FeriaeVeritas, parte tre di quattro.

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florentia89
00domenica 3 maggio 2009 18:51
I ragionamenti con noi stessi non sono affatto sermplici
Tibur, odierna Tivoli
Lascio Cave il mattino presto. Percorro strade e stradine con manutenzione discutibile. Prenestina, Tiburtina, altre pericolose e strette. Giungo alfine sotto Tivoli, la Tibur di un tempo, già colonia degli arcadi di Cavillo e dal 380 aC parte di Roma di cui divenne, oltre importante avamposto verso le retrostanti genti, anche luogo di villeggiatura, cura e soggiorno.
Giungo in mattinata non tarda e con Pikappa quasi a passo d’uomo rivisito con calma ciò che in fondo mi è noto. Il Tempio della Sibilla Tiburtina, o di Vesta, assieme a vestigia e ruderi un po’ dappertutto, chiese e edifici, mi rammentano la fiera città di venti secoli or sono, la medioevale, la rinascimentale, lo Stato del Papa, la Tivoli del Duce.
Stavolta Mancinus si fa sentire e capire, ovvio a modo suo.
Lui Tibur la conosce per le bisbocce coi suoi ufficiali e legionari che avevano la base in basso, nella valle ove quel megalomane di Adriano costruirà secoli dopo la sua immensa villa giunta fino a noi con le sue magnificenze e stranezze. Passo dinanzi l’ospedale ove morì il mio nonno paterno, monarchico si, ma soprattutto papalino alla Pio Nono. Poi metto a riposo Pikappa e ripeto una visita limitata, veloce, sia alla Villa Gregoriana, con le imponenti cascate del fiume Aniene, oggi aperte, sia alla villa d’Este, con gli stupendi giochi d’acqua. Il tutto mi rammenta gli anni delle gite con gli amici in bici o in scooter e quelli del primo feeling, quando questi luoghi costituivano uno dei massimi del divago e dell’intimità da offrire all’allora fidanzatina, futura moglie. Termino il tour tiburtino, mangio un robusto panino, un bicchiere di Cola, e scendo a Villa Adriana, il compendio realizzato da Adriano in ricordo dei suoi viaggi nel mondo greco e orientale.
E’ vasta oltre centoventi ettari, la più grande mai posseduta da un imperatore. Questa cittadella mi riaccoglie e io la immagino brulicante dei componenti la corte, dell’entourage allargato di artisti, letterati, statisti, storici, geografi, adulatori, sfruttatori, nullafacenti … A Villa Adriana si ripete il flash con l’amico Mancinus (Tullius Hostilius), cioè Quinto, come a Villa Scipioni a Roma. Così me lo ritrovo accanto, concreto (insomma), seduto su una base di marmo di una trabeazione caduta nella notte dei secoli.

…”A Checco! Nun te sei stufato de girà co’ quer macinino che je voi più bene de tu moje? … Ah! no? … cacchius che voja t’è presa!”…
…”No! Nun me di’ de quello ch’hai fatto .. io ce stavo.. so’ tutto”…
…”Guarda, puro se sembra che io manchi, te bazzico intorno tutti li momenti. Va be’, quanno vai ar cesso o fai er cascamorto co’ quarcuna me tiro indietro, un po’ d’educazione ce l’ho puro io”…
…”però Checco, l’idea tua me piace, in quarche giorno m’hai fatto rivedé Jovis Anxur e er tajo der monte de Traiano, er Tempio de la Fortuna a Praeneste, Ardea, la capitale de queli cornuti de li Rutuli e del Re Turno che je dovemmo da’ un sacco de legnate, e adesso ecco Tibur, ammazza quanto è orrendo er nome novo che javete dato, e quanto è brutta la città d’adesso”...
…”Qui l’artra Legione mia, la “Lupi Indomiti”, quella de li romani de Ostia e fiumaroli, ciaveva er campo proprio ndo’ stamo adesso”...
Lo so’ che tutte ste cose l’hanno fatte dopo de me, ma io ho bazzicato sempre da ste parti e nun te dico quanto me so’ incazzato ner vedé le pomposità che nun riuscivo a capì, e li gusti de li romani che cambiavano der tutto rispetto li nostri semplici de prima”…
…”Pé quell’artro posto ndo’ semo stati, Montecassino, nun me ne frega gnente. Quelli li insomma, li cristiani, è stata gente che fra rivolte, attacchi, negazione de Roma, diserzioni, terrorismo, peggio de li serpenti, è riuscita a infilasse pure ne la corte, co’ quello str.nzo de Costantino che l’ha riconosciuti e l’ha mannati pure su; ma Costantino, Checco, l’ha fatto pé convenienza, ne la vita è stato un disgraziato e l’hanno battezzato solo quanno, rincojonito, stava pé morì, e nun so’ se lui l’avrebbe voluto. Ma che è sto’ battesimo? come quello de li persiani, de Mitra?”…
…”certo me sei piaciuto Checco, scappà pé ragionà co’ te stesso, da nun crede! Io ar tempo mio sarei scappato co’ na’ bella cumana, che ciaveveno du’ tette e du’ chiappe da nun resiste”…
…”e nun pensà che semo soli qui fra ste’ pietre, assieme a me c’è un casino de romani colti, istruiti, un ber po’ checche; ma che cianno da parlà, parlà, discute, discute, sottilizzà, insomma de nun fa’ gnente giorno e notte e de campà a sbafo de l’imperatore oggi come ieri?”…
…”Mo’ me ne vado, nun è facile rivedesse, credeme, devono concorre un sacco de cose, ma quanno è possibile ce rincontramo. Comunque prima che aritorni a casa un saluto vengo a fattelo. Ave Checco, nun te strapazzà”… Mancinus rientra nel suo nulla e io resto nel dubbio di averlo visto, sentito, o averlo sognato ad occhi aperti. Trovo ove mangiare, rigorosamente abbacchio in onore di Tibur e di Quinto, inoltre per primo ecco una zuppa di farro, quello che i legionari si portavano in sacchetti e reclamavano di brutto quando, in Germania per esempio, al suo posto ricevevano carne a volontà. Un vinello che non scherza e per dormire mi danno una stanza di sopra, ove col venticello serale si percepisce l’odorino acre dello zolfo delle vicine sorgenti sulfuree odierne e romane. Sono a due passi da casa e da due cognati, blandi complici, impegnati in caso d’emergenza a darmene notizia.
C’è però che a tratti io abbia nostalgia prepotente di mia moglie, dei miei, della casa, del mio studio, del laboratorio, del mio quartiere!
Solo per mantenere l’impegno preso con mia figlia maggiore, che ha accettato in segreto questa fuitina non pericolosa, lancio un messaggio: “ciao, tutto ok, tranquilla, Papy”. La sera all’orizzonte si nota una parvenza di bagliore. Sono le luci di Roma e nessuno sa, o pensa, io sia qui a mezz’ora di macchina, il doppio per il mio amico Pikappa.
