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IL MESSAGGIO - Parole di luce - Il Vangelo commentato della Domenica

Ultimo Aggiornamento: 16/11/2012 09:41
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13/02/2009 17:18

Il nostro è il Dio della compassione

Il Vangelo

VI Domenica Tempo ordinario Anno B


Il nostro è il Dio della compassione



In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va', invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.


Non ha nome né volto il lebbroso, perché è ogni uomo, voce di ogni creatura. Con tutta la discrezione di cui è capace dice solo: se vuoi, puoi guarirmi. Il suo futuro è appeso ad un "se" seminato nel cuore di Dio. A nome nostro il lebbroso chiede: che cosa vuole Dio per me? Cosa vuole da questa carne sfatta, da questo corpo piagato, da questi anni di dolore? Gli scribi di ogni epoca ripetono che il dolore è punizione per i peccati, o maestro di vita, o imperscrutabile volontà di Dio. Per loro Giobbe è un caso teologico. Ma in quella teologia Dio è assente. La fede del lebbroso invece palpita: Dio è il Dio della compassione o non è! Cosa vuoi per me? Quello che dicono gli scribi o vuoi guarirmi? La svolta del racconto non è contenuta in una riflessione, ma in un verbo che indica l'essere preso allo stomaco, dice di una mano che ti stringe le viscere: provò compassione. Per i sacerdoti il lebbroso è un caso, per Gesù è una lama nella carne. Per gli scribi è un teorema, per lui è un fremito, che muove e genera gesti, che fa quasi violenza alla mano, la fa stendere, la fa toccare. La mano parla prima della voce, le dita sono più eloquenti delle parole: Gesù rompe i tabù, toccare il lebbroso è diventare impuro per la legge. Ma per lui l'uomo è sempre puro e vale più della legge. Una carezza più della legge. È l'eloquenza di toccare il male tremendo: da troppo tempo nessuno toccava più il lebbroso, per paura, per ribrezzo, per obbedienza alla legge. E la sua carne moriva di solitudine, il suo cuore moriva di assenze. La guarigione comincia quando qualcuno si avvicina e mi tocca con amore, mi parla da vicino, non ha paura, patisce con me. Il dolore non domanda spiegazioni, vuole partecipazione. Sentirsi toccati è una delle esperienze più belle e vitali. Chi sa toccarti davvero, chi sa sfiorare il tuo intimo di luce o di piaga, questi solo lascia tracce di vita, è il tuo guaritore. La parola, una voce per esistere dentro il vuoto, viene dopo: lo voglio, guarisci! Eternamente Dio vuole figli guariti. A me, a Lazzaro, alla figlia di Giairo, alla suocera di Simone ripete: lo voglio, alzati, guarisci. Dio è guarigione. Dal male di vivere. Non ne conosco tutti i modi concreti, ma so per certo che non accadrà moltiplicando interventi miracolosi. Non conosco i tempi, ma so che egli rinnoverà battito su battito il cuore, stella su stella la notte. Con la compassione, con un gesto, con una voce " che toccano " una carezza " l'abisso del dolore.


(Letture: Levitico 13,1-2.45-46; Salmo 31; 1 Corinzi 10,31-11,1; Marco1,40-45).



di don Ermes Ronchi



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20/02/2009 16:09

La vera fede si fa carico degli altri

VII Domenica Tempo ordinario Anno A

La vera fede si fa carico degli altri

Il Vangelo


Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola. Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico. Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati». Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?». (...)


L'hanno sollevato quattro amici; sulle loro spalle gli pareva di volare, lui che neppure camminava; per le strade, poi in alto sul tetto, poi giù nella stanza: nella forza della loro amicizia aveva ritrovato le sue ali infrante. Gesù, veduta la loro fede, disse: i tuoi peccati ti sono rimessi. Veduta la loro fede, non quella del paralitico, ma quella di coloro che lo portano, che scavalcano la folla, inventano una strada che non c'è, danneggiano una casa d'altri, pieni dell'incoscienza e della forza di chi ama e ha fiducia. Perdonato per la fede d'altri. Questa comunione di fede, questa catena di fiducia solleva e dà coraggio. Una fede che non si fa carico d'altri non è vera fede, insegnano i quattro sconosciuti portatori dell'uomo. Essere come loro, con questo peso d'umano sul cuore e sulle mani: Chiesa che non proclama verità astratte sopra il dolore delle persone, ma le solleva; che porta il peso e il rischio della loro speranza, invece di ribadire concetti. Ti sono rimessi i peccati. L'uomo è rimasto senza parole, forse deluso: ma non è questo il mio problema. Dammi le mie gambe! Tutto qui è un gioco di simboli: il perdono e la guarigione del paralitico, il peccato allontanato e il lettuccio sollevato come un fuscello, non sono due fatti in successione, ma un unico evento. Il peccato è raccontato come una paralisi, un fallimento che ti blocca, uno sbaglio che ti pesa addosso. Il perdono è detto con un verbo di moto che annuncia partenze, il salpare della nave, l'avviarsi della carovana, che porta scritto "più in là". Strano perdono: che non è domandato; ma è la carne immobile che domanda cammini, estasi, sentieri nel sole; non c'è accusa dei peccati, ma la supplica silenziosa contro un peso che aderisce a te e ti paralizza; non c'è espiazione della colpa, non penitenza, ma prendere su il lettuccio, quella prigione odiata, e andarsene libero nel sole; non c'è merito alcuno, solo saper accogliere il dono; nessuna condizione, solo la gioia di chi ritrova la strada della vita. E questo scandalizza i benpensanti di sempre. Se basta così poco per essere perdonati, se il perdono è dato gratuitamente, sempre, allora come si fa a ritenere importanti le regole? Ma le regole non sono un debito da pagare a Dio, sono ciò che permette all'uomo di camminare verso la pienezza; via della vita per muovere verso il proprio fine; ritrovarle è ritrovare una vita verticale e una strada nel sole, la strada di Dio.


(Letture: Isaia 43,18-19.21-22.24-25; Salmo 40; 2 Corinzi 1,18-22; Marco 2,1-12)



don Ermes Ronchi




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In cammino sull'abisso dell'amore

Domenica di Quaresima- Anno B

Il Vangelo

In cammino sull'abisso dell'amore


In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Lo Spirito lo sospinse nel deserto. E vi rimase quaranta giorni tentato da Satana.


Può apparire strano che sia lo Spirito a spingere Gesù verso la prova, eppure il Vangelo è chiaro: Gesù è sospinto dallo Spirito in un pellegrinaggio verso il luogo del cuore, là dove tutto si decide, verso la scelta. Perché ogni tentazione è sempre una scelta tra due amori. Il comandamento base di tutta la legge biblica dice: ho posto davanti a te la vita e la morte, scegli! Scegli la vita. Dio è un imperativo di libertà, intensificazione di vita. Sceglierlo è salvarsi. Stava con le fiere e con gli angeli. È il luogo dell'uomo il quale, dice Pascal, «non è né angelo né bestia, e quando vuole fare l'angelo diventa bestia». L'uomo è come una corda tesa tra i due, un ponte, un cammino sul ciglio di due abissi. Ma il credente sa, dentro il suo cuore, in quale mare naufragare, quello della luce di Dio. Gesù predicava il Vangelo di Dio e diceva: il tempo è compiuto, e il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete nel Vangelo. Sono quattro gli annunci di Gesù: " È finita l'attesa. Finito il ciclo dei giorni sempre uguali. Finito il tempo della fame, fame di senso e fame di Parola, ora si apre il tempo del Verbo come pane in tutti i solchi della vita. Con me vivrai solo inizi. " Il regno è vicino. Il regno di Dio è il riassunto delle nostre speranze, la nuova architettura del mondo e dei rapporti umani. Ed è possibile per grazia, perché Dio stesso si è fatto vicino in Gesù. Dio è vicino a te, con amore. " Convertitevi... Noi percepiamo questo verbo come una ingiunzione, mentre in realtà porge un invito, una preghiera, offre una risorsa: «Cambia strada, io ti indico la via per le sorgenti, per un Dio luminoso, una nuova "ragione" per orientarti nel mondo». " Credete al Vangelo: riprova l'emozione di dare ascolto vero a queste parole. È un annuncio buono per tutti, non per i «buoni» ma per me, per te, per l'uomo sfigurato che pesa forse sulla tua memoria. E sento la pressante dolcezza di questa preghiera: riparti da una buona notizia, Dio è qui e guarisce la vita. La buona notizia che Gesù annuncia è l'amore. Credi; vale a dire: fidati dell'amore, abbi fiducia nell'amore in tutte le sue forme, come forma della storia, come forma del vivere, come forma di Dio. Non fidarti di altre cose, non della forza, dell'intelligenza, del denaro, ma fondati sull'amore. I cristiani altro non sono che coloro che hanno creduto all'amore (1 Gv 4,16).



(Letture: Genesi 9,8-15; Salmo 24; 1 Pietro 3,18-22; Marco 1,12-15)


don Ermes Ronchi



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06/03/2009 14:50

La «via lucis» che nasce dall'ascolto

II Domenica di Quaresima Anno B

Il Vangelo

La «via lucis» che nasce dall'ascolto


In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati (...).


