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IL MESSAGGIO - Parole di luce - Il Vangelo commentato della Domenica

Ultimo Aggiornamento: 16/11/2012 09:41
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24/03/2008 07:06

IL MESSAGGIO - Parole di luce

IL MESSAGGIO:

L'amore che genera la speranza di vita eterna

- Cesare Nosiglia, vescovo -



« Cristo, nostra speranza, è risorto! »: è questo l'annuncio pasquale, che risuona da duemila anni nel mondo; questo è il cuore della fede cristiana, , l'assoluta discriminante tra chi crede e chi non crede. Credere, infatti, che Cristo è risorto, significa accettare la testimonianza degli Apostoli, che hanno sperimentato dal vivo l'evento della risurrezione.
La loro fede era debole, incerta, carica di dubbi, delusa, anche di fronte al sepolcro vuoto e alle prime apparizioni del Signore. Pensavano di vedere un fantasma, volevano toccare le sue mani e i suoi piedi per verificare se era proprio lui, avevano un senso di timore nell'incontrarlo.
Gesù era lì davanti a loro, mangiava con loro e discorreva della sua passione e morte, invitandoli a non essere increduli, ma credenti. Con la forza dello spirito Santo quei semplici e poveri pescatori di Galilea andarono in tutto il mondo predicando il Vangelo della risurrezione del Signore e dando anche la vita per confermarlo.
Che cosa spingeva la gente ad accogliere questo messaggio e a trovare in esso la fonte della speranza, che anima la fede e l'amore?
Ogni uomo è fatto per la vita, per amare ed essere amato, per tendere alla felicità e, quando sperimenta qualche forte esperienza di questo genere, si sente rinascere e prova in se stesso una profonda soddisfazione. Purtroppo, si accorge ben presto che si tratta di momenti occasionali, che non durano nel tempo e spesso deludono le grandi aspettative, che pure hanno suscitato. E poi c'è sempre quell'orizzonte temporale e certo della morte, che sembra distruggere ogni possibilità di vita, di amore e di felicità, per sempre.
Tutto ha un termine, un limite, dovuto alle proprie debolezze umane, alle prove, alle sofferenze, al distacco dalle persone più care. Eppure resiste, in ogni persona, l'indomabile esigenza di una speranza assoluta, di una certezza incondizionata, che apre il cuore a desideri e attese, che vanno oltre ogni limite ed appellano al "per sempre". Quando diciamo ad una persona: "Ti amo", sentiamo che quell'amore, pur così umano, desidera permanere oggi, domani, sempre.
Scrive l'apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: « Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?... Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore (8, 35.38-39) ». Se siamo dunque in relazione con Cristo, che non muore, perché Egli è la Vita e l'amore assoluto, allora vive in noi il germe della sua risurrezione: « Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno » (Gv 10, 25-26).
Questa è la vera ed unica speranza, che sorregge tutta l'esistenza e permane, nonostante le delusioni, le sconfitte, le prove di ogni genere: Dio, il Dio della vita, che in Gesù Cristo ci ama oggi e ci amerà sempre, perché fedele ed eterno il suo amore per ciascuno di noi! L'annuncio della Pasqua risuoni dunque nel profondo dell'animo di ogni uomo e resista alle usure del tempo e della vita che passa e per chi crede apra la via dell'eternità, memori delle parole dell'apostolo Paolo: « Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini » (1 Cor 15, 19).
Ma noi crediamo che il Signore è vivo e la sua risurrezione è principio e fonte della nostra. Accogliere e vivere questo evento di fede significa dare un senso nuovo a tutto ciò che facciamo, alle vicende e situazioni della vita e della storia. Perché dalla risurrezione di Cristo nasce quell'incrollabile speranza nella vittoria del bene sul male, dell'amore sull'odio e sulla violenza, della vita sulla morte, che ha la potenza di cambiare ogni situazione, anche la più tragica e negativa, con la certezza che tutto in Dio è possibile. I credenti, ed ogni uomo di buona volontà, possono sperare che i loro sforzi per costruire un mondo più giusto, pacifico, libero ed umano, nel senso più vero ed universale, non sono vani o inutili, se fortificati dalla fede in Cristo risorto e orientati ad immettere il seme della sua risurrezione nel tessuto concreto della propria vita personale e sociale. La Pasqua conferma la convinzione che nasce dalla fede: « Tutto posso in colui che mi dà la forza » (Fil 4, 13). Quello che appare impossibile agli uomini non lo è per Dio, perché nulla è impossibile a Dio.








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30/03/2008 18:49

Il rischio di essere felici

II Domenica di Pasqua - Vangelo secondo Giovanni 20, 19-31


Il rischio di essere felici


I discepoli hanno chiuso le porte: hanno paura dei Giudei.
Noi chiudiamo tante volte il nostro cuore: a Dio, al prossimo, all'amore, al perdono...
Gesù entra a porte chiuse.
Gesù ha il potere di entrare anche dalle nostre porte, chiuse per paura: il peccato genera la
paura. Lui entra e la prima cosa che ci dice: Pace a voi. Egli scaccia con il suo perdono la morte
dei nostri peccati; li cancella, li ha pagati con la sua morte ed è risorto! E ci libera da paura e da
chiusura. E ci mostra le sue ferite.

Il Vangelo oggi parla di ferite che Gesù non nasconde, ma quasi esibisce: il foro dei chiodi,
toccalo! Il costato, puoi entrarci con una mano! Piaghe che non ci saremmo aspettati convinti
che la risurrezione avrebbe rimarginato, chiuso, cancellato per sempre le ferite del venerdì
santo, le stigmate del dolore. E invece no. Perché la Pasqua non è il superamento gioioso della
Passione, ne è la continuazione, il frutto maturo, la conseguenza.
Le piaghe restano, per sempre. Ed è proprio a causa di quelle che Cristo è stato risuscitato.

L'amore ha scritto la sua storia sul corpo del Nazareno con la scrittura delle ferite: amore
incancellabile, ferite incancellabili. E luminose: dalle piaghe del Risorto non sgorga più sangue,
ma luce; le ferite non sfigurano, ma trasfigurano.
Allora capiamo che il cuore ferito con le sue cicatrici, il nostro come il suo, può diventare più
capace d'amore, e di guarigione, possiamo tutti diventare dei «guaritori feriti» (Nouwen).
Proprio attraverso quelle ferite che ci parevano colpi duri o insensati della vita, diventiamo
capaci di comprendere altri, di venire in aiuto ad altri nell'attraversare le stesse tempeste.
La nostra debolezza come quella dei discepoli non è un ostacolo, ma una risorsa per meglio
seguire il Signore, per meglio venire in aiuto ad altri. La debolezza non è più un limite, ma si
trasfigura in opportunità. Per tre volte il Vangelo oggi parla di pace donata da Gesù. E la sua
pace scende nei nostri cuori stanchi e paurosi, scende sulla nostra vicenda di peccatori
sconfitti.
Ed è a questa esperienza di pace che Tommaso si arrende, neppure sappiamo se abbia toccato
il corpo del Risorto. E' alla pace che si arrende, passando dall'incredulità all'estasi. Così noi e la
nostra fede a questa esperienza ci arrendiamo, a questa promessa. Beati quelli che senza aver
visto crederanno. Beatitudine che finalmente sento mia. Le altre le ho sentite troppo difficili,
cose per pochi coraggiosi, questa la sento mia, consolante: credere senza aver veduto.
Finalmente una beatitudine per tutti, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi non vede.
Felicità, dice Gesù, per quanti credono. Per loro una vita non diventata più facile, ma una vita più
piena e appassionata, ferita e vibrante, ferita e luminosa, piagata e guaritrice.
Ultima parola di Cristo: la fede è il rischio di essere felici. Così termina il Vangelo, così inizia il
nostro discepolato. Col rischio di essere felici portando le nostre piaghe di luce.