Domani ho deciso un lungo trasferimento, passerò nell’area reatina e al Terminillo, la montagna del Duce, alle terre sabine, etrusche, romane poi. Percorrerò parecchi chilometri più del consueto.
Con l’auto sarebbe una passeggiata, con Pikappa meno, pur se lui si offenderebbe conoscendo questo mio pensiero. Stasera il mio tema sarà:
“Sono stato o meno un bravo figlio e nipote con i genitori, i nonni, e quella seconda madre della nostra zia Anita, che mi voleva con se in Africa Orientale, e considerò sempre me, moglie e i figli come fossimo la sua famiglia, con tutto ciò che ne conseguì? e quale rapporto di comunanza e affetto ho avuto con mio fratello?” Il discorso è delicato e ho avuto sempre timore ad affrontarlo e trovarmi magari a dover dare risposte non positive.
Ah mamma! Perché mia sorella e tua figlia se n’è andata a due anni d’età? Poteva essere la colonna, la confidente, la persona che ti avrebbe compreso e sostenuto in tutto, a differenza di noi maschi, e me in particolare, che ti ho voluto un bene immenso si, però primordiale, allo stato puro, animalesco, possessivo, con la conseguenza che dei problemi tuoi, e ne hai avuti, non ne ho capito pressoché nulla, se non nulla del tutto. Mi crollò il mondo quando mi lasciasti per sempre, ma era affetto o il terrore d’averti perduta? Non immagini quante sere io abbia pensato con angoscia a te e alle mie carenze e incomprensioni, che non erano purtroppo più rimediabili o reversibili.
Altrettanto dico per mio padre, pur se i rapporti fra uomini non raggiungono gli apici toccati con le mamme. Il papà lo compresi anch’egli poco, con i problemi e le difficoltà che ebbe. E quando di qualcosa ne ebbi il sentore pure per lui era tardi e non mi rimase che il rammarico del poi.
Non compresi, lui vedovo, il nuovo matrimonio di pura compagnia con una zia di Perugia, sia pur vanesia e superficiale.
Omissis
Avrò in seguito la soddisfazione di assisterlo pressoché giornalmente nei tre anni del suo ricovero nella casa di accoglienza di Acilia, ove lo trasferiremo dopo che rimase di nuovo solo, prestandomi a fargli di tutto, compresi bidet, lavaggi intimi, docce, bagni, ogni cosa, ma ciò non mi fu sufficiente, ne poteva bastare. Con mio padre mancò la confidenza, una comunanza psicologica, intima, e non posso dichiararmi soddisfatto, rammaricandomi anche per lui circa la mancanza della figlia e sorella che ci lasciò prematuramente, per la quale stravedeva. Fosse vissuta sarebbe stato diverso per tutti. Eppure con entrambi tentai sempre, con la collaborazione ecomiabile di mia moglie, di mantenere rapporti accettabilmente filiali, continui, di assistenza. Erano ospiti di casa almeno un dì per settimana, e comunque quando e quanto volevano, li conducemmo una miriade di volte in gite pic-nic fuori porta, a Frascati, Velletri, Genzano, al mare. Cercammo di fare il possibile ma non era sufficiente.
Quanto ho detto per i genitori lo estendo alla cara zia Anita, una seconda madre in assoluto, che non solo volle un bene immenso a mia moglie e alle figlie, oltre che a me, ma ci aiutò più che concretamente in una miriade di occasioni. Pure lei, sofferente di udito e di vista, specie nell’ultimo periodo, ebbe sostegno soprattutto da mia moglie, non da me, che mi dimostrai intollerante, certamente ingrato. Per i nonni poco posso dire, li conobbi da piccolo e se ne andarono quando ero poco più di un ragazzo.
Potrei allargarmi ad altri, ma bastano per tutti questi citati.
Visti i commenti impietosi che il mio doppio, cioè me stesso, mi ha dato su questi problemi, mi chiedo se, oltre il comportamento non ottimale, io possa considerarmi nell’ambito filiale e familiare un essere egoista e opportunista.
Per questo penso di no anzi, entro certi limiti, ritengo di essere stato moderatamente altruista, diciamo senza eccedere. Riconosco che noi uomini siamo ben diversi dalle donne. Pensiamo di essere più razionali (poco), ma non so quanto più positivi e concreti per disponibilità, emotività, affetti, caratteristiche specifiche delle controparti femminili.
Insomma quanto al ricevere siamo sempre disponibili a prendere più che a dare, pronti a profittare di quanto possa pervenirci dagli altri, sia di materiale che meno; quanto al dare, all’offrire, è altro discorso.
Altrettanto posso dirmi non pienamente soddisfatto del rapporto con mio fratello. Ah madri e padri! perché generate figli con cinque o più anni di differenza? Sono troppi, finiscono per creare barriere e persone destinate a comprendersi poco. Per quanto mi riguarda, fino alle nostre età adulte, mi fu impossibile considerarlo un amico di pari grado ed equilibrio. Io avevo dieci anni, pochi, e lui quindici, già avanguardista
Io avevo quindici anni, balilla, e lui venti, Giovane Fascista con gli stivaloni. Io frequentavo le commerciali e lui s’impiegava all’INA, io portavo i calzoni corti e lui partiva militare. Io iniziavo ad immaginarmi le ragazzine e lui aveva la ragazza fissa. Come si può essere intimi a queste condizioni, salvo il generico sentimento familiare? Una cosa positiva però ci fu.
Dato che egli si trovava “sempre” in un punto d’arrivo che io avrei raggiunto solo in seguito, sia esso di studio, lavoro, altri impegni, ci fu che in me sorse lo sprone ad eguagliarlo e, se possibile, fare più e meglio. E non si trattava di invidia, direi di sana competizione.
E poi invidia di che, visto che avevo ben cinque anni a disposizione ancora liberi che lui non aveva più? Era solo sprone al raggiungere quegli obiettivi che si chiamano vita vissuta. Così ne verrà che la nostra confidenza sarà modesta, un po’ anomala. Poi si sposò e per ragioni inerenti la tolleranza fra persone nuove, ove non intendo entrare in assoluto, egli giungerà a chiudere i rapporti con la mia famiglia.
Omissis
Lungi da me dissertare su responsabilità reciproche, ci saranno pur state per entrambi. Resta che fra noi qualcosa non abbia funzionato, e di ciò non posso che prenderne atto e rammaricarmi di come e quanto abbia agito e subito. E non basta che oggi, con lui ora solo, i rapporti si siano riavviati in un’apparente normalità. Non basta. Questo status l’accetto e promuovo, ma doveva svolgersi trenta, quaranta anni or sono. Resto con la bocca amara.
Così fra i genitori, la mia zia Anita, gli altri parenti, mio fratello, mi ritengo insoddisfatto in queste donazioni di me, di rapporti, di comunanze, altruismo, sostanziali per una corretta linea di esistenza.
Che proponimenti? cosa fare? Ormai è tardi, pur se m’imporrò di migliorare quanto potrò e possibile, consapevole che in gran parte di questo modo di agire e pensare intervengano in maniera determinante anche il carattere, la genetica, le predisposizioni singole, le tendenze, oltre lo scontato intervento e carattere di altre persone. Basta così, devo dormire, ne ho necessità. Domani sarà un lungo giorno di viaggio e pensieri serali. Non ho certo finito, affatto.