Dalla domenica del deserto al Vangelo della luce. La nostra vocazione altro non è che la fatica tenace e gioiosa di liberare tutta la luce e la bellezza seminate in noi: verità dell'uomo è una luce custodita in un guscio di fragile argilla. Sul monte il volto di Gesù brilla di un contenuto che lo travolge, di una energia che non si ferma al volto, neppure al corpo intero, ma tracima verso l'esterno e cattura la materia degli abiti: Le sue vesti divennero bianche come nessun lavandaio sarebbe capace. Se la veste è luminosa sopra ogni possibilità umana, quale sarà la bellezza del corpo? E se così è il corpo, come sarà il cuore? Allora Pietro, stordito e sedotto da ciò che vede, balbetta: è bello per noi stare qui. Stare qui, davanti a questa bellezza, perché qui siamo di casa, altrove siamo sempre stranieri. Altrove non è bello, e possiamo solo camminare non sostare, qui è la nostra identità: abitare anche noi una luce. È bello stare qui: il nostro cuore è a casa soltanto accanto al tuo, Signore. Sul Tabor il corpo di Gesù trasfigurato racconta Dio. Tutto ciò che Gesù ha detto è vero perché il suo corpo splende, anticipo del Regno: Regno di luce e di tenerezza perché il suo Corpo è luce e tenerezza; Regno di bellezza e di grazia perché il suo Corpo è bellezza e grazia; Regno di incontri che lega insieme in un nodo di stupore le sei presenze sul monte. Ma come tante cose belle, la visione non fu che un attimo. «Una nube li coprì e venne una voce: Ascoltate Lui». Il Padre prende la parola ma per scomparire dietro la parola del Figlio. Il mistero di Dio è ormai tutto dentro Gesù. Con Mosè, dal volto intriso di luce, con Elia, rapito su un carro di fuoco e di luce, tutta la bibbia converge su Cristo. Sali sul monte per vedere e sei rimandato all'ascolto. Scendi dal monte e ti rimane nella memoria l'eco dell'ultima parola: Ascoltate Lui. La nostra via lucis è l'ascolto. Quella luce, «la luce della trasfigurazione che è l'energia stessa di Dio» (G. Palamas) è ancora disponibile: nella Parola, nei sacramenti, nella bontà delle persone, nella bellezza delle cose, talvolta scintilla breve talvolta fiume di fuoco. Il mondo è intriso di luce, lo sanno tutte le religioni, lo sanno gli innamorati, gli artisti, i puri. Ma ora io so che «alle sorgenti della bellezza, della pace e dell'energia di quelle falde di fuoco presenti nel cosmo, è posto Gesù di Nazaret» (O. Clèment), fiamma delle cose, cuore di luce dentro ogni creatura.


(Letture: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18; Salmo 115; Romani 8,31-34; Marco 9,2-10).



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Gesù porta l'uomo sulla via del cuore

III Domenica di Quaresima Anno B

Gesù porta l'uomo sulla via del cuore

Il Vangelo

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (...)


Probabilmente già un'ora dopo i mercanti, recuperate le loro bestie, avevano ripreso possesso delle loro postazioni. Il denaro scorreva di nuovo di mano in mano, necessario e benedetto: «è per la devozione dei pellegrini, è per le elemosine»! Eppure il gesto di Gesù non è rimasto senza effetto. Quell'evento è ancora rivelativo dell'autentica fede evangelica. È profezia che si rivolge ancora oggi agli abili custodi dei templi, e li invita a credere più nei progetti dove sono coinvolte persone, che in quelli dove è coinvolto denaro. Ma che interpella ciascuno, tentato di instaurare con Dio la legge del mercato, di rinnovare in sé l'eterno errore di pensare che Dio, la salvezza, la croce si possano meritare. Dio non si merita, si accoglie. La croce di Cristo è immeritato eccesso, divina follia, gratuità assoluta. Il capovolgimento portato da Gesù è un Dio che non chiede più sacrifici, ma che sacrifica se stesso per noi, prende su di sé il male e lo porta fuori dal mondo, fuori dal cuore, lo inchioda sulla croce. Quando i Giudei gli chiedono di giustificare il suo gesto, Gesù porta gli uditori su di un altro piano: Distruggete questo tempio e io lo riedificherò. Non per una sfida a colpi di miracolo, ma per una alternativa: tutt'altro è il tempio di Dio. Gesù instaura la religione dell'interiorità, porta l'uomo sulla via del cuore, va fino in fondo alla linea della persona, e non a quella dell'istituzione o delle cose. Non è questione di templi, come aveva pensato la Samaritana, non è questione di luoghi (dove si adora? A Gerusalemme o sul monte Garizim?), ma di spirito e verità. Di autenticità, di cuore. Nel Vangelo vediamo Gesù frequentare talvolta il tempio, ma molto più spesso la vita, case, campi, lago, villaggi e polvere, tanta polvere delle strade di Palestina. Gesù insegna che Dio ci raggiunge nella vita di tutti i giorni, suo tempio fragile e bellissimo e infinito. Se potessimo imparare a camminare nella vita, nella vita interiore e in quella degli altri, con venerazione; a camminare nel cosmo facendo di ogni passo un pellegrinaggio sacro! L'ultima parola del Vangelo oggi dice: «Egli infatti sapeva quello che c'è in ogni uomo». O Dio, che conosci cosa c'è di ansie, di paura, di forza, di tenebra nel cuore dell'uomo, tu che ci hai fatti così, ricordati che siamo deboli e cadiamo facilmente, ma ricordaci anche che siamo tuo tempio, che in noi c'è il bene più forte del male, c'è il bene più antico del male, e l'amore di domani.


(Letture: Esodo 20,1-17; Salmo 18; 1 Corinzi 1,22-25; Giovanni 2,13-25).


don Ermes Ronchi




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20/03/2009 12:28

Amati da Dio: è il mistero della vita
IV Domenica di Quaresima Anno B

Amati da Dio: è il mistero della vita


Il Vangelo

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. [...] Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Dio ha tanto amato. Parola dove la mia fede prende anima e respiro: nucleo incandescente della storia, sguardo sull'abisso di Dio. Ha tanto amato il mondo: terra amata è la nostra, amate sono le creature di fango e di perla, e ogni passo è penetrare più a fondo dentro l'amore, che «alle spalle mi urta, di fronte mi circonda e su di me pone la mano» (Salmo 139). Tra i due termini, Dio e mondo, che tutto dice lontanissimi, incomunicabili, estranei, il Vangelo indica un punto di incontro. Tra Dio e mondo ciò che stabilisce il contatto è l'amore. Da allora, se non c'è amore, nessuna cattedra, nessun sacerdozio, nessun profeta potrà mai dire Dio. Dio ha tanto amato. «Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama» (Paul Xardel). La salvezza è che Lui mi ama, non che io lo amo. Allora l'unica eresia è l'indifferenza " il contrario dell'amore " che sventa anche le trame più forti della storia di Dio. Ha tanto amato da dare il suo figlio, considerando ogni uomo più importante di se stesso. Se ti domandi che cosa significa amare, la risposta del Vangelo è tutta in quell'umile verbo: dare. Il Padre dà il figlio. Il figlio dà la vita. Dacci oggi, preghiamo, il pane che ci fa vivere. L'amore ti fa, nella vita, datore di vita. Non è venuto per condannare; anzi, sì: la croce è «il giudizio del giudizio» (Massimo il Confessore), è condannare la condanna, allontanare la lontananza. L'amore non conosce altro castigo che castigare se stesso. Ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce. Da dove viene questo dramma del preferire la notte? Da dove il tremendo fascino del nulla? E so di poter dire, con l'eco che hanno le cose grandi: i tuoi figli, Signore, non sono cattivi; si ingannano facilmente, preferiscono le tenebre perché l'angelo della notte si maschera da angelo della luce e li inganna. Promette felicità e libertà, e li seduce. E che sono inganni \ lo so, e tutti e due sappiamo \ che non potrò \ non ingannarmi ancora (Turoldo). Guardo a Nicodemo, l'anti eroe, che scivola da Gesù furtivo tra le ombre della sera. E vedo che Gesù non lo giudica, non lo condanna, è paziente con le sue lentezze, e rispettando la sua paura lo renderà fedele fino alla fine, coraggioso al punto di esporsi nel momento più tragico della storia al Calvario. Non sono un eroe, Signore, ma oggi mi basta, per mettermi in cammino, sentirmi amato, con la mia verità di ombre e di paure.

(Letture: 2 Cronache 36,14-16.19-23; Salmo 136; Efesini 2,4-10; Giovanni 3,14-21)



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[Modificato da auroraageno 21/03/2009 08:54]

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Dal nulla il frutto di una vita nuova

Il Vangelo

V Domenica di Quaresima Anno B

Dal nulla il frutto di una vita nuova


In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c'erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore [...]. Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!» [...].

Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto. Il centro della frase non è il morire, ma il molto frutto. Lo sguardo del Signore è sulla fecondità, non sul sacrificio. Vivere è dare vita. Non dare, è già morire. Tuo è solo ciò che hai donato. Come accade per l'amore: è tuo solo se è per qualcuno. Un chicco di grano, il quasi niente: io non ho cose importanti da dare, ma Lui prende questo quasi niente e lo salva, ne ricava molto frutto. Sarò un chicco di grano, lontano dal clamore e dal rumore, caduto nel silenzio, seminato giorno per giorno, senza smania di visibilità e di grandezza, nella terra buona della mia famiglia, nella terra arida del mio lavoro, nella terra amara dei giorni delle lacrime. Chicco di grano che prendi in mano e sembra una cosa morta, una cosa dura e spenta, mentre è un nodo di vita, dove pulsano germogli. Così è ogni uomo: un quasi niente che però contiene invisibili e impensate energie, un cuore pronto a gemmare di pane e di abbracci. Chi vuole lavorare con me, mi segua. Seguire Cristo, unico modo per vederlo. Per rispondere alla richiesta che interpella ogni discepolo: vogliamo vedere Gesù. L'unica visione che ci è concessa è la sequela. Come Mosè che vede Dio solo di spalle, mentre passa ed è già oltre, così noi vediamo Gesù solo camminando dietro a lui, rinnovando le sue opere, collaborando al suo compito: portare molto frutto. Gesù, uomo esemplare, non propone una dottrina, realizza il disegno creatore del Padre: restaurare la pienezza, la gloria dell'umano. Gloria dell'uomo è il molto frutto di vita, gioia, libertà. Gloria di Dio è una terra che fiorisce, l'uomo che mette gemme di luce e di amore. L'anima mia è turbata, Padre salvami. Mi possono togliere tutto il Vangelo, ma non i turbamenti di Gesù, il suo amore inerme e lucido, il suo amore inerme e virile insieme. Mi danno tanta forza come per uno trovare un tesoro. Perché mi dicono che ha avuto paura come un coraggioso, che ha amato la vita con tutte le sue fibre; che non è andato alla morte col sorriso sulle labbra, ma con un atto di fede. Poiché è uomo di carne e di paure, e ama a tal punto, in lui splende la gloria del Padre e la gloria dell'uomo. Innalzato, attirerò tutti a me. Alto sui campi della morte, Gesù è amore fatto visibile. Alto sui campi della vita, è amore che seduce. E mi attira, dolce e implacabile, verso la mia casa, verso la mia gloria, verso il molto frutto.

(Letture: Geremia 31,31-34; Salmo 50; Ebrei 5,7-9; Giovanni 12,20-33)


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Quella morte che rivela il cuore di Dio

Il Vangelo

Domenica delle Palme " Anno B

Quella morte che rivela il cuore di Dio

(...) Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!».

Ecco l'uomo! Appare al balcone dell'universo il volto di Gesù intriso di sangue. Il dolore sotto cui vacilla è il dolore di tutti gli uomini: molte volte ho visto il volto di Dio cosparso di sangue lungo le strade della vita sempre uguale, nei sentieri indifesi della storia dell'uomo, e non ho saputo avvicinarmi. Ecco il Figlio di Dio! Ciò che appare non è lo splendore dell'eterno, ma il patire di un Dio appassionato. «Dio prima patì e poi si incarnò. Patì vedendo la condizione dell'uomo. Patì perché l'amore è passione. Caritas est passio» (Origene). «Amare significa patire e appassionarsi. E chi ama di più si prepari a patire di più» (sant'Agostino). Lo vedo in Cristo, come le donne al Calvario, che stavano ad osservare da lontano. Gesù non ha avuto nemici tra le donne, solo fra loro non aveva nemici. Le donne, ultimo nucleo fedele, sono con Gesù, non possono staccare gli occhi da lui, si immergono in lui. Primo nucleo di Chiesa, guardano Gesù con lo stesso sguardo di passione con cui Dio guarda l'uomo. La Chiesa nasce, oggi come allora, dalla contemplazione del volto del crocifisso. «A fare il cristiano non sono i riti religiosi, ma il partecipare alla sofferenza di Dio» (Dietrich Bonhoffer). Veramente quest'uomo era Figlio di Dio! Quando la Parola di Dio è diventata grido, poi è diventata muta, ecco la prima parola di un uomo, un soldato esperto di morte. Che cosa ha visto nell'agonia di un morente da fargli pronunciare il primo atto di fede cristiano? L'esperto di morte in quella morte ha visto Dio. L'ha visto nella morte, non nella risurrezione. Morire così è cosa da Dio, rivelazione del cuore di Dio. Scendi dalla croce, gridavano. Ma se scende non è Dio, è ancora la logica umana che vince, quella del più forte. Solo un Dio non scende dal legno. Si consegna alla Notte, si abbandona all'Altro per gli altri, e passa dall'abbandono di Dio («perché mi hai abbandonato?») all'abbandono a Dio («nelle tue mani...»), rappresentandoci tutti nei nostri abbandoni, nelle desolazioni, nelle notti. Io so che non capirò mai la croce, l'uomo non regge questo amore, è troppo limpido, ma Cristo non è venuto perché lo comprendessimo, ma perché ci aggrappassimo alla sua croce, lasciandoci semplicemente sollevare da lui. La fede è abbandonarsi all'abbandonato amore. Ogni grido, ogni abbandono, può sembrare una sconfitta. Ma se è affidato al Padre, ha il potere, senza che noi lo sappiamo, di far tremare la pietra di ogni nostro sepolcro.

(Letture: Isaia 50,4-7; Salmo 21; Filippesi 2,6-11; Marco 14,1-15,47).


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Chi ha conosciuto l'amore crederà

Il Vangelo

Pasqua di risurrezione del Signore

Chi ha conosciuto l'amore crederà

Maria di Màgdala [...] vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava [...]. Pietro allora uscì insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario " che era stato sul suo capo " non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Pasqua è il tema più arduo e più bello di tutta la Bibbia. Arduo perché va contro ogni evidenza e ogni logica, bello perché la vita si riaccende di vita, se credo. Pasqua non porta solo la «salvezza», che è il tirarci fuori dalla perdizione, dalle acque che ci minacciano, ma la «redenzione», che è molto di più, che è trasformare la debolezza in forza, la maledizione in benedizione, la croce in gloria, il tradimento di Pietro in atto di fede, il mio difetto in energia nuova, la fuga in una corsa trepida. Maria corse da Simone e dall'altro discepolo, che Gesù amava... correvano insieme Pietro e Giovanni. Perché tutti corrono nel mattino di Pasqua? Che bisogno c'era di correre? Tutto ciò che riguarda Gesù non sopporta mediocrità, merita la fretta dell'amore: l'amore ha sempre fretta, chi ama è sempre in ritardo sulla fame di abbracci. Corrono, sospinti da un cuore in tumulto, perché hanno ansia di luce, e la vita ha fretta di rotolare via i macigni dall'imboccatura del cuore. L'altro discepolo, quello che Gesù amava, corse più veloce. Giovanni arriva prima di Pietro, arriva per primo a capire il significato della risurrezione, e a credere in essa. L'amato ha «intelletto d'amore» (Dante), l'intelligenza del cuore. Un detto medievale afferma: i sapienti camminano, i giusti corrono, solo gli innamorati volano. Chi ama o è amato capisce di più, capisce prima, capisce più a fondo. Vide i teli posati là. Giovanni entrò, vide e credette. Anche di Pietro è detto che vide, ma non che credette. Giovanni crede perché i segni sono eloquenti solo per il cuore che sa leggerli. Giovanni ha il cuore pronto a bruciare la distanza tra Gerusalemme e il giardino, tra i segni e il loro significato, tra i teli posati là e il corpo assente. È pronto perché amato: «ti vedrò nell'amore avuto e dato./ Ma se altro è il tuo cielo,/ non ti vedrò Signore» (C.Cremonesi). Il primo segno di Pasqua è il sepolcro vuoto, il corpo assente. Nella storia umana manca un corpo per chiudere in pareggio il conto degli uccisi. Manca un corpo alla contabilità della morte, i suoi conti sono in perdita. Manca un corpo al bilancio della violenza, il suo bilancio è in deficit. Pasqua solleva la nostra terra, questo pianeta di tombe, verso un mondo nuovo, dove il male non vince, dove il carnefice non ha ragione della sua vittima in eterno, dove le piaghe della vita possono distillare guarigione. Pasqua: «Il buon profumo di Cristo è odore di vita per la vita» (2 Cor 2,16).

(Letture: Atti degli Apostoli 10,34a.37-43; Salmo 117; Colossesi 3,1-4; Giovanni 20, 1-9)


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Arrendersi all'amore come Tommaso

Il Vangelo

II Domenica di Pasqua -Anno B

Arrendersi all'amore come Tommaso


La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore (...).Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso (...)

Aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei, certo, ma anche e soprattutto paura di se stessi, della propria viltà, di come si erano comportati nella notte del tradimento. Eppure Gesù viene, nonostante il loro cuore inaffidabile e il mio cuore lento: venne Gesù e stette in mezzo a loro. La fede non è nata dal ricordo di Gesù. Il ricordo, per quanto vivo, non basta a rendere viva una persona, al massimo può far nascere una scuola. La Chiesa è nata da una presenza, non da una rievocazione. Stette in mezzo a loro: Gesù si fa presenza. Dentro una comunità che per otto giorni contiene e porta anche l'incredulità di uno dei suoi membri migliori. Tommaso non crede, eppure non se ne va, rimane lì con il gruppo, che a sua volta non lo esclude: comunità, luogo della fede. Così tu quando è debole la tua fede, non sentirti escluso, resta qui, altri ti porteranno, altri saranno testimoni e memoria viva, paziente di segni e di pace, per te. Mi conforta pensare che, se trova chiuso, Gesù non se ne va; se tardo ad aprire «otto giorni dopo» è ancora lì, rispettoso perfino delle nostre paure: venne Gesù ancora a porte chiuse... e disse a Tommaso... Gesù viene, attento ai dubbi dei suoi amici, così come il mattino di Pasqua alle lacrime di Maria. Viene, e non per essere acclamato, ma per andare in cerca proprio dell'agnello smarrito nel piccolo gregge degli undici. Lascia gli altri dieci al sicuro e si avvicina a colui che dubita: metti qua il tuo dito, tendi la tua mano. A Tommaso basta questo gesto: colui che si mette nelle tue mani, voce che non giudica ma incoraggia, corpo offerto ai dubbi e alle paure dei suoi amici, è Gesù, non ti puoi sbagliare. E lo stesso fa anche con me, nei giorni del dubbio, quando credere è solo desiderio di credere: si propone di nuovo. Tommaso si arrende, non si dice che abbia toccato; si arrende all'amore che ha scritto il suo racconto sul corpo di Gesù con l'alfabeto delle ferite, indelebili come l'amore di Dio. E passa dall'incredulità all'estasi: «Mio Signore e mio Dio». Voglio custodire in me questo aggettivo come una riserva di coraggio per la mia fede: Mio Signore! Piccola parola che cambia tutto, che non evoca il Dio dei libri, il Dio degli altri, ma il Dio intrecciato con la mia vita, assenza e poi più ardente presenza. Tommaso, come l'amata del Cantico dice: «Il mio amato è per me e io sono per Lui». Mio perché è parte di me. Mio come lo è il cuore e, senza, non sarei. Mio come lo è il respiro e, senza, non vivrei.

(Letture: Atti 4,32-35; Salmo 117; 1 Giovanni 5,1-6; Giovanni 20,19-31).


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Un Dio che si fa vita quotidiana

Il Vangelo

Un Dio che si fa vita quotidiana

III Domenica di Pasqua Anno B


Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro [...].

«Non sono un fantasma». Il lamento di Gesù giunge fino a me: chi sono io per te? Qualche idea vaga, la proiezione di un bisogno, un'emozione, un sogno troppo bello per essere vero? Per aiutare la mia fede pronuncia allora i verbi più semplici e più familiari: «Guardate, toccate, mangiamo insieme!». Si fa umile e concreto, ci chiede di arrenderci a un vangelo concreto, di mani, di pane, di bicchieri d'acqua, di briciole; a un Dio che ha deciso di farsi carne e ossa, carezza e sudore, un Dio capace di piangere. Il primo gesto del Signore è, sempre, una offerta di comunione: «toccatemi, guardate». Ma dove oggi toccare il Signore? Forse lo tocco quando Lui mi tocca: con il bruciore del cuore, con una gioia eccessiva, con una gioia umilissima, con le piaghe della terra, con il dolore o la carezza di una creatura. La gente è il corpo di Dio, lì lo posso toccare. «Avete qualcosa da mangiare?». Mangiare è il segno della vita; farlo insieme è il segno più eloquente di un legame rifatto, di una comunione ritrovata, il gesto quotidiano della vita che va e continua. Lui è l'amico che dà sapore al pane. E mi assicura che la mia salvezza non sta nei miei digiuni per lui, ma nel suo mangiare con me pane e sogni; la sua vicinanza è un contagio di vita. Lo conoscevano bene Gesù, dopo tre anni di strade, di olivi, di pesci, di villaggi, di occhi negli occhi, eppure ora non lo riconoscono. Perché la Risurrezione non è semplicemente ritornare alla vita di prima: è trasformazione. Gesù è lo stesso ed è diverso, è il medesimo ed è trasformato, è quello di prima ed è altro. «Aprì loro la mente per comprendere le Scritture». E il respiro stretto del cuore entra nel respiro largo del cielo, se ti fai mendicante affamato di senso, se leggi con passione e intelligenza la Parola. Perché finora abbiamo capito solo ciò che ci faceva comodo. Siamo stati capaci di conciliare il Vangelo con tutto: con la logica della guerra, con l'idolo dell'economia, con gli istinti. «Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono». Il perdono è la certezza che nulla e nessuno è definitivamente perduto, è il trionfo della vita, riaccensione del cuore spento, offerta mai revocata e irrevocabile di comunione. Cristo non è un fantasma, è vestito di umanità, è sangue vivo dei giorni, è il sangue della primavera del mondo. Ha braccia anche per me, per toccare e farsi toccare; capace, tornando, di rendere la mia speranza amore.

(Letture: Atti degli Apostoli 3,13-15.17-19; Salmo 4; 1 Giovanni 2,1-5a; Luca 24,35-48)


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Il segreto della vita consiste nel dare

Il Vangelo

IV Domenica di Pasqua Anno B

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario " che non è pastore e al quale le pecore non appartengono " vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Con la formula solenne delle rivelazioni, Gesù afferma: Io sono il buon pastore. Per farci capire cosa intende per «buono», per cinque volte ripete il verbo offrire. Ciò che il pastore offre è la vita, è questo il filo rosso dell'intera opera di Dio. L'Opus Dei, il grande lavoro di Dio, è offrire vita. E non so immaginare migliore avventura: io sono vaso che accoglie vita, anfora che si esercita a ricevere più vita. Io sono il pastore bello, dice letteralmente il testo greco, e la bellezza del pastore, il suo fascino stanno in questo slancio vitale inarrestabile, nella gioia di vedere la vita fiorire in tutte le sue forme. Io do la vita: offrire la vita non significa per prima cosa morire, perché se il pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince. Dare la vita qui è inteso nel senso primo, come hanno compreso gli apostoli: della vite che dà linfa al tralcio (Giovanni); dell'ulivo innestato che trasmette potenza buona al ramo selvatico (Paolo); di uno che essendo l'autore della vita (Pietro), l'ha inventata ma soprattutto la scrive, in questo momento, sillaba per sillaba, sulle tavole di carne che sono io. Linfa divina che ci fa vivere, che respira in ogni mio respiro, nostro pane che ci fa quotidianamente dipendenti dal cielo. Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani. Le mani di Dio: mani di pastore contro i lupi, mani impigliate nel folto della vita, mani che proteggono la fiammella smorta, mani sugli occhi del cieco, mani che scrivono nella polvere e non scagliano pietre, mai, mani trafitte offerte a Tommaso. Da quelle mani nessuno mi rapirà mai, mani di pastore, il solo che per i cieli mi fa camminare (Turoldo). Il Vangelo si chiude con una frase solenne: questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio. Non un comando ma il comando, quello che ti fa pastore bello e fa bella la tua vita: il comando di offrire, donare. Dare la vita è innanzitutto offrire il segreto della vita. Questo ho imparato da Gesù, che la vita è dono, che il segreto della vita è dare, che l'asse della storia è il dono, che ogni uomo per stare bene deve dare. Ma perché per stare bene ogni uomo deve dare? Perché questa è la legge della vita. Perché così fa Dio. Se non dai vita attorno a te, entri nella malattia. Se non dai amore, un'ombra invecchia il cuore. La felicità di questa nostra vita ha a che fare con il dono. E con il diventare pastori buoni, belli, di un piccolo, minimo gregge affidato alle nostre cure.

