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IL MESSAGGIO - Parole di luce - Il Vangelo commentato della Domenica

Ultimo Aggiornamento: 16/11/2012 09:41
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Il Crocifisso, seduttore innamorato


XXII Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Letture:

Geremia 20,7-9
Salmo 62
Romani 12,1-2
Matteo 16,21-27


Il Vangelo

Il Crocifisso, seduttore innamorato


In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e
soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e
risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non
voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me,
Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini! ». Allora
Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda
la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il
mondo intero, ma perderà la propria vita?
» (...)

:::::::::::::::::

Domenica scorsa Pietro confessava Gesù, oggi Gesù sconfessa Pietro – e tutta la nostra logica
– presentandosi in modo «inaccettabile», come colui che deve molto soffrire. Gesù sa che non
saranno mai i potenti a risolvere le lacrime del mondo o gli errori del singolo. Il male si risolve
solo portandolo. Sulla croce. Che cos’è la Croce, se non l’affermazione alta che Dio ama altri, e
me fra questi, più della propria vita? La Croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante. È il segnale
massimo lanciato da Dio all’uomo, il punto ultimo in cui tutto si incrocia: le vie del cielo, della
terra e del cuore. E la croce che il discepolo deve prendere? Per capire che cosa intenda Gesù
forse basta sostituire la parola «croce » con la parola «amore»: «Se qualcuno vuol venire con
me, prenda su di sé tutto l’amore di cui è capace».
La croce del discepolo non sono i disappunti quotidiani, le fatiche o le malattie: cose solo da
sopportare. La croce vera, dice Gesù, è da «prendere », non da sopportare. Da scegliere, come
riassunto di un destino e di un amore: «Scegli per te il giogo dell’amore. Non amare è solo un
lento morire. Ricordati che il vero dramma dell’uomo non è perdere la vita, ma non incontrare
nessuno che valga più della propria vita, non avere nessuno per cui valga la pena dare la vita».
Tutti, io per primo, abbiamo paura del dolore, del sacrificio fino al dono di sé; ci sia concesso
però di non aver paura di amare. Come fa Dio, il grande seduttore. Non guardare il dolore,
guarda l’amore.
Tra i nomi di Dio Geremia introduce quello di seduttore: mi hai sedotto Signore e io mi sono
lasciato sedurre (I lettura). In Dio c’è desiderio, cuore di carne, passione, bellezza. Un Dio
innamorato. Era impossibile resistergli, resistere alla passione di Dio per me.
Eppure Geremia si sente solo e incompreso, e protesta la sua amarezza. Pietro è deluso nel
suo entusiasmo, incompreso nel suo realismo. Dio che seduce e delude? Che conquista e poi
lascia smarriti? Sì, perché chiama a pensare i suoi pensieri, a seguire i suoi passi, ad avere i
suoi sentimenti, ti allontana dal vecchio cuore. E se all’orizzonte si staglia una croce, Pietro non
ci sta, e io con lui, e mi sento un po’ tradito. Allora ci soccorre Geremia:
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, mi sforzavo ma non potevo contenerlo...
Senza questo fuoco, la passione di Dio per me, io sarei niente. Guadagnerei il mondo ma
perderei me stesso.





(Ermes Ronchi - L'Avvenire)



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06/09/2008 05:18

Se il mondo nuovo inizia nelle relazioni quotidiane
XXIII Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Letture:

Ezechiele 33,7- 9
Salmo 94
Romani 13,8- 10
Matteo 18,15- 20


Il Vangelo

Se il mondo nuovo inizia nelle relazioni quotidiane


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: « Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te,
va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non
ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di
due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche
la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che
legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in
cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere
qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti
nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro ».

:::::::::::::::::::::::

Un ritornello risuona in ogni versetto di questo Vangelo :
mai senza l’altro. Né isolamento, né questione di numeri, tutto inizia dall’incontro, dalla più
piccola comunità: io-tu, due che si amano, la complicità festosa di due amici, una madre
abbracciata al suo bimbo, due oranti, e Dio è lì, come il terzo fra i due, come forza di coesione
del cosmo. Il Vangelo ci chiama a pensare sempre in termini di « noi » .
La costruzione del mondo nuovo inizia dai mattoni elementari io-tu, dalle relazioni quotidiane
fondamentali. Quando un io e un tu si accolgono e diventano un « noi », il legame che si crea
apre sul venire di Dio, è via di Dio. In principio, il legame. Anche in principio alla stessa Trinità.
Il Vangelo pone una condizione: che il « noi » sia composto non per caso o per necessità, per
violenza o per inganno, non nel nome di interessi o di paure, ma nel nome di Gesù.
Il nome di Gesù è: passione d’amare, giustizia, pace, mitezza, limpido cuore.
Il nome di Gesù è « fratello ». Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e
ammoniscilo: Dio è un vento di comunione che ci sospinge gli uni verso gli altri. Se tuo fratello
sbaglia, tu va’, tu per primo inizia il cammino.
Ma che cosa mi autorizza a intervenire nella vita dell’altro? La ragione è tutta in una parola: «
fratello ». Solo se porti la speranza e la gioia dell’altro, se hai assaporato le sue lacrime, se lo
ami, allora sei autorizzato a intervenire.
Non è la verità che mi legittima, ma la fraternità. Accetterò la tua verità purché si sposi con la
tenerezza ( E. Pound).
Tutto quello che legherete sulla terra... Il potere di sciogliere e legare non ha nulla di giuridico,
consiste nel mandato fondamentale di tessere nel mondo strutture di riconciliazione: ciò che
avrete riunito attorno a voi, le persone, gli affetti, le speranze, lo ritroverete unito nel cielo; e ciò
che avrete liberato attorno a voi, di energie, di vita, di audacia e sorrisi, non sarà più
dimenticato, è storia santa. Ciò che scioglierete avrà libertà per sempre, ciò che legherete avrà
comunione per sempre.
Ma a che cosa serve la presenza di Cristo in mezzo a noi? Che cosa porta, che cosa genera?
Cristo è la sorgente del rapporto buono con l’altro, la roccia solida su cui poggia la casa del
mondo, la misura alta dell’io e del tu che diventano noi, quella forza di amare che « ti convoglia
nello stellato fiume » ( M. Luzi).





(Ermes Ronchi - L'Avvenire)


[Modificato da auroraageno 06/09/2008 05:24]

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13/09/2008 07:50

La croce, punto di congiunzione tra Dio e il mondo

Domenica XXIV del Tempo Ordinario Anno A

Esaltazione della Santa Croce


Il Vangelo

« Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui » .


La croce, punto di congiunzione tra Dio e il mondo

L’ unica parola che il cristiano ha da consegnare al mondo è la parola della Croce. Dio è entrato nella tragedia dell’uomo, perché l’uomo non vada perduto, con il mezzo scandalosamente povero e debole della croce. Per sapere chi sia Dio devo inginocchiarmi ai piedi della croce ( Karl Rahner).
Tra i due termini, Dio e mondo, Dio e uomo, che tutto dice lontanissimi, incomunicabili, estranei, le parole del Vangelo indicano il punto di incontro: il disceso innalzato, al tempo stesso Figlio dell’uomo e Figlio del cielo. Cristo si è abbassato, scrive Paolo, fino alla morte di croce; Cristo è stato innalzato sulla croce, dice Giovanni, attirando tutto a sé.
Tra Dio e il mondo il punto di congiunzione è la croce, che solleva la terra, abbassa il cielo, raccoglie i quattro orizzonti, è crocevia dei cuori dispersi.
Colui che era disceso risale per l’unica via, quella della dismisura dell’amore. Per questo Dio lo ha risuscitato, per questo amore senza misura.
L’essenza del cristianesimo sta nella contemplazione del volto del crocifisso ( Carlo Maria Martini), porta che apre sull’essenza di Dio e dell’uomo: essere legame e fare dono.
Ha tanto amato il mondo da dare il Figlio. Mondo amato, terra amata. Da queste parole sorgive, iniziali ripartire: « Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama » ( P. Xardel).
E noi qui a stupirci che, dopo duemila anni, ci innamoriamo ancora di Cristo proprio come gli apostoli. Quale attrazione esercita la croce, quale bellezza emana per sedurci?
Sulla croce si condensa la serietà e la dismisura, la gratuità e l’eccesso del dono d’amore; si rivela il principio della bellezza di Dio: il dono supremo della sua vita per noi.
Lo splendore del fondamento della fede, che ci commuove, è qui, nella bellezza dell’atto di amore.
Suprema bellezza è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla collina, dove il Figlio di Dio si lascia annullare in quel poco di legno e di terra che basta per morire. Veramente divino è questo abbreviarsi del Verbo in un singulto di amore e di dolore: qui ha fine l’esodo di Dio, estasi del divino. Arte di amare.
Bella è la persona che ama, bellissimo l’amore fino all’estremo. In quel corpo straziato, reso brutto dallo spasimo, in quel corpo che è il riflesso del cuore, riflesso di un amore folle e scandaloso fino a morirne, lì è la bellezza che salva il mondo, lo splendore del fondamento, che ci seduce.

