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LE REGIONI DE "I PROVERBI ITALIANI"

Ultimo Aggiornamento: 29/12/2009 10:20
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11/11/2009 09:08

LE REGIONI DE "I PROVERBI ITALIANI"

a cura di Maria Pia Tosti Croce

1990 - CDE spa - Milano

_____________________________________________________________________


Uno comincia a capire come antica sia la vera Italia, come sia fermamente tenuta dall'uomo, e sfruttata. Qui da innumerevoli secoli l'uomo ha addomesticato in terrazze i fianchi inflessibili delle montagne, ha scavato la roccia, ha pasciuto i suoi greggi tra i magri boschi, ha tagliato rami, ne ha fatto carbone, è stato in qualche modo civile anche nelle più chiuse solitudini. E' questo che costituisce, in Italia, il fascino dei luoghi remoti, degli Abruzzi, per esempio.
La vita è primitiva, è pagana, è così stranamente irreligiosa e quasi selvaggia; eppure è umana. E le terre più selvagge sono a metà umanizzate, a metà sottomesse: pervase di coscienza. Dovunque si vada in Italia, uno è sempre conscio di influenze del presente e del Medio Evo, e delle lontane, misteriose divinità del Mediterraneo aborigeno. Dovunque si vada, si trova che il luogo ha il suo genio conscio. L'uomo qui ha vissuto e qui ha allevato la propria coscienza, e in qualche modo ha reso coscienti anche i luoghi,ha dato loro un'espressione. Li ha rifiniti. L'espressione può essere Proserpina, può essere Pan, o le strane divinità in sudario degli etruschi e dei siculi, ma sempre un'espressione. La campagna è stata via via umanizzata e nella nostra intessuta coscienza noi portiamo i risultati di codesta umanizzazione. Sicché andare in Italia e penetrarne il significato è per noi un atto di affascinante auto-scoperta; a ritroso nelle antiche vie del tempo. Strane corde meravigliose si svegliano in noi, e di nuovo vibrano dopo centinaia e centinaia di anni ch'erano state dimenticate.

David Herbert Lawrence


[Modificato da Luceeombra. 11/11/2009 09:11]
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ABRUZZO


Alti monti, con disegno e nomi d'una gravità chiara ed antica, circonvennero me transpadano dagli orecchi pieni di pizzi, corni e bocchette. Andavo, prigione muto, dentro le mura de' Marsi, che serrano fra spalti di duemila metri il pianalto fucense: Monte Bove, il Greco, il Sirente, il Velino. Contro le radenti luci della sera, la groppa nevosa e lontana della Maiella. Avezzano non aprì al mio sgomento il tempio del dio bifronte, terminale e frugale: levò la rifatta ossatura della chiesa (in calcestruzzo armato, con capriate di ferro) che nessun telegramma plutonico riescirà mai ad abbattere.
Larghe vie, nitidissime, con mattonelle d'asfalto, si diramarono dal giardino della stazione (uno zampillo, pini, vetture, cocchieri) in lieve discesa verso l'apertura del piano: nell'ultima luce, sotto i leggeri veli delle nebbie, subito lo immaginai frugifero e governato dalle opere, com'è difatti: pioppi soltanto ne fiorivano fuori, dorati, in esilità sparse, o fuggenti. I globi si accendevano: la gente usciva dalla sua giornata nell'ora tra gli uffici e la cena, a gruppi: vi erano drogherie, bars, negozi di scarpe, qualche calesse, biciclette, qualche automobile. Visi chiari e sereni. Giovani e ragazzi scherzavano e si rincorrevano, come dovunque nel mondo.
Dentro di me, la mia cognizione insopportabile, quella che mi fece vivere gli anni di minuto in minuto, partecipe d'ogni dolore, d'ogni angoscia e destino: e già tutto era di nuovo a posto: ragazzi tra i piedi, continuamente; il maresciallo sorrideva bonario, conversando con due signori dal soprabito color nocciola: in un bar, dunque, presi un caffè.
... Camminai nelle vie: le divinità marsiche non mi esecrarono. Finché la notte, poco a poco, dilagò nella pozza, giù, giù, dal cerchio dei monti: salvando, alle prode, lontani lumi; come alle riviere d'un lago. I monti, a circolo, chiudevano tutto, vietavano i cieli nemici quasi in una vigilia di guerra. Le divinità marsiche volevano col loro silenzio ammonirmi che, penetrando nell'area sacra, vi conoscerei una legge: la dura legge di vita: "perenni la fatica e le armi onde un popolo, nelle solitudini della montagna, custodisce il lento avvenire".