(Letture: At 4,8-12; Sal 117; 1 Gv 3,1-2; Gv 10,11-18)


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Una linfa d'amore che porta la vita

Il Vangelo

Una linfa d'amore che porta la vita

V Domenica di Pasqua Anno B

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Avevamo sempre pensato che Dio fosse il buon padrone del campo, il contadino operoso e fiducioso. Ma ora Gesù afferma qualcosa di assolutamente nuovo: «Io sono la vite, voi i tralci». In Cristo il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore si è fatto seme, il vasaio argilla, il Creatore creatura. Dio è in me, non come padrone ma come linfa vitale. Dio è in me, non come voce che impone ma come il segreto della vita. Dio è in me, come radice delle mie radici, perché io sia intriso di Dio. Tra poco cominceranno a profumare i fiori della vite, i più piccoli tra i fiori. All'inizio della primavera, il vignaiolo attende che la linfa, salita misteriosamente lungo il tronco, si affacci alla ferita del tralcio potato, come una goccia, come una lacrima. All'apparire di quella lacrima sui tralci, mio padre diceva: è la vite che va in amore! Se la stessa linfa scorre in Cristo vite e in me tralcio, allora anche la mia vita porterà, attraverso vene d'amore, frutti buoni. C'è una linfa che sale dalla radice del mondo, ad un misterioso segnale della terra e del sole, e in alto apre la corteccia che sembrava secca e morta e la incide di fiori e di foglie. E per un miracolo, che neppure arriva più a stupirci, trasforma il calore del sole in profumo e il buio della terra in colore. Quella linfa, quella goccia d'amore, che tante volte ho visto tremare sulla punta del tralcio, è umile immagine di Dio, dice che un amore percorre il mondo, sale lungo i ceppi di tutte le vigne, di tutte le vite. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. Viene da prima di me e va oltre me. Viene da Dio, e dice a questo piccolo tralcio: «Ho bisogno di te per una vendemmia di sole e di miele». Ho bisogno di te, anche di un grappolo solo, perché senza i vostri tralci la vite è sterile. Parole centrale oggi: «rimanete in me», noi siamo già in Dio, Dio è già in noi, siamo percorsi da Lui, non c'è da cercarlo lontano, è qui, è dentro, scorre nelle vene dell'essere. E poi «portare frutto», il nome nuovo della morale evangelica non è sacrificio ma fecondità, non ubbidienza ma espansione, non rinuncia ma centuplo. Non di penitenze c'è bisogno, ma di frutti con dentro un buon sapore di vita, a dissetare l'arsura delle cose. Nessun albero consuma i propri frutti, nessuna vite; essi sono portati, sono offerti per la gioia e l'alimento delle altre creature. Questa è la perfezione: maturare e dimenticarsi nel dono.

(Letture: Atti degli Apostoli 9,26-31; 1 Giovanni 3,18-24; Giovanni 15,1-8)


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15/05/2009 12:34

La misura dell'amore è dare senza limiti

Il Vangelo

La misura dell'amore è dare senza limiti

VI Domenica di Pasqua Anno B

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

La liturgia propone una di quelle pagine in cui pare custodita l'essenza del cristianesimo. Tutto ha inizio da un fatto: tu sei amato (...così io ho amato voi); ne deriva una conseguenza: ogni essere vivente respira non soltanto aria, ma amore; se questo respiro cessa, non vive. Tutto procede un traguardo, dolce e amico: questo vi dico perché la gioia vostra sia piena. L'amore ha ali di fuoco (sant'Ambrogio) che incidono di gioia il cuore. La gioia è un attimo immenso, un sintomo grande: il tuo è un cammino buono. Gesù indica le condizioni per stare dentro l'amore: osservate i miei comandamenti. Che non sono il decalogo, ma prima ancora il modo di agire di Dio, colui che libera e fonda alleanze, che pianta la sua tenda in mezzo al nostro accampamento. Resto nell'amore se faccio le cose che Dio fa. Il brano è tutto un alternarsi di misura umana e di misura divina nell'amore. Gesù non dice semplicemente: amate. Non basta amare, potrebbe essere solo mero opportunismo, dipendenza oscura o necessità storica, perché se non ci amiamo ci distruggiamo. Non dice neanche: amate gli altri con la misura con cui amate voi stessi. Conosco gli sbandamenti del cuore, i testacoda della volontà, io non sono misura a nessuno. Dice invece: amatevi come io vi ho amato. E diventa Dio la misura dell'amore. Ma poi ecco che è Lui ad assumere un nostro modo di amare, l'amicizia, lui a vestirsi di una misura umana (voi siete miei amici). L'amicizia è un mettersi alla pari, dentro il gruppo e non al di sopra, dice uguaglianza e gioia. L'amicizia è umanissimo strumento di rivelazione: tutto ho fatto conoscere a voi: il tutto di una vita non si impara da lezioni o da comandi, ma solo per comunione ed empatia d'amico. E poi di nuovo la misura assoluta dell'amore, dentro un verbo brevissimo, che spiega tutto: dare. Nel Vangelo il verbo amare è sempre tradotto con il verbo dare (non c'è amore più grande che dare la vita); non già sentire o emozionarsi, ma dare; quasi un affare di mani, di pane, di acqua, di veste, di tempo donato, di porte varcate, di strade condivise. Dare la vita, cioè tutto, perché l'unica misura dell'amore è amare senza misura. Amore che non protegge, ma espone; amore che ti assedia ed è a sua volta assediato, come lampada nel buio, come agnello tra i lupi. Minacciato amore, sottile come il respiro, possente come le grandi acque, da me custodito e che mi custodisce, materia di cui è fatto Dio e respiro dell'uomo.

(Letture: Atti 10, 25-27. 34-35. 44-48; Salmo 97; 1 Giovanni 4, 7-10; Giovanni 15, 9-17)


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22/05/2009 13:49

Un'assenza che è ardente presenza

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Ascensione del Signore Anno B

Un'assenza che è ardente presenza

In quel tempo, Gesù apparve agli Undici e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.


Tre anni di predicazione, di libertà e di conflitti sembrano chiudersi con un bilancio fallimentare: undici uomini impauriti che stanno a fissare il cielo. Undici uomini che non hanno capito molto del Vangelo, se nell'ultimo incontro domandano: «È adesso che rifondiamo il regno di Israele?». Lui parlava del Regno di Dio, loro capivano il regno di Israele. E invece di restare con loro, di spiegare ancora, di accompagnarli ancora, Gesù se ne va! Con un atto di enorme fiducia negli uomini «Ce la farete» dice. Fra sangue e miracoli, fra veleni e fatiche, tra parole inascoltate e parole potenti. Io ce la farò, io salverò un pezzetto di Dio in me, lo aiuterò a incarnarsi ancora in queste strade. Cristo se ne va con un atto di fede nell'uomo. Ma Cristo non se ne è andato se non dai nostri sguardi. Egli è il Vicino-lontano, come scrive la mistica Margherita Porete, remoto e prossimo, oltre il cielo e dentro tutte le cose, oltre ogni forma e più intimo a me di me stesso. La sua assenza è diventata una più ardente presenza. Noi restiamo nella storia a fidarci di un corpo assente, a fidarci di una Voce! Io sto con la Voce, continuo a starci, perché la senti cantare dentro, la senti riaccenderti e farti cuore. Cristo non è andato in alto, è andato avanti, assente e meno assente che mai. Cristo non si è spostato di luogo, è andato oltre. Il Vangelo, a sorpresa, oggi parla più degli apostoli che di Gesù. Di una missione che ricevono, e io con loro: «Annunciate». Niente altro. Non dice: organizzate, occupate i posti chiave, emanate leggi, ma semplicemente: «Annunciate». Che cosa? Il Vangelo. Non le mie idee più belle, non la soluzione di tutti i problemi, non una politica o una teologia migliori: solo il Vangelo, la storia di Cristo. E mi sembra persino facile, quando lo amo e lo respiro! L'ultimo versetto chiude il Vangelo di Marco e al contempo apre il mio: «Il Signore operava insieme con loro». Il verbo greco suona così: «Il Signore era la loro energia». Cristo, il Vicino-lontano, forza del cuore, sinergia degli amori. Una famosa preghiera dice: «Cristo non ha mani se non le nostre mani; non ha piedi se non i nostri piedi». Vorrei capovolgere questa preghiera e dire: Sono io che non ho mani se non sono le mani di Cristo. Io che non ho voce, non ho parole, non desideri o sogni veri, se non sono quelli venuti dal Vangelo. Non ho un mio amore se non è sinergia con l'amore di Dio.

(Letture: Atti degli Apostoli 1,1-11; Salmo 46; Efesini 4,1-13; Marco 16,15-20)


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29/05/2009 13:37

Nati dal «respiro di Dio», mandati a costruire fraternità

Il Vangelo

Nati dal «respiro di Dio», mandati a costruire fraternità

Domenica di Pentecoste Anno B

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

La Bibbia è un libro pieno di strade e di vento, come Pentecoste: vento impetuoso e respiro leggero, strade che convergono e ripartono. «Gesù venne a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro» e con un gesto inusuale mai registrato prima «alitò» su di loro. Soffiò il suo respiro su ciascuno e su tutti: «Ricevete lo Spirito Santo». Lo Spirito è il respiro di Dio, è ciò che fa vivere Dio. Ricevetelo, come all'origine lo ha ricevuto Adamo, alito di vita nelle sue narici, e divenne un essere vivente. Nella Bibbia la parola più legata a Spirito Santo è "nascita", con tutto il suo corteo di manifestazioni: creazione, vita, trasformazione. Lo Spirito presiede alle nascite, il suo lavoro è la vita. Nicodemo a Gesù: «Come è possibile rinascere?». Gesù risponde con una delle parole più alte per la nostra vita spirituale: «Chiunque è nato dallo Spirito è Spirito». Adamo che nasce dal soffio di Dio è soffio di Dio, io " pur con tutte le mie inconsistenze " sono respiro di Dio. E questo è così vero che in san Paolo non si riesce quasi mai a capire fino a che punto la parola spirito si riferisca alla terza Persona della Trinità, o al modo di vivere di Cristo, o a quello dell'uomo che intreccia il suo respiro con quello di Dio. Non di confusione si tratta, ma di comunione! L'umanità dell'uomo, la sua diversità radicale rispetto a tutte le altre creature, ciò che fa sì che noi non siamo il primate evoluto che eravamo, non si spiega a partire dalla nostra appartenenza al mondo animale, ma soltanto a partire dal mondo di Dio. L'uomo è uomo per il respiro di Dio in lui. Io non sono un semplice affinamento della catena animale ma diversità che viene dalla divinità. Essere umani ed essere respiro di Dio è la stessa cosa. L'umanità dell'uomo è la divinità in lui. Lo specifico dell'umano è il divino in noi. «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi». A compiere l'identica missione: di un Figlio venuto perché tutti gli uomini si scoprano figli e vivano da fratelli; di un crocifisso amore che toglie il peccato del mondo: «Vi do il potere di togliere i peccati». Gesù conferisce all'uomo spirituale un potere anteriore a tutti i riti della penitenza, più profondo di tutte le formule di assoluzione. Se vivi il progetto di Cristo anche tu togli il male, purifichi, liberi, fai avanzare; anche tu strada e vento, come lo Spirito, per le vele del mondo.

