Feriae Veritas, parte due di quattro:

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florentia89
00giovedì 30 aprile 2009 20:13
La fuga è avviata, sarà fruttifera?

Nel basso Lazio
Stamane è abbastanza fresco. Adotto allora il sistema usato da Lambrettista e militare, inserisco due fogli di giornale sotto il giaccone coprendo petto e fianchi laterali. Stupendo, è come avessi indosso un altro paio di maglioni consistenti. Pikappa parte appena toccato, pronto alle nuove mete da raggiungere con i suoi quasi cinquanta orari, ovviamente quando possibile e non ci siano difficoltà Mi sono svegliato presto.
Due passi per sgranchirmi, far colazione e partenza! Il Vespino è beato del trovarsi in un vero viaggio, il primo della sua vita meccanica.
Pianura e pianura circostante. Residui di case coloniche della bonifica degli anni trenta, quella dell’Opera Nazionale Combattenti, appaiono e scompaiono, inghiottite dalle strutture moderne, capannoni, stabilimenti, depositi, palazzi, ristoranti, di tutto. Così raggiungo la Littoria fascista, la Latina di oggi. Qui sono concentrati molti dei miei ricordi, fra i quali di quando partecipai all’inaugurazione della città (1932). Avevo cinque anni e un mio zio antemarcia mi portò col suo gruppo umbro che si recava all’adunata.
Quel giorno era tutto un tripudio di gagliardetti, bandiere, marmi, colonne, e tanta gente ad ascoltare il Duce, che io non riuscii a vedere (la voce oltretutto giungeva sul fondo con un’acustica penosa; gli altoparlanti della Germini Radio non dovevano essere un granché).
Ci trovavamo al limitare della grande piazza ed ero sballottato fra uomini in divisa alti il doppio di me, pur se lo zio mi alzava in alto.
Mi pose poi su un muretto gridando: “ecco il Duce laggiù, lo vedi?” e io rispondevo si, anche se notavo solo un gruppo di persone lontane e la parvenza che una si trovasse un po’ più in evidenza delle altre.
Tornerò a Littoria più grandicello, come balilla prima, poi militare pressoché adolescente, in quanto uno dei depositi ove scaricavamo i rifornimenti per le truppe tedesche si trovava nelle sue prossimità.
Pur se la Latina odierna ha subito pesanti varianti l’impronta della Littoria del Fascio si vede e si nota, così non rinuncio a un giro cittadino con Pikappa, fiero di condurmi, e Mancinus che si è rifatto vivo (beh! vivo!), e ogni tanto mi fa capire di esserci per farmi un po’ di compagnia. Mangio qualcosa di anonimo al Mac e scendo verso Sperlonga, sempre su strade secondarie in quanto il cinquantino non solo viene rifiutato da autostrade e superstrade, ma anche in quelle normali occorre prudenza per le auto che corrono da pazzi, malgrado i divieti e limitazioni presenti solo in teoria.
Decido di passare per San Felice al Circeo, quasi senza fermarmi, riducendo magari a passo d’uomo la velocità. Rivedo così la colonia GIL che mi accolse nel 1934. C’è sempre! è lei! E rivedo il mare con le sue grotte primordiali, ove una volta rischiammo di affogare a causa di un canotto pneumatico che perdeva aria. Che ricordi, che sogni! Sembra ieri ed è passata una vita.
Sfioro Sabaudia e raggiungo Sperlonga nel tardo pomeriggio. Non rintraccio il fabbricato ove il borsaro - nero campano ci diede dei sacchi di sale ai tempi della Wehrmacht, sarà stato demolito o inglobato in qualcosa d’altro.
Riconosco i luoghi delle colonie estive delle mie figlie e la palazzina ove conobbi un produttore di vino che per anni mi recapiterà mensilmente una botticella del rosso locale, migliore del bianco che pur cercava di affibbiarmi e ne regalava sempre un paio di bottiglie.
Ed eccomi a Terracina, la colonia romana Anxuriana, col lungomare, il Tempio di Giove Anxur che sovrasta e protegge la cittadina, nonché la montagna a picco sul mare nella quale Traiano fece scavare un passaggio alto quanto un palazzo di dieci piani (c’è alla base l’indicazione CXX, ad indicare centoventi piedi romani, trentacinque metri), per il passaggio in loco della via Appia, altrimenti impossibile.
Presso le sue coste passarono lenti i vascelli di Odisseo e di Enea, coi profughi troiani in cerca di un futuro, donne, di una nuova patria.
Faccio in modo di andare per pochi minuti al cimitero della cittadina ove riposa la mia cara zia Anita, la “pioniera” eritrea albergatrice in Asmara, una seconda madre per me e la mia famiglia, la quale mi promise di prendermi con lei nell’hotel quando fossi divenuto più grandicello, promessa non mantenuta a seguito del crollo che avvenne con la perdita dell’Africa Orientale Italiana.
Ritrovo a Terracina l’hotel con camere sulla spiaggia ove alloggiai con mia moglie in tempi passati. Mi accoglierà per la notte.
Ceno con qualcosa di caldo, ne avevo bisogno. La sera siedo dinanzi ad un mare buio, rotto dalle lucine delle barche dei pescatori.
La Luna è sostituita dal modesto crepuscolo stellare, da qualche luce dell’hotel e della città alle spalle.
Stasera ho pensato alla famiglia, a mio figlio Alberto, Alby per me che, con l’opera determinante di sua moglie, ci ha regalato una stupenda nipotina.