Messaggio del Vangelo di oggi, dal "foglietto" della parrocchia di Torri di Q.lo



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06/04/2008 13:51

III Domenica di Pasqua - Anno A


Testi Liturgici:

Atti degli apostoli 2, 14.22-33
Lettera di san Pietro 1, 17-21
Vangelo secondo Luca 24, 13-35


Il dono di Emmaus


Il Vangelo di Emmaus racconta il pellegrinaggio verso l'accensione del cuore da parte di due
discepoli sconsolati, tristemente incamminati oltre un sogno finito nel sangue. Sono due
condividono lo stesso dolore, capaci di ascoltarsi e di accogliersi. Ed ecco che uno sconosciuto
si accosta a loro, piccola comunità che crea comunità. Il Signore Gesù cammina per le strade
del mondo perché il suo cielo è la sua terra, il suo cielo sono gli altri.
Egli abita nei passi dei cercatori ed è seduto alla destra di ciascuno di noi. Ti parla in colui che
già sta facendo strada o vita con te, nella tua casa. Salvezza che ti cammina a fianco, questo è il
nome della prima donna per il primo uomo, questo può essere il nome di ogni sconosciuto
compagno di cammino.
La liturgia della strada apre la liturgia della speranza: noi speravamo tanto che fosse lui! E
dicono di una storia capita male, di un amore sfociato nel fallimento. Gesù cominciò allora a
spiegare che il Messia doveva soffrire, legge il dolore e l'amore, legge la vita con la Parola di
Dio. E l'anima dei due camminanti comincia a rasserenarsi perché scoprono una verità
immensa: c'è la mano di Dio, ed è posata là dove sembra impossibile, sulla croce.
C'è la mano di Dio, così nascosta da sembrare assente, ma tesse il filo d'oro dentro la tela del
mondo, lo tesse dal punto più basso, dalla croce. Noi dimentichiamo costantemente qualcosa:
più la mano di Dio è nascosta più è potente. Più la mano di Dio è silenziosa, più è efficace.
La svolta del racconto di Emmaus viene dalla croce, come ogni svolta grande nella nostra vita.
La croce è l'unica parola da ascoltare, la parola definitiva che devo custodire, consegnare,
scrutare, capire, pregare. Ed il cuore comincia ad ardere: c'è una strada, una speranza. Non ci
ardeva forse il cuore?
Il dono dello Spirito ancora oggi è questo ardore del cuore che la Parola di Dio, la voce di un suo
figlio, il gemito e il giubilo del creato, un amore, un profeta riaccendono dentro di noi.
Il mio augurio per ciascuno è il dono di Emmaus, il dono favoloso e intermittente del cuore
acceso, anche se solo di tanto in tanto, e raramente; è di trovare sempre in Dio qualcosa capace
di rubare il cuore; è qualcuno, lungo la strada, che ci parli di Dio in modo che ascoltarlo sia
rimanere accesi. E sarà sufficiente a ripartire, anche se è notte attorno, a riconoscerlo proprio
nello spezzare il pane: perché spezzare qualcosa di mio per gli altri è il cuore del Vangelo.


(Don Emilio)



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13/04/2008 22:42


IV Domenica di Pasqua - Anno A

Testi liturgici:

Atti degli Apostoli 2, 14.36 - 41
Lettera di san Pietro 2, 20b - 25
Vangelo secondo Giovanni 10, 1 - 10


Dio, pastore di libertà e di futuro


Cristo, venuto dal Padre come intenzione di bene, pastore di vita abbondante, venuto perché ciascuno sia nella vita datore di vita, è indicato da Giovanni con le seguenti caratteristiche: conosce le sue pecore e chiama ciascuna per nome. Il Signore pronuncia il mio nome, pronuncia la mia verità, il mio tutto, egli «entra e conosce», è capace cioè di capire e accogliere le emozioni e i sentimenti. Sulla sua bocca il mio nome dice intimità, e mi avvolge come un abbraccio. Mi chiama con il nudo nome, senza evocare nessun ruolo, o autorità, o funzione, o attributo, nel riconoscimento della mia umanità profonda, della mia più pura umanità. Tanto più sarai vicino a Dio quanto più sprofonderai nel tuo essere uomo. Senza aggettivi.
E le conduce fuori: non è il Dio dei recinti, ma degli spazi aperti. E' pastore di libertà, che non rinchiude per paura, ma ha fiducia in ciò che è fuori, fiducia negli uomini, nei suoi, nel mondo. Fiducia è la prima condizione perché vita ci sia.
Cammina davanti a esse. Non è un pastore di retroguardie, apre cammini e inventa strade, è davanti e non alle spalle. Non un pastore che pungola, incalza, rimprovera per farsi seguire, ma uno che precede: cammina attratto dal futuro e non dai rimpianti, seduce con il suo andare, affascina con il suo esempio. E le pecore ascoltano la sua voce. Lo riconoscono perché sono da lui riconosciute. Chi non ascolta, chi è sordo, rischia invece di restare nei vecchi recinti, nelle vecchie paure, in greggi anonimi, in strade che sono non-strade.
La parola "assurdo" ha la stessa radice di "sordo". Entra nell'assurdo chi è sordo, chi non sa ascoltare. Esce dalla sordità e dall'assurdo chi ascolta la voce, che è prima ancora di ogni parola, che dice con la sua sola vibrazione una relazione amorosa tra lui e me, un combaciare più ampio della comprensione. Io sono la porta. Non un muro chiuso, non uno steccato che divide, Cristo è passaggio, apertura, pasqua, breccia di luce, luogo attraverso cui vita entra e vita esce.
Cosa significa varcare quella soglia, varcare Cristo? E' cambiare rotta, indirizzare la prora del cuore verso le cose che lui amava: futuro, libertà, coraggio; dimenticarsi, dare tutto, con tutto il cuore; essere pastore di vita del mio piccolo gregge; essere soglia aperta, attraversata da molte vite.



(don Emilio)



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20/04/2008 21:45

V Domenica di Pasqua - Anno A


Testi Liturgici:

Atti degli Apostoli, 6, 1-7
Lettera di san Pietro 2, 4-9
Vangelo secondo Giovanni 14, 1-12



Pasqua di libertà


Vi porterò con me, perché siate dove sono io. C'è un luogo in principio a tutto, il cui segreto
basta a confortare il cuore. Lì abita Qualcuno che ha desiderio di noi, nostalgia di noi, che non
sa immaginarsi senza di noi e ci vuole con sé. Da questo luogo parte l'onda che viene a
smuovere la nostra storia. Signore, non sappiamo dov'è, come ci si arriva? Gesù risponde: sono
io la via. La strada per l'accesso a Dio è la vita di Cristo, da ripercorrere con la mia: compiere i
suoi gesti, preferire coloro che lui preferiva, rinnovare le sue scelte, muoversi soltanto in quella
direzione, perché altrimenti non arrivi, quella indicata da Gesù stesso: vi dò un comandamento
nuovo, che vi amiate gli uni gli altri (Gv 13, 34). Quella percorsa dalla comunità di Gerusalemme
che inventa il gruppo dei diaconi perché non siano trascurate le vedove (Atti 6, 1), le più deboli
nella comunità. Quella riassunta da Maritain così: non cercatemi in qualche luogo, ma là dove
amo e sono amato.
Io sono la verità, sono lo svelamento del volto di Dio e del volto dell'uomo. La verità non è una
definizione o un'idea, ma una persona; uno che ha visto che Dio è amore e che la sua tenerezza
passa per le nostre mani. Se la verità è una parola, le sillabe di questa parola sono i gesti e le
parole di Gesù. Io sono la vita. Parole enormi che nessuna spiegazione può esaurire. Dicono che
più Vangelo entra nella mia vita e più io sono vivo; dicono che il mistero dell'uomo si capisce solo
con il mistero di Dio. Che la cosa più grande e più seria che Dio propone è la sua stessa vita, la
vita eterna. Mostraci il Padre e ci basta! Da tanto tempo sono con voi... Ora appare tristezza
nelle parole di Gesù. Sento la sua delusione: da così tanti anni sei cristiano e ancora non mi
conosci? Chi vede me vede il Padre. Ma come vedere Gesù? Ogni parola del Vangelo ascoltata,
assaporata, assimilata imprime in me il volto di Gesù. Io ringrazio il Padre, perché è un Dio
nascosto, un Dio velato. Perché questo è necessario all'amore, è la garanzia della mia libertà.
Se Dio fosse visibile, qui e ora, al mio fianco, quale scelta, quale libertà avrei? Nessuna. Un Dio
inevitabile non lo si ama, lo si può solo ubbidire e temere. Chi si impossessa delle nostre vite non
suscita stupore e canto. Ma Dio vuole essere amato e non temuto da questi piccoli.



(don Emilio)




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27/04/2008 14:19

VI Domenica di Pasqua - Anno A


Testi Liturgici:

Atti degli apostoli 8, 5 - 8.14 - 17
Prima lettera di san Pietro 3, 15 - 18
Vangelo secondo Giovanni 14, 15 - 21


