte europea, pur potendo le loro decisioni incidere sulla giurisprudenza degli Stati che hanno aderito alla Convenzione europea (e tra questi, l’Italia), esse non possono travalicare «un chiaro margine di discrezionalità degli Stati membri nella materia specifica». Ora le ordinanze di rimessione – specie quella di Milano – richiamano a conforto dell’ammissibilità dell’eterologa un presunto «diritto fondamentale alla piena realizzazione della vita privata familiare e il diritto di autodeterminazione in ordine alla medesima» (indebitamente compattando l’espressione della Convenzione, che pone la congiunzione "e" tra "privata" e "familiare").

Tale ipotetico diritto, tuttavia, incontra in Italia un dato invalicabile: l’art. 29 della nostra Costituzione, che indica quale famiglia di diritto quella fondata su due sole figure genitoriali, e non tre, come accadrebbe ove si ammettesse un padre civile, coniugato con la gestante dell’ovulo fecondato dal seme del padre naturale-donatore. E tale disposizione, dopo il rigetto della questione sul divieto austriaco da parte della Corte europea, esce rafforzata. L’esclusiva competenza in materia di famiglia, infatti, come ricordato dalla Carta dei diritti dell’Unione europea è lasciata alle «leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». Si tratta dunque di prerogativa del Parlamento italiano che sul punto ha legiferato in chiara armonia con la propria Carta costituzionale, stabilendo il divieto di fecondazione eterologa.

Sul piano delle ragioni costituzionali il divieto si raccorda con tutele basilari, che discendono appunto da principi di civiltà giuridico-costituzionale: la tutela del nascituro per lesione della sua integrità psico-fisica e la tutela da derive di carattere etico-sociale contrarie alla dignità umana. Sotto il primo aspetto ove, infatti, si consentisse la generazione di un figlio con un donatore estraneo alla coppia, nessuna legge potrebbe precludere al figlio, al pari di qualsiasi altra persona, di conoscere i dati sanitari, fisici e anagrafici del padre naturale. Ma con il diritto inalienabile a conoscere le proprie origini, e quindi la paternità naturale, la conseguente rivelazione della doppia paternità si rivelerebbe devastante – come già emerso in casi accaduti in altri ordinamenti, che sono perciò ritornati sui loro passi – in quanto gli equilibri affettivi vengono inesorabilmente minati all’interno della famiglia in cui il figlio cresce (si pensi al forte squilibrio emotivo tra due coniugi, una genitrice biologica, l’altro no) e nei confronti del padre biologico, donatore del seme, con il quale è sostanzialmente reciso ogni legame affettivo pur essendo egli in vita e pur potendo un giorno essere chiamato in causa dal figlio (e questo la legge 40 ovviamente non ha potuto escluderlo).

L’unica alternativa percorribile sarebbe immaginare una famiglia triadica, ma ciò, come ricordato, in Italia andrebbe contro la carta Costituzionale che tutela la famiglia-società naturale (e non dunque artificiale) composta da un solo padre e una sola madre. Sul piano etico-sociale, poi, l’ammissibilità della fecondazione eterologa comporterebbe il rischio di selezione eugenetica. La fecondazione eterologa è infatti preceduta da esami sul codice genetico dei possibili donatori e della donna ricevente: il risultato di tali esami diventa nella prassi elemento determinante, preliminare alla fecondazione, nella scelta del donatore.

Con l’ammissibilità di questo tipo di fecondazione si compirebbe pertanto un passo pericolosissimo verso la selezione del genere umano, con scenari futuri caratterizzati da probabili discriminazioni tra categorie di persone a patrimonio genetico "selezionato" e, dunque, più efficiente, e persone fecondate naturalmente con possibili difetti genetici (certamente le assicurazioni private valuteranno tale circostanza).

Né i motivi di un contrasto con la tutela del diritto alla salute, pure richiamato nelle ordinanze di rimessione di Milano e Catania, sono condivisibili. Intanto per la ragione dirimente che nel caso dell’accesso alle tecniche di fecondazione assistita di cui alla legge 40 non si cura una patologia (l’infertilità o la sterilità rimarranno tali) ma si supera un ostacolo per risolvere un problema procreativo. Appare in questo senso fuori luogo un richiamo all’articolo 32 della Carta costituzionale, che tutela la salute individuale. Inoltre l’interesse della coppia alla procreazione, pur rilevante sul piano esistenziale, non può di per sé dirsi "costituzionalmente" superiore a quello della famiglia «società naturale fondata sul matrimonio» di cui all’art. 29.