(Letture: Atti 2,1-11; Salmo 103; Galati 5,16-25; Giovanni 15,26-27; 16,12-15.)


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05/06/2009 13:33

Trinità: storia d'amore, scuola di vita

Il Vangelo

Trinità: storia d'amore, scuola di vita

Santissima Trinità Anno B

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Della Trinità il Vangelo non offre formule o concetti, ma un racconto: sul monte Gesù si avvicinò a loro... Ancora non è stanco di avvicinarsi, di venire incontro, di impegnarsi in una amata vicinanza. Neanche Dio può stare solo. «Alcuni, però, dubitavano». Eppure il dubbio non arresta l'azione del Signore. Nella fede c'è tanta luce quanta serve per credere e tanta oscurità quanto basta per dubitare. E questo fin dal principio. Il Signore non convoca le migliori intelligenze del tempo ma undici pescatori che sanno di non sapere, che si sentono piccoli ma abbracciati dal mistero. Piccoli e abbracciati, come un bambino forte della forza che lo stringe; custodi del mistero, pur senza capirlo tutto, perché immersi dentro un respiro, un soffio, un vento in cui naviga l'intero creato. Non sono loro che portano l'annuncio, è l'annuncio che porta loro. Una promessa di felicità «Battezzate nel nome del Padre»: cuore che pulsa nel cuore del mondo, sorgente dell'essere; «e del Figlio» nella fragilità di un Dio che si è fatto carne, lievito, seme, grido; «e dello Spirito» che presiede ad ogni nascita e ad ogni ricominciamento. La Trinità ha nomi che abbracciano e fanno vivere. La sua vita non è estranea né alla fragilità né alla bellezza della carne, non al dolore né alla felicità dell'uomo. «Battezzate ogni creatura». Battezzare significa immergere: immergete ogni vita dentro l'oceano di Dio, e sia sommersa, e sia sollevata dalla sua onda mite e possente! Fate entrare ogni vita nella vita di Dio. Questo e non altro è il compito della Chiesa, il senso del suo esserci: introdurre gli uomini nella vita divina, che vibra di comunione. Sono le ultime parole di Cristo, il suo testamento, il cuore della fede. Immersione felice assicura Mosè: «Tutto questo è detto perché siate felici voi e i vostri figli!». Il battesimo ci è dato a protezione di una lunga felicità. Immersione esigente, per Paolo, nella Croce che è amore fino alla fine, dono estremo. «Insegnate a osservare tutto ciò che vi ho comandato». E che cosa è questo tutto? Gesù stesso lo riassume in una parola: «Amatevi». Missione della Trinità e degli Undici, i piccoli abbracciati: insegnate ad amare come si insegna un'arte che si conosce bene, come si insegna una strada dell'anima che si è percorsa davvero. Insegnate ad essere felici dice Mosè. Insegnate a donare, dice Paolo. Che i vostri figli imparino ad amare! Non c'è bisogno d'altro per affacciarsi sull'orlo del mistero.

(Letture: Deuteronomio 4,32-34.39-40; Salmo 32; Romani 8,14-17; Matteo 28,16-20)

don Ermes Ronchi


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La legge suprema dell'esistenza è il dono di se stessi

Il Vangelo

La legge suprema dell'esistenza è il dono di se stessi

Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo Anno B

Il primo giorno degli Àzzimi (...) mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Le letture bibliche di oggi sono attraversate, come un filo rosso, da una parola che riassume il senso della festa del Corpo e sangue del Signore: «alleanza», legame, nodo che unisce ciò che era disperso, comunione. Ad ogni Eucaristia, ad ogni comunione, per un istante almeno, mi affaccio sull'enormità di ciò che mi sta accadendo: Dio che mi cerca. Dio in cammino verso di me. Dio che è arrivato. Che assedia i dubbi del cuore. Che entra. Che trova casa. Dio in me. Neanche Dio può stare solo. Faccio la Comunione, sono colmo di Dio, ogni volta fatico a trovare parole, finisco per dedicargli il silenzio. E quello che mi pare incredibile è che Dio faccia un patto di sangue proprio con me, che io gli vada bene così come sono, un intreccio di ombre e di paure. Non ho doni da offrire, sono solo un uomo con la sua storia accidentata, che ha bisogno di cure, con molti deserti e qualche oasi. Ma io non devo fare altro che accoglierlo, dire «sì» alla comunione, che è il suo progetto, il suo lavoro dall'eternità. «Ecco il mio corpo», ha detto, e non, come ci saremmo aspettati: «ecco la mia mente, la mia volontà, la mia divinità, ecco il meglio di me», ma semplicemente, poveramente, il corpo. Il sublime dentro il dimesso, lo splendore dentro l'argilla, il forte dentro il debole. Il Signore non ci ha portato solo la salvezza, ma la redenzione, che è molto di più. Salvezza è tirar fuori qualcuno dalle acque che lo sommergono, redenzione è trasformare la debolezza in forza, la maledizione in benedizione, il tradimento di Pietro in atto d'amore, il pianto in danza, la veste di lutto in abito di gioia, la carne in casa di Dio. Nel suo corpo Gesù ci dà tutto ciò che unisce una persona alle altre: parola, sguardo, gesto, ascolto, cuore. Nel suo corpo ci dà tutta una storia: mangiatoia, strade, lago, il peso e il duro della croce, sepolcro vuoto; ci dà Dio che si fa uomo in ogni uomo. Quando Gesù ci dà il suo Sangue, ci dà fedeltà fino all'estremo, il rosso della passione, il centro che pulsa fino ai margini, vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo e perenne della sua vita, che nel nostro cuore metta radici il suo coraggio, e quel miracolo che è il dono di sé. Neppure il suo corpo ha tenuto per sé, neppure il suo sangue ha conservato: legge suprema dell'esistenza è il dono di sé, unico modo perché la storia sia, e sia amica. Norma di vita è dedicare la vita. Così va il mondo di Dio.

(Letture: Esodo 24,3-8; Salmo 115; Ebrei 9, 11-15; Marco 14, 12-16. 22-26)


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Un granello di luce nel buio della paura

Il Vangelo

XII Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

Un granello di luce nel buio della paura


In quel giorno, [...] ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Gesù se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». E il vento cessò [...].

La barca sta per affondare e Gesù dorme. Il mondo geme con le vene aperte, lotta contro la malattia e la disperazione e Dio dorme. L'angoscia lo contesta: Non ti importa niente di noi? Perché dormi? Svegliati! I Salmi traboccano di questo grido, lo urla Giobbe, lo ripetono gli apostoli nella paura. Poche cose sono bibliche come questa lite con Dio, che nasce dalla passione per la vita, dall'arroganza di un amore che non accetta di finire. Perché avete così tanta paura? C'è tanto da attraversare, tanta paura motivata. Ma troppo spesso la religione si è ridotta a una gestione della paura. Dio non vuole entrare in questo gioco. Egli non è estraneo e non dorme, sta nel riflesso più profondo delle tue lacrime. Sta nelle braccia dei marinai forti sui remi, sta nella presa sicura del timoniere, nelle mani che svuotano l'acqua, negli occhi che scrutano la riva, che forzano il venire dell'aurora. Dio è presente, ma non come vorrei io, bensì come vuole lui: è sulla mia barca e vuole salvarmi, ma insieme a tutta la mia libertà. Non interviene al posto mio ma insieme a me; non mi esenta dalla tempesta ma mi precede, come il pastore nella valle oscura. È la nostra fede bambina che ha bisogno più di miracoli che non di presenza. Vorrei che non sorgessero mai tempeste e invece la morte è allevata dentro di noi con il nostro stesso respiro e sangue. Vorrei che il Signore gridasse subito all'uragano: Taci, che rimproverasse subito le onde: Calmatevi, e che alla mia angoscia ripetesse: È finita. Vorrei essere esentato dalla lotta, e invece Dio risponde dandomi forza, tanta forza quanta ne basta per il primo colpo di remo, tanta luce quanta ne serve al primo passo. Come granello di senape nel buio della terra, così Dio è nel cuore oscuro della tempesta. Come chicco di grano nel buio della terra, come un granello di fiducia, di forza, di luce, così Dio germoglia e cresce nel cuore dell'ombra. Non ti importa che moriamo? La risposta è senza parole ma ha la voce forte dei gesti: Mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro. Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore. E sono qui a farmi argine e confine alla tua paura. Mi troverai dentro di essa, nel riflesso più profondo delle tue lacrime.