Sabina e Sabini

Mi allontano dalla zona tiburtina e affronto la marcia verso le terre sabine. Pikappa non chiede ove andiamo, sembra lo sappia.
Punto ad una delle estremità dell’alto Lazio, quella del reatino, della sua conca, dei Monti del Terminillo, di Leonessa.
Percorro le vie minori, con i problemi che ne conseguono.
Escludo le maggiori, ove le auto hanno una considerazione miserevole per gli ardimentosi su bici, motorini, moto e cinquantini.
Si susseguono Guidonia, Mentana, Palombara, Monteleone, infine il fiume Velino ed ecco approssimarsi Rieti, assieme ai retrostanti e imponenti Appennini innevati tre quarti dell’anno, rivalutati e attrezzati dal Duce come i monti e la neve della Capitale. Rieti è la “Reate” capitale dei Sabini, incorporata da Roma sin dal terzo secolo aC. Città che nel corso dei secoli venne distrutta e ricostruita più volte e del periodo romano conserva ben poco. Sono notevoli invece le vestigia medioevali e successive, fra le quali la cinta muraria del duecento, ben conservata. Giungo nella piazza centrale Vittorio Emanuele, ove si trovava il Foro, mi rifocillo un po’, pur se sarebbe l’ora di uno spuntino serio. Giro a velocità prossima allo zero.
Mi sovviene che Reate fu la patria di Terenzio Varrone, erudito romano, il quale la ritenne il centro dell’Italia, fu anche la patria di quel popolar-comunista dell’imperatore Flavio Vespasiano, che a Roma eliminò il lago di Nerone sostituendolo con l’Anfiteatro “Flavio”, il “Colosseo”, nonché di Tito e Domiziano. E’ poi terra di soggiorni illustri, papi, letterati, prelati.
Sento tangibile l’aria guelfa e ghibellina, i travagli del medioevo e dei tempi man mano più recenti di questo centro situato nella vasta area senza più il lago paludoso che ne ostacolava l’esistenza. Poi i passaggi di mano, di governo, di regione, finché nel 1927, grazie al Duce, divenne uno dei cinque capoluoghi del Lazio, assieme a Viterbo, Frosinone, Littoria e ovviamente Roma. Il tour per Rieti me lo concedo dopo un pasto e una sosta rilassante.
Trovo un hotel per la notte e la cena, e decido di passare in zona un giorno in più, sia perché lo merita, sia perché domani sarà la giornata del Terminillo, di Leonessa; e poi è Domenica, in cui anche il Padreterno decise di riposarsi come tenterò fare io, non cessando però il girovagare, bensì prendendomela solo più comoda e senza fretta. Sera con cena pesante e ciò è un errore, me la sentirò sullo stomaco per la nottata, ma che fare? la colpa comoda è del cuoco coi suoi strozzapreti e una bistecca che ne vale due, oltre la mia brama.
Ci metto un rosso che non scherza e un paio di ciambelle da vino.
Poi a letto, col Terminillo imponente oltre la vetrata della finestra.
Anche Pikappa riposa nel piazzale fra le auto degli ospiti.
Ho detto che ho preso tutto più tranquillamente, altrettanto sarà per la riflessione serale, d’altronde avviata più volte e altrettante rinviata.
Riguarderà me e mia moglie, con la quale affrontai il Terminillo in tempi remoti, con sci e attrezzature da trogloditi rispetto oggi, poi con la roulotte in un trasferimento avventuroso e faticoso nonché, una volta, da fidanzati, addirittura con la Lambretta per giungere fino a Leonessa, e ciò con un carico di almeno centocinquanta chili, cioè noi due, per fortuna senza problemi di sovrappeso. Parlo così di mia moglie alla quale dovrei riservare un libro ed erigere un monumento per mille e più motivi che io solo ben conosco.
Non posso però esagerare, rischierei che il mio dire non venga apprezzato e magari considerato un tentativo di finta riconoscenza a fronte delle tante cose storte da lei tollerate pazientemente. La conobbi sul lavoro, durante e al ritorno dal servizio militare. La vidi e dissi senza indugi: “la sposerò” (se lei d’accordo) e così sarà. Faticai a fraternizzarci e dovetti confrontarmi con più pretendenti che la corteggiavano (e mio fratello che, anche lui, l’avrebbe vista bene per se). Quanto a donne non è che avessi avute eccessive esperienze, mi prefiggevo di averne una e basta. Ovviamente per “una” intendevo la migliore in ogni senso, e lei, anche come valente Giovane Italiana, lo era.
La guerra si era portata via la mia e sua prima gioventù rendendoci adulti precoci e ostacolandoci in quei rapporti fra ragazzi e ragazze di libera comunanza e normalità. Saremo fidanzati quattro anni poi ci sposeremo. Di lei, d’origini e nascita venete ho sempre apprezzato la maturità e la concretezza conseguenti di certo dalla gestione della sua famiglia di una miriade di persone ed i genitori occupati nel commercio (e da bravi veneti a produrre figli), felici di aver delegato la routine familiare alla maggiore delle figlie, preceduta da un fratello poco facente e collaborante. E come dimenticare, quando fidanzati, per uscire qualche ora la Domenica dovevo attendere lei finisse di stirare camice e vestiti per fratelli, sorelle, padre?
E in quel poco di libera uscita, complice la moto, il cercare di farci scappare pizza, birra, cinema, un po’ di gita e feeling reciproco, con l’obbligo di rientro non oltre le venti, da me sempre posticipato di un’ora, rischiando l’impatto con la mamma alla tedesca, l’opposto del papà troppo accomodante e neutro? Stasera però, oltre le sue qualità indubbiamente positive, devo confrontarmi con me stesso circa il modo di agire che ebbi con lei dagli inizi, dopo il matrimonio, fino ad oggi. E intravedo problemi, anche di una certa concretezza. Inizio col 1949, quando gli fui alquanto reticente sul mio status. Io infatti, oltre nel lavoro, ero impegnato in due strutture “riservate” entrambe nere (una di preti, l’altra immaginatela) che a volte intervennero per cercare di raddrizzare storture nel marasma del dopoguerra. Naturalmente erano altri a decidere e noi ad eseguire. Ebbene non gli dissi nulla. Come omisi che oltre il mio amore per lei sussisteva prepotente, non dico primario, quello per il Duce dei balilla e della Repubblica Sociale, pur se erano cose diverse
Chiaro, due temi che difficilmente si trattano quando ci si trovi in fibrillazione reciproca, e poi non ero certo mi avesse compreso.
Resta però il mio silenzio. Altrettanto non mi azzardai dirgli di aver svolto diciassettenne un po’ di militare proprio con i tedeschi aborriti dal papà, decorato 1915-18, e dalla mamma profuga di Caporetto.