La difesa della legge 40, fondata, secondo il criterio del male minore, sulla riduzione dei rischi di eliminazione di embrioni e di impedire fecondazioni eterologhe – pur con tutti i limiti di una legge che ha come presupposto lo sradicamento della fecondazione dall’alveo naturale dell’utero della madre –, rimane perciò punto dirimente, memori del fatto che la legge è intervenuta in un campo dove tutto era lecito, in quanto l’embrione non riceveva espressa dignità giuridica soggettiva, come invece oggi avviene. Occorre non dimenticare questo stato di cose, altrimenti si finirebbe per fare il gioco di chi vuole demolire la legge per tornare al far west preesistente, sicuramente più redditizio per molti attori del settore.


Alberto Gambino, ordinario di Diritto privato e direttore del Dipartimento di Scienze umane dell'Università europea di Roma


FONTE: L'Avvenire.it



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15/05/2012 19:13



Un convegno alla Cattolica sulla cura delle persone colpite da gravi lesioni cerebrali

Per non dimenticare i "cittadini trasparenti"

di LAURA GOTTI TEDESCHI






Chi si prende cura di chi cura? È questa la domanda che ha fatto da sfondo al convegno svoltosi a Milano, all'Università Cattolica del Sacro Cuore, con il titolo "Il risveglio della coscienza. Curare e prendersi cura delle persone in stato vegetativo e di minima coscienza", organizzato per "risvegliare" la coscienza della società, che fatica ad affrontare la disabilità attraverso le strutture del welfare.
Lo scopo del convegno è stato quello di creare consapevolezza, di natura culturale e relazionale, per percepire la rilevanza di un problema che non può essere ricondotto soltanto ai dibattiti della bioetica. Cioè a quei conflitti esasperati che hanno dominato il mondo dei media, in questi ultimi anni, rispetto alle situazioni delle persone in stato vegetativo e di minima coscienza. Qui invece ci si è proposti di far emergere i vissuti e i bisogni esistenziali delle persone (familiari o caregivers) che hanno in cura e in assistenza questi pazienti.
La malattia e la disabilità cambiano e stravolgono quegli ambienti in cui noi costruiamo la nostra vita e le nostre relazioni significative. Per questa ragione è necessario sostenere chi, per affetto o per professione, ha il compito di ricostruire un mondo fatto di progetti e aspettative anche all'interno dell'ambiente in cui si trovano i pazienti: laddove può non essere sempre possibile guarire, si può e si deve sempre curare la persona malata, poiché anche chi è inguaribile è pur sempre curabile.
La questione della malattia e della disabilità, prima che questione clinica è, dunque, una questione antropologica: il nostro sguardo di persone sane rivolto alle persone malate non deve essere diretto a ciò che manca, ma a ciò che la persona malata è. Cioè un essere umano che gode di una dignità intrinseca. Solo in questo caso la prospettiva della cura e del prendersi cura può essere realmente attiva. Il concetto di "io trasparente", elaborato dalla filosofa americana Kittay, spiega bene in quale condizione si trovano le persone, familiari o assistenti, che hanno in cura i pazienti con gravi disabilità. Essi sono "trasparenti" in quanto mettono da parte se stessi e i loro diritti, per dedicarsi totalmente all'altro, quasi annullandosi. Ma rischiano di essere "trasparenti" anche per la società e per l'opinione pubblica.



(©L'Osservatore Romano 16 maggio 2012)



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24/07/2012 09:53



Cari politici, leggetevi Einstein

di Bruno Arpaia

Il luogo comune vuole che il grande fisico fosse un ingenuo quando parlava di cose non scientifiche: come il disarmo e il governo del mondo. Invece, anche in questi campi, aveva una visione lunghissima





Luogo comune: Albert Einstein sarà anche stato il più grande fisico del Novecento (e forse di ogni tempo), ma quando esprimeva le sue idee politiche, soprattutto quelle pacifiste,
ah che ingenuo, che velleitario, che sprovveduto, che contraddittorio...