Carlo Emilia Gadda
Le meraviglie d'Italia


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16/11/2009 08:47


CALABRIA


Il mio vetturino non era chiacchierone, ma rispondeva educatamente alle domande; fu molto secco solo su un argomento, due croci di legno che oltrepassammo a breve distanza dalla cima; significavano delitti. Quando toccai questo argomento, mi sgranchivo un po' le gambe camminando accanto alla vettura, e il conducente camminava proprio davanti a me; allora accadde qualcosa che non so ancora spiegarmi, quando ci ripenso. Sia che il pensiero dei delitti avesse innervosito l'uomo, o che io avessi in quel momento una faccia particolarmente truce, o che avessi fatto una mossa allarmante, sta il fatto che all'improvviso egli mi si accostò, mi afferrò per un braccio e mi chiese bruscamente: "Cosa avete in mano?" Ci avevo una piccola felce, colta qualche minuto prima, e con sorpresa gliela mostrai; allora borbottò le scuse, disse che bisognava affrettarsi e balzò al suo posto. Strano incidente.
A una svolta inattesa della strada, mi si aprì davanti un vasto panorama: vidi sotto di me l'interno della Calabria. Era una valle tanto ampia da potersi chiamare una pianura, punteggiata di paesini bianchi e chiusa dal massiccio montuoso che porta ora, come in passato, il nome di Grande Sila.
... Scendemmo rapidamente, sempre in mezzo a un castagneto, i cui frutti erano stati già raccolti, mentre le foglie dorate frusciavano nella caduta. In basso c'è il paese di San Fili, e qui lasciammo il vecchio carro sconnesso che ci eravamo trascinati dietro così a lungo. Poco distante, davanti a noi, si apriva una strada lunga e pianeggiante, una vera via romana, tutta dritta per miglia e miglia. Di qua dovevano essere passati i Visigoti dopo il sacco di Roma.
Avvicinandomi a Cosenza mi avvicinavo anche alla tomba di Alarico. Lungo questa via il barbaro aveva portato in trionfo le spoglie della Città Eterna che dovevano arricchire la sua tomba.
Lungo questa via, seicento anni prima del Goto, aveva marciato Annibale nella sua cupa ritirata dall'Italia, passando da Cosenza per imbarcarsi a Crotone.


George Gissing
Sulla riva dello Ionio



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16/11/2009 08:48


CAMPANIA


Non v'ha dubbio che il fascino, l'incatesimo di Napoli non sono finiti ancora.
Il prestigio partenopeo non è caduto.
E' un paese di carne, questo. L'aria ha i pori e respira, tiepida come la carne. Qui la natura palpita di sangue vivo: Napoli è il cuore roseo di una regione innocente: scenari di Raffaello, e musica di Cimarosa. Napoli è il vivere tenero, fiducioso di un popolo molto, molto vicino a Dio.

E qui il vivere è semplice e contento sotto l'eterna indulgenza del cielo. Questa è una regione sensibile che non si difende dalle calunnie - tace onestamente e lavora - e non è mica facile conoscerla questa regione, appunto per la tolleranza generosa e accorata che essa oppone all'ingiuria.

Fecondità inesauribile, polpa vergine del creato, formosità arcaica, luce leggera, rugiada e acqua pura della Campania. Qui è il dominio assoluto dell'aria del mare e della terra. Il panorama è così largo e aperto da assurgere, liricamente, ad immagine dell'Universo.
Di mattina il sole ti tocca il volto con il suo dito di carne, e le mani con le sue labbra calde. L'atmosfera è zuccherina. Nel golfo lievitano leggere nei vapori azzurri le isole: Capri, Procida e Ischia l'impalpabile.

Qui non ci son gravi affari, o almeno non ci son affari che contano, e schiacciano, e se qualche disperato fa un atto contro se stesso non è già per uno sfavorevole listino di Borsa, ma perché un bacio che gli apparteneva non gli toccò.

Un sacro romanticismo locale mette insieme il fuoco e l'amore. E' la vecchia, ingenua retorica del sentimento popolare - l'illusione vale più di tutto. L'immaginazione agisce sui Napoletani. La realtà non conta niente, costituisce anzi una delusione. La realtà è la morte.
"Napoli è la Morte vestita di colori": mi diceva un pittore che di Napoli se ne intende.


Bruno Barilli
Il libro dei viaggi



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17/11/2009 08:15


EMILIA


Ravenna, 21 febbraio 1820

Caro Murray,
... Mi chiedete un libro sul comportamento e i costumi in Italia: forse io sono in grado di saperne di più della maggior parte dei miei connazionali, perché sono vissuto tra gli italiani e in zone del paese dove nessun inglese era mai passato prima di me (mi riferisco alla Romagna e a questa città in particolare); ma ci sono diverse ragioni per cui preferisco non affrontare tale argomento in una pubblicazione. Sono vissuto nelle loro case, in seno alle loro famiglie, talvolta esclusivamente a titolo di "amico di casa" e talaltra come "amico di cuore" della Dama, e in nessuno di tali casi mi sento autorizzato a ricavarne un libro. La loro morale non è la vostra morale, la loro vita non è la vostra vita, e voi non la capireste: non è inglese né francese né tedesca ( che sarebbe ancora comprensibile); l'educazione in convento, l'istituzione del cavalier servente, il modo di pensare e di comportarsi sono così totalmente diversi (e la differenza si fa ancora più radicale quando si vive in intimità con loro) che io dispererei di farvi capire un popolo a un tempo sobrio e dissoluto, fondamentalmente serissimo ma pronto alle esibizioni più sfrenate nei momenti di allegria, capace di affetti e passioni che sono insieme 'improvvise' e 'durature' (cosa che non si trova in nessun altro paese).


