Io e il Professore. Parte swconda e terza su quattro

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florentia89
00martedì 17 febbraio 2009 09:07
Storia vera, come sempre.
La cantina

Il “Professore” volle farmi visitare il suo rifugio antiaereo così, spostato un ampio tappeto disteso fra la parete ed il letto, si evidenziò sul pavimento un lungo portello, con una maniglia nel bordo opposto a quello cernierato. Egli prese una corda che scendeva dall’alto, male occultata dalla frangia della tenda, recante un gancio ad una estremità. Lo fissò alla maniglia, tirò la fune e il portello si aprì, andando a poggiare contro la parete. Quindi girò un interruttore e, precedendomi, m’invitò a scendere assieme a lui Mi avvicinai e notai che una scala di legno, con un mancorrente, scendeva per qualche metro in un antro quasi buio.Scesi con cautela una quindicina di gradini e posi i piedi su un piancito ruvido di cemento. Il “Professore” aveva con se una lampada a batteria che poggiò, spenta, su un tavolo un po’ sgangherato.
Io strinsi gli occhi per abituarmi alla poca luce data da una lampadina giallognola e notai un antro che mi parve immenso, misterioso, alto, vuoto, salvo qualche cassetta e cosa minore, forse umido o solo fresco. Era la cantina del locale. Il Professore, notata la mia sorpresa e curiosità, disse:
“Qui dovremmo essere al sicuro, per di più ci sono altre possibilità di uscita. Le strutture sono tanto forti da sfidare qualsiasi bomba, sempre che non sia da una tonnellata e non ci cada sulla testa (ridacchiò)” …
…”Infatti non ti trovi in una cantina qualsiasi, bensì in un locale di un complesso dell’antica Roma, in parte demolito ed in parte inglobato nelle fondamenta di questo edificio alla fine del secolo scorso.
In tutta l’area dell’Esquilino Caio Mecenate, amico dell’imperatore Augusto, aveva realizzato un complesso residenziale immenso, con giardini, edifici sontuosi, secondari, magazzini, servizi. Siamo inoltre prossimi all’area imperiale Sessoriana, ove è la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, del tempo di Costantino, anch’essa composta da palazzi, palestre, circhi e giardini. Questi resti dovrebbero essere quelli di un grosso fabbricato di servizio. Il pavimento è originale, pur se ricoperto in parte da cemento”…
Notai allora, con la vista che si era adattata, la presenza di possenti strutture, quella moderna, con mattoni spessi, dal colore giallo-rossiccio diciamo “recente”, e quella romana, con i classici mattoni sottili, invecchiati dai secoli in un colore tipico bruno-scuro. Data la mia passione per il bazzicare grotte e cave, che mi creò pure qualche imprevisto, mi trovai entusiasta di ciò che vedevo e forse, ancor di più, dell’altro che immaginavo esserci.
Mentre ero in tale stato d’animo e mente tornò lacerante il sibilo delle sirene, che stavolta annunciava il cessato allarme.
Il “Professore” mi assicurò che avrei potuto osservare ogni cosa in altra giornata, senza fretta, e risalimmo. Non pioveva più, mi rimisi le calze, ormai asciutte, e le scarpe, ancora un po’ umide ma gradevolmente calde.
Indossai la giacca e presi l’ombrello. Uscendo salutai con deferenza il “Professore”, che m’invitò a farmi rivedere, cosa per me scontata, sia perché passavo sempre nei suoi pressi, sia perché non mi dispiaceva affatto poterlo avere come amico, e ciò anche se più maturo di me e con le differenze notevoli che fra noi intercorrevano. Inoltre avevo intravisto la possibilità di utilizzare l’Enciclopedia UTET e altri testi per le ricerche scolastiche, oltre ad usufruire di qualche collaborazione (e del suo eccellente surrogato di caffè).
Mi sono dilungato sul sorgere dell’amicizia con il “Professore” in quanto ciò era necessario per comprendere il legame che ci unì in un rapporto profondo, come quello di un maestro con un allievo o di un padre coi figli.
Come avevo previsto tornai a visitarlo, sempre ben accolto e accetto.
A volte andai anche in divisa da balilla moschettiere e avanguardista, per via di qualche adunata da osservare, ed egli non infierì sul mio abbigliamento anomalo, né fece apprezzamenti malevoli sulla situazione in atto; d’altronde non ne fece nemmeno di positivi. Si limitava a sorvolare l’argomento.
Per più di due anni passai settimanalmente dei pomeriggi a consultare i suoi libri e il dizionario enciclopedico, usando la scrivania ed a volte l’ambita macchina da scrivere, nonché profittando del caffè. Questo, assieme al suo aiuto, si rivelò molto utile per gli studi (mi diplomai con i voti massimi), nonché per una di formazione che avrei potuto acquisire difficilmente.
Il ”Professore” mi diede da leggere, e quindi portai a casa, il primo volume della Storia di Roma del Mommsen; cominciammo poi a trattare, assieme a lui, a Vitt, ed a volte uno o due altri ragazzi, parti del secondo, confrontando qualcosa con quanto scritto da Tito Livio, commentando i contenuti, le vicende e comparandone delle parti anche con i tempi successivi e gli attuali.
Ebbi inaspettatamente delle difficoltà con mio padre, al quale qualcuno che non si faceva gli affari propri riferì che io me la stessi facendo con un non ben identificato omosessuale. Cercai di fargli capire che non era così, e penso riuscii a fargli cambiare opinione su ciò che si era messo in testa.
Per mia madre il “Professore” era invece una gran degna persona.
Ebbe modo di conoscerlo in quanto, essendo lei sarta non professionista (mi confezionò quasi tutti gli abiti e camice fino a quando mi sposai, e svolgeva lavoretti per persone amiche), accettò una volta, su mio suggerimento, che il “Professore” gli tagliasse la stoffa di un abito a doppio petto a me destinato.
Nell’incontro che ne seguì, accompagnato dal solito caffè, lei ricevette vari consigli di cucito. Ne derivò che, influenzata anche dalla presenza nella sartoria di una statuetta di Sant’Antonio da Padova, il suo prediletto, con un lumino elettrico perennemente acceso, restò così ben disposta da decidere che egli fosse persona gentile, affidabile, colta, generando un pizzico di rivalità in mio padre, così mi parve. Il “Professore”, e a volte un sarto suo collega, gli tagliarono ancora qualche vestito, sempre gratuitamente, anche in casa nostra, ove il sarto amico mi diede anche l’impressione di fare un po’ di filo a mia madre. Incredibile, mia madre oggetto di attenzioni da parte di un uomo che non fosse mio padre! Ne accennai al “Professore”, egli non sottovalutò nulla di quanto gli esposi e dei miei dubbi, così quel collega non lo vedremo più in casa; ignoro cosa si siano detti.