L'amore che ha cambiato la storia


Se mi amate osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro
Consolatore perché rimanga con voi per sempre... Voi lo conoscete perché dimora presso di voi
e sarà in voi. Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi... perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno
saprete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li
osserva, questi mi ama... e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui.
Se mi amate. Con questo verbo, il più importante del nostro vocabolario, che circondiamo di
tanto pudore e di tante attese, Gesù entra nei nostri sentimenti più intimi, li rivendica per sé, ed è
la prima volta, e per la storia che vuole cambiare. Non si tratta di un ordine, non di un
imperativo, ma piuttosto di una constatazione: chi ama osserverà, diverrà per lui naturale, quasi
un automatismo del cuore, osservare il suo comandamento, il nuovo, l'unico: amatevi come io vi
ho amato. L'amore cambia la vita, non è un vago sentimento misto di fascino e di timore che
Gesù propone: se ami non potrai ferire, tradire, derubare, violare, deridere, restare
indifferente. Ama e fa quello che vuoi (sant'Agostino). Se ami non potrai che osservare una legge
interiore ben più esigente di qualsiasi legge esterna.
Ma è facile o difficile amare Cristo? Per sette volte oggi, nei sette versetti del brano, Gesù parla
di unione: una passione di unirsi corre dentro la storia di Dio e dell'uomo. Passione di unirsi per
cui Dio è diventato, in principio, il respiro stesso di Adamo; per cui per millenni ha cercato un
popolo, profeti di fuoco, re e mendicanti, e infine una ragazza di Nazareth per entrare in
comunione con l'umanità, comunione assoluta. E qui Giovanni ricorre al verbo più importante
della vita spirituale: essere-in. Non solo essere accanto, presso, vicino, ma essere-in. Dentro,

immersi, uniti: lo Spirito sarà in voi... io sono nel Padre, voi siete in me e io in voi. Fino a che
l'altro diventi tua dimora e tua casa. Tommaso d'Aquino diceva che l'amore è passione di unirsi
alla passione amata. In Dio per primo c'è questa passione, lui per primo viene incontro, è lui che
cerca casa, a noi compete il lasciarci amare, e questo è finalmente, gioiosamente facile e bello.
Amare Cristo è facile come lasciarsi amare.
Allora i comandamenti altro non sono che vie per l'unione, passione di fare ciò che Dio fa, di
partecipazione alla stessa energia di vita, di respirare il suo respiro non più ordine esterno, ma
un modo per assomigliare a Dio, espansione di una storia di comunione, il traboccare verso
l'esterno di una sintonia interna. Questo è il comandamento: passione di unirsi a Dio e quindi di
agire con lui e come lui nella storia, essere le sue mani, un frammento del suo cuore. Nessuna
etica vive senza una mistica. Non vi lascerò orfani, perché io vivo e voi vivrete. Orfano è parola
ed esperienza legata alla morte. Ma chi ama vive, forte come la morte è l'amore, le grandi acque
non possono spegnerlo, né i fiumi travolgerlo. Vivrete perché io vivo: la passione di unirsi è
diventata passione di far vivere.




(don Emilio)



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L'ASCENSIONE

Vangelo secondo Matteo 28, 16-20


Cristo, pienezza e futuro di ogni cosa


"Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?" E' inutile inseguire quel volto, impossibile toccare quel corpo. E' finito il tempo degli incontri e dei nomi, quando egli diceva: "Pietro!", "Maria!", "Tommaso!" e sulle sue labbra i nomi parevano bruciare; finito il tempo del pane e del pesce condivisi attorno allo stesso fuoco sulla riva del lago. L'ascensione è la festa della presenza altrimenti: della sua presenza in tutte le cose, in tutti gli uomini, in tutti i giorni. Gesù non è andato lontano: è andato avanti e nel profondo. E chiama a pienezza gli uomini, il tempo e le cose. Dice Paolo: "Cristo è il perfetto compimento di tutte le cose". Cristo è la pienezza e il futuro di ogni cosa che esiste. Il mio cristianesimo è la certezza forte e inebriante che in tutte le cose Cristo è presente, forza di ascensione dell'intero creato, energia che alimenta la nostra esistenza e la storia umana.
Un aggettivo prorompe da Matteo e da Paolo: "tutto": Andate in tutto il mondo, a tutte le genti annunciate tutto ciò che vi ho detto, ogni potere è mio, io sarò con voi tutti i giorni, tutto è sotto i suoi piedi. "Dal giorno dell'ascensione abbiamo Dio in agguato all'angolo di ogni strada" (F. Mauriac).
C'è un sapore di totalità, un sapore di infinito, una pretesa di assoluto, un superamento dei limiti di luogo, di materia, di tempo. Si apre la dimensione del Cristo cosmico, non assenza ma più ardente presenza, sparpagliato per tutta l'umanità, seminato in tutte le cose, fino a che alla fine dei giorni sarà "tutto in tutti" (Col 3, 11). Non solo in me, in te o perfino nel cuore distratto e in quello che si crede spento, ma Cristo è presente in tutte le cose: nel rigore della pietra, nel canto segreto delle costellazioni, nella forza di coesione degli atomi, per un nuovo cielo, per una nuova terra. Tutti i giorni e tutte le cose sono ora messaggeri di Dio; tutti i giorni e tutte le cose sono angeli e Vangeli. "E il divino traspare dal fondo di ogni essere" (Theilard de Chardin).
"Voi sarete miei testimoni", testimoni che dicono: noi dipendiamo da una fonte che non viene meno; nella nostra vita è in gioco una forza più grande di noi e che non si esaurisce mai. Il nostro compito è accogliere questo flusso di vita che ci è consegnato. Accogliere e restituire - alle vene del mondo, alle relazioni, al cuore limpido - tutto ciò che alimenta la vita e che ha la sua sorgente oltre noi.




(don Emilio)



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11/05/2008 15:36

Domenica di Pentecoste


Lo Spirito Santo è il principio inesauribile attraverso il quale noi, e tutti coloro che sono
stati battezzati, siamo condotti uno ad uno alla comunione.
Ognuno di noi è un'umanità irripetibile, ognuno di noi è una creatura che non ha
doppioni nella storia del mondo. E' in questa dimensione "inedita" che ciascuno di noi è
opera dello Spirito. Lo Spirito non pianifica, non uniforma le individualità: lo Spirito che è
in noi può anche essere quello che ci rende profondamente diversi dal nostro vicino di
destra o di sinistra, in una diversità che manifesta ed esprime tutta la ricchezza infinita
di Dio e anche la nostra limitatezza senza fine.
Questo Spirito che ci rende unici e irripetibili ci è stato donato da Cristo sulla croce ed
è stato inviato dal Padre perché possiamo comprendere il suo amore e la cura che egli
ha per ciascuno di noi.



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Testi Liturgici:
Atti degli apostoli 2, 1-11
Prima lettera ai Corinzi 12, 3b-7. 12-13
Vangelo secondo Giovanni 20, 19-23


Lo Spirito, vero cuore del mondo


Lo Spirito: misterioso cuore del mondo, vento sugli abissi, fuoco del roveto, Amore in
ogni amore. Lo Spirito: estasi di Dio, effusione ardente, in noi, della sua vita d'amore.
Senza lo Spirito il cristianesimo non è che arida dottrina, la Chiesa si riduce a
organizzazione e codice, la morale a fatica sovente incomprensibile, la croce a follia,
Cristo rimane un evento del passato.
Oggi la Parola esplora strade diverse, prova altri colori, accumula immagini per dirci
l'unica cosa indicibile: lo Spirito Santo, respiro di Dio dentro ogni cosa e ogni figlio. Per
dire l'umiltà dello Spirito Santo, che non ha neppure un nome proprio, perché tutto Dio
è Spirito, tutto Dio è Santo; che non sappiamo immaginare se non per simboli, che gli
conservino libertà, la libertà del vento, cui nessuno comanda, che fascia le formule e
forma le parole, ma poi passa oltre. Sempre oltre è la sua dimora. Infatti viene lo
Spirito, dice il Vangelo, la sera di Pasqua, leggero e quieto come un respiro, come la
pace: « alitò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo ».
Viene lo Spirito, nel racconto degli Atti, cinquanta giorni dopo, come energia, coraggio,
missione, vento che spalanca le porte e parole di fuoco.
Viene lo Spirito, nell'esperienza di Paolo, come bellezza, talento, carisma diverso per
ogni credente. Viene, nel salmo responsoriale, eternamente: dall'origine e per sempre,
in tutti i solchi dell'esistenza, lo Spirito genera vita, là dove pareva impossibile, quando
ti sentivi finito e il tronco dell'esistenza non metteva più gemme, quando la storia
attorno sembrava un ventre invecchiato e sterile.
Com'è possibile che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Questo
accade ancora, dentro e fuori le chiese, perché lo Spirito si rivolge a ciascuno,
direttamente al cuore di ogni uomo, e in ciascuno « consolida la certezza più umana
che abbiamo, e che tutti ci compone in unità: l'aspirazione alla pace, alla gioia,
all'amore, alla vita » (Giovanni Vannucci). Consolida Cristo, pienezza dell'umano.
Lo Spirito conferma ciò che a tutti è caro, e cara a ciascuno diviene la sua parola.
Ma quanta fatica per uscire dal Cenacolo! Eppure lo Spirito si ripropone, umile e
risoluto, più forte della nostra fatica, vento che indica la strada, riempie le vele,
disperde le ceneri della morte e diffonde ovunque i pollini della primavera.



(don Emilio)



_________Aurora Ageno___________
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15/05/2008 14:16

Aggiungo questo pezzo a questo forum, è un bellissimo messaggio
che stimola il cuore e l'anima...


...come il profumo di una rosa...


AMA e SERVI tutta l'umanità.
ASSISTI TUTTI.
Sii allegro. Sii cortese. Sii una dinamo di irrefrenabile felicità.
Riconosci Dio ed il Buono in ogni viso.
Non c'è santo senza un passato, non c'è peccatore senza un futuro.
Loda ognuno. Se non puoi lodare qualcuno... lascialo uscire dalla tua vita.