George Gordon Byron
Lettere dall'Italia


***

On se souvient de Baudelaire la nuit
dans le train en traversant notre Emile
...................................
Les soirs illuminés par l'ordeur du charbon


Solo Emilia e Romagna hanno i colori della sera
anche gli altri paesi li hanno
ma l'accentrarsi dei centri a poco a poco
e da Bologna il diradarsi dei centri
per Imola Modena Reggio e Forlì
(è il nostro supremo inganno e disinganno
di nascere di vivere e di tornare qui)
fa solo unico al mondo quel richiamo
della sera che dice sempre 'io t'amo',
anche se il mondo è morto e le colline
ricordano al Sovrastante le antichità bambine.

Tutto è finito
ma la sera
nell'Emilia impera.

Per sempre saremo fedeli
nell'eternità dei cieli...
... quando, tutto scomparso,
l'amor riapparso
un dì vedremo
colorarsi di rosso sulla sera
fermo rimaner
per altra ed altra sera


Antonio Delfini
Poesie della fine del mondo





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21/11/2009 16:59


LAZIO


Non mi sono assuefatto rapidamente a Roma. Vi abito da più di quarant'anni e mi occorsero molti anni per rendermi familiare il Barocco, che è lo stile che in Roma predomina, e non incominciai a sentire Roma vicina al mio cuore se non quando capii che in Roma il Barocco ha origine da Michelangelo. Fu quando ad un tratto ai miei occhi il Barocco acquistò e perse le ragioni storiche della violenza dalla quale era stato sprigionato e dominato, e le ragioni della violenza le vidi nella giustizia e nella pietà per predestinazione operanti fra i limiti fatali della catastrofe; oppure, peggio, quando le ragioni della violenza vidi nella negazione di giustizia affermata dalla stessa dismisura della pietà.
... Quando, capito il Barocco, Roma cominciò a diventarmi familiare, fu mediante l'avvicendarsi delle stagioni che incominciò a famisi vicina. Non era più, tratta dalla città dissepolta, la violenza d'una Venere ellenistica mutila riposta sul piedistallo in mezzo a una casuale fioritura di margherite, rosolacci e fiordalisi. Non era più nemmeno un'originaria violenza notturna resa più melodrammatica persino del reale da un Piranesi, era la naturale violenza delle stagioni, che vedevo sposare le ore della città.
Conobbi allora Scipione, e i rossi di porpora e i rossi in penombra, il rosso delle ferite e il rosso della passione, il rosso gloria, tutti i rossi nel rosso che il vecchio travertino e la torpida acqua del Tevere ingoiavano negli estivi tramonti di Roma.
Conobbi, tra San Giovanni e Santa Croce, l'estate in furia, macina calcinante, e l'urlo afono di un travertino inaridito sino a sembrare dissolversi in un acre, polveroso fumo azzurrognolo.
Conobbi l'estate, quando il temporale minaccia, quando le nuvole si fanno pietre e le pietre nuvole e i Dioscuri di piazza del Campidoglio s'avventano contro i Dioscuri di piazza del Quirinale, quando e cielo e palazzi e gente che passa sono travolti e mescolati in un turbine di finimondo che dura poco.
Il travertino è a Roma polpa delle stagioni, le incarna, le veste, le nuda, e l'autunno è la sua stagione più felice, quando s'impregna d'oro e d'angoscia.