( Letture: Numeri 21,4b- 9; Salmo 77; Filippesi 2,6- 11; Giovanni 3,13- 17).





di Ermes Ronchi- L'Avvenire -


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20/09/2008 18:28

Una bontà che va oltre la giustizia


il vangelo

Una bontà che va oltre la giustizia

XXV domenica Tempo ordinario - Anno A

“In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: 'Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò'. (...) Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto (...). Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: 'Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?'. Gli risposero: 'Perché nessuno ci ha presi a giornata'. Ed egli disse loro: ' Andate anche voi nella vigna'. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: 'Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi'». (...)”

Finalmente un Dio che non è un 'padrone', nemmeno il migliore dei padroni. È altra cosa: è il Dio della bontà senza perché, che crea una vertigine nei normali pensieri, che trasgredisce le regole del mercato, che sa ancora saziarci di sorprese.
Intanto è il signore di una vigna: fra tutti i campi la vigna è quello dove il contadino investe più passione e più attese, con sudore e poesia, con pazienza e intelligenza. È il lavoro che più gli sta a cuore: per cinque volte infatti, da uno scuro all’altro, esce a cercare lavoratori.
È questa terra la passione di Dio, e coinvolge me nella sua custodia; è questa mia vita che gli sta a cuore, vigna da cui attende il frutto più gioioso. Eppure mi sento solidale con gli operai della prima ora che contestano: non è giusto dare la medesima paga a chi fatica molto e a chi lavora soltanto un’ora. È vero: non è giusto. Ma la bontà va oltre la giustizia. La giustizia non basta per essere uomini. Tanto meno basta per essere Dio. Neanche l’amore è giusto, è un’altra cosa, è di più.
Se, come Lui, metto al centro non il denaro, ma l’uomo; non la produttività, ma la persona; se metto al centro quell’uomo concreto, quello delle cinque del pomeriggio, un bracciante senza terra e senza lavoro, con i figli che hanno fame e la mensa vuota, allora non posso contestare chi intende assicurare la vita d’altri oltre alla mia.
Dio è diverso, ma è diversa pienezza. Non è un Dio che conta o che sottrae, ma un Dio che aggiunge continuamente un di più. Che intensifica la tua giornata e moltiplica il frutto del tuo lavoro. Non fermarti a cercare il perché dell’uguaglianza della paga, è un dettaglio, osserva piuttosto l’accrescimento, l’incremento di vita inatteso che si espande sui lavoratori.
Nel cuore di Dio cerco un perché. E capisco che le sue bilance non sono quantitative, davanti a Lui non è il mio diritto o la mia giustizia che pesano, ma il mio bisogno. Allora non calcolo più i miei meriti, ma conto sulla sua bontà. Dio non si merita, si accoglie.
Ti dispiace che io sia buono? – No, Signore, non mi dispiace, perché sono l’ultimo bracciante e tutto è dono. No, non mi dispiace perché so che verrai a cercarmi anche se si sarà fatto tardi . Non mi dispiace che tu sia buono. Anzi. Sono felice che tu sia così, un Dio buono che sovrasta le pareti meschine del mio cuore fariseo, affinché il mio sguardo opaco diventi capace di gustare il bene.


(Letture: Isaia 55,6-9; Salmo 144; Filippesi 1,20-24.27; Matteo 20,1-16)



(di Ermes Ronchi)



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27/09/2008 09:15

Discepoli nei fatti, non a parole


Il Vangelo

Discepoli nei fatti, non a parole

XXVI domenica Tempo ordinario - Anno A


In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: 'Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna'. Ed egli rispose: ' Non ne ho voglia'. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: ' Sì, signore'. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo ». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

« Un uomo aveva due figli», e si potrebbe tradurre così: un uomo aveva due cuori. Siamo tutti così, contradditori e incerti, con due cuori: uno che dice sì e uno che lo contraddice. Abbiamo tutti due anime: quella dell’apparire e del fingere per gli altri, e quella dell’essere veri anche se nessuno vede e sa.
Non si illude Gesù. Conosce bene come siamo fatti: non esiste un terzo figlio ideale, in cui senza contraddizioni avvenga l’incontro perfetto del dire e del fare. Così noi: cristiani solo a parole o con i fatti?
Primo attore della breve parabola è il padre, che va’ verso i suoi figli, si fa vicino, li cerca, chiede loro di lavorare in una vigna che non dice «mia», ma sottintende « nostra » , che al rifiuto non si scandalizza e non si deprime.
C’è poi un figlio vivo e reattivo, impulsivo, che prima di aderire a suo padre prova il bisogno imperioso, vitale, di fronteggiarlo, di misurarsi con lui, di contraddirlo, che non ha nulla di servile, libero da sudditanze e da paure. L’altro figlio, che dice e non fa, è invece un adolescente immaturo, che si accontenta di apparire, cui importa non la verità e la coerenza ma il giudizio degli altri.
Qualcosa poi accade e viene a disarmare il rifiuto del figlio che ha detto no.
Tutto in una parola: ' si pentì', cioè 'cambiò il modo di vedere' il padre e il lavoro.
Il padre non è più il padrepadrone cui obbedire o cui ribellarsi, ma colui che progetta il bene della casa, che non ha bisogno di lavoratori ma di figli. La vigna è più che fatica e sudore, diventa il luogo dove, nel vino, è racchiusa una profezia di gioia e di festa per tutta la casa.
La differenza decisiva tra i due ragazzi: uno diventa figlio e coinvolto, l’altro rimane un servo esecutore di ordini. Chi dei due ha fatto la volontà del padre? È il passaggio centrale: volontà di Dio non è mettere alla prova l’obbedienza o la coerenza dei figli, è invece una vigna dai grappoli colmi di sole e di miele. Il suo progetto, suo e mio, si realizza nei frutti buoni che ognuno può portare per la vita del mondo.
Ciò che Dio sogna non è l’obbedienza o la fatica, ma far maturare la vigna della storia. Se agisci così fai vivere te stesso, dice il profeta Ezechiele nella I lettura, fai viva la tua vita! E il vangelo si diffonderà a partire da tutte le piccole vigne nascoste, dove ciascuno si impegna a rendere meno arida la terra, meno soli gli uomini, meno contraddittorio il cuore.


(Letture: Ezechiele 18,25-28; Salmo 23; Filippesi 2,1-11; Matteo 21,28-32)




(di Ermes Ronchi)



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04/10/2008 10:02


Il Vangelo

Nella nostra vigna la vendemmia avviene ogni giorno


XXVII Domenica Tempo ordinario -Anno A


In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: 'Avranno rispetto per mio figlio!'. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: 'Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!'. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?» (...)

Vigna d’uva selvatica in Isaia, vendemmia di sangue nel Vangelo di Matteo: è la domenica delle delusioni di Dio. Io sono così, vigna e delusione di Dio.
Isaia e Matteo raccontano la cura appassionata di chi ha piantato la vigna, l’ha cinta come un abbraccio, vi ha scavato un tino, eretto una torre, e poi l’ha affidata alle cure d’altri: e inizia la storia perenne di un amore e di un tradimento. Da un lato la nobiltà d’animo del padrone, dall’altro la brutalità violenta e stupida dei vignaioli. Eppure il tradimento dell’uomo non è in grado di fermare il piano di Dio: la vigna darà frutto e Dio non sprecherà la sua eternità in vendette.
Nelle vigne è stagione di frutti. In noi invece la vendemmia avviene ogni giorno, viene con le persone che cercano pane, Vangelo, giustizia, un po’ di coraggio e una breccia di luce. Cosa trovano in noi? Vino buono o uva acerba? Tutti cadiamo nell’errore dei vignaioli: l’atteggiamento sterile di calcolare e prendere ciò che la vigna (che è lo Stato, la Chiesa, il gruppo, la famiglia, la comunità), gli altri ci possono dare. Anziché preoccuparci di ciò che noi possiamo donare, far nascere e maturare. Ci arroghiamo il ruolo di vendemmiatori, anziché quello di servitori della vita. Anzi, il mio ruolo più vero è quello di una piccola vite, di un tralcio innestato su Cristo, chiamato a dare frutto, senza contare, per la fame e la gioia d’altri.
Il sapore profondo di questo frutto è espresso da Isaia: «aspettavo giustizia, attendevo rettitudine, non più grida di oppressi, non più sangue». Il frutto che Dio attende è una storia che non generi più oppressi, sangue, ingiustizia e volti umiliati.
«Cosa farà il padrone della vigna, dopo l’uccisione del Figlio?». La soluzione proposta dai Giudei è logica: una vendetta esemplare, nuovi vignaioli, nuovi tributi. La loro idea di giustizia è riportare le cose un passo indietro, ritornare a prima del delitto, mantenendo intatto il ciclo immutabile del dare e dell’avere.
Ma Gesù non è d’accordo e introduce la novità propria del Vangelo. Il sogno di Dio non è il tributo pagato, ma una vigna che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di lacrime, ma grappoli gonfi di sole e di luce. Per questo è venuto Cristo, vite e vino di festa. Su di lui mi fondo, in lui mi innesto, di lui mi disseto, di lui godo. Cresco di lui, che riempie di vita le strade del mondo, di vino buono le giare di Cana.


(Letture: Isaia 5,1-7; Salmo 79; Filippesi 4,6-9; Matteo Mt 21,33-43).



(di Ermes Ronchi)



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11/10/2008 17:29

Alla festa del re senza l’abito nuziale

XXVIII Domenica Tempo ordinario - Anno A


In quel tempo, Gesù (...) disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi (...) ma quelli non se ne curarono (...); altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re (...) fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: «(...) andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». (...) Quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?» (...)