Sii originale, sii inventivo.
Osa, osa e osa ancora... Non imitare. Sii saldo, sii eretto.
Non appoggiarti alle staffe prese in prestito da altri.
Pensa con la tua testa. Sii te stesso.

Tutte le perfezioni e le virtù di Dio sono nascoste dentro di te: rivelale.
Il Saggio - pure - è già dentro di te: rivelalo.
Lascia che la Sua grazia ti emancipi.
Fai che la tua vita sia quella di una rosa: pur silente essa parla il linguaggio della fragranza.


Shri Babaji - Hairakhan, 13 febbraio 1984
***************************************
Oh Uomo! conosci te stesso! (Oracolo di delfi)
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17/05/2008 10:56


Grazie, Giuliano!
Il tuo contributo è molto apprezzato..!

aurora


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18/05/2008 18:05

SANTISSIMA TRINITA'


Possiamo intendere il mistero di Dio paragonandolo al sole. Se mi incaponissi a fissare a lungo il
sole, ad occhio nudo, ne rimarrei con la vista turbata, se non addirittura spenta. Se mi
proponessi di andare a toccarlo, per rendermi conto con le mie stesse mani di che cosa si tratti,
e se riuscissi a toccarlo davvero, anche solo un momento, ne resterei incenerito. Ma sta di fatto
che sono la sua luce e il suo calore ad illuminarci le giornate e a maturare i frutti della terra.
Allo stesso modo il credente investiga la realtà, per scoprirvi le leggi che la regolano, ma in essa
riconosce la presenza dell'ineffabile, del mistero di Dio che colora e dà senso alle cose e al
tempo. Come sarebbe assurdo negare l'esistenza del sole perché non si riesce a fissarlo e
toccarlo, così è insensato negare l'esistenza di Dio perché non lo si capisce, perché non rientra
nei nostri schemi, nelle nostre categorie, nei nostri progetti.
Confessiamo dunque la nostra incapacità di sondare il mistero di Dio, ma anche la gioia che sgorga dai nostri cuori, perché ci sentiamo amati da lui.



Testi Liturgici:
Libro dell'Esodo 34, 4 - 6, 8 - 9
Seconda lettera di san Paolo ai Corinzi 13, 11-13
Vangelo secondo Giovanni 3, 16-18


La Trinità? Un abbraccio, non un concetto


Io che sono lento a credere, che mi ci vorrà forse tutta la vita non per capire, ma solo per
assaporare un poco della fede, come potrò cogliere qualcosa della Trinità? Una strada c'è e non
è quella delle formule e dei concetti. Pensare di capire la Trinità attraverso le formule è come
tentare di capire una parola analizzando l'inchiostro con cui è scritta. Dio non è una definizione
ma un'esperienza. La Trinità non è un concetto da capire, ma una manifestazione da accogliere.
In uno dei capolavori di Kieslowski sui Dieci Comandamenti, Decalogo I, il bambino protagonista
sta giocando al computer. Improvvisamente si ferma e chiede alla zia: « Com'è Dio? ». La zia lo
guarda in silenzio, gli si avvicina, lo abbraccia, gli bacia i capelli e tenendolo stretto a sé
sussurra: « Come ti senti, ora? » Pavel non vuole sciogliersi dall'abbraccio, alza gli occhi e
risponde: « Bene, mi sento bene ». E la zia: « Ecco, Pavel, Dio è così ». Dio come un abbraccio.
Se non c'è amore, non vale nessun magistero. Se non c'è amore, nessuna cattedra sa dire Dio.
Dio come un abbraccio: è il senso della Trinità. Dio non è in se stesso solitudine, ma comunione.
L'oceano della sua essenza vibra di un infinito movimento d'amore. Se il nostro Dio non fosse
Trinità, vale a dire incontro, relazione, comunione e dono reciproco, sarebbe un Dio da
delusione, assente e distratto. Ma Dio è estasi, cioè un uscire-da-sé in cerca d'oggetti d'amore,
in cerca di un popolo anche se di dura cervice, del quale farsi compagno di viaggio e ristoro
entro l'arsura estrema del deserto. Dio ha tanto amato il mondo, da mandare suo Figlio... E
mondo e uomo sono storia della Trinità. Mosè, il grande amico di Dio, prega così: « Che il
Signore cammini in mezzo a noi, venga in mezzo alla sua gente. Non resti sul monte, guida alta e
lontana, ma scenda e si perda in mezzo al calpestio del popolo ». Tutta la Sacra Scrittura ci
assicura che nel calpestio del popolo, nella polvere dei sentieri, lo Spirito accende Profeti ed
orizzonti, il Padre rallenta il suo passo sul ritmo del nostro, il Figlio è salvezza che ci cammina a
fianco. E questo ci sarebbe bastato. Invece l'Ascensione ha portato la nostra natura nel seno
stesso della Trinità, quell'uomo già creato ad immagine non di Dio, ma della Trinità, l'uomo
pensato come un abbraccio.




(don Emilio)


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25/05/2008 16:00

Persi nel deserto, è l'altro il nostro pane


SS. Corpo e Sangue di Cristo


Testi Liturgici:

Libro del Deuteronomio 8, 2 - 3. 14 - 16
Prima lettera di san Paolo ai Corinzi 10, 16 - 17
Vangelo secondo Giovanni 6, 51 - 58


Persi nel deserto, è l'altro il nostro pane

Il nucleo essenziale del Vangelo oggi è racchiuso in due sole parole: pane e vita, mangiare e vivere. Vivere, canto supremo dell'essere, grido ultimo d'ogni salmo; vivere per sempre, vertigine della speranza. Ma il vangelo pone una domanda: che cosa ti fà vivere? Io vivo di persone. Vivo di progetti e di appelli, di passioni e di talenti. Vivo di terra che ci sostenta e governa (S. Francesco). Ma io vivo soprattutto delle mie sorgenti, come accade per ogni fiume, come per ogni albero stretto alle sue radici. L'uomo non vive di solo pane. Anzi, di solo pane l'uomo muore. Ma vive di quanto esce dalla bocca di Dio. Io vivo di un Altro! Dalla bocca di Dio vengono parole che creano luce acqua terra vento. Viene il cosmo, viene l'alito di vita che fa di un grumo di polvere una persona vivente. Dalla bocca di Dio vengono i miei fratelli che sono parola di Dio, respiro di Dio; viene il bacio d'amore con cui inizia e finisce la vita. E' questa la mia sorgente. Che cosa farò? La prima lettura mi soccorre: ricordati di tutto il cammino che il Signore ti ha fatto percorrere. Ricordati, perché l'oblio è la radice di tutti i mali. Ricordati del cammino, cioè delle sorgenti e poi del salire, del fiorire, del crescere. Ricordati del vento delle piste, di quanto era bello avere l'anima affaticata dal richiamo di cose lontane.
Ricordati che essere uomo-con-Dio è il contrario dello smarrirsi fra le dune. E di tutta la manna scesa all'improvviso quando non l'aspettavi più. Tutti potremmo raccontare del nostro viaggio nella vita non soltanto gli scorpioni o i serpenti, ma l'acqua scaturita un giorno all'improvviso quando, disperati, credevamo di non farcela e dal cielo è arrivato qualcosa, una forza, un amore, un amico, un canto. Improvvisi squarci si sono aperti a ricordarci che non viviamo da soli, chiusi nel cerchio tragico dei nostri problemi, ma che c'è un amore che assedia i confini della storia. Se sono sopravissuto, se non sono diventato io stesso un deserto, terra spenta e inospitale, lo devo a un Altro. Io vivo di Dio. Ricordare è dialogare con la mia storia, rimanere con la mia sorgente. Allora in ogni messa, con in mano quel piccolo pane, con nel cuore un episodio santo, dialogare senza fine, come Israele di fronte alla manna: man hu? Che cos'è? E' Dio in cerca della fame e della sete dell'uomo. Che cos'è? E' Gesù Cristo, fame d'altro per chi è sazio di solo pane.