La mente corre a decenni or sono quando la natura, o gli effetti perversi dei farmaci umani, decisero di farlo nascere con problemi tiroidei senza che i medici d’allora potessero diagnosticarlo con tempestività, data la carenza dei mezzi che saranno poi a disposizione
Quanti specialisti e professori interpellati! Poi il miracolo del Policlinico di Roma i cui sanitari, mandati a quel paese i soloni e luminari precedenti, risolsero il problema con risultati ottimali. E quante difficoltà per farti crescere bene per la scuola a Varese, ove ci eravamo trasferiti, e in prima studiavano già l’insiemistica mentre a Roma facevi palloncini e bastoncelli! Poi le elementari, le superiori, i pacchi delle schede didattiche che preparavo per farti studiare meglio (e conservo). E tu crescevi, e io tentavo d’essere tuo amico ed ero solo un padre troppo protettivo.
Infine il ritorno a Roma, una maturità un po’ faticata e un po’ imposta, i primi turbamenti sentimentali, la prova universitaria informatica a Milano, la vita non facile con tua sorella in Lombardia, il ritorno a Roma, il primo lavoro nel mio studio, l’auto, i tuoi e nostri computer Vic20, C64, C128, la Commodore era di casa da noi, poi l’Amstrad più serioso, il tuo lavoro informatico e siamo ad oggi. Come in tutte le famiglie pluricomponenti i lati positivi si sono accompagnati a quelli che lo sono meno.
Omissis omissis
Non parlo di altre persone oltre te, non è giusto e non è mio intendimento, parlo di mio figlio e basta. Ci furono oltretutto screzi con la tua sorella che tentò di farti studiare a Milano nella facoltà della tua passione, l’informatica, ma tu preferisti Roma e la tua ragazza con una quasi fuga che generò un trauma in lei, in te, noi, le cui code si fanno ancora sentire. Accettai la tua volontà, riprendesti la vita precedente e il filone affettivo romanio Ti sei sentito di farlo e hai fatto bene ad agire come hai creduto, pur se non condivido la persistente freddezza con la tua sorella maggiore che ti ha fatto da sorella, amica, mamma e non sai, o forse lo sai, quanto ti voglia bene.
Il passato è passato, e sarebbe ora per entrambi di superare le incomprensioni presenti sovente nelle famiglie plurime, positive e vitali, quella ove sei cresciuto, non certo in quelle dei figli unici.
Questo lo dico a valere per te nonché e altrettanto per tua sorella, il cui carattere duro, apparentemente freddo, occulta un magone che non riesce a superare malgrado la sua personalità e maturità.
Basterebbe un niente di entrambi per superare ogni ostacolo.
A volte vedo ripresentarsi la situazione che in epoca lontana ci fu con mio fratello il quale, per motivi inspiegabili e comunque infimi, decise un isolamento da noi durato una vita, con la conseguenza che ben sei cugini siano cresciuti senza di fatto conoscersi, come estranei, pur vivendo oltretutto entrambe le nostre famiglie in Roma. Ciò non avrei dovuto perdonarlo (è un modo di dire, l’ho fatto, e come! ci vediamo e sentiamo) e sono certo che egli, ora solo, abbia compreso, ragioni o torti, l’errore passato.
Per quanto riguarda te mi auguro solo che tu possa usare l’accortezza di una persona matura, aggiungo anche maschia, sia per capire me e il mio agire, sia per rinvigorire una comunanza fra tutti, iniziando magari con l’invio a tua sorella delle foto di tua figlia che fai avere a noi, evitando lo debba fare io.
Concludo con il chiedermi se con mio figlio il mio agire sia stato corretto e positivo. La risposta non può essere che a mezza via.
In parte penso di non aver errato per quello che ho cercato di instaurare, dall’altro di avere esagerato nella protezione che ritenei opportuno applicare, la quale potrebbe aver condizionato la sua formazione, contribuendo al nascere di un carattere sensibile, riservato, forse un po’ incerto. Ciò avvenne, a parte i tempi e l’età, per motivi obbligati, contingenti, come un puzzle ove si cerca di completare una figura con i tasselli disponibili (genitori non si nasce, si diventa). I suoi problemi d’infanzia infatti generarono in me e noi un’apprensione che una volta avviata è difficile limitare. Per quanto mi riguarda concludo e prendo atto di non essere soddisfatto del mio operare, pur positivo sostanzialmente. Il tutto poteva, doveva, procedere meglio.
Infine a nanna, con le stelle che osservo dall’ampia vetrata-porta.
Il mattino mi sveglio presto e vedo più persone in spiaggia che pensavo deserta, vista la stagione. Mi avvicino e mi invitano a tenermi lontano, cauto. Cosa sia avvenuto nella notte non so, fatto è che la linea della riva, a perdita d’occhio (o almeno per un lungo tratto) è coperta di meduse dal colore azzurrino, più che bianche, rigettate dalla risacca notturna. E’ uno spettacolo mai visto in misura così imponente. Sino ad oggi ne avevo notata qualcuna tenuta a bada da bagnanti e passanti, ma un’intera comunità mucillaginosa, azzurrina, quella no! Poi colazione e via! verso Montecassino.
Pikappa scalpita, sente che è un tratto impegnativo.
Mancinus a momenti lo sento, il più delle volte è lontano. Finirà per dirmi le sue, ne sono certo. Devo decidermi come chiamarlo, il patronimico Mancinus potrebbe andare, è quello che fa pensare egli possa essere un mio antenato Quinto dice meno, mi sembra più banale, e potrei scegliere di usarlo saltuariamente. In verità, a pensarci bene, mi sono posto un problema che non esiste, lo chiamerò come mi verrà al momento, anzi andrà a finire che il più proletario Quinto potrebbe spodestare di parecchio il nobile comandante Mancinus Tullius Hostilius Mancinus.