Giuseppe Ungaretti
Interpretazione di Roma



* * *


E' questo il popolo in cui è vivo il senso della dignità personale: qui esso è "il popolo" e non "la plebe" e conserva nella sua natura intatti i caratteri dei tempi dei primi Quiriti; né sono riusciti a traviarlo le invasioni di stranieri, corrotti rappresentanti di nazioni vegetanti nell'ozio, che bazzicano per le vie e nelle osterie formando la più spregevole razza di gente, vedendo la quale il viaggiatore è spesso indotto a giudicare l'intero popolo romano. Persino l'assurdità delle disposizioni governative, quest'accolta incoerente di ogni sorta di leggi, emanate in tempi diversi e per casi diversi e non abrogate finora, fra le quali ci sono ancora degli editti dei tempi dell'antica Repubblica Romana, neppure ciò ha sradicato dall'animo del popolo il suo elevato senso di giustizia. Esso biasima il prepotente iniquo, fischia la sua bara quand'è defunto, ma si attacca magnanimo al carro, portante la salma di un uomo che ebbe caro. Gli stessi atteggiamenti del clero, non di rado scandalosi, che altrove porterebbero alla depravazione, non hanno quasi presa sul popolo romano, che sa dintinguere fra la religione e i suoi ipocriti ministri, così come non si è lasciato infettare dalla fredda lebbra dell'incredulità. Infine, persino il bisogno e la povertà, immancabile appannaggio d'ogni Stato che ristagni, non lo conducono sulla via della cupa criminalità: la sua natura lieta lo induce a sopportare tutto e solo nei romanzi e nelle novelle egli sgozza la gente per le strade.
... Inoltre, qui a Roma, non si sentiva la presenza della morte; dalle stesse rovine e dalla sua magnifica povertà non proveniva quel senso di acuta pena, da cui involontariamente resta oppresso l'uomo che contempla i monumenti di una nazione che sta morendo. Qui si prova un sentimento assolutamente contrario: una calma serena, solenne. E ogni volta, in queste sue considerazioni, il principe si lasciava andare senza volerlo a meditare e gli nasceva il sospetto che un qualche misterioso significato fosse celato nelle parole "Roma eterna".


Nicolaj Vasiljevic Gogol'
Roma



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26/11/2009 17:48


LIGURIA


Le alte case orlate di rosa, fitte di finestre, con le persiane verdi, stanno addensate in poco spazio. Alle finestre vi sono sempre teste di donna che spiano sulla strada e guardano il mare... Lassù nelle ville i gelsomini odorano violenti e lungo la strada le foglie grasse delle agavi ricordano memorabili momenti di amore, portandone scritti l'ora e il giorno.
E' un paese di capitani e di marinai: gli uomini sono tutti sul mare, a terra sono rimasti solo i pigri, i vecchi, gli invalidi e i bambini. Quasi ogni giorno si sente qualche sirena urlare ripetutamente dal mare. E affacciandosi alla finestra si vede un piroscafo che, deviata la sua rotta dalla punta di Portofino, rallenta le macchine, poi un megafono lancia una voce: "Siamo qui"; oppure con semplice durezza dà solamente il saluto secondo l'ìora
del giorno: sono navi che arrivano o che partono e i marinai danno il primo saluto o l'addio alle loro famiglie subito accorse alle finestre. Entrare in qualcuna di queste case è come un ritrovarsi a bordo. La credenza ha i ripiani intagliati per incastrarvi i bicchieri per lo stelo, come a bordo per evitare che il rollio li sbatta tra loro. I piatti portano decori di ancore con le sigle di compagnie straniere e le tovaglie pure. Alle pareti ventagli di cartoline spedite da ogni parte del mondo e su di un mobile in angolo la campanella per annunciare l'ora della mensa. Tutte le finestre danno sul mare e l'aria entra come sul ponte di comando, ma non basta per questi marinai quando ritornano: impazienti e nervosi si vedono camminare lungo il molo, dove le onde si frangono spumeggiando nell'aria e, dato l'ultimo abbraccio alla moglie, riprendono il mare.
Passò o munte de Portofin
adio mujer che son fantin.
E' il loro motto: ma altro non è che un sistema per rendere geloso e più vivo l'amore.