Tre immagini riassumono la parabola di oggi: la prima è quella di una sala vuota, preparata per una festa cui nessuno partecipa. In principio il dono; in principio un Dio inascoltato e ignorato che sogna una reggia piena di volti felici e di canti. Neanche Dio può restare solo. Il suo è come un esodo perenne in cerca dell’uomo, primo di tutti gli esodi da ogni solitudine. In principio un Dio che ha bisogno di dare per essere Dio, che dall’eternità celebra il rito dell’amicizia: «Andate per le strade e quelli che troverete, buoni e cattivi, chiamateli». Disposto perfino a stare in compagnia di gente non all’altezza, inadatta, sbagliata o cattiva. E noi ci aspettavamo che accanto a Dio potessero sedere solo i buoni, i senza peccato, i puri, i meritevoli. Ma Dio non si merita, si accoglie! «E la sala si riempì di commensali ». Il paradiso non è pieno di santi, ma di peccatori perdonati, di gente come noi. La seconda immagine è quella delle strade. Se il dono non è accolto e le case si chiudono, il Signore apre strade lungo le siepi. Sono le strade percorse dai servi, ma prima ancora dagli invitati che se ne vanno al proprio campo e ai propri affari. La strada è il simbolo della libertà delle scelte: alcuni le percorrono verso la festa, altri verso i campi e gli affari.
In queste poche parole è nascosto il motivo del rifiuto: gli invitati sono troppo impegnati per avere il tempo di vivere, seguono una logica mercantile e contabile, estranea alla gratuità del tempo e del dono. Così siamo noi: pronti a dare a Dio qualcosa in cambio di qualcosa (preghiere in cambio di aiuto) ma non a dare e ricevere gratuitamente amicizia. Non ad amare riamati.
La terza immagine è quella dell’abito nuziale. L’uomo che non l’ha indossato non è peggiore degli altri, buoni e cattivi si confondono nella sala stracolma. Ma lui non si confonde con gli altri: isolato, separato, solo, non può godere la festa perché non porta il suo contributo di bellezza. Forse quell’uomo non ha creduto al re: non è possibile che un re inviti a palazzo straccioni e vagabondi . Ha la mentalità di quelli che hanno rifiutato, è lì come se fosse altrove. È il dramma dell’uomo che si è sbagliato su Dio, che non immagina un Regno fatto di festa, convivialità, godimento. Cos’è l’abito nuziale? È Cristo: «rivestitevi di Cristo», passare la vita a vestirci e rivestirci di Cristo, dei suoi gesti e dei suoi doni.


(Letture: Isaia 25,6-10a; Salmo 22; Filippesi 4,12-14.1920; Matteo 22,1-14)



(di Ermres Ronchi)


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17/10/2008 21:38

Dio non è un Cesare più grande d’ogni Cesare ma servo di tutti per amore


XXIX domenica Tempo ordinario - Anno A

il vangelo


In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: « Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di ’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare? » .
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: « Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo » . Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: « Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono? » . Gli risposero: « Di Cesare » .
Allora disse loro: « Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio » .



Una domanda trappola, una domanda malvagia, costruita per amplificare tensioni e divisioni: « È lecito o no pagare le tasse a Roma? » . Al nemico, all’invasore. Posta a Gesù, che intendeva eliminare il concetto stesso di nemico.
Se avessimo fra le mani quella moneta romana, capiremmo molto di più: il profilo dell’imperatore non era un semplice omaggio al cesare di turno, ma indicava la proprietà: egli era il proprietario di quell’oro e chi l’aveva in mano ne era solo un proprietario temporaneo. «Questa moneta appartiene Cesare, non dovete far altro che restituirla » . Ma la profezia di Gesù sorge nella seconda parte della risposta, quando alla questione politica e storica, sul rapporto tra uomo e uomo, risponde conducendoci in profondità, al rapporto tra uomo e Dio. L’iscrizione sulla moneta diceva « al divino Cesare » o « al dio Cesare » . Proprio questa sintesi pericolosa Gesù vuole disinnescare: Cesare non è Dio.
« Rendete a Dio quello che è di Dio » . Ma che cosa gli appartiene? « La terra, l’universo e tutti i viventi » ( salmo 24,1); « io appartengo al Signore » ( Isaia 44,5). A Cesare vadano le cose, a Dio le persone. Cesare non ha diritto di vita e di morte sulle persone, non ha il diritto di violare la loro coscienza, non può impadronirsi della loro libertà. A Cesare non spetta il cuore, la mente, l’anima. Spettano a Dio solo. Ad ogni potere umano è detto: Non appropriarti dell’uomo. L’uomo è cosa di un Altro. Cosa di Dio. A me dice: Non iscrivere appartenenze nel cuore che non siano a Dio. Libero e ribelle a ogni tentazione di possesso, ripeti a Cesare: Io non ti appartengo.
La risposta di Gesù ha come intenzione quella di allargare il problema: non di teorizzare l’autonomia delle realtà mondane, o la separazione dei poteri, ma quella di prendere le radici stesse del potere e di capovolgerle al sole e all’aria. Per Gesù Dio non è il potere oltre ogni potere, è amore. Non è il padrone delle vite, è il servitore dei viventi. Non un Cesare più grande degli altri cesari, ma un servo sofferente per amore. Tutt’altro modo di essere Dio.
Gesù impiega un verbo che non vuol dire solo « date » , ma più precisamente « restituite » , « ridate indietro » . Perché nulla di ciò che hai è tuo, di nulla sei proprietario, se non del cuore. Sei figlio di un dono, che viene da prima di te e va oltre te. Tu, talento d’oro, dono che porta coniata l’immagine di Dio, devi restituire niente di meno di te stesso, ma soltanto a Lui.


( Letture: Isaia 45, 1.4- 6; Salmo 96; Tessalonicesi 1, 1- 5; Matteo 22, 15- 21)


di Ermes Ronchi




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24/10/2008 17:02

Il cristiano ama al modo di Gesù

XXX domenica Tempo ordinario – Anno A

il vangelo


In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: « Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento? ». Gli rispose: «'Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente'. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: ' Amerai il tuo prossimo come te stesso'. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti » .


A merai con tutto… con tutto… con tutto… Per tre volte Gesù ripete l’appello alla totalità, all’impossibile. Perché l’uomo ama, ma solo Dio ama con tutto il cuore, lui che è l’amore stesso. Ripete due comandi antichi e noti, ma aggiunge: il secondo è simile al primo. Amerai il prossimo è simile ad amerai Dio. Il prossimo è simile a Dio, ha corpo, voce, cuore « simili » a Dio. Questo è lo scandalo, la rivoluzione portata dal Vangelo.
Ama Dio con tutto il cuore. Eppure, resta ancora del cuore per amare il marito, la moglie, il figlio, l’amico, il prossimo e perfino il nemico. Dio non ruba il cuore, lo moltiplica. Non è sottrazione ma addizione d’amore.
La novità del cristianesimo non è il comando di amare Dio: amano il loro Dio molti uomini, lo fanno i mistici di tutte le religioni. Neppure quello di amare il prossimo come te stesso è proprio del cristianesimo, presente com’è nel primo Testamento.
La novità del cristianesimo non è l’amore, bensì l’amore come quello di Cristo. Gli uomini amano, il cristiano ama al modo di Gesù. L’amore è Lui: quando lava i piedi ai discepoli, quando piange per l’amico morto, quando esulta per il nardo profumato di Maria, quando si rivolge al traditore chiamandolo amico, e prega per chi lo uccide, e neppure il suo sangue tiene per sé, e ricomincia dai più perduti, e intende cancellare il concetto stesso di nemico. Amatevi come io vi ho amato. Non quanto, ma come; non la quantità ma lo stile. O rischiamo di esserne schiacciati. Impossibile amare quanto lui, ma possibile seguirne le orme, coglierne il sapore, il lievito, il sale e immetterlo nei giorni: come ho fatto io, così anche voi.
Amerai. Tutto il nostro futuro è in un verbo, presentato però non come una ingiunzione, un secco imperativo, ma coniugato al futuro, perché amare è azione mai conclusa, perché durerà quanto durerà il tempo. Perché è un progetto, anzi l’unico. E dentro c’è la pazienza di Dio. Un futuro che traccia strade e indica una speranza possibile. Non un obbligo, ma una necessità per vivere, come respirare.
Amare, voce del verbo vivere, voce del verbo morire.
Cosa devo fare domani, Signore, per essere vivo? Tu amerai. Cosa farò l’anno che verrà, e poi dopo, per il mio futuro? Tu amerai. E l’umanità, il suo destino, la sua Storia? Solo questo: l’uomo amerà. Amare vuol dire non morire. Va’ e anche tu fa’ lo stesso. E troverai la vita.


(Esodo 22,20-26; Salmo 17; 1 Tessalonicesi 1,5-10; Matteo 22,34- 40)





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31/10/2008 21:01

Le porte della morte aprono alla vita


Commemorazione di tutti i fedeli defunti

In quel tempo, Gesù disse alla folla: « Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno » .

L a liturgia non ha pianti, perché ciò di cui fa memoria non è la morte, ma la risurrezione. La liturgia non ha lacrime, se non asciugate dalla mano di Dio; essa infatti non pronuncia parole sulla fine ma sulla vita. « Se tu fossi stato qui mio fratello Lazzaro non sarebbe morto » . Marta ha fede in Gesù, eppure si sbaglia. Così noi ripetiamo le sue parole e il suo errore: in questa malattia del mio familiare, dov’è Dio? Se Dio esiste, perché questa morte innocente? Se Tu sei qui, i miei cari non moriranno… Invece Dio è qui, sempre, ma non come esenzione dalla morte. Gesù non ha mai promesso che i suoi amici non sarebbero morti. Per lui il bene più grande non è una vita lunga, un infinito sopravvivere; l’essenziale non sta nel non morire, ma nel vivere già una vita risorta. L’eternità è già entrata in noi molto prima che accada, entra con la vita di fede (chiunque crede in Lui ha la vita eterna), entra con i gesti del quotidiano amore. Il Signore ci insegna ad avere più paura di una vita sbagliata che della morte. A temere di più una vita vuota e inutile che non l’ultima frontiera che passeremo aggrappandoci forte al cuore che non ci lascerà cadere.
Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Né angeli né demoni, né vita né morte, nulla ci potrà mai separare dall’amore ( Rm 8,3537). Questo mi basta. Se Dio è amore, mi vendicherà della mia morte. La sua vendetta è la risurrezione, un amore mai più separato.
Dio salva, questo è il suo nome. Salvare significa conservare. Per sua precisa volontà nulla andrà perduto, non un affetto, non un bicchiere d’acqua fresca, neanche il più piccolo filo d’erba.
Una preghiera per i defunti, forse la più bella, invoca: ammettili a godere la luce del tuo volto. I verbi della fede cedono ad un verbo umile e forte, inerme ed umanissimo: godere. La ragione cede alla gioia, la fede al godimento. L’eternità fiorisce nei verbi della gioia. Perché Dio non è risposta al nostro bisogno di spiegazioni, ma al nostro bisogno di felicità, lo è per i miei sensi, lo spirito, gli affetti e il cuore, per la totalità della mia persona.
La nostra esperienza sostiene che tutto va dalla vita verso la morte. La fede cristiana dichiara invece che l’esistenza dell’uomo va da morte a vita. Dal santuario di Dio che è la terra e dove nessun uomo può restare a vivere, le porte della morte conducono verso l’esterno. Ma su che cosa si aprono i battenti di questa porta? Non lo sai? Sulla vita!


(Letture: Giobbe 19,1.2327a; Salmo 26; Romani 5,5- 11; Giovanni 6,37- 40).


di Ermes Ronchi




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08/11/2008 19:15

Sono i figli di Dio il suo «tempio»

Domenica 9 novembre 2008

Il Vangelo


Festa della dedicazione della Basilica Lateranense


Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». [...] Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose? ». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere ». [...] Egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.


Già un’ora dopo i mercanti avevano rioccupato il loro posto; il belato degli agnelli e il tubare delle colombe si fon- deva di nuovo con il mormorio delle preghiere. Eppure il gesto di Gesù non è rimasto senza effetto, proclama ancora: non farai mercato della fede,
non farai valere la legge scadente dello scambio, la legge gretta del baratto, dove tu dai qualcosa a Dio, perché Lui in cambio dia molto a te.
Gesto e parole di Gesù sono profezia per oggi: se allora il tempio era diventato mercato, ora, senza pudore alcuno, è il mercato globale ad essere diventato il tempio, il luogo dove si adorano i nuovi idoli, il falso dio del denaro.
Gesù ha molto amato il tempio di Gerusalemme, lo ha ammirato, si è indignato coi mercanti, ha pianto per la sua distruzione imminente. Lo ha chiamato «casa del Padre » eppure lo ha anche radicalmente contestato: Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere.
Voi distruggete, io riedifico. La sua opera più vera è ricostruire; l’azione propria di Dio è far risorgere. Là dove gli altri ti fermano, egli ti fa ripartire; là dove eri caduto, egli ti fa rialzare e risveglia la vita.
Parlava del tempio del suo corpo.
Il vero tempio non è indicato dal giro delle pietre ma dal perimetro vivo di un corpo di carne, il suo, tenda della Parola. Alla teologia del tempio di pietra, Gesù ci insegna a sostituire la teologia del tempio di carne: i figli di Dio sono il santuario di Dio. E se appartengo a Cristo, anch’io sono tenda di Dio. E lo è il mendicante, l’immigrato, lo straniero la cui sola presenza mi infastidisce.
È facile adeguarsi a un Dio che abita le cattedrali, prigioniero delle pietre e delle mura degli uomini. Un Dio così non crea problemi, ma non cambia nulla della vita. «Il vero problema per noi è rappresentato da un Dio che ha scelto come tempio l’uomo » (Pozzoli), che ci ha insegnato a sostituire alla teologia del tempio, la teologia dei figli di Dio come tempio di Dio.
Non fate della casa del Padre mio un mercato!
Gesù non si rivolge ai custodi dei templi, o all’istituzione, ma a ciascuno: la casa ultima del Padre sei tu. Casa ingombra di pecore e buoi, di denari e di colombe, che non lascia più trasparire Dio, invitata a diventare di nuovo trasparente, terra aperta al cielo. Dio è ancora in viaggio, il Misericordioso senza tempio cerca un tempio, il Dio che non ha casa è in cammino e cerca casa. La cerca proprio in me.


(Letture: Ezechiele 47,1-2.89.12; Salmo 45; 1 Corinzi 3,9c-11.16-17; Giovanni 2,13-22)



di Ermes Ronchi



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10/11/2008 14:17

Domenica 9 novembre 2008
Vengelo secondo Giovanni
...

RIFLESSIONE

PIETRE VIVE

Oggi entriamo nel mistero della Chiesa: il popolo che Dio si è acquistato, nato dal coastato di Cristo, chiamato ad una comunione di amore per Lui. Al suo centro vive Gesù, pietra viva che rende vivi tutti coloro ch elo abbracciano, usandoli poi come strumenti della sua misericordia.

Può una pietra essere viva?
Lo è quando viene utilizzata da Cristo, quando si lascia formare, “levigare” da Lui. Quando si lascia usare per costruire un “edificio spirituale”, lasciando ceùhe anche il mondo la scarti perché la considera di poco valore.
Dio, che non ha spazio e tempo, vuole entrare nel nostro tempo per renderci sacri, abitati dalla sua presenza. E lo fa, innanzitutto toccando la nostra interiorità. Vuole portarsi ad adorarlo “in spirito e verità”, un’adorazione che sia suscitata dall Spirito Santo e che porti a entrare nella sua e nostra verità.

Quando dio si rivela, non ci parla solo di sé stesso ma anche di noi, ci dice che “siamo il popolo che si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di Lui, che ci ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce”.
Questa è la nostra chiamata! La nostra gioia più grande è lasciarci usare dal Signore, volere essere pietre umili, piccole, ma utilizzate affinchè il Suo popolo cresca. A volte, più ci guardiamo intorno, abbiamo lìimpressione di diventare “piccolo resto”. Israele fu un “piccolo resto” ma tra la sua gente è nato Gesù.
Noi siamo, e probabilmente sempre più saremo un piccolo resto, ma l’importante è che questo “piccolo resto” sia formato da pietre vive, da persone capaci di ardere per Dio, per il vangelo, da uomini e donne che rechino in sé il profumo di Cristo. Solo così, come pietre vive, saremo capaci di generare Gesù agli uomini. Solo se ci sentiremo e ci vivremo come il popolo che egli si è acquistato, potremo aiutare il nostro prossimo a capire che dio è comunione e porta comunione, è amore e porta amore.
È a questo punto che Gesù, nell’amore che porta per noi ci invita e si accende di zelo per noi, che ci vuole come tempio. Allora ci intima ad allontanare da noi le capre, i buoi, i cambiavalute ed i venditori di colombe. E, se non ne siamo capaci da soli giunge fino a sferzarci portato dal grandissimo Amore che ha per noi, perché:
“Nessuno puo servire a due padroni, o odierà l’uno e amerà l’altro,o preferirà l uno e disprezzerà l altro... Non potete servire a Dio e a mammona. (Matteo 5:24)

Stiamo attenti quindi a non cadere nell’individualismo e nell’intimismo. A volte preghiamo per trovare consolazione, partecipiamo ai pellegrinaggi per nutrire la nostra fede o per chiedere grazie per la nostra vita. Tutto questo va bene, ma non ci si può fermare qui: siamo responsabili gli uni degli altri, siamo chiamati a costruire insieme la Chiesa di Dio, a formare un popolo Santo nel quale ciascuno è indispensabile.

Don Piero e il c.p.p.

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Oh Uomo! conosci te stesso! (Oracolo di delfi)
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14/11/2008 19:32

Chiamati alla pienezza e alla creatività

XXXIII Domenica Tempo Ordinario – Anno A

Domenica 16 novembre 2008

Chiamati alla pienezza e alla creatività


Il Vangelo

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro (...)».