Di questo topos, durissimo a morire, fa piazza pulita Pietro Greco, uno dei migliori conoscitori della vita e delle opere del genio tedesco: in "Einstein aveva ragione" (ScienzaExpress, Milano, 2012, pagg. 304, euro 19,00), infatti, ci conduce attraverso le quattro tappe fondamentali del suo impegno pacifista, dimostrandone l'impegno ostinato, l'adattabilità alle circostanze (la comprensione "scientifica" delle "condizioni al contorno"), la capacità di coniugare un istintivo desiderio di pace con un'acutissima analisi della politica internazionale.

Insomma, altro che "scienziato con la testa fra le nuvole": Einstein fu un «pacifista militante», il «leader di gruppi di scienziati pacifisti politicamente organizzati». E seppe modificare la propria strategia e la propria tattica a seconda delle necessità: fu, infatti, il pericolo nazista che incombeva sul mondo a spingerlo a esercitare pressioni sul presidente degli Stati Uniti per dare così, sia pure in maniera indiretta, il via al Progetto Manhattan. E tuttavia, una volta svanito dall'orizzonte il nazismo, Einstein tornò alla battaglia per il disarmo nucleare con una impressionante chiarezza di prospettive sui mutati rapporti tra scienza e società e addirittura con profetiche visioni sulla necessità dell'unità europea.



- da L'Espresso -





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05/12/2012 16:50


LETTERATURA


Dostoevskij, romanziere cristiano nonostante il dubbio


Considerato tra i più autorevoli teologi contemporanei, Rowan Williams, primate dimissionario della Comunione anglicana, è un esperto di «questioni russe» avendo ottenuto un dottorato a Oxford (dopo gli studi di teologia a Cambridge) sul pensatore ortodosso Vladimir Lossky. Nel 2002 è diventato arcivescovo di Canterbury, incarico che lascerà a fine anno: gli subentrerà Justin Welby. Pubblichiamo stralci dell’introduzione del suo saggio edito da Borla Dostoevskij. Linguaggio, fede e narrativa. (L.Fazz.)


I romanzi di Dostoevskij continuano a riproporre con insistenza e senza vergogna la domanda di cos’altro sarebbe possibile se noi – personaggi e lettori – vedessimo il mondo in una luce altra, la luce offertaci dalla fede. È questa la tensione irrisolta nei romanzi dostoevskiani. Ma non è – come spesso viene dipinta – una tensione tra il credere e il non credere nell’esistenza di Dio. Dostoevskij è stato a volte cooptato al servizio di un agnosticismo angosciato quale quello che egli stesso confessava di essersi lasciato alle spalle. Vi sono lettori, le cui menti sono state profondamente formate da una cultura post-religiosa, i quali danno per assodato che l’irresoluzione dei racconti palesi un autore incapace di decidersi pro o contro la fede religiosa e – a dispetto di ogni professione di fede nei suoi scritti sia pubblici che privati – costantemente trascinato verso il dubbio e la negazione. Un commento di Dostoevskij in età precoce [«sono un figlio di quest’epoca, un figlio della miscredenza e del dubbio fino ad oggi e (ne sono piuttosto certo) fino al giorno della mia morte», lettera a Natalija Fonvizina, 1854] è stato citato a prova di ciò, come pure quello che è stato spesso interpretato come il ultimo e più grande romanzo nel raggiungere il fine presupposto, ovvero la difesa o il ripristino della possibilità di credere. William Hamilton, in un saggio degli anni Sessanta, sostiene che lo studio di Dostoevskij lo spinge decisamente a incamminarsi verso la teologia della «morte di Dio», dato che la fede a venire, quella destinata a emergere dal «crogiolo del dubbio», non aveva mai ricevuto una forma credibile nella narrativa dostoevskiana, e soprattutto ne I fratelli Karamazov.[…]