L’avessi fatto si sarebbero forse chiuse le mie chanse, promotori magari gli scandalizzati genitori. Ci pensò quello spione di mio padre a metterla sull’avviso, dicendole che non immaginava con chi pensava di sposarsi, oltre all’aggiunta di un bel po’ di cose da me combinate per via di Mussolini, della Repubblica, di quei poco di buono dei crucchi. Il suo intervento mi costrinse ad un chiarimento forzato, magari parziale, e dovetti assicurarli sulla nobiltà dei sentimenti che mi spinsero a seguire le strade di prima e quelle di dopo.
Ciò dovette rassicurarli in quanto mai avrebbero ricevuto torti o sgarbi da chi ebbe fiducia in tali principi, e non solo nel pallone, pancia piena e quella cosa femminile che la più parte dei ragazzi e uomini d’allora e oggi considerano scopo unico della loro vita.
Omissis
Ci sposammo, superammo ostacoli molteplici, lavoro, casa, mobilio, tutto regolato senza debiti. Subimmo pure un furto in precedenza al matrimonio e difficoltà lo stesso giorno del nostro “si”. Passammo però anni indimenticabili. Giunse la prima figlia, felice di essere nata sin da quando aprì gli occhi, arriverà la nuova casa come benefit aziendale, ed ecco la seconda figlia stupenda ed estrosa, indi il terzo figlio a completare il quadro. A un quarto lui o lei non riuscì ad essere fra noi.
Devo aggiungere la pazienza e la comprensione dimostrata nei miei confronti per i tanti imprevisti relativi alla mobilità del mio impiego e impegni extra. Infatti risposi più a volte a chiamate che si sommavano a quelle di lavoro. Poi la decisione, presa con lei, sia di piantarla a fare l’eroe da strapazzo, in quanto non più necessario, sia di concludere gli studi universitari a Torino, ivi indirizzato dal mio Direttore Generale. Furono anni di spostamenti ferroviari e aerei settimanali e di sosta piemontese. Lei sarà presente il giorno che discuterò le due tesi in Scienze Aziendali, con risultato che cambierà presto la nostra vita. Avevo poco più di trentanni.
E le sue angosce per le mie partenze comunicate con un paio d’ore d’anticipo, in quanto guai a farlo prima. Mi aiutava in ciò la figlia maggiore, un po’ complice e comprensiva dell’iter di vita che coinvolgeva me e loro.
E in questo periodo, pur mantenendo rapporti affettuosi e corretti, ritenei di non coinvolgerla su alcune decisioni di lavoro e impegno sociale che pur dovetti affrontare, non sempre positive, sottovalutando il suo desiderio di essergli più accanto.
Omissis
E poi avvenne che la nostra società, ci aveva lavorato pure lei, verrà distrutta da una infame lotta sindacale. Ciò comporterà un cambio di tutto, col mio ingresso in una struttura ove trovai il Top e lo staff legati alle mie idee politiche e sociali. Non posso e non voglio far nomi, né dettagliare come vi entrai, qualcosa ne ho forse accennato in altre parti del testo. Fatto è che il nuovo impegno soddisferà le mie e nostre aspettative, comportandomi però un trasferimento nel Veneto prima e in Lombardia poi con tutta la famiglia.
Così i nostri figli cresceranno al nord, anzi la maggiore, quando dovremo tornare a Roma, resterà in loco ove si laurerà in medicina e giungerà a essere un giovane primario ginecologico in un ospedale lombardo primario.
Mia moglie accettò il trasferimento con difficoltà, pur se conscia esso fosse necessario. Avverrà poi che il suo clan familiare, per questo allontanamento, ci dichiarerà un isolamento assoluto, interrotti solo da una sorella e marito.
Ma lei tutto superò per amore verso me e la famiglia, pensando molto agli altri e poco a se stessa, pur avendone altrettanta necessità.
Tollererà poi ulteriori situazioni concernenti la mia posizione sempre più responsabile, sopporterà le mie incomprensioni, forse qualche sbandata, le diatribe tra figli, riuscendo a smussare le difficoltà con tatto e ponderazione.
E sono ad oggi, con lei sempre giovanile, comprensiva, positiva, attraente, nonché colonna della famiglia, adorata dalle nipoti.
Mia moglie è stata comprensiva con tutti e soprattutto con me. E da parte mia sono consapevole di non averlo del tutto meritato; per questo dovrei chiedergli scusa per il mio agire sovente poco responsabile, oltre per l’affetto non sempre dimostrato a sufficienza. Mi viene da riflettere al pensiero dei parametri richiesti, secondo preti e chiesa, per essere accolti in paradiso e divenire santi e sante. Che siano necessari sacrifici, preghiere, carità, amore in Dio, sta bene, ma il paradiso, posto che esista, dovrebbe accogliere le mogli e mamme tutte, che per figli e mariti hanno dato se stesse, anche la vita, soffrendo magari come Santa Rita da Cascia con i suoi pessimi marito e affini, magari miei parenti visto che si chiamavano Mancini. Ed io, oltre mogli e mamme, aggiungerei le donne tutte senza distinzione.
Circa le riflessioni e conclusioni odierne chiudo affermando che, pur ritenendo di non dovermi addebitare mancanza di amore e riguardo, non possa dichiararmi pago del come mi sia condotto. Avrei dovuto capire più a fondo le sue esigenze, renderla più partecipe, felice, considerarla di più di quanto fatto. E’ duro il ragionamento serale e non sono nemmeno certo di averlo condotto con sufficienti imparzialità e chiarezza. Spero di si.
Domani sarò sul Terminillo e a Leonessa, sulle cime del confine laziale, e dedicherò il pensiero alla figlia maggiore, Rita.
Oggi Mancinus non c’è, mi ha lasciato ai miei dubbi e problemi.
Sono tranquillo, il chiarimento che cercavo si sta completando, così mi sembra, e sento approssimarsi il traguardo del viaggio Veritas.
Si! tornerò presto, sento che mi stanno attendendo con trepidazione.

Nel cielo infinito
Allora stamane salirò al Terminillo, il “Mons Tetricus”, il “Tetricae Horrentes Rupes il quale, coi suoi duemiladuecento metri, è la vetta più elevata del Lazio. Va bene, è alto la metà del Monte Bianco e un quarto dei gruppi dell’Everest, resta però un massiccio pur sempre imponente e apprezzato, fra i maggiori dell’Italia appenninica.
Pikappa ha capito che gli chiederò il massimo e freme per mostrarmi le sue possibilità. Gli do da mangiare, pulisco la candela, controllo i freni, e tutto è a posto. Non è stagione di sci ma il fresco si fa’ sentire e non scherza. Mi copro bene, inserisco sul petto i soliti fogli di quotidiano, sistemo il mini-bagaglio, poi il casco rosso, occhiali scuri e via.
Passo nei pressi di piccoli centri, Lugnano, Cantalice (patria di San Felice, il quale levitava nell’aria), Lisciano. Noto le diramazioni per Campoforogna e il Pian delle Rose. Ho superato i millecinquecento metri e Pikappa non ha difficoltà, però con marce basse. Ho usato a volte e brevemente anche la prima senza avere nessun problema.