Giovanni Comisso
La favorita



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30/11/2009 20:36



LOMBARDIA


Il milanese è lavoratore, e lo ostenta; il tempo è danaro; labor omnia fecit. Ama l'ufficio con calore sentimentale, è infelice se è lontano, a meno che, la sera ed un mese all'anno, al mito del lavoro non subentri il rito gemello, quello del 'divertirsi'. Riempie allora rumorosamente alberghi di montagna, spiagge e case da gioco. Altro mito: il passaggio da un grado all'altro della scala sociale, il fattorino che diventa capo d'industria. Ma questo mito americano qui ha un fondo bonario, sentimentale, che l'America non conosce; manca il rovescio, l'eliminazione spietata degli individui decaduti. Le aziende milanesi sono cariche di vecchi dipendenti inutili, che non si licenziano mai per ragioni di cuore. Produttività e cuore; questa città moderna ignora la prima caratteristica della vita moderna, che è la crudeltà. Il ragioniere è la figura più tipica della borghesia media, e direi senza offesa, la 'maschera' della città: il popolo lo onora e si riconosce in lui. L'alta borghesia milanese, in qualche caso, ha una coscienza eccessiva dei privilegi del danaro, e questo la porta a fatali errori anche in politica; gli estranei riscontrano nei milanesi una propensione ad esibire la ricchezza. Infatti il milanese non è come i liguri e i piemontesi, che celano la ricchezza e passano la loro vita a farsi credere meno di ciò che sono. Ha del danaro un concetto pubblicitario... L'esibizionismo economico dei milanesi è tuttavia commerciale, finalistico, e mira a ottenere prestigi e credito. Guardando bene, non v'è popolo più riservato e più geloso di se stesso e del suo, ed è difficile passare dall'intimità festaiola o da quella affaristica, all'intimità vera. Anche nella mia inchiesta ho constatato come alcuni milanesi aborrano un'intrusione nei loro interessi. L'esibizionismo muore e vi subentra l'orrore per l'occhio del pubblico: "La mia azienda, i miei affari riguardano soltanto me". Mi chiedo se la gelosia di se stessi non concorra a una certa povertà di vocaboli, di fantasia, di brio dialettico nei discorsi dei milanesi. Si giovano per lo più di poche frasi fatte e neutre; vi incastrano, per rialzarne il tono, alcune parole pompose o scientifiche. Non è un linguaggio adatto alle confessioni, e tanto meno alle effusioni.
Mi accorgo che forse non ho ancora detto il più importante. Milano ha un punto di grazia che è l'umorismo; esso circola come un gas dalla casa patrizia al negozio del salumiere. Non ha nulla a vedere col lazzo all'italiana né con la commedia veneta. Milano è forse l'unica città italiana dove esista l'umorismo vero, l'umorismo in senso britannico, che vela e insaporisce le cose senza però modificarle. Si mescola specialmente agli aspetti più triti, più comuni e prosaici, della città; li fa lievitare appena, lasciandoli come stanno. Furono milanesi il Manzoni e il Porta, i maggiori nostri umoristi. Anche Milano vive nella sua commedia, cosciente ma non tanto da staccare gli animi da interessi e occupazioni pratiche in cui credono per intero. Il milanese umorizza se stesso, in sordina, senza distacco, perché la prosa degli affari e la vitalità prevalgono; tuttavia si umorizza come respira.


Guido Piovene
Viaggio in Italia



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03/12/2009 16:53


MARCHE


Andare da Ancona a Recanati è come passare da una festa da ballo ad un romitorio. Ancona è un trionfo di luce e di buona salute. Per le sue vie non s'incontrano che facce toste, ragazze poppute, dagli occhi bovini, vecchie serene e vegete, popolane ingenue che, richieste di qualche indicazione, corrono con la mano ad accomodarsi i capelli. Recanati, al contrario, è uno dei paesi più solitari che io abbia mai visti nelle Marche. Salendovi dalla marina si ha l'impressione che la strada s'inoltri un po' troppo verso il monte, ci si domanda dove andremo a finire.
... Ecco, a una svolta, la cupola di Loreto: apparizione miracolosa e fugacissima, in un cielo di fiamma. Ci avviciniamo all'abitato. Passando accanto al cimitero, dove si ha quasi l'illusione di sfiorare la tomba di Leopardi e si è come percossi dalla sua presenza, poiché in quale altro luogo l'autore di "Amore e morte" potrebbe avere una sepoltura più degna di lui, più poetica?, l'amico automobilista si leva il cappello, anzi un berrettaccio che porta sul capo a sghimbescio, ed io faccio altrettanto. Sarebbe una buona occasione per riconciliarci. Ma neanche per sogno. Quest'uomo sembra volermi negare l'estrema confidenza di salutare i morti in sua compagnia. Non dimenticherò mai la brutta occhiata che m'ha scagliato in quell'istante, sempre attraverso lo specchio, come se lo imbarazzasse enormemente il dover manifestare i suoi sentimenti religiosi in presenza di uno sconosciuto e diffidasse, ad un tempo, dei miei sentimenti; né la smorfia indescrivibile che gli ha contratto il ceffo, scontrandosi col mio sguardo proprio nel momento in cui compivamo lo stesso atto di devozione. La mia solidarietà, invece di addolcirlo, non ha fatto altro che inasprire il suo disappunto, aggiungendovi la delusione e lo scorno di vedersi scoperto in tutto il suo umano fondaccio.
Le invettive leopardiane contro il "natio borgo selvaggio" sarebbero dunque giustificate? Lasciamo andare. Sono marchigiano anch'io e mi rendo conto benissimo del carattere dei marchigiani: della difficoltà ch'essi hanno a famigliarizzare con gente che non conoscono, di una certa loro disposizione a rendere difficili e complicati i propri rapporti col mondo, e la loro persona, senza volerlo, oppure volendolo, il che è riprovevole, interessante e preziosa.
... Un altro tipo del genere che m'ha condotto con la sua balilla sulle vie del maceratese, lasciò passare un'intera giornata prima di sciogliersi un poco. Solo verso sera, davanti ad una buona bottiglia di vernaccia rossa, intenerito dalla vista di un gran piatto di "ciavuscolo", gustoso affettato casereccio di queste parti, si decise a far sentire la sua voce, (ed era una voce calda e sonora, di marchigiano schietto) assicurandomi, come per darmi un segno della sua benevolenza, che a Macerata ci sono tre o quattro famiglie che portano il mio nome.
... Se è lecito trarre qualche deduzione da quest'incontri, dirò che il marchigiano, irsuto ai primi approcci, si rivela poi cordialissimo, espansivo, amicone. La sua provvisoria diffidenza verso l'estraneo, il forestiero, non è che una maniera di difendersi e di orientarsi. Ma certo la psicologia dei marchigiani non è delle più semplici.
Né io mi lusingo aver neppure scalfito, con queste leggerissime osservazioni, un così grave argomento.