San Benedetto
Oggi la giornata è dedicata a Cassino e Montecassino. Raggiungo il luogo con una bella tirata ed eccomi sulla sommità del monte, con PiKappa che non ha perso un colpo. Qui San Benedetto fondò e costruì il suo Monastero, il maggiore degli altri presenti in Italia e fuori. Il maestoso edificio da quindici secoli e più sovrasta monti e campagne circostanti quale faro perenne di difesa, tutela e civiltà dei luoghi e genti circostanti.
Venne distrutto e ricostruito più volte, compreso il 1944, quando fu demolito dalle bombe degli aerei anglo-americani.
Chiedo accoglienza. Parlo con un monaco disponibile. Gli accenno i miei problemi in una specie di confessione-colloquio informale.
Ascolta, comprende, approva senza titubanza le ragioni del mio allontanamento provvisorio. Osserva, ammirato e incredulo, il mio modesto mezzo di locomozione, apparentemente poco affidabile e poi, orrore, afferma che, oltre ad aver fatto bene ad attuare questa pausa di riflessione, nella vita occorre, come affermava S. Paolo (?), non fare delle donne la base determinante della propria esistenza, rivelando un aspetto del suo carattere misogino, a valere forse pure per S.Benedetto.
Decide comunque io gli sia simpatico e, in via eccezionale, trova il modo di sistemarmi nella loro foresteria, così il problema notte è risolto e non devo cercare altrove. Ufficialmente non chiede nulla ma afferma sia sufficiente un’offerta a San Benedetto, dieci – quindici euro saranno sufficienti.
Cioè all’incirca quanto spendo altrove, forse un po’ meno.
Rivisito assieme a lui il nuovo Monastero il quale, pur avendo riprodotto con cavillosità il precedente distrutto, mostra chiaro il rifacimento degli anni cinquanta. Del complesso, che visitai nell’anteguerra, riconosco la struttura generale, il piazzale d’ingresso, la scalinata, il pozzo e il monumento centrali, i tanti reperti recuperati e riutilizzati, presenti ovunque.
Rammento lo sgombero della prestigiosa biblioteca e dell’altrettanto archivio disposti nel 1944 dall’Abate Diamare, in accordo e con la collaborazione dei servizi dell’esercito tedesco, di cui il comandante che curò lo sgombero era un laico-religioso il cui ordine non venne riconosciuto dalle norme e disposizioni della Wehrmacht.
Rammento la colonna degli autocarri con le casse e i colli dei documenti a bordo transitare per Piazza Venezia, diretti in Vaticano.
Ho modo di pensare e parlare a modo mio con San Benedetto, prendendo atto che dai suoi tempi ai nostri le cose siano cambiate poco, specie dopo che ho visionato per l’ennesima volta, assieme al monaco amico, il filmato della distruzione dell’abbazia da parte delle schiere dei barbari bombardieri alleati.
Mangio con loro una zuppa di verdure con pane raffermo, un po’ la “ribollita” toscana, nonché un trancio consistente di un’enorme frittata con cipolle e qualcos’altro, l’equivalente di una bistecca e contorno.
Vino dei frati, cosette minori, un frutto. Vorrà dire che la mia offerta terrà conto anche di questo simposio e di ciò che seguirà in serata.
Ho il pomeriggio libero e allora con Pikappa giù e sù per la montagna e mi ritrovo al Cimitero di guerra germanico. Intravedo quello polacco ma accantono l’idea di visitarlo. Visto che i caduti in guerra dovrebbero essere uguali fra loro, io scelgo per onorarli di rendere omaggio proprio a quelli tedeschi, i più dimenticati, almeno da noi. Forse un giorno mi si chiederà conto di questo razzismo con la morte, che mi ha portato a ignorare polacchi, americani, inglesi e altri. La visita sostituirà anche l’altra che avrei voluto fare al cimitero di Pomezia, ove riposano ventisettemila caduti germanici nostri alleati, poi nemici per l’Italia del sud e amici per quella del nord.
Una bella confusione e complicazione.
Sono preso come sempre dal clima mistico, nordico, della collina che accoglie più di ventimila fanti, granatieri, paracadutisti, carristi, delle forze teutoniche già con noi combattenti, evitata dai tanti nostrani che corrono a omaggiare i vicini ragazzi polacchi.
Nel posto mi immedesimo con chi mi circonda, parlo al mio amico Cruck, cioè Rodolfo, soldato a me coetaneo, sparito nel nulla a Cassino, i cui resti dovrebbero essere nell’ossario, parlo con lo Zio Fritz, ucciso a via Rasella, che qui non c’è, rivolgo un pensiero ai tanti della mia età, oltre a coloro più grandi, che ci lasciarono nel tentativo di fermare le orde del mondo africano e asiatico, ci aggiungo quello senza anima, radici, del mondo d’oltreoceano. Circa gli inglesi nulla è variato dalla barbaria del tempo dei romani..
Il custode mi vede attento. Parliamo un po’ e nel sapere che sono stato a suo tempo un po’ militare con loro non sa come dimostrare il suo riguardo e riconoscenza. Altrettanto fece il precedente quando cercai il mio amico Cruck. Finirà con l’offrirmi un bicchierino di un loro centerbe alpino oltre un libretto sui cimiteri germanici in Italia, relativi alla prima e seconda guerra mondiale.
M’invita a lasciare i miei dati sul grosso registro delle visite.
Potrebbero farmi recapitare qualcosa a casa. Afferma che passerà il mio nominativo a non so quale associazione di reduci tedesco-italici.
Scendo, rasento coste montane travagliate, dirupi, ove si immaginano, più che vedere, residui di ruderi senza tempo.