Giungo così a Pian delle Valli. E’ il punto principale ad oltre milleseicento metri e faccio sosta. L’aria è pungente. Alberghi e attrezzature sono attorno, più di quanti ne rammentassi dei tempi giovanili.
Una stanza confortevole e panoramica mi accoglierà per stanotte.
L’addetto all’Office mi dice che posso parcheggiare l’auto in garage e resta allibito quando viene a sapere che sono li con un PK50 e ho usato questo insolito mezzo solo per sfizio, per sfida personale e sfida altrui.
Mi osserva meglio per capire se io sia a volte un barbone in vena di turismo country, da non accettare come ospite o far pagare in anticipo, poi osserva il documento rilasciatomi dal Sindacato Dirigenti d’Azienda e un bel po’ si ricrede. Gli dico che mi sto togliendo uno soddisfazione onde sperimentare le mie capacità di … adattamento e sopravvivenza. Si assenta un attimo, penso sia andato negli uffici a dire che c’era un cliente con qualche rotella fuori posto, cioè io. Anticipo il pranzo e il cameriere mi chiede “è vero dottore che si è arrampicato quassù con una Vespa?”, evidentemente la voce era circolata.
I piatti serviti tentano di mostrarsi consoni come la montagna vorrebbe ma il tocco della cucina di città si nota. Un po’ di rosso in caraffa mi rinfranca e da’ calore. Poi esco e salgo a piedi in alto, una breve sosta corroborante per i polmoni e lo spirito mi consentono di gettare lo sguardo al Terminillo sovrastante, alle cime vicine del Terminilletto e Terminilluccio.
L’hotel è semivuoto e regna un silenzio che solo la montagna può far apprezzare. L’aria fine penetra nei polmoni, il cielo è terso, pur se qualche nube parcheggia in attesa di sorelle maggiori. La siesta post-pranzo dura poco, una mezz’ora e decido di partire per Leonessa, rientrando in serata, prima del buio. Non è che Leonessa, città sorta nel medioevo e perduta fra i monti mi entusiasmi oltremodo, ma decido di farci un flash di sosta in quanto è legata ad un cupo fatto della resistenza e delle rappresaglie che un tempo purtroppo conobbi. Quindi più che un turismo mordi e fuggi vorrei ritrovare le reminiscenze che significarono per me qualcosa.
Il cammino non è male. Scendo sui mille e giungo ad una Leonessa pietrosa, scura, che riconosco da quando la frequentai in tempi andati.
Mi fermo, parcheggio e mi addentro nelle viuzze ancora non affollate dai vacanzieri stagionali. Mi seggo e rivedo attentati, barbarie, morti, delazioni, partigiani, tedeschi, tutto inconcepibile per un paesetto fra i monti senza importanza strategica. Prendo un cioccolato caldo, altra mezz’ora a piedi, considerazioni e ricordi, poi avvio Pikappa e ripunto al Pian delle Valli.
L’andata e il ritorno non sono stati uno scherzo. In un primo tempo avevo pensato anche di pernottarci avvertendo il primo l’hotel. Poi ho desistito, non ho voluto gravare l’animo di tracce che mi colpirono; oltre al desidero di passare la notte sulle sommità che questa zona, e non seicento metri di sotto.
Ritorno ancora con una idea di luce serale. Il Maitre allibisce quando mi chiede se col Vespino sia andato a fare quattro passi e sente della puntata alla sottostante Leonessa. Non ceno. Preferisco un latte caldo e una brioche del mattino. Evito di gravarmi, voglio essere libero nel mio ragionamento serale.
Non mi distendo nel letto, bensì in poltrona di fronte la grande finestra che guarda un oscuro monte, un oscuro cielo, un oscuro futuro. A materasso, cuscino e coperte penserò più tardi, anzi tardissimo. Infatti una signora, fra le poche ospiti dell’hotel, con una zia anziana, avvierà un pour-parler sul mio viaggio, evidentemente informata, sulle esperienze e sulla idea d’affrontare il mondo, meglio il Lazio, con un insolito mezzo Lilliput che è oggetto del suo apprezzamento (forse lo sono io, non lui). E’ inoltre edotta della mia posizione sociale. Accetta un ponce al mandarino, segue attenta il mio dire sui libri che sto scrivendo, sui tempi del Duce, sulle esperienze, sulla guerra.
Fosse per lei, e non per l’anziana che accompagna, non si muoverebbe per la notte, pur se ho l’impressione che lo farebbe magari per la mia stanza, posto mi permetta qualche avanche. Mi si consenta di lasciare il dubbio sulla serata (no! il dubbio non lo lascio! La serata fu pepatina si, ma nessun sgarbo per mia moglie, e non lo dico per ipocrita accomodamento).
Stasera comunque, pur se l’ora è da discoteca, entro nel mondo della mia figlia Rita. Meglio dire nostra, visto che la partorì mia moglie.
Mi chiedo: che rapporti abbiamo avuti? cosa ho da approvare o meno del mio comportamento? sono riuscito a trasmettergli qualcosa di sostanziale? è stato altrettanto da parte sua verso me? Lei nacque al Policlinico di Roma. Sembravano esserci delle complicanze, allora il medico escluse sia il parto in casa (allora si usava) sia in clinica privata. Solo un ospedale attrezzato poteva dare sicurezza e tranquillità. Ci mise tre giorni ad uscire dal pancione materno e stavano già pensando a un “cesareo”, eccezionale nei primi cinquanta. La sera precedente ero andato dal mio amico eremita alla grotta della Madonna delle Tre Fontane, all’E42, oggi EUR, per avere un aiuto morale. Parlammo di mia moglie, di chi non voleva nascere, maschio o femmina sia stato (l’ecografia era in mente Dei), dei tempi giovanili, dei balilla, della Gestapo che gli spezzò i denti e gli strappò le unghie. Mi fece recitare un rosario, una preghiera, restammo pure in silenzio. Infine montai in Lambretta e da quella landa tornai a casa (oggi sul posto vivono centomila persone, me compreso).
Una telefonata alle cinque del mattino mi avverte che “Rita” era nata. Ho un nodo in gola, mio fratello scoppia in lacrime, mio padre ha gli occhi lucidi, mia madre ringrazierà Santa Rita per l’esito dell’evento. Che fosse femmina i miei l’avevano desunto osservando la pancia di mia moglie, lascio figurare con quanta sua soddisfazione. Quanto al nome nessun dubbio, se femmina era Rita, quello della sorellina che ci aveva lasciati a due anni, proprio nello stesso Policlinico ed edificio ove era venuta al mondo Rita due. Se un maschio l’avrebbe scelto lei.. La neonata dimostrò subito la soddisfazione del trovarsi in quella realtà che giudicava interessante. Nel carrello-plateau in cui una lunga serie di neonati venivano sistemati lei spiccava per gli occhi aperti, il colorito acceso, la bocca atteggiata a sorriso, le braccine con le quali cercava di farsi largo fra i neonati! Pianti nulla, appetito robusto, voglia di vivere evidente. Poi iniziò a crescere come una che sapeva il fatto suo, pronta per un futuro che non la spaventava, al contrario di tanti bimbi insicuri.