Le costellazioni critiche di riferimento che Hamilton usa come bussola tendono a essere i commentatori non specialisti del primo quarto del XX secolo, primo tra tutti D. H. Lawrence, per i quali I fratelli Karamazov erano un campo in cui combattere le classiche battaglie della modernità e dell’emancipazione dalla tradizione. Troppe idee su Dostoevskij sono state generate isolando brani significativi o addirittura singole frasi, e trattando questi o quelle come la sua filosofia personale. Al crescere dell’influenza degli studi di Bachtin e con l’aumentare del lavoro critico su Dostoevskij, le questioni legate alla fede nei suoi romanzi finirono maggiormente in primo piano per molti critici. Prima, agli inizi del XX secolo, simili questioni erano state territorio privilegiato di caccia di saggi altamente impressionistici, per non dire omiletici, compresi quelli scaturiti dalla diaspora russa – i noti studi di Berdjaev, ad esempio, o Kinstantin Mocul’skij, o lo straordinario lavoro di Sestov su Dostoevskij e Nietzsche – o di studi esplicitamente teologici ad opera di pensatori protestanti o cattolici, come Paul Evdokimov o l’importante saggio di Romano Guardini. L’importanza di Dostoevskij per il giovane Karl Barth e per la formazione dell’ethos della «teologia dialettica» fu notevole.[…]

Personalmente, ho dato per acquisito che Dostoevskij non voglia presentarci una serie di ragionamenti inconcludenti su «l’esistenza di Dio», siano essi pro o contro di essa, ma piuttosto un quadro romanzato di ciò che la fede e l’incredulità dovevano sembrare nel mondo politico e sociale del suo tempo. L’intenzione di Dostoevskij di scrivere a favore della fede non limita necessariamente, come è ovvio, la risposta o le conclusioni del lettore riguardo a quanto convincente egli risulti o quanto egli sia coerente nel perseguire il proprio fine. Ho dato tuttavia per assodato che, al fine di discernere che cosa sia in realtà facendo, sia necessario identificare il più possibile il movimento interiore e la coerenza del modo in cui tratta questioni legate a come vada immaginata la vita di fede. Il punto più importante, tuttavia, ha forse a che vedere con gli interrogativi che ho posto riguardo alla misura in cui siamo autorizzati a ritenere che la prospettiva di fede informi in maniera radicale sia il senso profondo che Dostoevskij ha di ciò che significa scrivere romanzi, sia la sua comprensione dell’interdipendenza tra la libertà umana, il linguaggio umano e l’immaginazione. Se l’ho letto correttamente, egli sposa una comprensione sia del discorso che della narrativa profondamente radicata in una sorta di teologia.

Con questo sollevo la questione di quanto o in che senso si possa definire Dostoevskij un romanziere cristiano. Ogni suo romanzo è un esercizio di resistenza al demoniaco e di salvataggio del linguaggio. E tutto ciò tramite l’insistenza sulla libertà – la libertà dei personaggi in seno al romanzo di rispondersi a vicenda, anche quando questo sconvolge o delude totalmente ogni speranza si possa nutrice di esiti positivi o di lieti fini delle situazioni. Esso mette in scena la libertà che discute creando uno spazio narrativo in cui diversi futuri sono possibili sia per i personaggi che per i lettori. E nel farlo cerca di rappresentare i modi in cui il creatore del mondo esercita la propria «facoltà di autore», in cui genera dipendenza senza controllo.

Lo spartiacque di tale apologetica sta per l’appunto nella possibilità di rifiutare di riconoscere tale rappresentazione, oppure nel riconoscere che qualcosa di reale è rappresentato, tale da renderla una rappresentazione veritiera. La finzione narrativa è come il mondo: si propone alla nostra accettazione e comprensione senza costringerci ad esse, dato che la costrizione renderebbe impossibile al creatore di apparire quale creatore di libertà. Tutto questo può apparire un itinerario piuttosto lungo rispetto alla domanda ingannevolmente ovvia riguardo al fatto se Dostoevskij sia o meno un romanziere cristiano o ortodosso, ma l’esplorazione delle questioni riguardanti la fede, la miscredenza e la libertà ci aiutano a chiarire perché egli può essere il tipo di romanziere cristiano che è solo in quanto lascia sussistere nei suoi racconti il summenzionato livello di ambiguità riguardo al ruolo che la fede ha nell’offrire una soluzione durevole e sostenibile.