Q uesta parabola è la sintesi delle due forze opposte di cui si nutre ogni vita: l’emozione e la disciplina, il talento e il lavoro. In quale servo mi riconosco? Nei primi due, quelli che lavorano il loro capitale, il loro splendido dono: e vedono il mondo, gli uomini, il tutto come un dono iniziale che progredisce, un giardino incompiuto che deve crescere e fiorire? Oppure mi riconosco nel terzo servo, quello che non fa progredire niente, uomo inutile al futuro? Il cuore segreto delle cose è un appello a crescere; una spirale d’amore crescente è l’energia. Come per il campo arato che non può restituire in estate solo il seme che ha ricevuto, così per noi, tra semina e mietitura, il nostro ruolo è la moltiplicazione. Pena il non senso della vita. Il terzo servo ha un cuore malato, senza desiderio. È un esule della creazione, esiliato e inutile, non a immagine del Dio creatore, che sparge a piene mani i suoi germi di luce e di vita, con magnifica esuberanza. Il terzo servo non crea più: solo conserva. Ma il mondo e il cuore non ci sono dati come cose da conservare, come fragili miracoli che possono rompersi fra le mani, ma devono ascendere gloriosamente verso la pienezza. Non siamo dei conservatori di cose preziose e minacciate, ma dei creatori di opere nuove, servitori della forza lievitante nascosta dentro tutto ciò che vive. Solo così la nostra vita non sarà inutile al divenire comune.
Così è per i primi due servi: nella loro mente non c’è un rendiconto che incombe e turba i sonni, ma una vita che chiede di crescere.
Vocazione nostra è di essere emozionati e disciplinati artefici di creazione; il nostro incarico, il nostro vanto, è di lasciare il mondo un po’ più bello di come l’abbiamo trovato. C’è nel Vangelo tutta una teologia del seme, del lievito, del germoglio, della gemma, di inizi come doni pieni di grazia. A noi tocca il cammino, gli itinerari di emozione e disciplina, l’estate odorosa di frutti.
Dio è la primavera del cosmo: a noi il compito di creare l’estate dei frutti. Il mondo è un giardino incompiuto e incamminato. La parabola è il poema della creatività, senza voli retorici: nessuno dei servi crede di poter salvare il mondo. Tutto invece odora di casa, di viti, di olivi, di lana, di lavoro e di attesa. Il padrone tuttavia non vuole per sé i talenti, essi restano ai servi fedeli.
Anzi li moltiplica: questa spirale d’amore crescente è il nome segreto di tutto ciò che vive.


(Letture: Proverbi 31,1013.19-20.30-31; Salmo 127; 1 Tessalonicesi 5,1-6; Matteo 25,14-30)




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21/11/2008 17:52

Chi tocca i poveri sfiora il cielo di Dio

XXXIV Domenica Tempo Ordinario - Anno A

Cristo Re dell’Universo

Il Vangelo


Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: « Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi » . [...] « In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me » .


Padre che sei nei cieli...
ma il cielo di Dio sono i poveri. E quando la tua mano tocca un povero dalla vita dolente, le tue dita stanno sfiorando il cielo di Dio. Dove entreremo solo se saremo prima entrati nella vita di chi soffre.
Perché Gesù sta nel posto dove noi non vorremmo mai essere, nell’ultimo posto; in coloro che incarnano non i tuoi sogni, ma le tue paure e i tuoi dolori:
Dio naviga in un fiume di lacrime ( Turoldo).
La cosa che mi commuove, delle cose ultime, è che Dio non mi giudicherà scorrendo l’elenco delle mie debolezze, ma quello dei miei gesti di bontà; non indagherà le mie ombre ma annoterà i semi di luce o il polline di bene che ho seminato. Distogli il tuo sguardo dal mio peccato, supplicava Davide nel salmo del pianto. Ed ecco che Dio esaudisce quel grido, nell’ultimo giorno distoglierà il suo sguardo dal male, per sempre lo fisserà sul bene. Sul bene concreto: e l’umiltà della materia è così importante che Dio vi ha legato la salvezza, l’ha legata a un po’ di pane, ad un bicchiere d’acqua, ad un vestito donato, ai passi di una visita. Non alle cose però, ma al cuore detto dalle cose.
Questa è la grandezza della fede evangelica: il tema del supremo confronto tra uomo e Dio non è il peccato ma il bene. Misura dell’uomo, misura di Dio, misura della storia è il bene. Il nostro futuro, cielo e paradiso, è generato dal bene che io, tu, noi abbiamo donato al Lazzaro infinito, al Lazzaro innumerevole della terra. Il giudizio di Dio è l’atto che dice la verità ultima dell’uomo, e per trovarla non guarderà me, ma intorno a me: le mie relazioni, la porzione di poveri e di lacrime e di amori che mi è affidata e che devo custodire con la mia vita. Se c’è qualcosa di eterno in noi, se qualcosa di noi rimane quando non rimane più nulla, questa cosa è solo l’amore.
Dio non ti sorprende in un momento di debolezza, quando non ce la fai a vivere in un modo più nobile e puro, ma è colui che instancabilmente ti sospinge al bene. Che non misura le tue debolezze, ma incalza la tua bontà.
Il povero di cui parla il Vangelo è colui che viaggia ai limiti dell’esistenza. E se lo guardi, ti senti naufragare. Il povero, per la sua fragilità, ti obbliga a confrontarti con le cose estreme, con la vita a rischio, è metafora di fallimento e di morte. Ma è anche maestro di fede perché incarna l’evidenza che tutti noi viviamo solo perché custoditi da altri, che esistiamo solo perché accolti da Qualcuno, impaziente di ripetere: Vieni, benedetto!


(Letture: Ezechiele 34,1112.15- 17; Salmo 22; 1 Corinzi 15,20- 26a. 28; Matteo 25,31- 46)




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27/11/2008 18:38

Avvento, l’attesa che apre all’amore

Il Vangelo

I Domenica di Avvento Anno B

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».



A vvento è il tempo dell’attesa. Il profeta Isaia apre le pagine di questi giorni come un maestro dell’attesa e del desiderio.
Si attende non per una mancanza, ma per una pienezza, una sovrabbondanza. Come fa ogni donna incinta, quando l’attesa non è assenza, ma evento di completezza e di totalità, esperienza amorosa dell’essere uno e dell’essere due al tempo stesso. Il mio avvento è come di donna «in attesa», quando la segreta esultanza del corpo e del cuore deriva da qualcosa che urge e gonfia come un vento misterioso la vela della vita. Attendere con tutto me stesso significa desiderare, «attendere è amare» (Simone Weil). Così io attendo un Signore che già vive e ama in me; ogni persona attende un uomo e un Dio che già sono dentro di lei, ma che hanno sempre da nascere; l’umanità intera porta il Verbo, è gravida di un progetto, custodisce il sogno di tutta la potenzialità dell’umano, l’attesa di mille realizzazioni possibili, porta in sé l’uomo che verrà. Attendere, allora, equivale a vivere. Ma a vivere d’altri. Un doppio rischio incombe su di noi: il «cuore indurito», secondo Isaia ( perché lasci che si indurisca il nostro cuore?), e quella che Gesù chiama «una vita addormentata» ( vegliate, vigilate, state attenti... che non vi trovi addormentati). Qualcuno ha definito la durezza del cuore e la vita addormentata come «il furto dell’anima» nel nostro contesto culturale. Il furto della profondità, dell’attenzione, il vivere senza mistero, il furto del cuore tenero: è un tempo senza pietà, ci siamo negati al suo abbraccio e siamo avvizziti come foglie. Scrive un poeta: Io vivere vorrei / addormentato / entro il dolce / rumore della vita
(Sandro Penna). Io no, voglio vivere vigile a tutto ciò che sale dalla terra o scende, vegliando su tutti gli avventi del mondo: sulle cose che nascono, sulla notte che finisce, sui primi passi della luce, custodendo germogli, e la loro musica interiore.
Vivere attenti è il nome dell’avvento. Vivere attese e attenzioni, due parole che derivano dalla medesima radice: tendere verso qualcosa, il muoversi del corpo e del cuore verso Qualcuno che già muove verso di te. Vivere attenti: agli altri, ai loro silenzi, alle loro lacrime e alla profezia; in ascolto dei minimi movimenti che avvengono nella porzione di realtà in cui vivo, e dei grandi sommovimenti della storia. Attento alla Vita che urge, tante volte tradita, ma ogni volta rinata.


(Letture: Isaia 63, 16b-17.19b; 64, 2-7; Salmo 79; 1 Corinzi 1,3-9; Marco 13, 33-37)




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Ripartire dalla «buona notizia» di Dio

Il Vangelo

Ripartire dalla «buona notizia» di Dio

II Domenica di Avvento Anno B


Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. [...] Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».


