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E non dite che dipingeva come un uomo

Ultimo Aggiornamento: 05/10/2011 20:35
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05/10/2011 20:35


La grandezza artistica di Artemisia Gentileschi va ben oltre le sue vicende personali e i luoghi comuni che da sempre l’accompagnano



E non dite che dipingeva come un uomo




Ci voleva il terzo millennio per sgomberare il campo della storia dell’arte dai luoghi comuni che hanno sempre circondato la figura di un’artista incredibile come Artemisia Gentileschi. Diciamo che Artemisia rappresenta la versione femminile di Caravaggio e non solo perché ritrae una galleria tutta dedicata alle grandi protagoniste della storia — dalla Maddalena a Caterina d’Alessandria, da Giuditta a Cleopatra, a Danae — e spesso ha il coraggio di rappresentare se stessa imponendosi, come scrive Roberto Contini, «per tridimensionalità, fierezza e sfarzo suntuario».



Premesso questo, per capire fino in fondo la grandezza di Artemisia è necessario contestualizzare la sua vita. Nel Seicento, la pittrice nasce a Roma nel 1593, una donna non poteva frequentare né una scuola né una bottega di pittura. Una ragazza doveva guardarsi dai pettegolezzi sulla propria condotta, spesso considerata riprovevole da invidiosi e calunniatori. Una figlia non poteva ribellarsi al destino sceltole da un padre geloso, che non solo la teneva chiusa in casa, ma le proibiva di affacciarsi alla finestra. Naturalmente era sempre il padre a decidere la vita sentimentale della propria figlia.

Nonostante fosse ligio a queste regole sociali, Orazio Gentileschi (1563-1639) ha avuto il merito di riconoscere, tra i suoi quattro figli, il talento fuori dal comune di Artemisia, istruendola fino a condurla a una compiuta maturità espressiva quando era ancora adolescente. Ne abbiamo la prova da una lettera che il pittore padre scrisse alla Granduchessa di Toscana il 3 luglio 1612: «Mi ritrovo una figliola femina con tre altri maschi, e questa femina havendola dizzata nella professione della pittura, in tre anni si è talmente appraticata che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pari a Lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse principali Mastri di questa professione non arrivano al suo sapere».

A quali opere si poteva riferire Orazio? Per esempio a Susanna e i vecchioni che è datato 1610. Nel quadro gli uomini che spiano Susanna non sono i vecchi che narra la Bibbia, perché uno di loro esibisce una capigliatura corvina, mentre il più anziano ha le caratteristiche di un uomo sì maturo, ma non certamente vecchio.

In questo capolavoro non c’è la violenza che si può riscontrare nei quadri successivi, ma la gestualità della ragazza insidiata sottolinea un fastidio, come di insetti ronzanti, più che un’indignazione. Se, come sostiene qualcuno, i due personaggi adombrano Agostino Tassi (1578-1644) e Orazio Gentileschi, amici e sodali al punto che per risolvere le loro questioni private esposero la giovane pittrice al pubblico ludibrio, allora quest’opera è altamente simbolica. Potrebbe essere stata una sorta di premonizione se la data, ancora in discussione, fosse quella del 1610, oppure se l’opera, come sembra, si dovesse postdatare, siamo di fronte a un autentico sfogo catartico.

«Artemisia Gentileschi, Storia di una passione» è il titolo della mostra monografica curata da Roberto Contini e Francesco Solinas a Palazzo Reale di Milano (catalogo 24 Ore cultura). La rassegna riporta alla ribalta la sublime artista, il cui talento è stato oscurato da un processo tramandatoci dalle cronache del tempo.

Negli anni Settanta, quando il femminismo cercava di valorizzare le «grandi madri» in tutti i campi della cultura, Eva Menzio riscoprì con un’ottima ricerca d’archivio la dolorosa vicenda di Artemisia. Purtroppo un certo clima culturale dell’epoca non fu un buon consigliere nella rivalutazione di Artemisia. Così, dato per scontato il grande talento della pittrice, si offuscò lo studio della sua pittura con i dettagli, più o meno morbosi, di un processo per stupro. Oggi, invece, ci si chiede quale mistero nasconda un processo di cui noi stessi non possiamo fare a meno di parlare, poiché i suoi protagonisti sono tutti passati alla storia, per una ragione o per l’altra.

È accertato, per esempio, che tra Artemisia e il suo seduttore, Agostino Tassi, ottimo pittore e amico di famiglia, ci fu una relazione prolungata per circa un anno, tanto che lui aveva promesso di sposare la ragazza. Dunque, solo la scoperta di un precedente matrimonio in un’altra città può aver convinto padre e figlia a una denuncia con relativo processo. Questo non spiega però la comparsa di nomi ambigui come quello di Cosimo Quorli e di suo cugino Giovan Battista Stiattesi (fratello del futuro marito di Artemisia).



Addirittura il Quorli durante il processo si dichiara padre biologico di Artemisia, mentre lo Stiattesi, notaio e avvocato difensore, sarebbe stato una spia inserita in casa Gentileschi. E forse non è un caso che proprio il fratello della spia diventerà al momento opportuno marito della disonorata sì, ma con ricca dote.