Rowan Williams

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24/03/2013 11:35


LUTTO NELLA LETTERATURA



L'inno all'Africa di Achebe


​Con Chinua Achebe (morto ieri in un ospedale di Boston, negli Usa, all’età di 82 anni) se ne va un padre fondatore della letteratura africana moderna e uno scrittore di valore mondiale assoluto. Nigeriano, Ibo, nato nel 1930, è uno degli autori che dagli anni Sessanta prorompono con lo strepitoso rinascimento africano: con Achebe l’altro grande padre e maestro, Wole Soyinka, e scrittori di prima grandezza, come Ngugi e Ousmane, nell’area anglofona, e Kane in quella francofona. Tutti questi scrittori adottano la lingua dell’oppressore, sfidando gli intellettuali tradizionalisti che li accusano di tradimento: vogliono che l’Africa parli al mondo, il risultato di questa scelta coraggiosa è che essi cambiano e rigenerano la lingua a cui attingono: l’inglese di Achebe e di Soyinka, come quello del poeta caraibico Derek Walcott, è il più bello e nuovo del secondo Novecento.

Se Soyinka è il maggior drammaturgo del nostro tempo, dopo Beckett, Achebe è il massimo romanziere africano, particolarmente con un ciclo narrativo che solo nell’edizione italiana assume il titolo complessivo Dove batte la pioggia. Edizione italiana a opera di Jaca Book che scoprì e pubblicò subito i grandi scrittori africani di un’epopea credo irripetibile: come non è stata replicata, nonostante tanti importanti autori, quella americana di Hemigway, Fitzgerald, Steinbeck, e quella ispanoamericana di Marquez e Vargas Llosa, è improbabile che un fenomeno si ripresenti con tale potenza sinfonica nella pur ricca e vitale letteratura africana.

In quella meravigliosa fioritura che un editore italiano pubblicò da noi quasi in tempo reale, senza che la cultura italiana se ne rendesse conto (l’Africa nera è ancora oggetto di razzismo, anche qui e ora), Achebe è il romanziere epico, autore di romanzi memorabili a partire dal primo del ciclo, Il crollo, che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. In quell’opera l’autore affronta il mondo africano precoloniale, non astrattamente ma in una precisa parte di quella che sarebbe divenuta Nigeria, e rappresenta con tinte a volte calderoniane a tratti balzacchiane la fine della civiltà antica, il degrado di una ormai declinante età degli eroi. Per la prima volta l’Africa è narrata dal punto di vista africano, in una lingua straordinaria che fonde la lezione dei grandi inglesi come Conrad al lessico Ibo e a un originale pidgin. Il crollo degli antichi valori, ma, come si vedrà meglio nelle opere successive, l’ambiguità esistenziale introdotta dalla civiltà dei bianchi e dallo stesso cristianesimo: in parte la scoperta di realtà ignote e positive, in parte la subordinazione a un ordine e un sistema di valori estraneo al continente e alla sua anima. Drammatica, agonica, la rappresentazione di Achebe, non sfiorata da ingenuità sentimentali: non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ma la realtà di un mondo in cui bene e male agiscono in una dimensione concreta e implicitamente cosmologica.
Il romanzo successivo, Ormai a disagio, assume il titolo da un verso di Eliot, nel Viaggio dei Magi, indica la condizione di chi ha conosciuto una nuova visione del mondo, ma non può ancora aderirvi, né ritornare a quella precedente. Tutto concreto, nelle vicende degli uomini Ibo, tutto simbolico, universale: nel disagio e nell’incertezza tragica e comica dell’Africa che cambia, si riflette la situazione di un mondo in crisi, anzi, di una crisi del mondo. Dalla realtà precoloniale a quella successiva, altri grandi romanzi: La freccia di Dio, Un uomo del popolo: la sua narrativa ha la complessa coesistenza di epica, comicità, dramma, storia e metastoria dei grandi modelli di Dickens, Hugo, Verga, e esprime perfettamente un segreto dell’anima africana originaria, ove è impossibile distinguere tra astratto e concreto, in una vitalità perdurante anche nelle situazioni agoniche.