(Letture: Giobbe 38,1.8-11; Salmo 106; 2 Corinzi 5,14-17; Marco 4,35-41)

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La speranza, virtù da svegliare ogni giorno

Il Vangelo

La speranza, virtù da svegliare ogni giorno

XIII domenica Tempo ordinario Anno B

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male (...)

Il Vangelo racconta di due donne guarite, una potenza che esce da Gesù, una mano che ti prende per mano. Per riportare nel mondo la speranza promessa dalla prima lettura: le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c'è veleno di morte (Sap 1, 13-15). Nel breve tragitto tra la sponda del lago e la casa di Giàiro è come se Gesù fosse ancora sulla barca in balìa della burrasca, assediato da una folla che porta il veleno della malattia e della morte. Dalla tempesta sul lago alla tempesta della vita: la gente che preme, il vento della disperazione, le onde della sofferenza. Il cuore, sorretto dalla parola di Dio, dice vita, l'esperienza risponde morte. Eppure nelle creature del mondo c'è salvezza: germoglio che deve ancora fiorire, seme da cui germoglierà l'albero grande. Riprendiamo a sillabare lo stupore dell'esistenza: tu, mio familiare, mio amico; tu, fratello sconosciuto, tu porti salvezza. Dio ti ha fatto buono e sano, senza radice di veleno: tu doni salute all'anima. Davanti a te Dio ha gridato: «Come sei bello, figlio mio!». «Figlia mia» dirà Gesù alla donna guarita, con una parola dolcissima. Adesso sì sei figlia, ora sì guarita e libera, ora che il cuore impaurito di felicità ode Dio che ti chiama per specchiarsi nei tuoi occhi. Ora a tua volta darai salute. Il racconto per due volte parla di fede. Quella della donna è quasi superstizione, quella di Giàiro è fede sopraffatta d'amore per la figlia. Forse poca cosa, eppure a Dio basta. E noi dovremmo, come Gesù, godere di ogni segno minimo di fede, di ogni appartenenza parziale, essere amici della fede a frammenti di ogni creatura. Fragile fede, che per questo ha ancora più bisogno di Lui. Ciascuno di noi è quella fanciulla di dodici anni nella casa del pianto. Ciascuno ha qualcosa di morto dentro, per ciascuno Gesù ripete: «Talità kum!», giovane vita, alzati! Riprendi la gioia, la lotta, la scoperta, l'amore. La fanciulla che dorme è la speranza, virtù bambina che occorre svegliare ogni giorno, farla alzare, rimettere in cammino. Gesù dice: «Àlzati», verbo di ogni nostro mattino, quando ogni giorno è come il giorno di Pasqua. Là dove l'uomo si è fermato, Dio fa ripartire, ridà bellezza a ciò che è appassito, verticalità a ciò che è stanco. Su ogni creatura, su ogni fiore, su ogni uomo scende la benedizione delle antiche parole: tu sei portatore di salvezza! «Talità kum»: alzati, rivivi, risplendi!

(Letture: Sapienza 1,13-15; 2,23-24; Salmo 29; 2 Corinzi 8,7.9.13-15; Marco 5,21-43)


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03/07/2009 09:05

Gesù profeta «straniero» in patria

Il Vangelo

Gesù profeta «straniero» in patria

XIV Domenica Tempo ordinario - Anno B

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.

Gesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando. Molti ascoltandolo rimanevano stupiti. La prima bella caratteristica del Gesù storico: non lascia indifferente nessun ascoltatore, dove lui passa fiorisce lo stupore. E molte domande: Marco ne registra cinque " il numero classico degli interrogativi in serie di cui trabocca la Bibbia ". Da dove gli vengono queste cose? Da dove questo amore straniero alla terra, queste parole aliene che qui sono in esilio? Il profeta è straniero in patria perché le sue parole vengono da un mondo altro. Allora si apre il conflitto tra Nazaret e questo "altrove", tra il quotidiano e l'oltre. A Nazaret tutto dice: hai qui il tuo clan, una madre, fratelli e sorelle; questo è il mondo, non ce n'è un altro. Hai un lavoro, la sinagoga e il Libro, questo basta a dare senso alla vita. Cosa vai cercando con il cuore fra le nuvole? E invece il giovane rabbi spiazzava figli e genitori, lavoratori e contabili: amate i vostri nemici; lascia i morti seppellire i loro morti, tu vieni e seguimi; felici i poveri, sono i principi del Regno; guardate i fiori del campo e non preoccupatevi; guai a voi farisei che imponete agli altri pesi che non toccate con un dito; se non diventerete come bambini... Come gli abitanti di Nazaret, anche noi siamo una generazione che ha sprecato i suoi profeti, ha dissipato i suoi uomini di Dio. Come loro livelliamo tutto verso il basso: è solo un falegname, è il fratello di Ioses, lo conosco bene, conosco i suoi difetti uno per uno. Di un uomo cogliamo solo la linea d'ombra, e così ci precludiamo lo splendore di epifania del quotidiano, l'eterno che si insinua nell'istante e nella creatura. Salviamo almeno lo stupore! Il brano si chiude con la sorpresa di Gesù, la meraviglia dolente dell'amante respinto che però continua ad amare, a inventare gesti, anche minimi, per dire che di noi non è stanco. E lì non poteva compiere nessun prodigio, dice Marco; ma subito si corregge: Solo impose le mani a pochi malati e li guarì. L'amore respinto continua ad amare, il Dio rifiutato si fa ancora guarigione. L'amore non è stanco, è solo stupito; ma non nutre rancori. Già lo aveva capito Ezechiele, profeta di profezie respinte: ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che un profeta è in mezzo a loro. Dio ha deciso di farsi compagnia del suo popolo, ha deciso di essere nel quotidiano di ciascuno, oggi come in esilio e un giorno, forse già domani, come stupore, seme di fuoco in mezzo al cuore.

(Letture: Ezechiele 2,2-5; Salmo 122; 2 Corinzi 12,7-10; Marco 6,1-6)


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La condivisione arricchisce la fede

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La condivisione arricchisce la fede

XV Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient'altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Partono i discepoli a due a due. Nient'altro che un bastone a sorreggere il cammino, e un amico a sorreggere il cuore. Un bastone per appoggiarvi la stanchezza e un amico per appoggiarvi la solitudine. È importante questo andare a due a due, avere uno su cui contare, nelle cui parole cercare l'evidenza che esisti, che sei amato, che sei capace di relazioni positive. Se è solo, l'uomo è portato a dubitare perfino di sé stesso. La fede si arricchisce se la condividi. Infatti l'annuncio è fatto a due voci e la prima parola è questo legame, questo germe nuovo di comunione. «Non arriveremo / alla meta ad uno ad uno, / ma a due a due. / Se ci ameremo a due a due / ci ameremo tutti. / E i figli rideranno / della leggenda nera / dove l'uomo piangeva / in solitudine» (P. Eluard). Non portate nulla per il viaggio. Perché tutto ciò che non serve, pesa; perché ogni possesso ti separa dall'altro. Perché l'uomo non è fra le cose. Perché vivrai dipendente dal cielo e dagli altri, di pane condiviso e di fiducia. Perché l'abbondanza di mezzi non spenga la tua creatività e la fiducia nella potenza della Parola. L'annunciatore deve essere così: infinitamente piccolo, solo allora l'annuncio sarà infinitamente grande. Tutto in noi domanda la vicinanza di un amico. Niente in noi postula questa nudità di croce, Vangelo che consola e poi sgomenta: non portate nulla. Come Gesù, povero di tutto, ma non di amici; senza un luogo dove posare il capo, ma non senza case amiche dove confortare il cuore. Entrati in una casa lì rimanete. Il punto di arrivo è la casa, non la sinagoga o il tempio. Nella casa, dove è naturale la sincerità del cuore, lì Dio ti sfiora, ti tocca. Lo fa in un giorno di festa, quando dici a chi ami parole stupefatte e che si vorrebbero eterne. Lo fa in un giorno di lacrime, quando l'amarezza soffoca la speranza. Il cristianesimo deve essere significativo lì, nella casa, nei giorni della festa e in quelli del dramma, nei figli prodighi, quando Caino si alza di nuovo, quando l'amore sembra finito e ci si separa, quando l'anziano perde il senno o la salute. Là dove la vita celebra la sua festa e piange le sue lacrime, scende come pane e come sale, sta come roccia la Parola di Dio. L'annuncio è fatto di poche parole e di molto stile di vita. Per farsi credere il Vangelo ha bisogno ancora oggi di un anticipo di corpo, di un capitale di incarnazione: è lo stile dei testimoni e dei martiri, una Parola scritta su tavole di carne.