Inizio del vangelo di Gesù Cristo. Inizio della buona notizia. A partire da che cosa ricominciare a vivere, a progettare? Da una buona notizia. Non ricominciare mai da pessimismo, non dai problemi, neppure dall'illusorio primato della realtà che sembra dominare nel mondo. Ricominciare da una cattiva notizia è solo intelligenza apparente, priva di sapienza di vangelo. Ricominciare dalle buone notizie di Dio: e subito, fin dalle prime parole, Marco mostra come fare per accorgersene e per accoglierle. Tutta l'esperienza dell'uomo spirituale è riassunta in questi pochi versetti. Il primo passo porta a Isaia e Giovanni e potrebbe definirsi così: cercare profeti. Come Isaia, profeta è uno che «apre strade» anche nel deserto, tracce di speranza anche là dove sembrava impossibile; che non si mimetizza nè si lascia omologare dal pensiero dominante. I profeti creatori di strade e liberi come nessuno: ascoltarli è diventare come loro. La seconda caratteristica di ogni profeta è di essere in attesa, insoddisfatto di ciò che ha, cuore affaticato dal richiamo di cose lontane. Isaia e Giovanni annunciano un Altro (viene uno più grande) hanno il loro centro altrove: in un desiderio, un orizzonte, una persona. Annunciano che la vita non è statica ma estatica, uscire da sé, vivere incamminati. Come un profeta, ogni uomo spirituale è costantemente in viaggio, alla ricerca di ciò che ancora non ha, la sua casa è oltre: allora è pronto per nascite ed inizi. In terzo luogo, profeta è colui che ri-orienta la vita: predicava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Il peccato è l'esperienza di chi non riesce a raggiungere la propria meta ed ha perso la strada. Il perdono è Dio che indica di nuovo il punto di arrivo e fa ripartire, carovana che si rimette in viaggio all'alba, vento per la nave che salpa. Perdono è un nuovo inizio, un nuovo mare, un nuovo giorno. Il peccato perdonato non esiste più, annullato, cancellato, azzerato. Ed è il bene che revoca il male. Il bene vale di più: buona notizia di Gesù Cristo. Il Vangelo è Dio che viene portando amore, e tutto ciò che è non-amore è non-Dio. Dio viene e sa parlare al cuore, e lo insegna ai suoi profeti: parlate al cuore di Gerusalemme, ditele che è finita la notte (Isaia). È «il più forte», dice Giovanni, proprio perché è l'unico che parla al cuore, teneramente e possentemente toccando il centro dell'umano.


(Letture: Isaia 40,1-5.9-11; Salmo 84; 2 Pietro 3,8-14; Marco 1,1-8)



di Ermes Ronchi



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Il Vangelo - III Domenica di Avvento Anno B


Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa». (...).


Venne un uomo mandato da Dio.... per dare testimonianza alla luce. Ecco cos'è un profeta: testimone della luce e non dell'ombra; annunciatore del bene non dello sfascio o del degrado del mondo; sentinella del positivo non dei difetti o dei peccati che assediano ogni epoca e ogni vita; testimone che ogni Adamo ha conservato in sé, sotto la tunica di pelle, una tunica di bellezza che il Messia, nei giorni più veri, riporterà alla vista e alla gioia di tutti. Come Giovanni, io voglio testimoniare un Dio di luce, un Dio solare e felice, che ha fatto risplendere la vita (2 Tm 1,10), ha dato splendore e bellezza all'esistenza, ha immesso e continua a seminare frammenti di sole dentro le vene oscure della storia. Io testimonio non obblighi o divieti, ma il fascino della luce; profeta non della legge ma della grazia, non della verità ma della bontà immensa che penetra l'universo, di un Dio liberatore, che va in cerca dei prigionieri per rimetterli nel sole. Con i miei peccati e le mie ombre, con tutte le cose che sbaglio e non capisco, con la mia fragilità e i miei errori, nonostante tutto, io posso essere testimone che «Dio è luce e in lui non vi sono tenebre» (I Gv 1,5); che il mondo si regge su di un principio di luce, un principio di bene e di bellezza, che è da sempre, più antico, più profondo, più originale del male. C'è una primogenitura della luce, nella Bibbia e nell'uomo: «in principio Dio disse: sia la luce». Il mondo non poggia sul male o sul peccato, non si regge neppure su di un moralismo rigoroso e sterile, ma sulla primogenitura del bene che discende dal cuore di luce di Dio. Tu, chi sei? Chiedono a Giovanni ed egli per tre volte risponde: io non sono. Maschere che cadono: io non sono ciò che gli altri credono di me, io non sono il mio ruolo e nemmeno il mio peccato. Io sono voce, un Altro è la parola; io sono voce, trasparenza di qualcosa che viene da oltre, eco di significati che sono da prima di me, che saranno dopo di me. Giovanni ha trovato la sua identità, ma in un Altro. Solo Dio svela quello che io sono in profondità: il mio segreto è oltre me. La sua venuta non mortifica ma incrementa la mia persona. A Natale Dio entra e l'uomo diventa un «nido di sole» (Turoldo). Venne un uomo mandato da Dio: ognuno è quest'uomo mandato, ognuno voce e sillaba della Parola, testimone che Dio c'è, che Dio è luce. E il tuo cuore ti dirà che tu sei fatto per la luce.



(Letture: Isaia 61,1-2.10-11; Luca 1; 1 Tessalonicesi 5,16-24; Giovanni 1,6-8.19-28)




a cura di Ermes Ronchi



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20/12/2008 17:47

La radice della fede è nella gioia

IV Domenica di Avvento Anno B


In quel tempo, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (...)

Tra pochi giorni è Natale. E ci sentiamo ancora una volta impreparati. La liturgia allora ci prende per mano e ci accompagna, additando colei che meglio ha vissuto l'attesa di Dio: santa Maria. Con lei come modello, di colpo capiamo che cosa è il Natale: non il ricordo di un fatto storico accaduto in quel tempo, ma l'accoglienza di un fatto che avviene ora: l'incarnazione di un Dio che già germina in me. Il Vangelo dell'annunciazione comincia con sette nomi propri (sette è il numero della completezza) di luoghi e persone che affollano la pagina di Luca e mostrano che il venire di Dio coinvolge la totalità della vita. Maria è così importante perché è il punto di incontro tra Dio e la materialità della nostra vita. «L'angelo entrò da lei», nella sua casa: un giorno qualunque, in un luogo qualunque, un annuncio consegnato nell'intimità, nella normalità di una casa. È nella casa che Dio ti sfiora, ti tocca. Lo fa in un giorno di festa, nel tempo delle lacrime, quando dici alle persone che ami parole che si sognano eterne. È così bello pensare che Dio ti sfiora non solo nelle liturgie solenni delle Cattedrali, o in giorni speciali, ma soprattutto nella vita comune! Come nella Messa il sublime confina con una tovaglia, un calice e un pane, così nella casa l'immenso si insinua nelle piccole cose finite di ogni giorno. La prima parola dell'angelo è châire, gioisci, sii felice; non dice: «fai, alzati, inginocchiati, prega»; solo: «gioisci». Il primo Vangelo è lieta notizia e precede qualunque tua risposta. La fede ha radice nella gioia. Il perché della gioia è detto con la parola successiva: «piena di grazia», riempita della vita di Dio, sei amata teneramente, gratuitamente, per sempre. Ecco il nome di Maria: «amata per sempre». Il mio nome. L'angelo aggiunge: Il Signore è con te. In questa mia vita inadeguata il Signore è con me. In questa mia vita distratta e invasa, il Signore è ancora con me. L'angelo fa eco all'antica parola: sono stato con te, dovunque sei andato. Parole di un Dio innamorato, che nessuna creatura potrà mai dirti, per quanto ti ami; nessuno può affermare: sono stato con te, dovunque, sempre. Nessuno sarà con me dovunque io andrò. Nessuno è stato con me in tutti i passi che ho compiuto, che ho perduto, che ho ritrovato, Dio solo. E quando Gesù lascerà i suoi, l'ultima parola sarà eco della prima: Io sarò con voi tutti i giorni, fino al consumarsi del tempo, al compiersi dell'incarnazione.


(Letture: 2 Samuele 7,1-5.8-12.14.16; Salmo 88; Romani 16,25-27; Luca 1,26-38.)




(di Ermes Ronchi)



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27/12/2008 14:37

Rovina, risurrezione, contraddizione
Rovina, risurrezione, contraddizione

28 dicembre 2008

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Anno B)


Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore " come è scritto nella legge del Signore (...). Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio (...) Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (...).


Portarono il bambino a Gerusalemme, per offrirlo al Signore. Il figlio è dato ai genitori e subito è da loro offerto ad un sogno più grande, intrecciato da subito alla sorte di Dio e della città dell'uomo. Per dire che i figli non sono nostri, stanno ad una profondità abissale che non raggiungeremo mai, appartengono alla loro vocazione. Devono realizzare non i nostri desideri, ma il desiderio di Dio. Questa è la prima santità della famiglia: santità è quando nella mia casa mi sento amato e sono capace di amare, dimorando dentro un amore più grande della mia casa, quello di Dio. Allora la vita fiorisce in tutta la sua misteriosa densità e bellezza. Nel tempio il bimbo passa dalle braccia di Maria a quelle di Simeone, in un gesto carico di fiducia. Simbolo grande, invito forte a prendere fra le proprie braccia, con fiducia, la misteriosa presenza di Dio, che si incarna, che abita, che si offre nel volto, nei gesti, nello sguardo di ognuno dei miei cari. Fra le mie braccia, come il santo Simeone, io stringo, stringendo te, la Divina Presenza. Io abbraccio, abbracciando te, le impronte delle dita di Dio su di te. Sfiorando con lo sguardo o la carezza, o ascoltando ogni mio familiare, potrò pregare con la gioia di Simeone: «i miei occhi hanno visto la tua salvezza». Potrò dire ad ognuno dei miei: tu sei salvezza che mi cammina a fianco. Simeone dice tre parole immense: egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti, segno di contraddizione. Rovina, risurrezione, contraddizione. Tre parole che danno respiro alla vita. Vale per me oggi la sua profezia: Sii per me rovina e risurrezione, Signore. Non lasciarmi mai nell'indifferenza, Cristo mia dolce rovina (Turoldo) che rovini il mio mondo di maschere e bugie, che rovini la vita illusa. Contraddicimi, Signore: contraddici i miei pensieri con i tuoi pensieri, questa mia amata mediocrità, le sicurezze del Narciso che è in me, l'immagine falsa che ho di te. Sii mia risurrezione, quando sento che non ce la faccio, quando ho il vuoto dentro e il buio davanti; dopo il fallimento facile, la fedeltà mancata, l'umiliazione bruciante risorgi con le cose che amavo e credevo finite. Anche a te una spada, Maria: non sei esente dal dolore. La fede non produce l'anestesia del vivere. Ma non lascia mai affondare nella banalità. E se la spada sarà contraddizione e sembrerà rovina, verrà comunque, nel terzo giorno, la terza parola di Simeone: egli è risurrezione.