L’ultima sua opera uscita da poco, un romanzo sulla tragica esperienza della guerra del Biafra, in cui Achebe e Soyinka, di etnie diverse e nemiche, assunsero analoghe posizione pacifiste. Non ho ancora letto il libro, ma conosco bene le poesie del suo primo e unico libro di versi: lo stesso tema, la guerra del Biafra, l’orrore del sangue e la nascita di una nuova pietà, nera, salente dall’abisso della terra e grondante di compassione. Era partito da lì, da quella guerra, per tornarvi, ottantenne, prima di lasciare questo mondo. Una sola ferita include tutta la sua opera, che la riempie e risana.


Roberto Mussapi



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04/04/2013 18:23


Poche sorprese. Francesco è fatto così

I primi atti del nuovo papa rivisti alla luce della sua autobiografia. I motivi del suo silenzio sui temi che più contrappongono la Chiesa ai poteri mondani: nascita, morte, famiglia, libertà religiosa

di Sandro Magister



ROMA, 3 aprile 2013 – Al di fuori dell'Argentina pochissimo era stato pubblicato di Jorge Mario Bergoglio, prima della sua elezione a papa.

Ma ora le traduzioni di suoi scritti, discorsi, interviste si moltiplicano rapidamente. E aiutano a rendere meno sorprendenti i gesti di papa Francesco.

Ecco qui di seguito alcune di queste "sorprese" piccole e grandi, che però non appaiono più tali alla luce della sua autobiografia, uscita nel 2010 in Argentina nel libro-intervista di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti dal titolo "El Jesuita", ora in vendita anche in altri paesi tra cui l'Italia.

UN PAPA CHE NON CANTA MAI

È vero, papa Francesco ama ascoltare musica ma non canta, né durante le messe solenni né nell'impartire le benedizioni. Si dice che i gesuiti "non rubricant nec cantant", cioè né seguono troppo le cerimonie né cantano. Ma la spiegazione è più semplice.

A ventun anni buscò una bruttissima polmonite e "gli vennero asportate tre cisti attraverso l'ablazione della parte superiore del polmone destro. Da quell'esperienza gli è rimasta una deficienza polmonare che, pur non condizionandolo pesantemente, gli fa sentire il proprio limite umano".

Quindi semplicemente non canta perché non ha fiato sufficiente per farlo, come si intuisce anche da come parla, con corto respiro e con voce non forte. In ogni caso ha confessato: "Sono stonatissimo".

UN PAPA CHE PARLA SOLO IN ITALIANO

L'italiano in effetti lo parla bene. E capisce anche il dialetto piemontese della sua famiglia d'origine. Ma "per quanto riguarda le altre lingue – ammette nella sua autobiografia – dovrei dire non che le parlo ma che le parlavo, per la mancanza di pratica. Il francese lo parlavo piuttosto bene e con il tedesco me la cavavo. Quello che mi ha creato più problemi è sempre stato l'inglese, soprattutto la fonetica".

Sta di fatto che, rinunciando a parlare in lingue diverse dall'italiano, Bergoglio sembra aver deciso di sacrificare – in pubblico – anche la sua lingua madre, lo spagnolo.

A Pasqua ha rinunciato anche agli auguri in 65 lingue immancabilmente snocciolati dai pontefici suoi predecessori.

UN PAPA CHE VUOLE FARE TUTTO DA SÉ

In Vaticano si è dovuto prendere per forza di cose un segretario, il maltese Alfred Xuereb, già secondo assistente di Benedetto XVI. Anche a Buenos Aires aveva una segretaria, ma i suoi appuntamenti li gestiva lui, era lui stesso a segnarseli sulla sua agendina tascabile, che, diceva, "sarebbe un vero disastro perdere".

Aveva una scrivania "piccola ma ordinatissima". E ordinati sono anche i suoi orari: cinque ore di sonno la notte, luce spenta alle 23, giù dal letto alle 4 "senza bisogno di sveglia", dopo pranzo "un pisolino di quaranta minuti". Sa cucinare. Gli piace ascoltare musica e leggere, specialmente i classici della letteratura. Le notizie le vede sui giornali. Non fa uso di internet, tranne che un po' per la posta.