A pensarci non ricordo di averla mai vista versare lacrime. Per me era una delle basi che teneva ancor più aggregata la famiglia e la consideravo in un certo senso la mia amichetta presente e futura. In una spruzzata d’episodi della sua infanzia la rivedo mangiare furtiva il cibo del nostro gatto rosso Picchio, accettata dal micione ma non da noi. Fortunatamente era il nostro desinare del pranzo. E quando la vidi arrampicarsi in cima ad un’imposta di balcone alta oltre due metri e mezzo, quasi sporta al di fuori del piccolo poggiolo sottostante, e il colpo che presi per il pericolo corso e il salvarla da parte mia. La ricordo cadere spaccandosi una gengiva sul bordo del secchio metallico delle immondizie di casa, senza vere tragediecsia al momento dell’incidente, sia al Pronto Soccorso, ove gli metteranno dei punti in bocca.
E poi il suo asilo e elementari dalle suore spagnole, francesi, Pallottine, con un mio intervento verso una suorina-maestra deficiente la quale, per compiacerci, non faceva che dargli dieci su esercizi che non lo meritavano, cosa che mi indisponeva in quanto Rita era bravissima e doveva ricevere solo lo sprone a scrivere meglio e di più, senza blandizie ingiustificate.
E che dire quando inforcò la biciclettina d’alluminio e da Porta Maggiore giunse fino al Tevere, per poi tornare come nulla fosse?
E quando, poco più che bambina, partiva col tram da Porta Maggiore per frequentare il corso di Pallacanestro in via Lanciani, zona di Piazza Bologna?
E non posso sottacere quando lei, per le piccole diatribe fra compagnucci di cortile, sapeva difendersi suonandole pure ai maschi, le cui madri si lamentavano poi con noi. Con le medie iniziò la serie delle borse di studio per profitto con una delle quali, anziché destinarla alle spese di scuola future acquistammo, col suo consenso, un televisore slim e in similpelle rossa.
Arrivò presto la sorella Silvia e fra le due, col carattere fermo della prima e quello suscettibile della seconda, non mancò lo scoccare delle scintille.
Giunse infine Alberto e lei, coi suoi dieci anni in più, gli fu sorella a Varese ove ci eravamo trasferiti, la facoltà di medicina a Pavia, indirizzo di studio del quale mai ebbe dubbi, visto che operava lucertole sin dalle elementari.
Infine la laurea con un anno di anticipo, a 24 anni, col massimo dei voti e lode. Seguì la solitudine varesina con noi che dovemmo rientrare a Roma, il lavoro medico che mai gli mancò, la specializzazione in ginecologia, fino al primariato attuale. Anni or sono ebbi la soddisfazione del sentire da mia moglie che mia figlia gli disse di ammirarmi per la formazione, il lavoro svolto, il rapporto fra noi, e avrebbe voluto un giorno sposare uno come me.
Pur se ciò lo affermano parecchie figlie non posso nascondere che mi fece apprezzare ancor più le sue mete, determinazione, grinta.
L’aiutai modestamente quando rimase a Varese. Feci il massimo ma era un minimo. Guadagnavo bene, ovvio, ma la casa appena acquistata col mutuo in corso e cinque persone ormai grandi, tutte a carico, non potevano concedere di più. Lei fu brava a gestirsi i suoi soldini e guadagnare qualcosa con prestazioni ospedaliere o assistenza bambini. Eppure sono certo che avrebbe raggiunto il suo traguardo medico anche mancando qualsiasi nostro aiuto.
Lei disse di ammirare me, io dico che ammirai lei e ci vidi il me diciottenne che in tempo di guerra non si poteva permettere nulla, salvo il covare una grande rabbia e voglia di affermazione, completando gli studi ormai adulto, nella Torino remota ed esigente e non nella fin troppo facile e poco concludente Roma. A tal riguardo Rita dirà che di notte mi sentiva leggere i testi didattici e passeggiare in cucina, in quanto dovevo prepararmi per poi seguire le lezioni torinesi nei giorni successivi. Mia figlia sarà la mia confidente per tante cose di lavoro e altre, nonché mi aiutò più volte a rabbonire la mamma quando dovevo partire per lavoro e, a volte, per cose che sarebbe stato impossibile approvare. Cercai di colloquiarci, pur se ignoro sia riuscito o meno, mi insegnò sin da piccola che sui bambini non si alzano le mani e ciò quando, pensando di rifilargli uno sculaccione, lei ebbe uno scatto improvviso che mi lasciò di stucco. Da allora le mani le tenni in tasca, sia con lei, sia con la sorella minore, la quale oltretutto sarebbe divenuta immediatamente cianotica. Idem con l’ultimo arrivato, che fra l’altro non stette bene per diverso tempo.
Infine le sue scelte di vita, i suoi amoretti, amorazzi, amori, con decisioni più o meno accette e più o meno gradite. Io, e lei lo sa bene, in parte l’approvai, in parte la disapprovai. Non mi permisi però di opporgli il veto dei padri-padroni che allora erano normalità (e lei d’altronde avrebbe ignorato).
E come ho accennato ai momenti belli, pieni di speranza, entusiasmo, non posso ignorare che ce ne furono di duri, che misero in atto addirittura problemi di sopravvivenza e comunanza.
Omissis
Mia figlia mi è stata fin troppo riconoscente per ciò che di materiale e immateriale io possa aver fatto per lei, e forse anche per quello non fatto. E la sua riconoscenza si è espressa non solo in forme concrete per noi, la sorella, il fratello, le nipoti, ma anche e soprattutto col gratificarmi di un affetto senza limiti e condizioni. Aggiungo pure che, non fosse per lei, non ci sarei da tempo. I suoi interventi sulla mia salute sono stati pieni, tempestivi, risolutivi.
Purtroppo resta la pecca, perché tale è, di un carattere forte, apparentemente autoritario, a volte incomprensibile e anche scostante per me ed altri.
Non mi resta che dirgli: “Rita, te lo chiede tuo padre, non ti obbliga, né può ordinarlo, ma prova a superare questi blocchi comportamentali, perché tali sono; sai quanto ti stimo, apprezzo e, se te lo chiedo, anche con un briciolo di umiltà, spero tu possa esaudire il mio e nostro desiderio”
Concludo il ragionamento odierno chiedendo: “sono stato coerente coi miei atteggiamenti e indirizzi nel rapporto con mia figlia?”.
A ciò penso rispondere “si”, con le tolleranze opportune. Io per mia figlia ho dato sempre scontata la sua maturità, bravura, testardaggine, caparbietà.
Altrettanto devo riconoscergli il pregio che dopo ogni sua impennata, in un niente di tempo e agire la crisi è superata e tutto torna come prima. Come sono convinto che lei nasconda un animo sensibile e anche fragile, e possa essere scalfita da un nulla di affettuosità sia suo sia delle controparti.