E in tutto questo Artemisia ha dovuto subire lo stritolamento delle giunture delle mani, perché all’epoca non bastava una deposizione, ma bisognava dimostrarne l’autenticità sotto tortura. Artemisia, offrendo le proprie mani a garanzia della verità, rischiò veramente il massimo, perché se l’aguzzino fosse stato un po’ troppo zelante non avremmo più visto nessuno dei suoi capolavori. La forza delle opere di Artemisia è da molti attribuita più alla delusione per essersi fidata del Tassi, che alla rabbia e alla vergogna per quel processo che non le restituì l’onore, ma anzi la mise sulla bocca di tutti senza pietà.

Lo stile di un ciclo di quadri raffiguranti Giuditta e Oloferne è sicuramente violento e urlato. La loro composizione, però, insieme ai rapporti tonali e al gioco di chiaroscuri ne fa opere magistrali. Perché insistere quindi su allusioni a uno stupro che, alla luce delle minuziose ricerche d’archivio di Alessandra Lapierre, è più morale che fisico?

Consideriamo ingiustificabile l’enfasi dell’allestimento troppo bloody mary di Palazzo Reale. Né comprendiamo l’insistenza con cui si parla di rivendicazione femminile a proposito del grande talento di Artemisia, quasi che dimostrare la propria abilità significhi automaticamente gridare: guardate quanto sono brava.

Superata la vicenda biografica, che pure ha contribuito a fare di Artemisia un emblema per tutte le artiste che hanno lottato e si sono affermate nel XX secolo, la rivalutazione comincia con Roberto Longhi. Il grande critico scrisse di lei: «L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore, e impasto, e simili essenzialità», tanto era sicuro della sua statura.

L’importanza della rassegna di Milano sta nel fatto che non solo perfeziona gli studi sulla grande pittrice, ma presenta opere mai esposte prima, come La Vergine allatta il Bambino (1616-1618) e Suonatrice di liuto (1615-1618). La prima è una risposta a chi vede nella Gentileschi quell’eccesso di violenza che forse è solo dovuta al tema di turno. In questa maternità infatti, abilmente giocata sui toni rosati della pelle e delle vesti, si esprime tenerezza e dolcezza senza cedere alla tentazione di un sentimentalismo stucchevole. Per quanto riguarda la suonatrice, ci interessa notare che il soggetto non è una modella, ma la stessa Artemisia, illuminata da destra come nei migliori Caravaggio, mentre si staglia su uno sfondo carico d’ombra, quasi a far risaltare l’opulenza dell’incarnato e dell’abito serico di una donna nel pieno rigoglio della propria giovinezza.



Già nella prima decade del Seicento Artemisia era stata considerata dai suoi contemporanei «pittora» provetta. Dopo il processo e la condanna di Tassi all’esilio i Gentileschi scoprono che l’ex amico è responsabile della sparizione di alcuni quadri di Artemisia, tra cui una Giuditta non terminata, che a Milano si tenta di identificare con una tela inedita.

Recatasi a Firenze con il marito Pierantonio Stiattesi, Artemisia vanta nobili e devoti amici, tra cui il celebre pittore Cristofano Allori (1577-1621), che ne appoggia l’ingresso all’Accademia del disegno. Tra i suoi collezionisti ed estimatori compare anche il nobile Francesco Maria Maringhi, con cui la pittrice ebbe un’intensa storia d’amore, il cui carteggio inedito è esposto nella mostra milanese.

A Firenze, dove la corte di Cosimo ii e della moglie Maria Maddalena d’Austria vive una delle sue migliori stagioni, Artemisia rifiorisce. Al riparo da pettegolezzi e calunnie matura il proprio universo creativo, cogliendo le novità fiorentine e filtrandole attraverso la lezione caravaggesca assorbita a Roma. Appartengono a questo periodo le sue opere più significative, come le due versioni di Giuditta e Oloferne.

Con una tavolozza in cui i colori esplodono, sempre più sontuosi e incandescenti, ecco Artemisia passare da Genova a Venezia, da Roma a Napoli, dove diventa imprenditrice di una prestigiosa bottega che le permette di accettare commissioni da principi e cardinali, ma anche di promuovere il talento di giovani artisti. Intorno alla sua bottega si forma uno stile particolare, la cui maggiore caratteristica è quella di rielaborare le ricerche del proprio tempo, facendole proprie.

La mostra a Palazzo Reale di Milano ci permette di parlare di Artemisia come di una protagonista del Seicento, pittrice che ha vissuto di arte e che ha saputo superare l’umiliazione di una storia sentimentale sbagliata, amando di nuovo e per tutta la vita.

Non ci piace però che ancora oggi si possa parlare di Artemisia come di una vittima, o che si dica di lei che dipinge come un uomo. Anche perché è dimostrato che il temine uomo non significa automaticamente «grande pittore».


Sandro Barbagallo


6 ottobre 2011

da L'Osservatore Romano



_________Aurora Ageno___________
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