Vincenzo Cardarelli
Il cielo sulle città


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06/12/2009 18:23


PIEMONTE

Piazza Castello dov'è l'albergo, è nel centro di Torino. Un complesso antico e interessante con vari fronti e una grottesca mescolanza di varie architetture. Torino è più regolare di Filadelfia. Le case sono tutte d'un taglio, d'un colore, della stessa altezza. La città sembra tutta costruita da un solo imprenditore e pagata da un solo capitalista. Singolare effetto di starsene sotto gli archi del Castello, osservando all'ingiù la vista di Via Grossa fino al Monte Rosa e alle sue nevi. - Sono riuscito a coglierlo non oscurato dalle nubi la mattina presto quando lasciai Torino. I viali che girano intorno alla città. Molti caffè, alcuni belli. Lavoratori e donne di modesta condizione che prendono la loro frugale colazione nei bei caffè. Loro decoro, così differente dalla classe corrispondente di casa nostra. A sera è venuto sereno. Sono andato di nuovo giù al Po. Me ne sono stato sui gradini della chiesa. A letto presto.


Herman Melville
Diario italiano


* * *



Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. "Tu che abiti a Torino..."
mi ha detto "... ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono".
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent'anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.


Cesare Pavese
Lavorare stanca



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06/12/2009 18:25


PUGLIE

Paese incrostato di storia più di qualunque altro; ma con questo di buono, che lì la storia non fa più rumore di quanto ne possan fare nei meriggi estivi le onde del mare e le fronde del bosco: e quando tutto tace anch'essa tace e schiaccia il pisolino dell'erudito locale nella libreria senza pretese. I monumenti che ci sono cercano di non farsi vedere o spuntano con tutta discrezione da un verde di giardini profumati. Per lo più sono vecchie torri alzate un giorno invano sul litorale contro i pirati turcheschi che desolarono a varie riprese la regione, e che ora, rimbiancate di calce, servono d'alloggio alle guardie di finanza. Potete fidarvi, signore. Qui la storia non abbaia e non morde. Sonnecchia. Ma come talora il buon vino dà forza mirabile a quei sapori misti di cedro, di fragole e di popone che son chiusi nella polpa dell'ananasso, così nell'ardente silenzio di questa regione voi potrete a momenti gustare senza troppa fatica come un sapore misto delle varie civiltà che lentamente una dopo l'altra vi si sono posate nel fondo, ogni volta lasciandovi qualche cosa di nuovo e d'inconfodibile pei secoli dei secoli sulla faccia dei più poveri abituri, nell'aria stessa, nei visi degli abitanti, nei costumi, nella favella e fin nella bardatura degli animali domestici: trasmissioni e influenze longobarde, bizantine, normanne, saracene...