Per quanto mi riguarda mi ritengo un orgoglioso e un ambizioso, non lo nego, altrettanto dovrebbe essere per lei. Entrambi coviamo però una certa timidezza di base, carenze affettive mancate o errate, desideri non realizzati, sfociando magari con impatti di aggressività innaturale. Io penso di aver passato del mio in mia figlia, altrettanto potrei dire di lei. quindi convengo di ritenermi abbastanza soddisfatto del mio agire, dalla sua infanzia, età giovanile e adulta poi, con i limiti possibili. Non credo modificherei l’agire.
E a lei dico che io, suo padre, gli sarò sempre accanto in ogni evenienza e che, nei limiti possibili, potrà contare su me.
E ora a riposare sul serio, cioè a letto, domani sarà un bel trasferimento. Passerò per Viterbo, poi Tarquinia e Tuscania. In questi centri mi troverò a tu per tu con etruschi, romani, un fosco medioevo, nell’ambito di quel territorio “lato”, Lazio, ove la presenza di Roma ha posto in ombra le sue realtà.
Sento che Mancinus resta assente. Prima di sparire, spero non per molto, mi aveva fatto capire che coi Vespasiano, Tito, Domiziano, popolari e antinobili per la pelle (allora i rossi e neri non c’erano) non aveva proprio legato, pur se a lui successivi. Altrettanto con quel popolo etrusco di omosessuali, o gay, fate voi (parole odierne, il gergo usato da Quinto è più spiccio) dei quali ha cominciato a percepirne il sentore, la presenza.

Vetus Urbs, Viterbo
Lascio Pian delle Valli, il Terminillo, e scendo nella pianura reatina per proseguire, sempre su strade minori verso Viterbo. Passo nei pressi di Greccio, che potrei raggiungere con una modesta deviazione, il cui convento di San Francesco mi accolse quando, giovanissimo, mi isolai per alcuni giorni onde prepararmi a degli esami. Potrei fare anche una deviazione per Narni, in Umbria, ove ho parenti acquisiti ma in entrambi i casi preferisco soprassedere e continuare il viaggio. Ecco allora la zona del Cimino, con le sue ginestre gialle a perdita d’occhio, piccoli centri, poi Bagnaia, poi Viterbo.Ho fatto una discreta tirata e raggiungo la meta nel primo pomeriggio, sia per piccole difficoltà connesse alla non corrispondenza della carta stradale con svincoli o deviazioni non ben evidenziate (devo acquistarne una più aggiornata), sia perché l’ho presa più comoda, con una sosta in cui mi sono rifocillato, prevedendo possibili ritardi per il pasto di mezzodì. C’è che sono stanco e ho deciso, se riesco, di rientrare in casa dopodomani, o forse un giorno ancora, dopo la tappa di Tuscania e Tarquinia, l’ultima del mio tour, situate sempre nell’area agro-laziale. Viterbo la conosco bene in quanto è stata la sede zonale di commercializzazione dei veicoli industriali di una società che diressi, nonché della presenza di un grande magazzino nazionale il cui titolare-gestore era un ingegnere mio amico, nobile ligure di buon livello.
Quindi ecco Viterbo, la Vetus Urbs, il Castrum Viterbi del secolo VIII, l’insediamento etrusco (Surrena?), la colonia romana (Vicus Elbii?), tutto nato, sorto, sviluppato, nelle brume di epoche lontane.
La città non presenta sorprese, la conobbi grazie al mio direttore del posto, all’amico ingegnere, alle fonti storiche.
Nella Viterbo vecchia avevo ed ho il soggiorno alberghiero.
Ovvio che la parte nuova, extra mura, oggi la maggiore, è identica alle tante periferie di ogni dove italiano e altrove. Ripeto un giro a piedi e mi ritrovo nel medioevo, Papi, Antipapi, ecclesiastici, imperatori, Re, nobili, famiglie con le leve del potere, come le tirannie esercitate da quella dei “Galli Bretoni”, o dai “Tignosi di Magonza”, o dai “De Vico”. Poi conclavi, scontri con Roma, la distruzione di Ferento nel 1100 per presunta eresia, raffigurando essi il Gesù in croce con gli occhi aperti, fazioni ghibelline, guelfe, diatribe e lotte interne, con i Papi che per un secolo non rimetteranno piede a Viterbo dopo che i suoi abitanti invasero il Duomo, ove era in corso un conclave insulso che non chiudeva mai i suoi lavori. Furono loro a risolvere la situazione scoperchiando il tetto del salone di riunione, costringendo i cardinali a definire le perplessità ed eleggere il Papa..
Ora è pomeriggio. Il pranzo è stato sostituito dal break mattutino e io vorrei riposare, i giorni passati iniziano a mostrare i loro effetti.
Le particolarità della zona mi convincono a trattenermi un giorno in più.
Con Pikappa ripercorro una parte del periplo delle mura cittadine, sempre ben conservate e pronte a difendere abitato e cittadini, posto ciò dovesse necessitare. Poi uno sguardo al nuovo centro direzionale, ove mise mani e mente il mio amico ingegnere, che ospita oggi le sedi del Tribunale, Polizia, uffici pubblici, commerciali e il Grande Magazzino condotto dalla consorte, per il quale intervenni più volte per problemi finanziari, di garanzie, di contratti, di forniture. Infine di nuovo in centro all’hotel ove mi conoscono da sempre e sgranano gli occhi quando mi vedono con l’inusuale mezzo di locomozione, anziché con le consuete vetture direzionali, chiedendosi cento cose che ritengo opportuno omettere: “ben arrivato dottore, e la signora? è un po’ che non vi vediamo …” e io in poche parole gli dico di non dubitare dei miei equilibri mentali e finanziari, sto solo facendo un giro del Lazio insolito, alla country, su scommessa col Direttore centrale che mi riteneva incapace di svolgerlo, che anche loro conoscono e a volte accolgono. Pensano sia l’Onorevole, ma io non confermo né smentisco. Mi pare si convincano ed esprimono apprezzamento per l’estrosità dell’idea. Non gli dico che l’esponente a cui ho accennato non sono altri che me stesso, o meglio la mia controfigura, con la quale questi giorni ho ragionato e discusso parecchio.
Il cellulare in tasca col suo biip mi avverte di un SMS.
Leggo: “papy ok? Xché 6 muto? xché non torni? Rita”. Rispondo: “torno dopodomani o un giorno dopo. No drammi, prepara mà, papy”. Vado a cena, mi forzano per un primo all’amatriciana, una bistecca che non sfigurerebbe a Firenze, il solito vino da non superare un bicchiere (e ne bevo due) oltre contorni e ammeniccoli, caffè e passeggiata per smaltire quel ben di Dio.