(Letture: Genesi 15,1-6; 21,1-3; Salmo 104; Ebrei 11,8.11-12.17-19; Lc 2,22-40)




di Ermes Ronchi


[Modificato da auroraageno 27/12/2008 15:10]

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03/01/2009 08:59

Amare la vita, far nascere Dio in sé


Il Vangelo

II Domenica dopo Natale

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta. [...] Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.


E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Dopo il Natale di Gesù viene il nostro natale: a quanti l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. Sintesi estrema del Vangelo: per questo è venuto, è stato crocifisso ed è risorto. Ci troviamo proiettati nel centro incandescente di tutto ciò che è accaduto e che avverrà. C'è un potere in noi, non una semplice possibilità, ma di più, una energia, un seme potente: diventare figli di Dio. Il Figlio si fa uomo perché l'uomo si faccia Figlio. Come si diventa figli? In tutte le Sacre Scritture figlio è colui che continua la vita del padre, gli assomiglia, si comporta come Dio: nell'amore offerto, nel pane donato, nel perdono mai negato. Diventare figli è una concretissima strada infinita. Una piccola parola di cui trabocca il Vangelo, ci spiega con semplicità il percorso. La parola è l'avverbio come. Che da solo non vive, che rimanda oltre, che domanda un altro: Siate perfetti come il Padre, siate misericordiosi come il Padre, amatevi come io vi ho amato, in terra come in cielo. Come Cristo, come il Padre, come il cielo. Ed è aperto il più grande orizzonte. Non realizzerai mai te stesso se non provi a realizzare Cristo in te. Io non sono ancora e mai il Cristo, ma io sono questa infinita possibilità (David Maria Turoldo). Più Dio equivale a più io. Più divinità in me significa più umanità. Dio è intensificazione dell'umano. Il Padre genera e comunica vita. Figlio diventi tu quando solleciti negli altri le sorgenti della vita; quando ridesti luce e calore, generi pace e alleanza, ridoni speranza. Dio è amore; come assomigliare all'amore? Nel Vangelo il verbo amare ha sempre a che fare con il verbo dare: non c'è amore più grande che dare la vita. Vita contiene tutto ciò che possiamo mettere sotto questo nome: gioia, libertà, coraggio, perdono, generosità, pane, luce, leggerezza, energia. In lui era la vita e la vita era la luce. Cerchi luce? Ama la vita, prenditene cura, contiene Dio, da Lui contenuta. Amala, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche, e sia sempre più spesso, con il suo sole e le sue rose. E poi vai, amorosamente, là dove la vita chiede aiuto, sentendo in te la ferita di ogni ferita. Ha fatto risplendere la vita, ma i suoi non l'hanno accolto. Io non rifiuto Dio, ma neppure lo accolgo. Questo è il dramma. Rimango a mezza strada, perché so che Dio in me brucia, non mi lascia indenne. Ma se Dio fosse nato anche mille volte a Betlemme, ma non nasce in te, allora è nato invano (sant'Ambrogio).


(Letture: Siracide 24,1-4.8-12; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)




di Ermes Ronchi




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10/01/2009 10:28

Ognuno è il «prediletto» di Dio

Il Vangelo

Battesimo del Signore Anno B

Ognuno è il «prediletto» di Dio


In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall'acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Gesù è il figlio che si fa fratello, che si immerge solidale non tanto nel Giordano, quanto nel fiume dell'umanità, che sempre scorre a rischio sul confine tra deserto e terra promessa, tra fallimento e fecondità della vita. Lo fa perché ogni fratello possa diventare figlio. Il cuore del Vangelo di Marco è in questa parola: «Tu sei mio figlio amato». La lieta notizia è una calda voce di padre che ti chiama figlio. Sostanza di ogni battesimo: ognuno è il figlio prediletto di Dio. Dio preferisce ciascuno. Uscendo dall'acqua vide i cieli aprirsi. Il mondo nuovo si presenta come una apertura del cielo: il cielo si apre, vita ne entra, vita ne esce. Si apre e accoglie, come quando si aprono le braccia agli amici, ai figli, ai poveri, all'amato. Il cielo si apre, sotto l'urgenza dell'amore di Dio, l'impazienza di Adamo, l'assedio dei poveri, e nessuno lo richiuderà più. Si apre e dona. Su ogni figlio scende una colomba simbolo dello Spirito, respiro di Dio. Questa immagine del cielo aperto continua a indicare la nostra vocazione: alzare gli occhi su pensieri altri, su vie alte che sovrastano le nostre vie; sentire che nella nostra vita sono in gioco forze più grandi di noi; che dipendiamo da energie che vengono da altrove, da una fonte fedele e che non viene meno, che alimenta la nostra vita; che non abbiamo in noi la sorgente di ciò che siamo. Con questa fede possiamo anche noi aprire spazi di cielo sereno, da cui si affacci la giustizia per la nostra terra, dono che diventa conquista. Possiamo aprire speranza, abitare la terra con quella parte di cielo che la compone. Allora ti prende come una nostalgia, un desiderio di fare qualcosa che assomigli a ciò che è detto di Gesù: «Passò facendo del bene, guarendo la vita da ogni sorta di male» (At 10); sintesi ultima, essenziale, struggente e bellissima della vicenda di Gesù, ma anche di ognuna delle nostre vite. Passare facendo del bene è il senso del nostro pellegrinaggio sulla terra. Passare fra le cose e le persone senza prendere, solamente amando, donando, perdonando, accendendo, aprendo spazi di cielo sereno. Lo farò ricordando che «Dio non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta» (Is 42) che a Lui basta un po' di fumo, lo lavora, lo circonda di cure e di speranza, «gli alita sopra» (cf Gn 2, 7) fino a che ne sgorghi di nuovo la fiamma. L'uomo non è mai finito per sempre. Ricordando il Dio dell'umile presagio di fuoco, Dio della nostra fragilità, Signore della debole fiamma e della grande speranza!


(Letture: Isaia 55,1-11; da Isaia 12; 1 Giovanni 5,1-9; Marco 1,7-11).




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16/01/2009 19:42

Giovanni disse: ecco l'agnello di Dio

II Domenica Tempo Ordinario-Anno B

Il Vangelo


In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù (...) disse: «Ecco l'agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora (...) disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì " che, tradotto, significa maestro ", dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» " che si traduce Cristo " e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» " che significa Pietro.



Avere gli occhi di Giovanni. Vedere Gesù venire verso di noi. Riuscire a scorgerlo mentre viene sempre più vicino: Dio in cerca di noi, braccia inevitabili. Sentirsi desiderato e cercato, è solo questo che salva le malattie dell'anima. La missione di Gesù è condensata da Giovanni in una frase sola: Ecco l'agnello di Dio. Parole folgoranti che a ogni Eucaristia noi rilanciamo verso i cieli e verso un piccolo pane. Ecco l'agnello, ecco l'animale dei sacrifici, l'ultimo nato del gregge, il sangue versato, il grido innocente che riempie ogni sera il tempio nell'ora dei sacrifici. Ecco l'ultima vittima, immolata perché non ci siano più vittime. L'ultimo ucciso perché nessuno sia più ucciso. Dio non chiede a noi sacrifici, si sacrifica per noi. Non chiede offerte, è invece lui che offre se stesso in olocausto. Ecco l'agnello di Dio: ecco la morte di Dio perché non ci sia più morte. E noi possiamo solo affacciarci, con un senso di vertigine, ai bordi di questo abisso. Come i due discepoli di Giovanni che iniziano a seguire Gesù. Che cosa cercate?: prime parole del Gesù storico, prime parole del Cristo Risorto: Donna, chi cerchi? Domande. La storia del rapporto tra Dio e l'uomo è una storia di domande e di ricerca. Entrambi cercatori: uno d'amore, ed è l'uomo; l'altro d'amore, ed è Dio. Con questa domanda Gesù si rivolge ai nostri desideri profondi, fa appello non all'intelligenza, non alla volontà, non alle emozioni o alle scelte, ma a qualcosa di più vitale e profondo ancora, fa appello al cuore. Cuore incompiuto. Gesù, maestro del desiderio, ti chiede di comprendere te stesso: che cosa ti manca, di che cosa hai fame, quale sete urge. Solo avviando queste risposte, troverai la tua identità, incompiuta e incamminata. Ogni cuore d'uomo porta scritto: più in là! Gesù non chiede innanzitutto sacrifici, rinunce, impegni e sforzi. Ti chiede di entrare dentro te stesso, di conoscere il tuo cuore, di pellegrinare verso il tuo intimo, per capire che cosa ti appaga profondamente, che cosa sazia le profondità della tua vita, e ti dà gioia veramente. Inizio del Vangelo di Gesù. E di ogni cammino spirituale. Dove abiti, Signore? L'esperienza cristiana è esperienza d'incontro, di relazione e poi di fedeltà. Si fermarono fino a sera: anch'io lo incontrerò solo se mi fermerò, se mi prenderò del tempo per l'ascolto del cuore, per l'ascolto di quelle domande che fanno viva finalmente la vita.