(don Emilio)



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01/06/2008 17:49

La « volontà del Padre? » L'amore che libera


Domenica 1 giugno 2008

Testi liturgici:

Libro del Deuteronomio 11, 18. 26 -- 28, 32
Lettera di san Paolo ai Romani 3, 21 -- 25a.28
Vangelo secondo Matteo 7, 21 - 27


La « volontà del Padre? » L'amore che libera

La gente ascoltava Gesù e capiva. Capiva che per entrare nel suo sogno (il regno dei cieli è il mondo come lui lo sogna) non servivano lunghe preghiere, né i riti e le formule esatte dei dottori della Legge (« Signore, Signore... »). Che bastava percorrere una strada più libera e più viva: « la volontà del Padre ».
La gente ascoltava il giovane Rabbi e capiva che la volontà del Padre non era come gliel'avevano sempre descritta. Aleggiava tristezza quando i farisei evocavano la volontà di Dio. Era la giustificazione di tutte le tragedie, di malattie e dolori, di torri rovinate addosso ai costruttori, di sangue versato dai romani nelle mille rivolte di Giudea. Nasceva pace e fiducia quando la presentava Gesù: volontà del Padre è che nessun uomo sia solo, che fiorisca a immagine di Dio, che abbia compagni d'amicizia e di festa, che sia creativo e ostinato nell'amore. Non una spada minacciosa, ma l'annuncio che gli occhi dei suoi figli, Dio li vuole pieni di dolce speranza.
« In quel giorno » ci sarà folla davanti alle porte chiuse. Quanta gente straordinaria è lasciata fuori: profeti con parole di luce, gente che cacciava demoni, grandi taumaturghi! Ma è questo ciò che il Vangelo chiede? E' dalle cose eccezionali che riconosceranno i suoi discepoli? No. Ma « se avrete amore gli uni per gli altri ». Nel nostro servizio non contano i risultati, ma quanto amore metti in ciò che fai (Madre Teresa di Calcutta). Sulla soglia dell'eterno, l'amore cerca in te qualcosa in cui specchiarsi, l'unica cosa che valga a dire Dio. Nella parabola delle due case, la differenza tra quella che rimane salda e quella che va in rovina è tutta in un verbo solo: mettere in pratica o non mettere in pratica le parole ascoltate.
Non nelle appartenenze o in belle liturgie, non in profezie o prodigi, la differenza sta nel « fare » le sue parole, nel ricrearle in me. E' la crisi del « dire ». La gente ascoltava Gesù e capiva che c'è un combaciare profondo tra l'uomo e la volontà di Dio, più profondo delle parole, più delle confessioni di fede, ed è in chiunque « ha creduto all'amore » (1 Gv), e non conta se dentro e fuori le sinagoghe e le chiese. Ascolta e tieni salda la sua parola, anche se non la capisci, lascia che entri nella tua memoria come seme nel terreno: darà come frutto il combaciare con Dio, una esistenza nella consistenza.





(don Emilio)



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08/06/2008 09:51

L'amore di Dio non si merita, si accoglie


Domenica 8 giugno 2008

Testi liturgici:

Libro di Osea 6, 3-6
Lettera di san Paolo ai Romani 4, 18-25
Vangelo secondo Matteo 9, 9-13


L'amore di Dio non si merita, si accoglie

Un uomo, solo, seduto al banco delle imposte. Uno sguardo che incrocia il suo, una parola sola: Seguimi. E Matteo è naufragato in quegli occhi, il contabile abbandona, per uno sguardo, per una parola, la logica rassicurante del dare e dell'avere, se ne va dietro a quell'uomo, senza calcolare più nulla, senza neppure domandarsi dove sia diretto. Il centro della scena è tutto di Cristo: Segui Me. Queste parole senza perché, questa mancanza di ragioni, sono la vera ragione del discepolo. E' la persona di Cristo la causa, il senso, l'orizzonte ultimo. E' lui il nome della forza che fa partire.
Matteo si è convertito a Cristo, perché ha visto Cristo « convertirsi » a lui, fermarsi e girarsi dalla sua parte. La vocazione non inizia con sacrifici e rinunce, essa porta innanzitutto un incremento d'umano. Infatti la casa di Matteo, la sua vita prima solitaria, si veste di festa, si riempie di volti, di amici, molti si premura di dirmi, e peccatori, chiamati ben prima di essere convertiti. Convertiti perché chiamati. Non voglio sacrifici! La religione non è sacrificio: guarisce la vita, fornisce consistenza e profondità; non la mortificazione dà lode a Dio, ma la vita piena, forte, vibrante, appassionata. Gesù mangia con Matteo, mangia con me, e mi assicura che il principio della salvezza non sta nei miei digiuni per lui, bensì nel suo mangiare con me. Ci guarisce fermandosi con noi: la sua vicinanza è la medicina, un flusso di vita che mi consegna, insieme a strade, festa, sogni, comunione. Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori. Qual è il merito dei peccatori? Nessuno.
Sono coloro che non ce la fanno, che non sono all'altezza, ma scoprono un Dio che si è fermato a guardarli. Dio non si merita, si accoglie.
Gesù cerca il peccatore che è in me. Non per assolvere un lungo elenco di peccati, è poca cosa, ma per impadronirsi della mia debolezza profonda. E lì incarnarsi. Beata debolezza! E io, felice d'essere debole, dimoro nella misericordia, che mi conduce verso un Regno pieno non di santi, ma di peccatori perdonati, di gente come me.
Quando sono debole è allora che sono forte. Nessun lassismo però. Vuoi restare nel peccato perché abbondi la grazia? Assurdo (Rm 6, 1). Ma oggi mi godo la festa del peccatore che ha scoperto un Dio più grande del suo cuore. Solo questo mi converte ancora.



(don Emilio)




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15/06/2008 15:10

Il credente operaio della compassione

XI Domenica del Tempo Ordinario

Testi Liturgici:

Libro dell'Esodo 19, 2-6a
Lettera di san Paolo ai Romani 5, 6-11
Vangelo secondo Matteo 9, 36-10. 8


Il credente operaio della compassione

« Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione ». Termine di una carica infinita, bellissima. Gesù
prova dolore per il dolore del mondo. Infatti: « La messe è abbondante », ma non per la quantità
di persone, ma perché germina nel mondo un grande raccolto di stanchezze, di spighe gonfie di
lacrime, una messe di paure come di pecore che non hanno pastore. Nei campi è ormai tempo di
mietiture: il grano ha raggiunto il colore del pane. Così il patire dell'uomo ha raggiunto l'altezza
del cuore di Cristo. Ed ecco la risposta: un sentimento di compassione, il ministero della pietà.
Ed è questo suo stesso apostolato che Gesù affida ai discepoli. Li fa operai di un lavoro che
descrive con sei verbi: predicate, guarite, risuscitate, sanate, liberate e donate. C'è il ministero
della predicazione apostolica, al primo posto, ma subito unito al ministero della pietà divina, e in
un rapporto sbilanciato, di uno a cinque. Il lavoro nel campo del Signore si esprime in gesti
concreti, in cinque opere che mostrano come « il Regno dei cieli si fa vicino » a chi ha il cuore
ferito, e in una sesta opera che proclama la vicinanza di Dio. Il discepolo è chiamato a prendersi
cura della causa Dio insieme alla causa dell'uomo, ad aver cura di greggi e di messi, di dolori e
di ali, di un mondo barbaro e magnifico.
« Pregate il signore della messe perché mandi operai nella sua messe ». Noi interpretiamo
subito queste parole come un invito a pregare per le vocazioni sacerdotali. Ma l'invito di Gesù
dice molto di più: è offrirmi a Dio perché mandi me come operaio della compassione, mandi me
come lavoratore della pietà, mandi me con un cuore di carne a mangiare pane di pianto con chi
piange, a bere il calice di sofferenza con chi soffre, a lottare contro il male. Mandi me, con mani
che sanno sorreggere e accarezzare, asciugare lacrime e trasmettere forza, e dire così Dio.
La messe è abbondante. Lo sguardo positivo del Signore sorprende ancora il nostro pessimismo:
« la messe è scarsa, le chiese semivuote ». Lui vede altro: molto grano che cresce e matura,
vede che il seme è buono, il terreno e la stagione e l'uomo sono buoni; la storia sale - positiva -
verso un'estate profumata di frutti. Dio guarda e vede che ogni cuore è una zolla di terra ancora
atta a dare vita ai suoi semi divini che in noi crescono, dolcemente e tenacemente, come il grano
che matura nel sole.



(don Emilio)




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22/06/2008 16:36

Dio e l'uomo: speranza intrecciata


XII Domenica del Tempo Ordinario


Testi Liturgici:

Libro di Geremia 20, 10-13
Lettera di san Paolo ai Romani 5, 12-15
Vangelo secondo Matteo 10, 26-33