Antonio Baldini
L'Italia di bonincontro



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14/12/2009 09:25


SARDEGNA


Lì, i ripidi pendii della valle diventano quasi gole, e ci sono alberi. Non foreste come immaginavo, ma grige querce sparse, piuttosto piccole, e qualche flessuoso castagno. Castagni dalle lunghe chiome e querce, dai rami tozzi, sparsi su ripidi pendici dove affiorano rocce. Il treno serpeggia pericolosamente intorno, a mezza costa. Poi, d'improvviso, si lancia su un ponte e arriva in una stazione del tutto imprevista. E per di più sale molta gente: la stazione è collegata alle Ferrovie dello Stato da una corriera.
Un'improvvisa irruzione di uomini, che potrebbero essere minatori, sterratori o braccianti. Tutti hanno enormi sacchi; qualche bella bisaccia da sella con fiori rosa sullo scuro. Un vecchio ha il costume bianco e nero completo, ma molto sporco e lacero. Gli altri portano calzoni bruno-rossicci attillati e giubbotti con le maniche. Alcuni hanno la tunica di pelle di pecora e tutti il lungo berretto a calza. E come odorano di lana di pecora, di uomo e di capra. Un odore acre impregna lo scompartimento.
Parlano e sono molto vivaci. E hanno visi medioevali, rusé, non abbandonano mai del tutto le loro difese, neppure per un momento, come non abbandonano mai le loro difese il tasso o la puzzola. Nessuna confidenza, nessuna civile ingenuità. Ognuno sa che deve difendere se stesso e il suo; ognuno sa che il diavolo è lì, dietro il prossimo cespuglio. Non hanno mai conosciuto il Gesù post-rinascimentale. Il che spiega molte cose.
Non che siano sospettosi o inquieti. Al contrario, sono personalità forti e vigorose, sicure. Solo, non hanno affatto quella sicurezza implicita, tipica del nostro tempo, che tutti siano o debbano essere buoni con loro: non lo desiderano affatto. Mi ricordano quei cani mezzo selvaggi che si affezionano e ubbidiscono ma non vogliono confidenza. Non si lasciano toccare e non vogliono essere coccolati...
Ma tra noi e loro c'è un abisso. Non hanno la minima idea della nostra crocifissione, della nostra coscienza universale. Ognuno di loro è imperniato e concluso in sé, come gli animali selvatici. Guardano attorno e vedono altri oggetti: oggetti da deridere, da temere e da fiutare con curiosità. Ma il concetto "amerai il prossimo tuo come te stesso" non è mai entrato nel loro spirito, neppure lontanamente. Potrebbero amare il loro prossimo con un amore ardente e oscuro, cieco, ma probabilmente l'amore cesserebbe bruscamente. Il fascino di ciò che è fuori di loro non li ha presi. Il loro prossimo è semplicemente qualcosa di esterno. La loro vita è centripeta, imperniata su se stessa, e non fluisce verso gli altri, verso l'umanità. Per la prima volta ci si imbatte nella vera vita medioevale antica, conclusa in sé e senza interesse verso il mondo esterno.
Così se ne stanno abbandonati sui sedili, giuocano, ridono e dormono, aggiustano i lunghi berretti, sputano. E' meraviglioso che continuino ancora oggi a portare i lunghi berretti a calza come parte inscindibile della loro personalità. E' la manifestazione di una tenacia ostinata e potente. Non si lasciano stroncare dalla coscienza universale. Non si adattano alla foggia comune in tutto il mondo. Rozzi, forti, decisi, conservano la loro rozza, oscura ignoranza e lasciano che il vasto mondo vada per la sua strada verso il suo illuminato inferno.
Il loro inferno è loro, e lo preferiscono non illuminato.


David Herbert Lawrence
Libri di viaggio e pagine di paese




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21/12/2009 18:05


SICILIA


Le forze primordiali sono la Sicilia; mi è perfettamente chiaro perché l'illustre cantore della cultura siciliana abbia elaborato una filosofia naturalistica: Empedocle probabilmente vagava in questi luoghi.
Nel quinto secolo fiorì qui una cultura eterogenea; la corte dei tiranni siciliani brillava dei nomi di poeti, giunti dalla Grecia: Pindaro, Eschilo, Simonide, Bacchilide frequentavano allora Agrigento; nasceva la retorica; ed Epicarmo creava il mondo della commedia; Empedocle si dava alla politica, s'immergeva nella mistica e componeva le sue Purificazioni; la metempsicosi per lui non aveva segreti; ricordava di essere già stato "un giovinetto", "una vergine", "un arbusto"; errando per queste montagne, contemplando il frangersi del mare contro gli oscuri promontori, ebbe un'intuizione feconda: la forza, che lacera l'eternità in molteplicità, è l'odio; da allora i quattro elementi in lotta fra loro sollevano vortici d'una turbinante molteplicità: batte l'onda, urla il vento; colori sgargianti abbagliano la vista; il fuoco copre le asperità del terreno di un totale terremoto; Empedocle si lanciava in olocausto tra le fiamme del vulcano (così narra la leggenda): si compiva il miracolo dell'amore. E' il leit-motiv degli enigmi siciliani, che si moltiplicano nel mosaico policromo; nel tentativo di superare il conflitto tra forze primordiali e culture, affiorano in Sicilia deformi misture: riso e pianto, levità e inerzia, fiamma e roccia, croce e mezzaluna...
Goethe in uno dei suoi scritti ebbe a dire che la poesia è il frutto maturo dell'intera natura. Qui la sua frase torna alla memoria...; qui la natura è una melodia, intonata da qualcuno; e il frutto che vi matura è la canzone della Sicilia; il furente richiamo di Empedocle dall'Etna; ed essa continua, si fa in seguito più greve; si posa sulle bocche dei siciliani, come un dialetto formato da vari parlari: poi tale dialetto valica i confini dell'isola, diffondendosi in Italia e costituendo l'attuale lingua italiana; più tardi la lingua prende stabile dimora nelle minuscole tessere del mosaico policromo; dai fondamenti del nuovo linguaggio sorge la scrittura di Dante: la dolce favella emerge dal marmo latino, come il colore di Giotto dalle luci del mosaico; il ritmo solare di Pitagora, che attraverso il gesto di Empedocle accompagna l'armonia delle sfere ai boati dell'Etna, con la cultura dell'Italia, con il Rinascimento, origina il fermento della natura a venire della terra: terre, divenute pensieri.