(Letture: 1 Samuele 3,3-10.19; Salmo 39; 1 Corinzi 6,13-15.17-20; Giovanni 1,35-42).




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23/01/2009 20:24

L'uomo è fatto per un'altra luce

Terza Domenica Tempo ordinario Anno B

Il Vangelo

L'uomo è fatto per un'altra luce


Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch'essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

Camminando lungo il mare di Galilea, Gesù "vide" In un giorno qualunque, in un luogo qualunque Gesù cammina e guarda. Vede Simone e in lui intravede Cefa, la Roccia. Vede Giovanni, ma nel pescatore indovina il discepolo dalle più belle parole d'amore. Un giorno guarderà l'adultera e in lei vedrà non la peccatrice, ma la donna. Il maestro ha camminato anche in me; mi guarda, e nel mio inverno vede grano che germina, una generosità che non sapevo di avere, intuisce melodie che non ho ancora espresso. Sguardo che rivela, crea, coinvolge: Venite dietro a me. Prima parola che contiene tutte le altre; doppia parola che contiene la strada e il suo perché. I quattro del lago seguono Gesù non perché attratti dalla sua dottrina, ma perché sentono che di lui si possono fidare. Come loro, io ho bisogno di un Dio affidabile. La mia fede si appoggia su una croce, incredibile (idiozia per i greci e follìa per i giudei) ma affidabile, in cui non c'è inganno. Venite dietro a me. Perché? La ragione di tutto è nel pronome personale, dietro a me; il motivo oltre il quale è impossibile risalire è Lui. Affidarsi precede la missione: diventare pescatori di uomini. I quattro sapevano pescare. Ma «pescatori di uomini» è una frase inedita, un po' illogica, nulla di simile nelle Scritture. E significa: vi farò cercatori di uomini, come se foste cercatori di tesori. Mio e vostro tesoro è l'uomo. Voi tirerete fuori gli uomini dall'invisibile, come quando tirate fuori i pesci da sotto la superficie delle acque, come dei neonati dalle acque materne, li porterete dalla vita sommersa alla vita nel sole. La vostra missione è intensificare la vita. Cercateli in quel loro mondo dove credono di vivere e non vivono, che credono vitale e invece è senza ossigeno. Mostrate che l'uomo, pur con la sua pesantezza, è fatto per un'altra respirazione, un'altra luce. I pescatori che sapevano solo le rotte del lago, scoprono dentro di sé la mappa del cielo, del mondo, dell'uomo. Come loro ti seguirò, Signore, perché tu avanzi verso la verità dell'uomo, accrescimento sei d'umano, e rendi sicuro ogni passo, non lasciandoti dietro altro che luce. Ti seguirò, Signore, fammi diventare cercatore del cuore profondo, pescatore di luce sepolta. Ti seguirò, anche percorrendo solo la strada tra il lago e la mia casa, continuando a fare il mio lavoro, ma lo farò in modo luminoso e così umano che forse parlerà di Te. Ti seguirò, perché mi interessa solo un Dio affidabile che faccia fiorire l'umano.


(Letture: Giona 3,1-5.10; Salmo 24; 1 Corinzi 7,29-31; Marco 1,14-20)



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Il «colpo d'ala» dell'amore

Il Vangelo

IV Domenica Tempo ordinario Anno B


In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafàrnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnaménto nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

Che vuoi da noi, Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Non lontano, non fuori, ma dentro, nella sinagoga, nella comunità, anzi nell'intimo di ciascuno, dai nostri oceani interiori, si alza la voce dei nostri dèmoni oscuri. E dice di credere, confessa che Cristo è il Figlio di Dio, ma è l'eco di un cuore impuro. Che vuoi da me? Qui è il primo elemento di una fede ipocrita: io so che Cristo vuole qualcosa da me, che desidera entrare nelle mie parole, nelle mie mani, nei miei occhi, nei miei sentimenti, nel mio andare e nel mio venire, ma io rifiuto la sua pretesa, non voglio conversioni, né brecce aperte nelle mura del mio mondo. Primo errore: fede senza sapore di pane, di vino buono, di lavoro, di carezze, di scelte concrete. Fede di sole parole. Ma io sono credente a una sola condizione: se Cristo mi cambia la vita. Secondo elemento: Sei venuto a rovinarci? Fede con dentro un dèmone è quella che sente Dio come un rivale dell'uomo, un predatore della libertà, e il suo vangelo come un indebolimento dell'umano. E immagina Dio come colui che toglie, non come colui che dona; un Moloch cui si è tenuti a immolare la parte migliore di se stessi. Il credente abitato da uno spirito impuro si sente figlio di una sottrazione anziché di una intensificazione del vivere. Un ulteriore aspetto: l'uomo di Cafarnao frequenta il luogo sacro, recita le benedizioni e lo Shemà Israel, eppure in lui abita un demone. I demoni accettano la fede del sabato, quella limitata al sacro e alle proprie devozioni. Il Dio vero invece è da sorprendere nella vita più che nel tempio, nella polvere della strada che scende da Gerusalemme a Gerico più che nel fumo degli incensi, nelle piaghe del povero Lazzaro più che nei bagliori dell'oro del Santo dei Santi. Sta in tutto ciò che sa di amore. Quelle parole: Sei venuto a rovinarci? contengono però anche una catechesi positiva. Scrive Turoldo: Cristo, mia dolce rovina... Ciò che Cristo rovina è la nostra giustificata, scusata, legittimata convivenza con il male, la nostra mediocrità, il nostro mondo di maschere e di bugie; Cristo rovina la vita illusa, la vita insufficiente, la vita morente. Nel conflitto tra il nostro cuore d'ombra e la nostra parte di luce, Cristo entra come mani e occhi nuovi, come accrescimento d'umano, lievito che solleva l'inerzia, colpo d'ala, respiro che dilata, vento che sospinge, spina che rompe la mia falsa pace e fa fiorire la rosa del mondo.


(Letture: Deuteronomio 18,15-20; Salmo 94; 1 Corinzi 7,32-35; Marco 1,21-28)


di Ermes Ronchi



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Quando l'ascolto «rialza» una vita


Quando l'ascolto «rialza» una vita


V Domenica Tempo ordinario - Anno B

Il Vangelo

Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano [...]. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati [...]. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».


In tre quadri rapidissimi Marco delinea i tratti del volto di Gesù: un uomo che guarisce, prega e annuncia. Nella vita datore di vita; nella notte cercatore di Dio; nel giorno memoria di Dio agli uomini, e memoria degli uomini a Dio. Ricordati, supplica Giobbe, che questa vita è un soffio, un soffio amaro. Davanti a Dio non c'è altro merito che essere piccoli; un alito basta per essere amati. Gesù a Cafarnao è assediato dal soffio del male. C'è un crescendo turbinoso di malattie e demoni, e alla sera la porta della città scoppia di folla e di dolore. E poi di vita ritrovata. Un giorno e una sera per pensare all'uomo, una notte e un'alba per pensare a Dio. E poi la vita si diramerà verso altri villaggi, verso un altrove di dolori e di attese. La suocera di Simone era a letto con la febbre. Miracolo così povero di apparato, così poco vistoso, dove Gesù neppure parla. Ma parlano i suoi gesti. Gli parlarono di lei. Gesù ha un cuore che ascolta, quel cuore da re che Salomone aveva chiesto, incantando il Signore. Primo culto a Dio e all'uomo, primo servizio: l'ascolto. Gesù si avvicinò. Va verso il dolore, non lo evita, nessuna paura, si immerge negli occhi della donna. E la prese per mano. La mano nella mano è forza trasmessa a chi è stanco, fiducia di ogni figlio bambino verso il padre, desiderio di calore. Prende la tua mano chi ha amore, la stringe forte chi ha cuore per te. La rialzò: Gesù eleva la donna, la riconsegna all'andatura eretta, alla statura alta, alla fierezza dell'andare e del fare. Mano di Dio quotidiana, quando un volto, un incontro, una parola, un messaggio, una carezza riaccendono in me la speranza e la strada. E si mise a servire. La guarigione del corpo ha come scopo la guarigione del cuore, il servizio amoroso a ogni vita. La mano che ti solleva riaccende la fretta dell'amore e dice: guarisci altri e guarirà la tua vita. Andiamo altrove. Gesù cerca ancora terre di dolore, cerca le frontiere del male per farle arretrare. Altrove, a sollevare altre vite, alzare creature, stringere mani. È Lui che ha bisogno di guarire la vita, Lui che ama ricordarsi di me, Lui che «deve» andare in cerca delle mie febbri. Poi però sta a me coltivare la vita risorta, nel coraggio del servizio. A volte può bastare molto poco per sollevare una vita: ascoltare, avvicinarsi, prendere la mano. Ed è appoggiando così una fragilità sull'altra che si sostiene il mondo.


(Letture: Giobbe 7,1-4. 6-7; Salmo 146; 1 Corinzi 9,16-19.22-23; Marco 1, 29-39)



di Ermes Ronchi



_________Aurora Ageno___________
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