Dovrebbe essere la vecchia Cassino o qualche frazione. La nuova ha cambiato luogo. Ora è in pianura, al di sotto dei monti.
Torno al Monastero. Mi fanno entrare da un ingresso secondario indicatomi già dal monaco del mattino. Il guardiano era avvertito e non ho difficoltà a farmi accettare. Passo nel refettorio ove mi viene offerta una cena frugale e passo poi mezz’ora nel coro fra canti gregoriani soffusi e solenni, ove spira un’aria mistica immobile nei secoli.
Mi accoglie una branda monastica, alla militare, mentre Pikappa sosta in un angolo interno, col pancione, o pancino, rifornito di carburante al tre per cento di olio, visto che ho preferito sia un po’ in eccesso rispetto il consueto due.
Mi distendo, socchiudo gli occhi e rivedo nelle aree vicine gli uomini germanici lottare per loro e per noi, soprattutto contro nordafricani, neri, indiani, polacchi, altre razze a non finire, e i caccia che non davano tregua ai nostri mezzi che portavano cibo e materiali. La sera, solo con me stesso, mi dedico al vedere di dare una risposta al quesito che mi sono più volte posto. Cioè se i sentimenti che provai verso le idee, le azioni, gli eventi dei tempi della mia gioventù, e successivi, siano stati nell’insieme corretti e coerenti, o ingiusti e errati, e quanto abbiano influito nella mia vita.
Malgrado la verde età dovetti vedermela con Patria, Nazione, Impero, Popolo, Razza Ariana, religione, speranze, certezze, esistenze allo sbaraglio, ma furono mete queste da amare, seguire? Le tante croci che oggi hanno occupato la mia giornata mi spingono a rifletterci e costituiscono un quesito che ho già cercato di risolvere, senza affrontarlo con profondità di giudizio.
Oggi sono passati sessanta – settanta anni dalla mia gioventù e con l’esperienza acquisita, i test che mi ha imposto la vita, l’istruzione, la presa di coscienza su aspetti prima scontati, ritengo di non errare nel confermare che i principi nei quali credetti siano stati irrazionalmente stupendi nonché, sovente, anche profondamente errati ed ingiusti.
La dottrina democratica del dopoguerra, pur con le sue limitazioni e carenze, ha costituito, sin dai tempi di Atene, un punto da accettare e rispettare, nonché di arrivo per contrastare gli assolutismi umani o divini. Churchill, e non solo lui, affermava che la democrazia è una forma di governo pregna di difetti, oltre di pregi, ma di meglio fino ad oggi non si è trovato nulla.
Tanto che, e questo lo aggiungo io, una forma di democrazia magari larvata, impropria, finisce per far capolino anche in buona parte delle dittature che si sono succedute nel tempo. Pertanto, come ho detto all’inizio del mio parlare e ripeto, è bene cercare di essere cittadini convinti del proprio paese, coscienti e rispettosi delle leggi, con le menti aperte e non condizionate, senza obbligo imposto a considerarsi nazionalisti, fascisti, comunisti, liberali, socialisti, o cristiani e altre fedi o credi, privilegiando sempre una impostazione laica e civile, sia personale sia collettiva.
Mi sono chiesto e mi chiedo se oggi ripeterei il cammino che scelsi di percorrere nella mia giovinezza. Convengo che con la situazione odierna della mia formazione ed età potrebbero esserci profonde perplessità, quindi dovrei affermare non lo rifarei. Ovvio dico ciò considerando il momento d’oggi.
Dovessi ritrovarmi però in similarità di condizioni, uomini, tempi ed età, allora non avrei dubbi, non cambierei assolutamente nulla del mio decidere remoto il quale, sia chiaro, anche oggi non mi sento di rifiutare o, peggio, di rinnegare o condannare in modo alcuno.

Origini Erniche
Lascio Cassino con impressioni multiple. Percepisco ridda di secoli e di storia, ere trascorse in un soffio, scontri e guerre lontane e recenti, luci, ombre, vita e morte costantemente presenti.
Pikappa mi chiede che fare. Io ho pensato di tornare nei luoghi delle mie origini, cioè nel frusinate, ad Anagni, l’Anagnia municipio romano sempre fedele a Roma e da questa costantemente gratificata.
E’ la città che diede alla chiesa quattro Papi, è la città dei fieri Ernici ove, nel modesto vicolo del Cocchetto, prossimo alla cinta muraria, vissero più generazioni di miei avi, nonché nacque mio padre, portato a Roma sul finire del XIX secolo, a un solo anno di età.
L’Anagni di oggi è un centro in gran parte moderno nella fascia periferica, il cui nucleo però è quello di duemila, mille, cinquecento anni or sono, intatto, avvincente. Immagino nelle sue viuzze le soldataglie del Colonna e del Noiret affrontare Bonifacio VIII e oltraggiarlo, come tramanda la storia. Nella pietra delle vie si aprono possenti archi medioevali e sull’acropoli sorge la splendida cattedrale romanica, con la torre campanaria separata che svetta in cielo, sovrastando maestosa e solenne città e campagna.
E’ l’Anagnia dalle possenti mura, che la protessero validamente da nemici lontani e vicini nonché, sovente, da amici infidi. Sento presenti i miei avi, modesti agricoltori e allevatori che, dalla Roma di loro origine ancestrale, seguirono in armi il Papa Bonifacio nella sede anagnina, restando poi inglobati nella nuova realtà. Li immagino seguire i Papi ad Avignone, dando avvio ad un ramo della famiglia il cui cognome, mi dicono, sia variato in Gauchers. Pikappa riposa al posteggio, e io cammino, cammino.