Dio e l'uomo: speranza intrecciata

Non abbiate paura: voi valete più di molti passeri! Un Dio che si prende cura dei passeri e poi si
perde amoroso a contarmi i capelli in capo. Eppure i passeri continuano a cadere, gli innocenti a
morire, i bambini a essere venduti. E Dio a rassicurare i suoi: « Non temete, neppure un passero
cadrà a terra senza il volere del Padre vostro ». Ma allora è Dio che fa cadere? E' lui che spezza
le ali, è suo volere la morte? No. IL Vangelo non dice questo. Assicura invece che neppure un
passero cadrà a terra « aneu », letteralmente « al di fuori, all'insaputa di Dio », di un Signore
coinvolto nel volo e nel dolore delle sue creature. Nulla accadrà nell'assenza di Dio, ma nel
mondo troppi cadono a terra senza che Dio lo voglia, troppe cose accadono contro il volere di
Dio: ogni odio, ogni guerra, ogni ingiustizia. Ma nulla accade « al di fuori di Dio ». Egli si china su
di me. Intreccia la sua speranza con la mia, il suo respiro con il respiro dell'uomo, sta nel
riflesso più profondo delle nostre lacrime per moltiplicare il coraggio.
Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo: il corpo non è la vita, tu non sei il tuo corpo.
Eppure lo ritroverai: neanche un capello andrà perduto. Per l'amante nulla è insignificante di ciò
che appartiene all'amato.
Io che desidero essere salvato, voglio esserlo con il mio cuore e le mie emozioni, con tutte le
persone che costituiscono il mio mondo di affetti e di forza. E lo sarò, perché nulla c'è in me di
autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio.
Ma l'immagine dei passeri e dei capelli contati, di queste creature effimere e fragili, mi riporta ai
più fragili tra i fratelli, agli anziani, agli ammalati, agli handicappati, a quanti non possono più
lavorare e produrre, e si sentono inutili e impotenti. Proprio a loro Gesù dice: « Non temere: tu
vali di più. Anche se la tua vita fosse leggera come quella di un passero o fragile come un
capello, tu vali di più, perché esisti, vivi, sei amato, e Dio si intreccia con la tua vita ». Signore,
ho combinato poco nella mia esistenza e adesso non riesco più a combinare niente. E lui
risponde: Tu vali di più, non perché produci, lavori, ti affermi o hai successo, ma perché esisti,
gratuitamente come i passeri, debolmente come i capelli, nelle mani di Dio. Su te è la sua cura,
in te è il suo respiro. Dove tu finisci, comincia Dio.








(don Emilio)






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29/06/2008 18:52

Noi, specialisti in facili parole. Ma Gesù non guarda al « si dice »


Domenica - SS. PIETRO E PAOLO

Testi liturgici:

Atti degli Apostoli, 12, 1-11
Seconda lettera di san Paolo a Timoteo 4, 6 - 8.17 - 18
Vangelo secondo Matteo 16, 13 - 19

Noi, specialisti in facili parole. Ma Gesù non guarda al « si dice »


La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo? La risposta è bellissima e sbagliata, bellissima e
incompleta: « Dicono che sei un profeta. Una creatura di fuoco e di luce, come Elia, come il
Battista. Dicono che sei voce di Dio e suo respiro ». Gesù non si sofferma oltre su ciò che pensa
la gente, sa bene che la verità non risiede nei sondaggi d'opinione. E prosegue: voi chi dite che
io sia? Anzi, la domanda è preceduta da un « ma »: voi invece, che cosa dite? Come se i dodici
fossero di un altro mondo, e le loro parole controcorrente; come se i discepoli non dovessero
mai omologarsi, né parlare per sentito dire; come se ogni discepolo dovesse ripetere: ci sono
due mondi, io sono dell'altro (C. Campo). Ma tu; tu, invece, chi dici che io sia? Perché le parole
più vere nascono sempre al singolare. Tu, con la tua mente, la tua forza, il tuo cuore, il tuo
peccato, tu cosa dici di Dio? Come dire chi tu sia, Signore? Sei il fuoco che mi divora. Sei il mio
ininterrotto rimorso. Sei la gioia mattinale del mondo. Ma sei anche la follia che mi guarda con
occhi muti per tutta questa notte che perdura sul mondo (Turoldo). Per la risposta non servono
libri o catechismi, ma ognuno che abbia inseguito, contestato, litigato con Dio; ognuno che abbia
una volta sola assaporato l'amore, o sia stato sfiorato dall'ala severa della morte, può dare
quella risposta che si costruisce con tutta la vita, che non è una formula: tu sei il Figlio di Dio.
Continuerà dicendo anche a me, come a Pietro: Beato te. Tu sei Pietro e su questa pietra
edificherò la mia chiesa. Pietro è la roccia nella misura in cui riesce a dire chi è Cristo, tesoro,
bene per tutta l'umanità, nella misura in cui ripete che Dio è amore, la sua casa è ogni uomo.
Questa è la fede-roccia, il primato di Pietro che edifica la chiesa, la nostra storia, la mia casa.
Come Pietro anch'io posso diventare roccia e chiave. Roccia che dà sicurezza, stabilità, senso
anche ad altri; chiave che apre le porte belle di Dio, la vita in pienezza, che è pace, gioia, luce,
energia, per sempre (Col 3, 15). Tu, chi dici che io sia? Ma dire non basta. La vita non è ciò che
si dice della vita, ma ciò che si vive della vita. E Gesù Cristo non è ciò che io dico di Lui ma ciò
che vivo di lui; ciò che vivo del suo crocifisso amore, di quella croce dove tutto è scritto in lettere
di amore e di dolore, le uniche che non ingannano.





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06/07/2008 15:38


XIV Domenica del Tempo Ordinario

Le cose rivelate ai piccoli

I piccoli, i poveri, sono normalmente predisposti ad atteggiamenti preziosi per l'animo, in quanto
non sono orgogliosi di se stessi e non si considerano molto importanti; inoltre sono consapevoli
della fragilità della vita umana e sono disposti ad aiutare chi ha bisogno; infine sperimentano una
situazione di insufficienza, che li spinge a rivolgersi, senza vergogna, a Dio, in cui ripongono le
loro speranze, la loro fiducia.
Quando Gesù ci chiede di farci poveri per il Regno, non significa che ci chiede una sorta di
mutilazione di noi stessi: anzi egli ci chiama alla pienezza della nostra realizzazione. Se infatti ci
è chiesto di sacrificare in qualche modo l'avere è solo per una maggiore pienezza di essere, che
rivelerà tutta la sua desiderabilità e la sua capacità di appagamento nella vita eterna, ma che ci
arricchisce già su questa terra: "L'essere povero non è cosa degna di lode; ma va elogiato
l'amare la povertà e il soffrire con gioia, per amore di Gesù Cristo, gli incomodi e i bisogni che
essa porta con sé".



Vangelo

Dal Vangelo secondo Matteo 11, 25-30


In quel tempo Gesù disse: « Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai
nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai
deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se
non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo
sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra
vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero ».

- Parola del Signore
- Lode a te, o Cristo










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14/07/2008 07:23

Anche se i frutti tardano, il cuore può essere terra fertile


XIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Testi Liturgici:

Dal libro di Isaia 55, 10-11
Dalla lettera di san Paolo ai Romani 8, 18-23
Vangelo secondo Matteo 13, 1-23


Anche se i frutti tardano, il cuore può essere terra fertile

Il nostro cuore è una zolla di terra, di terra pronta a dare vita ai tuoi semi, Signore (G. Vannucci).
Essere terra aperta, capace di accogliere, felice di nuovi semi; essere, come la buona terra,
capaci di moltiplicare la vita, ecco la nostra vocazione. Un seminatore uscì a seminare, Già solo
questa frase vibra di gioia e di profezia, piena di promesse e di estati, presagio di pane e di fame
saziata. Ancora Dio esce a seminare, diffonde i suoi germi di vita a piene mani, e le strade del
mondo e dell'anima esultano. Dal vangelo viene l'immagine di un Dio che vuole essere il
fecondatore infaticabile delle nostre vite, mano che dona, forza che sostiene, voce che risveglia.
Lui è la certezza che domani io sarò più vivo. Per merito dei suoi semi in me, al tempo stesso
campo di sassi e di spine, terra buona e cuore calpestato. Dio è come la primavera del cosmo,
noi come l'estate profumata di frutti. Attraverso di me Dio moltiplica frutti e vita, in me tuttavia si
può interrompere il flusso delle sue meraviglie. Spesso non per msalizia, solo per distrazione.
Ma io so che la mia forza è nella instancabile, regale seminagione di Dio. So che per tre volte,
come dice la parabola, per infinite volte, come dice la mia esperienza, non rispondo, fermo il
corso del miracolo. Poi accade che una volta rispondo, con il trenta, il sessanta, il cento per
uno. La parabola non racconta di un contadino maldestro nel suo lavoro, racconta una fiducia:
verrà il frutto, il piccolo seme avrà il sopravvento. Contro tutti i rovi e le spine c'è sempre una
terra che accoglie e che fiorisce. E anche se la risposta per tante volte è negativa, alla fine
spunterà il germoglio. Anche in me, che sento il peso dei miei no, e il ritardo di frutti che non
maturano; in me, terreno di rovi e pietre. Perché la forza è nel seme, e non tornerà a me, dice il
Signore, senza aver portato frutto (Isaia 55, 11). Noi siamo chiamati ad essere contadini della
Parola, a diffonderla, con l'ostinazione fiduciosa della parabola, fiducia la forza non è in me, ma
nella Parola. Se io predicassi del Vangelo ciò che riesco a vivere, non dovrei nemmeno aprire
bocca. Ma io non predico ciò che ho raggiunto, ma la vita di Dio che abita la più piccola delle sue
parole. Tento di dire la potenza della Parola, più forte delle mie viltà, che rovescia le pietre delle
tombe, incendia le primavere e si ribella, insieme alla creazione, a tutte le sterilità.