(Letture: Amos 7,12-15; Salmo 84; Efesini 1,3-14; Marco 6,7-13)


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17/07/2009 10:17

La compassione «tesoro» da salvare

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La compassione «tesoro» da salvare

XVI Domenica Tempo ordinario Anno B

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

I discepoli, partiti a due a due, tornano carichi d'umanità toccata, d'umanità guarita. Attorno a loro si addensa comunione, al punto che la folla era così numerosa che non avevano neanche più il tempo per mangiare. Aggregano molti e questo può essere esaltante; il successo può apparire loro come la benedizione di Dio sulla missione. Invece Gesù, vero maestro dello spirito, vede più lontano, il successo non lo esalta, l'insuccesso non lo deprime: queste cose non sono altro che la superficie mobile delle onde e non la corrente profonda degli eventi. E allora li riporta all'essenziale: Venite in disparte, con me, in un luogo solitario, e riposatevi un po'. Israele è pieno di drammi, di vedove di Naim che piangono l'unico figlio morto, di lebbrosi che gridano al cielo la loro disperazione, di adultere colte in flagrante e di pietre pronte alla lapidazione. Il mondo è un immenso dramma, e Gesù, invece di ributtare i suoi, subito, dentro i campi sterminati della missione che urge, li conduce nel deserto. Quasi a perdere tempo. Il luogo solitario è per parlare al cuore (cfr Osea 2). In questo tempo in disparte, il Signore concede ciò che ha veramente promesso, ciò che è più necessario: concede se stesso. E trasmette il segreto del Regno e della vita. La vera terra promessa non è un luogo geografico ma un tempo con il Signore, per dare respiro alla pace, per dare ali al cuore, per essere riempiti della sua Presenza, per innamorarsi di nuovo. Ne scelse Dodici, scrive Marco, perché «stessero con Lui». Stare con lui è il primo lavoro di ogni inviato. Solo dopo, dopo aver accolto la sua persona prima ancora che il suo messaggio, solo dopo quel contagio di luce, li manderà a predicare. Sbarcando, vide molta folla ed ebbe compassione di loro. Gesù è preso in un dilemma fra la stanchezza degli amici e lo smarrimento della folla. Partito con un programma importante, ora è pronto a cambiarlo. Partiti per restare soli e riposare, i Dodici imparano ad essere a disposizione dell'uomo, sempre. A non appartenere a se stessi, ma al dolore e all'ansia di luce della terra. La prima cosa che i discepoli imparano da Gesù è quella di semplicemente, divinamente commuoversi. Il tesoro che porteranno con sé dalla riva del lago è il ricordo dello sguardo di Gesù che si commuove. Lo stesso tesoro che i cristiani devono salvare oggi: il miracolo della compassione.

(Letture: Geremia 23,1-6; Salmo 22; Efesini 2,13-18; Marco 6,30-34)


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24/07/2009 14:09

È la condivisione il vero miracolo

È la condivisione il vero miracolo

Il Vangelo
XVII Domenica - Anno B Tempo ordinario

Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». (...) Gli disse uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci». Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano (...). Il miracolo del pane è l'unico presente in tutti e quattro i Vangeli.

Marco e Matteo ne riportano addirittura due redazioni. Si tratta, evidentemente, di un evento decisivo per comprendere la vicenda e il messaggio di Gesù. Il miracolo del pane racconta qualcosa di molto più grande e bello che non la semplice moltiplicazione di cinque pani e due pesci. Più che un miracolo è un segno, fessura di mistero. Il racconto è pieno di simboli bellissimi: è ormai primavera, tempo di Pasqua; c'è il monte grande simbolo della casa di Dio; c'è molta erba che richiama i pascoli, e il Salmo del buon pastore; ci sono i numeri: cinque pani e due pesci formano il sette, simbolo della pienezza; c'è il pane d'orzo, pane di primizia perché l'orzo è il primo dei cereali che matura, primo pane nuovo; e c'è un ragazzo, neppure un uomo adulto, una primizia d'uomo. Un Vangelo pieno d'inizi, pieno di gemme che fioriscono per grazia. Modello del discepolo oggi è un ragazzo senza nome e senza volto, che dona ciò che ha per vivere, che con la sua generosità innesca la spirale della condivisione, vero miracolo. Il problema del nostro mondo non è la penuria di pane, ma la povertà di quel lievito che incalza e spinge a condividere, a diventare sacramenti di comunione. «Al mondo, il cristiano non fornisce pane, fornisce lievito» (Miguel de Unamuno). E ci sono anche i dodici canestri di pezzi avanzati, uno per ogni tribù, segno di abbondanza dalla quale nessuno è escluso; parola sulle cose: non devono andare perdute perché sono sacre, una santità è iscritta perfino nella materia, perfino nelle briciole del pane. Prese i pani, rese grazie e li distribuì: tre verbi che ci ricollegano subito a ogni Eucaristia. E mentre lo distribuiva, il pane non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano, restava in ogni mano. Il Vangelo neppure parla di moltiplicazione ma di distribuzione. «Credo sia più facile moltiplicare il pane, che non distribuirlo. C'è tanto di quel pane sulla terra che a condividerlo basterebbe per tutti» (David Maria Turoldo). Gesù rifiuta di essere fatto re ma non rifiuta l'acclamazione a profeta. La profezia gli si addice: è bocca di Dio e bocca dei poveri. Ma dal potere, da tutto ciò che circonda il nome di re, fugge lontano. Non il potere, dunque, ma la profezia per me cristiano, per l'intera Chiesa: essere bocca di Dio e voce dei poveri è il lievito buono che il cristiano fornisce al mondo.

(Letture: 2 Re 4,42-44; Salmo 144; Efesini 4,1-6; Giovanni 6,1-15)

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31/07/2009 07:52

Dio non chiede, si dona per primo

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Dio non chiede, si dona per primo

XVIII Domenica Tempo Ordinario-Anno B

In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». (...)

Il lago si è riempito di barche e di speranze, l'incontro germoglia di domande. Rabbi, quando sei venuto qua? Ti stiamo cercando, perché ti nascondi? E Gesù svela la sua distanza: molto di più di un lago c'è di mezzo tra me e voi... Incompreso, è sempre sull'altra riva. Ma non si arrende. Lui che ha sfamato la folla, ora ne diventa l'affamatore, vuole svegliare un'altra fame, per un pane diverso. Cosa dobbiamo fare per avere questo pane? La risposta è sorprendente: credere, aderire. Sono io che riapro le vie del cielo, che do senso, profondità, forza e canto alla vita. Credere, ma con fede pura: Voi mi cercate solo perché avete mangiato! Gesù interroga la mia fede illusoria: io amo Dio o i favori di Dio? Abramo, padre dei credenti, ama Dio più delle promesse di Dio; i profeti credono nella Parola di Dio più ancora che nella sua realizzazione. E io? Amo i doni che attendo o amo il Donatore? La folla pone la terza domanda: quale segno (ancora non hanno capito!) fai perché possiamo crederti? Mosè ci ha dato la manna, ma tu che cosa ci dai? Gesù risponde cambiando i tempi, dal passato al presente, dal Sinai al lago di Galilea, e gli attori: non Mosè ha dato, ma Dio; e quel Padre ancora dà. "Dio dà". Due parole semplicissime eppure chiave di volta del Vangelo. Dio non chiede, Dio dà. Dio non pretende, non esige, Dio dà. Non dà pane in cambio di potere, neppure di potere sulle anime. Dio dà vita al mondo. Dà per primo, senza niente in cambio, in perdita. Dio dà vita. A noi spetta però aprirci, accogliere, dire di sì, acconsentire, credere. Io sono il pane della vita. Pane indica tutto ciò che ci mantiene in vita. Indica amore, dignità, libertà, coraggio, pace, energia. Noi viviamo di pane e di sogni, di pane e di bellezza, di pane e di amore, entrambi quotidiani, entrambi necessari per oggi e per domani. Gesù è colui che mantiene viva questa vita: Dio è amore e riversa amore; Dio è luce e dilaga luce da lui; Dio è eterno e l'eternità si insinua nell'istante. Gesù annuncia la sua pretesa più alta: io faccio vivere! Ho saziato per un giorno la vostra fame, ma posso colmare tutta la vostra vita, tutte le profondità dell'esistenza. L'uomo nasce affamato. Ed è la sua fortuna: ha avuto in dono un cuore più largo e più profondo di tutte le creature messe insieme. E non può vivere senza mistero. Sete di cielo che non si placherà con larghe sorsate di terra.

(Letture: Esodo 16,2-4.12-15; Salmo 77; Efesini 4,17.20-24; Giovanni 6,24-35)

don Ermes Ronchi



_________Aurora Ageno___________
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