Mi affaccio ammirato alla casa-studio-museo dello scultore Gismondi, che ha dato tanto lustro alla città e al paese. Ma non faccio il turista asiatico o nordico, bramoso di vedere, sentire, soprattutto fotografare. Ho voluto solo immergermi in una realtà esistenziale già presente nel mio DNA genetico.
Ho pensato di fare anche una veloce puntata alla Alatri non lontana, anch’essa sede ernica, cittadina che mi ha sempre attratto e affascinato.
Farò due passi sotto le possenti mura poligonali e sulla stupenda arx superiore che spazia in panorami che si perdono all’orizzonte. Mi fermerò li per la notte. Conosco una locanda, quasi un ostello del cinquecento, dei cui servizi ne usufruii con mia moglie. Così Pikappa mi conduce ad Alatrium, città anch’essa fedele a Roma, importante municipio a guardia del turbolento Lazio circostante. E’ una dei cinque centri che formavano la pentapoli iniziante con la lettera A (Alatri, Arpino, Anagni, Arce, Atina).
Fermo Pikappa e proseguo a piedi sotto i massi della cinta incredibilmente enormi, quali fossero estratti, lavorati, sistemati, da possenti titani, quando Roma non era nemmeno ai primi vagiti.
Salgo sull’Acropoli e la mia è l’impressione del trovarmi all’apice irreale di un centro orgoglioso fiero, benestante, da sempre rispettato.
Visito la cattedrale sorta sulle rovine del precedente tempio pagano e, mi rammarico affermarlo, non provo emozioni particolari, anzi ho l’impressione essa costituisca un corpo estraneo, pur di ovvia realtà, in quell’insieme di storia autoctona e millenaria. Che dire di più? Trovo la locanda, consumo una cena robusta, mi accoglie un letto. Il tutto per pochi Euro, qualcosa in più della mia offerta ai monaci di San Benedetto.
Mancinus si è fatto risentire e capire, s’intende a modo suo.
Era rimasto nei pressi del Tempio di Giove Anxur e del taglio montano di Traiano, cioè della Colonia Anxurnas, ora Terracina, zona degli Ausoni-Opici, poi etrusca e ribelle a Roma, subendone dure conseguenze. Potenziata infine dall’autocrate Silla, nonché patria natale dell’imperatore Galba.
Mi fa capire di essere rimasto affatto entusiasta di Montecassino e di quel Benedetto, romano convertito ai cristiani, i musulmani di allora, che invece di difendere la patria e i suoi Dei preferì arroccarsi sul monte e in qualche altra cima, onde proteggere monaci e villici da Goti, Visigoti, Ostrogoti, Longobardi, altri barbari nonché, zona che in epoche recenti vide i teutonici del Maresciallo Kesselring opporsi alle orde di angli, galli, africani, magrebini, asiatici, oltre ai popoli ricchi, ma affatto civili, provenienti da oltre le Colonne d’Ercole. Mancinus si è sentito più a suo agio nel ritrovarsi ad Anagnia e Alatrium, ove bazzicò ai suoi tempi nelle guarnigioni li’ presenti, e per questo mi sembra si sia rifatto vivo (il solito, lasciamo stare il vivo).
Non poteva non ripresentarsi di fronte a tali magnificenze della sua epoca, e di quelle antecedenti e successive. Ora però dovrebbe essersi stancato e mi sussurra che un riposino a modo suo andrà a farlo, e non lo cerchi finche non ci sia qualcos’altro di interessante. Mi corico non tardi, sono un bel po’ affaticato. Il piano di viaggio prevede per domani il riavvicinarmi a Roma con una sosta a Praeneste, cioè Palestrina, poi a Tivoli, Tibur, coi suoi templi e ville romane, nonché barocco-rinascimentali.
Come prefisso stasera ragionerò con me stesso circa la figlia minore, non senza chiedermi cosa stia accadendo fra i miei di casa per il mio errabondare. Rapido sguardo al cellulare, subito richiuso. C’è qualche messaggio che non leggo. Manca quello di emergenza che ho concordato con un paio di complici, i quali sono impegnati a riferirmi solo ciò che possa richiedere il mio ritorno.
Il quesito di oggi è il solito. Posso ritenere o meno di essere stato un buon padre verso mia figlia, nei limiti delle umane tolleranze?
Per rispondere analizzo meglio la panoramica su di lei e la famiglia.
Ah Silvia! quale rapporto di affetto, comprensione, coinvolgimento, hai sempre generato in tua madre e soprattutto in me! Il carattere che avevi e hai, apparentemente fragile ed apprensivo, nonché bisognoso di riguardo e attenzione, quanto posto ha occupato sin dalla tua nascita, per giungere ad oggi. Ho sentito sempre impellente il bisogno di proteggerti da cosa so’, magari errando, ritenendoti avvolta in timori giustificanti la tua sovente aggressività, esternata verso di noi per mascherare le tue evidenti insicurezze.
Nascesti in cinque minuti e bene, ma già dopo mezz’ora ci chiedesti aiuto per il nero nemico che saliva nelle braccine.
Corsi come un fulmine in clinica e superammo quel primo ostacolo.
Poi mi chiedevi sempre più aiuto per le angherie che ritenevi aver subito nella giornata dalla mamma e sorella.
E guai a riprenderti con un po’ di quella durezza che allora si applicava ai bambini! Guai accennare uno sculaccione! restavi senza respiro per un tempo infinitamente lungo, mettendo a dura prova i nostri equilibri emotivi. Poi tutto si risolveva, come si risolse quando ingoiasti una caramella e stavi soffocando, col nero già noto che si riaffacciava nemico. Quella volta la forza della disperazione mi portò a rivoltarti e spingere il dito giù, giù, giù nella gola, estromettendo il corpo che ti stava aggredendo, ma graffiandoti addirittura la trachea! E tu che anni dopo ti lamenterai per punizioni corporali forse mai ricevute, salvo eccezioni rare e limitate che nemmeno ricordo.