Così stasera toccherò un tema particolare, cioè il mio feeling con la religione e il mondo del divino e dello spirito, oltreché fra me e il mondo che mi circonda. E’ evidente che su ciò io non possa estendere compiutamente il pensiero.. E’ allora opportuno mi esprima in forma schematica, evitando di aggiungere un trattato di teocrazia o filosofia o politica agli innumerevoli già esistenti dalla notte dei tempi. Riconosco e confermo di credere nell’esistenza di un principio superiore, da definire Dio, qualsiasi cosa, idea, entità, nulla, esso possa essere, dato che nessuno ne ha potuto mai accertare l’esistenza, fede e immaginazione a parte. E la mia convinzione circa la sua presenza si basa su un atto di logica filosofica più che di fede, accettando io che nella terra e nel cosmo siano presenti, fra le tante forme di vita e intelligenze, anche quelle di esseri, più o meno materiali, ben superiori e avanzati di noi (saremmo meschini a pensarla diverso). Quindi il principio pragmatico, forse stoico che mi pervade, è che un Dio come s’intende comunemente, o lo si vorrebbe, c’è o non c’è (forse non c’è proprio). Comunque se esiste non può essere che unico e a valere per tutti, religioni a parte, salvo la presenza probabile di demiurghi suoi esecutori, di non pari livello. Se poi il Dio non dovesse esistere anche ciò varrebbe naturalmente per tutti, ed eliminerebbe ogni dubbio e perplessità.Verrebbe solo sostituito dalle leggi del fato, natura, dell’evoluzione e involuzione Nel dubbio vale quanto affermava Voltaire, cioè mentre non possa esserci certezza alcuna dell’esistenza di Dio, esiste l’indispensabilità e necessità della sua presenza per l’umanità tutta.
Ciò premesso non mi interessano le elaborazioni apposte dall’uomo all’unico principio imperscrutabile, sconosciuto, almeno fino ad oggi.
Per il futuro non metto limiti perché Dio potremmo esserlo verosimilmente ognuno di noi, pronti ad elevarci ai livelli più eccelsi, o ai più infimi, col progresso continuo della nostra mente, della scienza, del progresso umano. Infatti le Bibbie varie non dicono che Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza? E allora? Pertanto nel mio sincretismo e positivismo non mi interessano i Profeti, finali o meno, gli inviati speciali, i Figli Unici o plurimi, il che farebbe pensare pure a un Dio di sesso maschile il quale, proprio perché “unico”, non dovrebbe essere di alcun sesso, almeno per me.Non mi interessano gli Spiriti Superiori, le Schiere Angeliche, l’orrore dei popoli eletti, e altre estensioni di quella entità la quale dovrebbe inglobare in se il tutto, cioè sia il cosiddetto bene, sia il cosiddetto male, con la valutazione da dare ai due termini in quanto la suddivisione è solo convenzionale umana, filosoficamente discutibile. Così l’entità da me pensata, forse non eterea per il solo fatto di esistere, compendierebbe in se l’insieme del mondo, dell’universo, degli universi, uniti nel loro ineluttabile iter vitale.
E se la nostra suddivisione fra bene e male debba restare io immagino la presenza di demiurghi del Principio Unico ai quali sia stato concesso di intervenire in questi campi, sconfinando però nel politeismo greco-romano e di altre credenze di ieri e oggi. Mi ritengo quindi un osservante blando della mia religione, la cristiana, alla quale riconosco le positività dell’accettazione del pensiero ellenico, dell’amore reciproco, della tolleranza e speranza (pur se dei tempi oscurantisti ne abbiamo avuti anche noi).
E la mia tiepida osservanza non è collegata all’essere nato e cresciuto in un paese nominalmente cristiano. Potrei ben essere un accettabile israelita, islamico, indù, buddista, shintoista, animista, altro, qualora mi fossi trovato in diverse situazioni temporali e geografiche (o, non escluso, nulla di tutto ciò).
Non mi sarebbe affatto dispiaciuto di essere anche un seguace più o meno attento del filone religioso dei miei padri, dei pagus, definito impropriamente pagano Non avrei comunque mai rinunciato alla scelta e responsabilità delle mie azioni conseguenti al “Libero Arbitrio” concessomi. Come avrei rifiutato divenire un passivo nelle mani di un qualcuno o qualcosa che disponesse per me in tutto al quale, ne sono certo, non sarei risultato nemmeno accetto nella veste di un essere incomodo, ignavo, fatalista.
La conclusione, non so se accettabile, è che io mi ritenga poco coinvolto nelle pratiche religiose create dall’uomo, comportandomi quindi come un Galileo Galilei, un Voltaire, un Platone, un Pirrone, come un Francesco Mancini. Quanto al rapporto con gli altri è questi un tema anch’esso impegnativo per essere trattato in queste divagazioni notturne.
Lo affronto di sfuggita per dire cose poco accette rispetto il pensare di oggi e l’ipocrisia imperante in ogni dove. Ebbene, io mi sento inserito in un’area élitaria, diciamo gnostica, che mi accolse un tempo e mi seguì per una vita. Sono convinto (ahi!) che gli umani non siano affatto uguali fra loro, ma esistano differenze sostanziali in relazione alle origini delle proprie genti (ahi e poi ahi!), allo sviluppo fisico, alla illuminazione che siamo andati a cercare, agli equilibri irrinunciabili di una nazione, una collettività, dei fini superiori rispetto le singole pretese e meschinità. Posso allora considerarmi un razzista? Nel contesto indicato potrei, anche perché credetti e seguii il mito della grande Thule, della Ahnenherbe, delle stirpi ancestrali arie. Ma questi principi non sono più attuali, solo teorici e inglobati in un turbine di millenni.
C’è però che il mio pseudo razzismo odierno, se così può chiamarsi, non riferito a razze e popolazioni specifiche, si riferisce bensì alla cultura che non c’è, all’ignoranza conscia e accetta, all’ignavia nella vita singola e collettiva, al rifiuto dei principi che ci hanno indirizzato.
Le mie idee sono sempre chimeriche, ne sono convinto. Il mondo si è mosso in ogni dove, i nostri limitati paesi europei e occidentali vengono occupati da masse sempre più ingenti di disperati allo sbando, nemmeno confrontabile con quanto avvenuto sedici secoli or sono a seguito delle cosiddette invasioni barbariche. Nel contempo si è esteso il degrado del livello formativo, di coscienza, responsabilità, della nostra civiltà occidentale.
Non so quali soluzioni si possano intravedere. Forse il tempo, gli eventi, chiariranno qualcosa e il nascere di realtà oggi incognite.
Resta che io mi senta fiero di me stesso e di coloro, pochi o pochissimi essi siano, in cui alberghi un briciolo della fiamma dei padri e delle idee delle origini. Non siamo tutti uguali, affatto, e da queste diversità innaturali, complici governanti imbelli e buonisti per professione, nascerà il mondo spurio e degradato del domani ove noi tenteremo di costituire le micro comunità élitarie d’un risveglio futuro.Ora il riposo mi rimetta in sesto, domani mi confronterò con il mondo tenebroso dei Tirreni, gli Etruschi.
auroraageno
00lunedì 4 maggio 2009 17:41
Interessantissimo.... Ti ringrazio tanto, Francesco!

Un abbraccio affettuoso

aurora

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