(da l'Avvenire)



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20/07/2008 19:16

Dove teniamo fisso lo sguardo: sulla zizzania o sul buon grano?

XVI Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Testi Liturgici:

Dal libro della Sapienza 12, 13. 16-19
Dalla lettera di san Paolo ai Romani 8, 26-27
Vangelo secondo Matteo 13, 24-43


Dove teniamo fisso lo sguardo: sulla zizzania o sul buon grano?


C'è un campo nel cuore in cui intrecciano le loro radici, spesso inestricabili, il bene e il male:
nessuno è solo zizzania, nessuno puro grano. La parabola racconta due modi di leggere e
lavorare il cuore. Il primo è quello dei servi che fissano l'attenzione sulla zizzania: « Da dove
viene? Vuoi che andiamo a raccoglierla? » Il secondo è quello del padrone del campo che ha
invece gli occhi fissi al buon grano: « Non raccogliete la zizzania, per non sradicare anche il
grano: una sola spiga conta più di tutta la zizzania ».
Quale dei due sguardi è il nostro? Quello opaco e triste dei servi che vede il mondo e le persone
invasi dal male, che giudica con durezza manichea? Quello positivo e solare del signore che
intuisce, dovunque, spighe, pane e mietiture fiduciose, e che ha messo la sua forza nella
mitezza?
« Non strappate la zizzania ». Noi abbiamo sempre una violenta fretta di moralizzare e mettere a
posto. L'uomo infantile che è in noi grida: strappa via da te, e soprattutto intorno a te, ciò che è
puerile, fragile, difettoso. Il Signore del campo suggerisce: preoccupati del buon seme, ama i
tuoi germi di vita, custodisci ogni germoglio. Tu non sei le tue debolezze, ma le tue maturazioni;
l'uomo non coincide con i suoi peccati, ma con le potenzialità di bene.
Vero esame di coscienza è leggere la vita con quello sguardo divino che cerca non l'assenza di
difetti, illusione inutile e spesso mortifera, ma la fecondità come etica della vita. Impariamo a
vedere ciò che di vitale, di bello, di promettente Dio ha seminato in noi (non è orgoglio, ma
responsabilità), facciamo sì che porti frutto, che ogni granellino di senapa cresca con il dono di
attrarre e accogliere vite, che ogni pizzico di lievito abbia il tempo per sollevare e rialzare i
giorni inerti.
Facciamo nostra l'attività positiva, solare, vitale del Creatore che per vincere le tenebre
accende ogni giorno il suo mattino, per muovere la massa immobile vi nasconde il lievito.
Preoccupiamoci non della zizzania, dei difetti, delle debolezze, ma di avere un amore grande,
ideali forti, desideri positivi, una venerazione profonda per le forze di bontà, generosità e
coraggio che la mano viva di Dio semina in noi. Facciamo che esse erompano in tutta la loro
bellezza, in tutta la loro potenza, e vedremo le tenebre ritirarsi e la zizzania senza più terreno. E
tutto il nostro essere maturare nel sole.





(da Il foglietto di questa Domenica)


[Modificato da auroraageno 20/07/2008 19:20]

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Come un tesoro nascosto


XVII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Testi Liturgici:

Primo libro dei Re 3, 5.7 - 12
Dalla lettera di san Paolo ai Romani 8, 28-30
Vangelo secondo Matteo 13, 44-52


Come un tesoro nascosto

Come un tesoro. Tesoro: parola magica, così poco usata nella religione, parola d'innamorati, di favole, di storie grandi. E di Vangelo. Che capovolge la vita, contiene tutte le speranze, rilancia tutti i desideri. Un tesoro ci attende: a dire che l'esito della storia sarà comunque felice; che nell'uomo è posto un eccesso di desiderio che nessuna cosa concreta o quotidiana potrà esaurire. Nascosto in un campo: che è il mondo, che è il cuore; e la vita altro non è che un pellegrinaggio verso il luogo del cuore (Olivier Clèment), là dove maturano tesori.
Il protagonista vero della parabola non è il contadino, ma il tesoro: Cristo, e la pienezza di umanità che Lui è venuto a portare. Dal tesoro deriva una seconda parola: per la gioia quell'uomo va, vende, compra. E' la gioia, radice della vita, che muove, mette fretta, fa decidere.
Noi non avanziamo nella vita a colpi di volontà, ma solo per scoperta di tesori; per passione di bellezza; per riserve di gioia che Qualcuno, uomo o Dio, amore o tesoro, seme o spiga, colma di nuovo.
Chiedi al Signore la gioia, ed Egli ti risponderà dandoti la vita. Gioia non facile, quindi: c'è un campo da lavorare, rovi e sudore, un tesoro da trovare e nascondere, un tutto da vendere e investire.
Dio vuole che il suo dono diventi nostra conquista (sant'Agostino). Ma la parola centrale è tesoro! Il cristianesimo non è rinuncia o sacrificio, è un tesoro: Dio in me, pienezza d'umano, vita bella, estasi della storia. E mettervi tutte le mie energie. Allora lascio tutto, ma per avere tutto. Questa è la croce che fa rifiorire la rosa del mondo (Berdiaeff). E se non ho posto tutte le mie forze, almeno una volta nella vita, la totalità del cuore, tutto, a servizio di qualcosa, Dio, un fratello, un sogno, non riuscirò mai a credere alla Risurrezione.
Noi talvolta agiamo come se la rinuncia fosse la condizione per una gioia successiva che Dio ci darà in base ai nostri sforzi. Le parabole di oggi ci ricordano che l'ordine è inverso. Se la gioia di un innamoramento, di un "che bello!" a pieno cuore, non precede le rinunce, queste non generano che tristezza, freddo, lontananza, disamore, consumazione del cuore.
Come diventerò cercatore di perle? Chiedendo il dono di Salomone: donami Tu un cuore che ascolta. Un tesoro ci attende. Il tesoro non si compra, è un dono. L'uomo compra il campo.




(da Il foglio della Domenica)



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Un dono trasformato in miracolo

XVIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Letture:

Isaia 55, 1-3
Salmo 144
Romani 8, 33. 37-39
Matteo 14, 13-21

Un dono trasformato in miracolo



Il Vangelo:

Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: « Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare ». Ma Gesù disse loro: « Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare ». Gli risposero: « Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci! ». Ed egli disse: « Portatemeli qui ». E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.


Vorrei tanto essere uno dei cinquemila, quella sera, sul lago. Li invidio, non per il miracolo dei pani, ma per la seduzione che hanno provato, più forte di ogni paura: sono andati da Gesù, ascoltano e vivono, ascoltano e brucia il cuore, ascoltano e risplende la vita. Stare con lui: e quando scende la sera, la notte e il deserto profumano di pane. Stare con lui: e sentire che più vivo di così non sarò mai.
I discepoli, uomini pratici, dicono a Gesù: « Congeda la folla, perché vadano a comprarsi da mangiare ». Se non li congeda lui, non se ne andranno spontaneamente. Ma Gesù non li manda via, non ha mai mandato via nessuno. E' bello questo preoccuparsi dei discepoli, ma più bello è Gesù che « prova compassione ». Anzi, letteralmente, « preso alle viscere per loro » dice: « date loro voi stessi da mangiare ». I discepoli parlano di comprare, Gesù parla di dare. Apre un altro modo di essere: dare senza calcolare, dare senza chiedere, generosamente, gratuitamente, per primi. A noi, che quotidianamente preghiamo: « Dacci oggi il nostro pane », il Signore risponde: « Voi date il vostro pane ». « Dacci », noi invochiamo. « Donate », ribatte lui.
Ci sono molti miracoli in questo racconto: il primo è quello della folla che, scesa ormai la notte nel deserto, non se ne va e rimane con Gesù. Il secondo sono i cinque pani e i due pesci che qualcuno mette nelle sue mani, fidandosi, senza calcolare, senza trattenere qualcosa per sé. E' poco, ma è tutta la sua cena. Terzo miracolo: è poco, eppure quel poco basta, secondo una misteriosa regola divina: quando il "mio" pane diventa il "nostro" pane, il dono è seme di miracolo. Infine il quarto: la sovrabbondanza, tipica di Dio; « raccolsero gli avanzi in dodici ceste ». Una per ogni tribù, una per ogni mese. Tutti mangiano e ne rimane per tutti, e per sempre. E hanno valore anche gli avanzi, le briciole, il poco che sei, il poco che sai fare, il bicchiere d'acqua dato. Nulla è troppo piccolo di ciò che è donato con tutto il cuore.
L'unico merito che i cinquemila possono vantare, l'unico loro diritto al pane è la fame. Davanti a Dio mio vanto esclusivo è il bisogno. « Di nulla mi vanterò se non delle mie debolezze » (2 Cor 12, 5). Davanti a Dio non c'è nulla di meglio che essere nulla, come l'aria davanti al sole, come il polline nel vento (Simone Weil), nutrendo così la nostra fame di sole e di pane, di cielo e di mani che conoscano il dono.