E come applicarle, a parte il mio rifiuto ad usare tali correzioni, che bastava solo la parvenza di uno sculaccione per farti cadere in apnea per un’eternità terrifica? Ma di meraviglioso c’era la tua gioia di vivere, il tuo agire originale, il tuo estro in arte sin dalla tenera età. Ricordo quando, a tre – quattro anni, prendesti un foglio, una matita colorata, e con quattro segni nacque un gatto pronto ad uscire dalla carta che l’imprigionava.
E quando dal tuo asilo di suore disattente te ne andasti per i fatti tuoi e ti ritrovammo, angosciati, seduta dietro la cassa di un vicino negozio di alimentari, ove ritennero di esporti in bella mostra in attesa si evidenziassero gli incoscienti genitori! Poi le scuole niente male, la danza che ti avvinceva, le tue estrosità (chi diceva capricci), la voglia di libertà. A questo iter di prima gioventù seguì un trasferimento per il mio lavoro a Varese. Lasciasti amichette, amichetti, siti familiari, per una città che consideravi sperduta in uno sconosciuto e scostante nord. Piangesti in auto fino a Bologna quel giorno per te infausto della partenza, quando a Roma, oltretutto, la notte prima, come una maledizione, ci rubarono molte cose le più personali, di valore e di pregio. Poi la vita lombarda non difficile, ma nemmeno facile, svoltasi negli anni settanta della contestazione giovanile e del tuo liceo artistico, ove vi piaceva essere le protagoniste del momento. L’Università poi il rientro e la difficile vita romana, anche per la tua decisione di sposarti con decisione alquanto unilaterale.
Omissis
finché non sei tornata da noi con le tue figlie ormai signorinelle, di cui la minore ebbe duri problemi fisici ora superati, per i quali vi demmo la massima assistenza, lo sai. Silvia, io seguito a chiedermi se i tuoi anni di vita, non molti in verità, abbiano visto in me l’agire di un buon padre, non dico amico, perché coi figli e figlie ciò è difficile, possibile quasi mai.
Nei primi venti anni cercai di darti un indirizzo, collaborare. Per i successivi ho avuto sempre il tu li abbia passati con difficoltà, subendo molto di tutto, e a ben poco servirono i nostri aiuti di emergenza nei casi più evidenti! E ciò trovandoti oltretutto lontana da noi, in una remota parte di un sud difficile. Dovesti commisurarti anche con l’intromissione di una cognata-padrona che con invadenza e prepotenza si frammise a voi.. A volte mi chiedo come abbia fatto il vostro rapporto a durare quasi un ventennio, pur se era evidente che la crisi c’era da tempo. Silvia, dove ho sbagliato con te? O forse ho sbagliato tutto o quasi? E’ certo però che il nostro rapporto abbia funzionato poco. Tu sei stata la mia bambina amata, gentile, da tenere cara. Ugualmente per quando non eri più bambina e formasti una famiglia.
Omissis
Per il futuro mi auguro che i nostri rapporti possano dimostrarsi più sentiti e sii certa che tenterò, per quando io possa non esserci e per quanto possibile, che tu, anche in quel caso, abbia una protezione che possa aiutarti.
E come dirò per tua sorella, altrettanto dico per te. Se oggi io sono vivo è in quanto, come venni salvato da tua sorella medico per malattie e malanni, lo fui altrettanto da te quando svenni nella piscina della casa marina e sarei annegato in un batter d’occhio se tu, sola presente, non avessi udito un mio accenno di grido e aiutato, anche con difficoltà, a che non finissi sul fondo.
E non posso omettere il rincrescimento per il tuo distacco per la sorella maggiore, in atto più o meno da sempre, ed esteso per riflesso alle tue figlie.
Sorella che, pur con le sue problematiche, si è prodigata in tante occasioni, con interventi più che concreti, estesi anche alle nipoti. Però stasera, anzi stanotte, mi interessi tu. Che dirti? di interrompere questo status che vide i primi accenni sin da quando eravate bambine? Su! uno sforzo, fallo per te, per tua sorella, per me e tua madre. Fallo per le tue figlie, per tutti Altrettanto mi auguro per la tua sorella dal cuore d’oro, lo sai.
Quanto ho ragionato stasera! Quanta concentrazione e analisi ho dovuto applicare! Resta però la mia insoddisfazione di fondo sul come abbia condotto i rapporti con te Silvia. Questa è però postuma, tutte le cose dovrebbero giudicarsi esclusivamente al momento e non a posteriori.
Ne viene che io rimanga cosciente di aver tentato di operare al meglio, riuscendoci parzialmente, e ciò è già qualcosa. E ora a riposo, ne ho bisogno

Praeneste – oggi Palestrina
Lascio le zone erniche con uno spostamento tranquillo e raggiungo le basi dei monti e colli ove si addossa Praeneste, la Palestrina di oggi.
Pikappa corre, svolta, attacca salite ed eccomi nella cittadina già fiorente al sorgere di Roma, fondata da Telegono, altro figlio di Odisseo e Circe, o da Ceculo, figlio addirittura di Vulcano. Fu la sede del tempio della Fortuna Primigenia e, tanto per cambiare, venne distrutta da Silla, che la ricostruì successivamente assieme al tempio. Gravitò d’allora nell’orbita di Roma repubblicana e imperiale, divenendo anche luogo di villeggiatura per benestanti e patrizi. Le invasioni barbariche, il medioevo, i periodi successivi, la videro coinvolta negli scontri e diatribe che colpirono tutto e tutti. Divenne Civitas Praenestina, Civitas Papalis, infine Palestrina.