UN PAPA CHE NON VUOLE FARSI CHIAMARE "PAPA"

Lo si è notato. Bergoglio preferisce per sé la semplice qualifica di "vescovo di Roma" e tace sulla sua potestà di capo della Chiesa universale, nonostante tale potestà sia stata confermata con grande forza dal concilio Vaticano II.

Si legge nella sua autobiografia:

"Quando un papà o un maestro devono dire 'qua sono io quello che comanda' oppure 'qui il superiore sono io', è perché hanno già perso autorità e allora cercano di attribuirsela con le parole. Proclamare che si ha il bastone del comando implica che non lo si ha più. Avere il bastone del comando non significa dare ordini e imporre, ma servire".

Sembra cioè che Bergoglio voglia non proclamare ma esercitare la sua potestà suprema di successore di Pietro.

UN PAPA CHE DECIDE TUTTO DA SOLO

Ha detto ancora nella sua intervista autobiografica:

"Confesso che, in generale, per colpa del mio temperamento, la prima soluzione che mi viene in mente è quella sbagliata. Per cui ho imparato a diffidare della mia prima reazione. Una volta più tranquillo, dopo essere passato per il crogiolo della solitudine, mi avvicino a ciò che devo fare. Ma nessuno mi salva dalla solitudine delle decisioni. Si può chiedere un consiglio ma, alla fin fine, uno deve decidere da solo".

All'atto pratico, c'è insomma da prevedere che con Francesco il primato decisionale del papa non sarà intaccato, neppure con un futuro assetto più collegiale del governo della Chiesa.

UN PAPA CHE SCHIVA I TEMI DI CONFLITTO

In effetti, nei discorsi e nelle omelie di inizio pontificato, Bergoglio ha evitato finora di toccare le questioni che più vedono contrapposta la Chiesa ai poteri mondani.

Nel discorso al corpo diplomatico ha taciuto le minacce alla libertà religiosa, così come nei suoi altri interventi ha evitato qualsiasi cenno ai nodi critici del nascere, del morire, della famiglia.

Ma nella sua intervista autobiografica Bergoglio ricorda che anche Benedetto XVI in un'occasione scelse di tacere:

"Quando Benedetto XVI nel 2006 si recò in Spagna tutti pensarono che avrebbe criticato il governo di Rodriguez Zapatero per le sue divergenze con la Chiesa cattolica su varie tematiche. Qualcuno gli chiese addirittura se con le autorità spagnole avesse affrontato il tema del matrimonio omosessuale. Ma il papa rispose di no, che aveva parlato solo di cose positive e che il resto sarebbe venuto in seguito. Voleva suggerire che prima di tutto bisogna sottolineare le cose positive, quelle che ci uniscono, e non quelle negative, che servono solo a dividere. La priorità va data all'incontro tra le persone, al camminare insieme. Così facendo, dopo sarà più facile abbordare le differenze".

In un altro passaggio dell'intervista Bergoglio critica quelle omelie "che dovrebbero essere 'kerigmatiche' ma finiscono col parlare di tutto ciò che abbia un legame con il sesso. Questo si può, questo non si può. Questo è sbagliato, questo non lo è. E allora finiamo per dimenticare il tesoro di Gesù vivo, il tesoro dello Spirito Santo presente nei nostri cuori, il tesoro di un progetto di vita cristiana che ha molte implicazioni che vanno ben oltre le mere questioni sessuali. Trascuriamo una catechesi ricchissima, con i misteri della fede, il credo, e finiamo per concentrarci sul partecipare o no a una manifestazione contro un progetto di legge in favore dell'uso del preservativo".

E ancora:

"Sono sinceramente convinto che, al momento attuale, la scelta fondamentale che la Chiesa deve operare non sia di diminuire o togliere dei precetti, di rendere più facile questo o quello, ma di scendere in strada a cercare la gente, di conoscere le persone per nome. E non unicamente perché andare ad annunciare il Vangelo è la sua missione, ma perché se non lo fa si danneggia da sola. È ovvio che se uno esce in strada gli può anche succedere di avere un incidente, ma preferisco mille volte una Chiesa incidentata a una Chiesa malata".

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