(di Ermes Ronchi)


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Una mano tesa sull'abisso del dubbio

XIX Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Letture:

Primo libro dei Re 19,9a. 11-13a
Salmo 84
Romani 9, 1-5
Matteo 14, 22-23

Una mano tesa sull'abisso del dubbio



(Dopo che la folla ebbe mangiato), subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla... Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde:... Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare.
Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma! » e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque ». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».



Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque. E sulla parola del Signore Pietro scende dentro la tempesta, senza più riparo. Pietro domanda due cose: una giusta e una sbagliata. Chiede di andare verso il Signore, ed è la domanda assoluta, perfetta, quella di ogni credente: che io venga da te. Poi chiede di andarci camminando sulle acque, ed è la parte sbagliata. Tu andrai verso il Signore ma in tutt'altro modo. Tu lo incontrerai ma non nei miracoli.
Pietro seguirà il Signore, ma non più attratto dal suo camminare sulle acque, bensì dal suo camminare verso il calvario; andrà dietro a colui che sa far tacere non tanto il vento e il mare, ma tutto ciò che non è amore. Andrà dietro a colui che sa farsi prossimo sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico, sulla polvere di ogni sentiero e non sul luccichio di acque miracolose. E andò verso Gesù, dice il Vangelo. Pietro cammina sulle acque, perché guarda a Lui, non ha occhi che per quel volto. Poi, vedendo il grande vento ebbe paura: inizia ad affondare, perché guarda il vento, fissa le onde. Così noi, se guardiamo al Signore e alla sua parola, avanziamo anche nella tempesta; se guardiamo a noi stessi, ai nostri limiti, alle difficoltà, iniziamo la discesa nel buio.
Io ringrazio Pietro per questo suo umanissimo oscillare tra fede e dubbi, tra miracoli ed abissi, per questo suo grido: Signore, salvami. E capisco che qualsiasi mio dubbio può essere redento, anche da una sola invocazione, gridata di notte, nella tempesta o nella paura, gridata nel vento, come Pietro, gridata sulla croce, come il ladrone. Pietro mostra che il miracolo non serve alla fede, non la rafforza. Egli cammina sul lago come nessuno ha mai fatto e già dubita. Vive un miracolo eppure la sua fede va in crisi: Signore, affondo!
Pietro dubita e affonda; affonda e crede: Signore, salvami! Dubbio, fede, grido. Mi piace questo pescatore che ringrazio, uomo d'acqua e poi di roccia, per questo suo umanissimo oscillare tra fede grande, che sfida la tempesta, e fede piccola. Ed è proprio là che Gesù ci raggiunge, al centro della nostra mancanza di fede. Ci raggiunge e non punta il dito contro i nostri dubbi, ma stende la mano per afferrarci. Nei giorni della fede piccola arriva la mano forte che Dio non ha mai cessato di tendere. E il grido di paura diventa abbraccio tra l'uomo e il suo Dio.




(di Ermes Ronchi - da L'Avvenire)





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17/08/2008 03:42

Nella Cananea la fede degli esclusi

XX domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Letture:

Isaia 56,1.6-7;
Salmo 66;
Romani 11,13-15.29­32;
Matteo 15,21-28


Il vangelo

Nella Cananea la fede degli esclusi


In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando! ». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini ». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.


Pochi personaggi del Vangelo sono simpatici come questa donna, una madre straniera che non si arrende ai silenzi di Gesù, ma intuisce sotto il suo rifiuto l’impazienza di dire sì.
Una madre pagana, che non conosce Jahvé, che adora Baal e Astarte, è dichiarata «donna di grande fede». E non per la perseveranza nel gridare il suo dolore, quanto perché, con il suo cuore di madre, sente Dio più attento alla felicità che alla fedeltà dei suoi figli. Crede in un Dio che considera la salute di una ragazza pagana più importante che non il culto dei leviti e le formule della fede. Crede che la gloria di Dio è l’uomo vivente, la creatura guarita, una ragazza felice, una madre abbracciata alla carne della sua carne, finalmente risanata.
Questa donna non ha la fede dei teologi, ma quella delle madri che soffrono. Conosce Dio dal di dentro e sa che la sua legge suprema è che l’uomo viva, sa che Dio dimentica i propri diritti per i diritti dell’uomo che soffre. «Grande è la tua fede!». Allora grande è ancora la fede sulla terra, dentro e fuori la Chiesa, perché grande è il numero delle madri di Tiro e Sidone, che non sanno il
Credo ma sanno il cuore di Dio. E lo sanno dal di dentro. Non conoscono il nome di Jahvé, ma ne conoscono il cuore. Sanno che se un figlio soffre, per questa semplice, nuda ragione Dio si fa vicino e appartiene al loro dolore.
Una frase dà la svolta al dialogo:
i cuccioli sotto la tavo­la mangiano le briciole dei bambini. Dice quella donna:
non puoi fare delle briciole di miracolo, briciole di segni, per questi cani di pagani?
In questo presente di fame e di festa, di vacanze e di miseria, una fiumana di madri cananee implorano ancora briciole per i loro cuccioli, le implorano da noi, discepoli del nazareno:
fate dei segni, dei piccolissimi segni, almeno delle briciole di miracolo, per noi, i cagnolini della terra. Allora si delinea il Regno, la terra come Dio la sogna: una tavola ricca di pane, una corona di figli, briciole, e dei cuccioli in attesa. Questa immagine si è fatta strada verso il cuore di Gesù e può farsi strada verso il nostro. Affinché nessuno sia senza pane, e i cuccioli siano trasformati in figli. La pietà di Dio ci chiama a chinarci sugli ultimi, a prendere tutti gli esclusi da sotto la tavola, a metterli tra i figli, anzi sopra il candeliere, perché anch’essi hanno occhi di luce, perché ci sia più luce sulla mensa e sul futuro del mondo.






(di Ermes Ronchi - in L'Avvenire)



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23/08/2008 16:29

Un amore che sfugge alle parole

XXI Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Letture:

Isaia 22,19-23
Salmo 137
Romani 11,33-36
Matteo 16,13-20

Il Vangelo

Un amore che sfugge alle parole


In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La
gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo? ». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri
Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose
Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone,
figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E
io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non
prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra
sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai
discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.



La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo? La risposta è bella e al tempo stesso sbagliata:
dicono che sei un profeta, voce di Dio e suo respiro.
Gesù pone la seconda domanda, preceduta da un «ma»: Ma voi – come se i Dodici fossero di un
altro mondo, mai omologati al pensiero dominante – voi chi dite che io sia? La terza domanda è
implicita, diretta a me: tu chi dici che io sia?
Gesù non chiede: Cosa avete imparato? Che parola vi ha colpito? Qual è il centro del mio
insegnamento? Ma: chi sono io per te? Tu con il tuo cuore, con la tua fatica, la tua gioia e il tuo
peccato, tu cosa dici di Gesù Cristo?
Le parole più vere sono sempre al singolare, e mai parole d’altri. Non servono libri o
catechismi, non studi, letture, o risposte imparate, ma ciascuno dissetato alle fonti di Dio, inciso
un giorno dalla spada a due tagli della sua Parola, ciascuno, caduto e risorto, può dare la sua
risposta.
Tu sei per me un «crocifisso amore». L’amore ha scritto il suo racconto sul tuo corpo con
l’alfabeto delle ferite, indelebili come l’amore.
Tu sei per me un «disarmato amore», che mai sei entrato nei palazzi dei re, mai hai radunato
eserciti, e in questo mondo di arroganti hai detto: «Beati i miti, gli inermi, i tessitori di pace».
Tu sei per me un «inseparato amore», perché nulla mai, né angeli né demoni, né cielo né
abisso, nulla mai ci separerà dal tuo amore di Dio (cf. Rm 8, 39). Nulla, mai. Due parole assolute,
perfette, totali: inseparabile sono dall’amore.
I due simboli di oggi sono la chiave e la roccia. Pietro è roccia nella misura in cui ancora
trasmette Cristo, tesoro per l’intera umanità. È roccia nella misura in cui mostra che Dio è vivo
fra noi, crocifisso amore, disarmato amore, inseparato amore.
Ma ogni discepolo è roccia e chiave. Chiave che apre le porte belle di Dio, roccia su cui far
conto per costruire la casa comune. Chiamato a legare e sciogliere, a creare nel mondo
strutture di riconciliazione.
Voi chi dite che io sia? Non mi basta dire Dio; Cristo non è ciò che dico di lui, ma ciò che vivo di
lui, come la vita non sta nelle mie parole sulla vita, ma nel mio patirla:
Mi guardano negli occhi / e rimangono estatici / perché capiscono che io ti ho visto / ti ho sentito
/ e che qualche volta almeno / ti ho anche tradito ( Alda Merini). Non una dottrina, non una
morale, il cristianesimo è una Persona, un dolcissimo sogno sempre tradito, ma di cui non ci è
concesso stancarci.





(Ermes Ronchi - L'Avvenire)







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