Vide longobardi, goti di varie specie, ghibellini, guelfi; si susseguirono in essa i conti di Tuscolo, i Colonna, i Vitelleschi, i Barberini. Vi nacque il musicista Pierluigi da Palestrina. Le solite bombe USA dell’ultimo conflitto, oltre a distruggere tre quarti dell’abitato, ebbero il pregio, se non altro, di riportare alla luce vistosi avanzi e strutture del famoso Tempio della Fortuna. Passo parecchio tempo fra le sue rovine e le terrazze, nonché nell’area sacra del Santuario Superiore; decido anche di prolungare il mio tour veloce per rivisitare il Museo Archeologico ed altre cose d’interesse..
Provo a incontrare un amico che in loco, coi proventi di commesso al Senato (evito dire quanto guadagnino) si è costruito una stupenda villa. Lo trovo, abbracci, pacche, ricordiamo nostri eventi e non fa’ tragedie per Pikappa, siamo vicini a Roma, il mezzo non fa notizia. Anche lui ne ha un’altra.
Trovo la locanda ove dormire e mangiare.
Il mio amico vorrebbe stessi con lui ma, con pretesti vari, mi rendo libero.
Per il pranzo mi sono arrangiato alla solita fraschetta, panino e vino
La meditazione serale stasera sarà breve. Girare per ore vie e viuzze mi ha stancato e, non fosse per l’impegno preso con me stesso, salterei tutto. Mi limiterò a chiedermi, a complemento delle riflessioni su altri aspetti dello stesso argomento, visti o che seguiranno: “Ritieni giusto il tuo impegno di volontariato svolto con i tedeschi e non con la Repubblica Sociale, come fecero invece i tuoi amici di fede e avventura, che anche tu dovevi seguire?”
A ciò rispondo che la mia decisione di andare verso il nulla (ben sapevamo che la guerra era persa) nacque per la Repubblica Sociale e non per i germanici. Ma le sorti del momento (un mio arresto cretino da parte dei fascisti) e gli eventi bellici (sbarco alleato ad Anzio – Nettuno), fecero si che mi trovai inaspettatamente inserito nel servizio di Commissariato-Sussistenza della Wehrmacht, cosa che, pur se imprevista, non mi dispiacque affatto e non cercai di evitare. Ciò premesso, ed anche con le idee d’oggi, non rimpiango assolutamente nulla di ciò che attuai. Quindi il mio daffare lo ritengo giusto, corretto, collegandolo ovviamente a quei tempi in cui cercammo di instaurare in Europa un vero “Ordine Nuovo”, basato su sfere d’influenza germano-anglo-franco-italiane in Europa, nel Mediterraneo e colonie, forse altrove, con possibilità di sviluppo anche per i popoli slavi, i quali avrebbero trovato forza e dignità. Per l’altra parte del mondo, l’Asia, l’influenza politica ed economica sarebbe stata del Giappone, della Cina e dell’India di Ghandi, ancora unica, non divisa dalle aree Pakistane musulmane.
Tutte cose difficili da attuare, se non impossibili, però ci provammo.
Doveva sorgere una super Comunità Europea basata su un equilibrio sociale, economico e disciplinare di primo ordine. L’Europa odierna, pur meglio di niente, è una pallida idea di ciò che avrebbe potuto essere quella auspicata da Mussolini e Hitler. Oggi contano solo soldi, banche, multinazionali, direttive occulte più o meno segrete e massoniche, supremazia economica del mondo finanziario internazionale, specie ebraico, arabo, islamico.
Allora si sarebbero radicati nei popoli principi morali chiari, positivi, oltre al sorgere di un’impostazione economica mista (Stato-privato) certamente positiva, duratura e proficua. Io ebbi fiducia nei politici di allora, di cui vari lungimiranti e illuminati, e anche nei tedeschi per la loro serietà e correttezza.
Che poi essi (e non solo) si siano macchiati di gravi atrocità e scorrettezze resta una macchia dura da dimenticare. Ad evitare però di innalzare sugli altari falsi moralismi, contrappongo le iniquità degli USA e alleati, che negli ultimi giorni di guerra sganciarono due atomiche sui civili giapponesi (tralascio le conseguenze), per non dire dei massacri perpetrati dai loro bombardieri che distrussero mezza Italia e tre quarti della Germania, Dresda in primis. E dovrei aggiungere quanto perpetrato dai russi. Io queste apocalissi umane le ho in mente, nessuna esclusa, comprese le decine di migliaia di italiani buttati vivi nelle foibe o affogati a Zara, e i duecentomila spariti nel nulla nei triangoli della morte emiliani e viciniori, mercé l’opera dell’odio comunista. Quindi non posso essere un entusiasta del comunismo di oggi, per quanto edulcorato, nonché dei bianchi cristianuccoli infidi, dei verdi inconcludenti, dei politici antinazionali che un tempo fecero fucilare, nella loro infida legalità, parecchi italiani. Non sono entusiasta di una democrazia la quale, invece di svilupparsi nelle aule del parlamento, risolve ogni cosa nelle sedi partitiche, nei tribunali, nei giornali cartacei e mediatici. Interrompo altrimenti la sera diverrebbe più impegnativa delle precedenti.
Perciò confermo il mio pensiero, pur se è passata una vita.
Si, ritenei e ritengo giusto il mio impegno di allora con la Repubblica del Duce secondo le mie intenzioni d’inizio, e con i tedeschi poi per l’imponderabilità degli eventi succedutisi. Ci furono anche delle “collaborazioni” successive, che mi impegnarono ormai adulto, già con famiglia, e che non rifiuto. E allora non mi pesa confermare che, ritrovandomi alle stesse condizioni d’un tempo, ripeterei ciò che feci.