Andrej Belyi
Viaggio in Italia




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26/12/2009 11:26


TOSCANA


I fiorentini si considerano e sono considerati dagli altri italiani come il popolo più civile d'Italia, così come il contadino toscano è giudicato il più esperto e intelligente degli agricoltori italiani. Questa qualità chiamata 'fiorentinità' (e Firenze è la sola citta italiana il cui nome si muti naturalmente in un sostantivo che denoti una qualità astratta) vuol dire buon gusto e abilità manuale, com'è per Parigi in Francia. Il mondo la conosce nelle scarpe, nelle borse, negli ombrelli, nella biancheria, nei gioielli, e le ditte di Ferragamo, Gucci, Buccellati, Emilia Bellini, con sedi in via Tornabuoni e via della Vigna Nuova e ramificazioni a Roma, Milano, New York, svegliano fioche riminiscenze delle vecchie società bancarie dei Peruzzi, dei Bardi, dei Pazzi. La 'fiorentinità' nasce dalle mani dell'artigiano in tuta o di quelle zitelle come le sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi con le loro forbici e ditali e il tombolo e la grossa domestica di nome Niobe. Se il nome è sinonimo di civiltà e raffinatezza, non può essere separato dal povero e dal suo modo di parlare, di pensare e sentire, che è sempre realistico e equilibrato. La parlata fiorentina è piena di diminutivi; ogni cosa è trasformata in qualcosa di più 'piccolo', il che ha un effetto curioso che è insieme deprecatorio e nobilitante. Vecchie esclamazioni - come "Accidenti!" "Diamine!", "Perbacco!" - danno alla parlata fiorentina un sapore campagnolo. Un "pisolino" è il termine usato per indicare il riposo pomeridiano; una bevanda di acqua e limone prende il nome di "canarino".
In ogni fiorentino c'è annidato un critico e questo spirito critico è la sorgente nascosta del loro orgoglio. "Cosa vòle, per noi gli stranieri son tutti compagni, tutti odiosi", disse schiettamente una manicure a Bernard Berenson, che avanti la prima guerra mondiale cercava di aizzarla contro i tedeschi.


Mary McCarthy
Le pietre di Firenze e le acque di Venezia


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29/12/2009 10:20


VENETO



I veneziani si distendono al sole di mezzogiorno, sguazzano nel mare, indossano abiti di stracci - ma luminosi - si adattano, si armonizzano, sono impegnati in una eterna conversazione. Non è facile dire se li vogliamo diversi da quelli che sono, né che farebbe molta differenza se fossero meglio nutriti. Il numero di persone che a Venezia mostra chiari segni di denutrizione è dolorosamente alto, ma sarebbe un guaio peggiore se non fossimo abbastanza perspicaci da comprendere che il temperamento veneziano, così ricco di risorse, può sbocciare anche da quanto è appena sufficiente al sostentamento di un cane.
La natura è stata buona con il veneziano; il sole, l'ozio, la conversazione, i panorami costituiscono gran parte del suo nutrimento. Ci vuole molto per costruire un americano di successo, ma per fare un veneziano felice basta un po' di arguta sensibilità. Gli italiani hanno, al tempo stesso, la fortuna e la disgrazia di essere consapevoli di alcune loro manchevolezze; così, se si misura una civiltà dal numero dei suoi bisogni, come del resto sembra fare l'opinione comune, i poveri bambini della laguna farebbero una ben magra figura una volta inseriti in tabelle comparative convenzionali. Al turista sentimentale piace non la loro miseria, certo, ma il modo in cui essi la eludono; il visitatore è come gratificato dalla visione di questa razza meravigliosa che vive con l'aiuto della propria immaginazione. Il modo giusto per godere Venezia è quello di seguire l'esempio di questa gente e procurarsi il massimo possibile di semplici piaceri. Del resto, quasi tutti i piaceri di questo luogo sono semplici e una tale affermazione non deve ritenersi solo un ingegnoso paradosso. Non esiste piacere più semplice di quello che si prova nell'osservare uno splendido Tiziano o un Tintoretto, o nel gironzolare dentro San Marco (è detestabile piuttosto il fatto che tutto questo diventi un'abitudine), fissando lo sguardo stanco di luce su quell'oscurità senza finestre; oppure nel lasciarsi cullare da una gondola, nell'affacciarsi a un balcone, nel prendere il caffè al Florian. Le giornate veneziane sono fatte di questi passatempi superficiali e il piacere che ne deriva sta nelle emozioni che essi sanno suscitare.
Queste, per fortuna, sono delle più raffinate, altrimenti Venezia sarebbe di una noiosità insopportabile.


Henry James
Ore italiane







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