Sono conscio comunque che è cambiato troppo entro e fuori di noi, nelle persone, nel paese, nel mondo, e che tali varianti siano ormai acquisite, istituzionalizzate. Accetto quindi con poco entusiasmo lo status vigente cercando, se possibile, di migliorarlo.
Oggi Quinto l’ho sentito vicino, ma è restato muto. Di certo si è aggirato nel Santuario della Fortuna, il principale dei suoi tempi. Ne realizzassero uno oggi sarebbe più frequentato delle chiese divenute penosamente semivuote.
Il primo mattino, prima di allontanarmi, decido un passaggio per Castel San Pietro, l’arce di Praeneste. Gli dedico pochi minuti, tanto per respirarne l’aria, oltre a spaziare nel panorama fino al reale o immaginato Tirreno, e rivedere il Castello dei Colonna, i fieri ghibellini del papato, oggi alquanto malconcio, pur se si stia cercando di apportarvi qualche restauro.
Scendo e, come appendice della sosta a Praeneste, mi chiedo: “mio fratello vive qui, a due passi, nel paesino adiacente di Cave, perché non allunghi un po’ il tour e non passi a salutarlo?”…A Tibur arriverò ugualmente e un giorno di “feriae” in più non guasterebbe. Potrebbe essere una buona idea.
Un quarto d’ora e sono sul posto. E’ felicissimo. Mi accoglie a braccia aperte (avrebbe dovuto farlo in tempi diversi). Pranzerò da lui e pernotterò. Dormirò nella stanza ospiti, già dei figli, al secondo piano della palazzina.
Non mi dilungo nel parlargli di questa fuga programmata, pur se qualcosa debbo accennargli. Lui allora, già scandalizzato nel vedermi in Vespa, inorridisce nel capire qualcosa del mio allontanamento.
Inutile dirgli che fra una settimana o due sarò di nuovo a casa! Vorrebbe telefonare immediatamente ai miei e obbligarmi a parlarci.
Ad ogni modo soprassiede dando retta alle mie insistenze, dicendo però che il mio agire non lo comprende in quanto io, invece di ringraziare santi e umani per avere moglie e figli con me, me ne vada in giro senza una meta ben prefissata e senza una motivazione veramente seria (sua moglie se n’è andata all’al di là lasciandolo solo). Pur se il tema serale dovrebbe essere diverso io, in relazione anche all’allungamento del “viaggio” deciso per una giornata ulteriore, ed ai discorsi con mio fratello, decido di variarlo in:
“Sono stato affidabile, per me e gli altri, nel corso della vita?”
Al quesito penso di poter dire “si”, magarti con qualche modesta riserva..
Ritengo infatti di essere stato sempre accettabilmente fedele a idee e persone, nonché d’averlo dimostrato più volte a me stesso e agli altri.
Parto così dalla GIL, dai Balilla, dalla scuola nei vari gradi, dalla famiglia di allora, dei vecchi tempi, con padre, madre, fratello, e a seguire il Duce, la sua Repubblica Sociale, la Germania, i tedeschi, il dopoguerra, i Capi che mi coinvolsero, il Vaticano. E poi la moglie, l’unica vera donna della mia vita, i figli, la fedeltà all’impresa e al lavoro, passato e nuovo, romano e lombardo, industriale e finanziario, e infine ai miei anni recenti utilizzati a compore un’opera sulle mie esperienze di vita, nella speranza possa un giorno risultare utile a qualcuno e lasci una traccia di me.
Ebbene, credo che se un pregio almeno io abbia avuto (e se fosse difetto?) è d’aver dimostrato una fedeltà connaturale, conservando tale atteggiamento, come dice il prete agli sposi, nella buona e nella cattiva sorte. Forse ha contribuito a ciò anche il mio segno zodiacale, non per niente Toro, con ascendente chi dice Sagittario, chi Scorpione.
Non abbandonai Mussolini ucciso e appeso a Milano, non abbandonai De Gasperi ammazzato dal crepacuore procurato dai suoi di partito, non lasciai il Craxi esule nella Tunisia amica, non ripudio il Silvio di oggi, che mi è risultato simpatico per cento ragioni, pur se possa pensarla diverso e il mio voto diretto non glie l’abbia mai dato, malgrado le insistenze di mia moglie, quello indiretto penso di si! E come mi ritengo un costante nelle affettività, lo sono altrettanto nei comportamenti repulsivi verso le risme dei voltagabbana che venderebbero padre e madre pur di far carriera e soldi. Allargando il concetto aggiungo la mia incompatibilità con coloro di fede brigatista e resistenzialista , per i motivi radicati e ben indicati nei miei scritti.
Aggiungo l’antipatia per i tanti religiosetti rossastri, aggregati o succubi della falce e martello, anch’essi ampiamente ipocriti ed infidi.
Per dovere di equità dico altrettanto per gli stessi dell’opposta parte di centro-destra, di cui non mi sono fidato, né mi fiderei nel futuro.
La conclusione di questa serata meditativa la autodefinisco positiva, forse con un po’ di presunzione e approssimazione.
Concludendo, fin quando non mi si dimostri il contrario e io non mi convinca diversamente, mi considero un “affidabile” accettabile, va bene?
(Vorrei tornare a casa, ma non posso farlo e non ho finito il mio compito).
auroraageno
00venerdì 1 maggio 2009 15:14
Grazie, Francesco, e complimenti. Ti sto leggendo con interesse.

Un caro saluto

aurora

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