Cosa avvenne

Venendo a ciò che intendo trattare, che per me ha un valore elevato, sia lo consideri un frutto del caso, sia in una chiave diversa, è bene premetta alcuni avvenimenti di quel periodo. Quante cose accaddero!
Il 19 Luglio 1943 Roma fu bombardata per la prima volta da mille aerei americani. La zona colpita, la San Lorenzo–Tiburtina-Casilina, era vicina sia alla nostra scuola, sia alla mia casa e a quella del Professore. Il palazzo ove nacqui venne parzialmente distrutto. A Porta Maggiore un amico di scuola, che a volte aveva fatto parte del nostro gruppo di lettura e incontri, rimase ucciso. Ne ho già parlato e detto il nome, Filippo Mastroianni, sedici anni.
Trascorsi pochi giorni, cadde Mussolini e il regime fascista.
Altro bombardamento vi fu il 13 Agosto, questa volta nella zona Appio-Tuscolano, ove dal 1931 ci eravamo trasferiti come abitazione.
Il nostro palazzo si salvò ma vari edifici accanto, una chiesa di fronte, e una stazione ferroviaria nei pressi, furono distrutti.
Venne colpito un treno di profughi rimpatriati dall’Africa Orientale Italiana. Inutile parlare di morti e feriti, tanti, compresi buona parte degli occupanti il convoglio della speranza, del ritorno a casa.
Accompagnai mia madre in Umbria al sicuro dai bombardamenti e tornai subito a Roma per prendere servizio all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni il quale, per intervento del papà dell’amico che ho definito “benestante”, mi aveva assunto a tempo “determinato”. Il lavoro durò solo tre mesi in quanto, a seguito dell’armistizio con gli alleati, l’INA si trasferirà a Venezia, nella parte d’Italia controllata dalla Repubblica Sociale, quella di Mussolini.
La Sede centrale resterà occupata da un minimo di anziani e noi, ultimi assunti, verremo rimandati sbrigativamente a casa.
In conseguenza dei tanti avvenimenti i rapporti con il “Professore” si erano un po’ diradati, oltretutto i telefoni nel nostro ambito erano rari, meglio sarebbe dire inesistenti del tutto.Tornai comunque a incontrarlo trovandolo cordialema preo ccupato, qualcosa non andava e lui lo nascondeva male.
E n’aveva ben ragione. Arrivò l’otto settembre, l’armistizio, con quello che ne seguì, l’occupazione tedesca ed il ritorno fascista, questa volta repubblicano, visto che il Re, il governo, lo Stato Maggiore, la maggior parte delle autorità, si erano trasferite al sud, prima a Brindisi, a Bari poi.
Il mio amico Vitt sparì anch’egli per qualche tempo. Andò da suoi parenti in campagna. Quando ci salutammo mi confidò che era preoccupato per il Professore, il quale rifiutava di allontanarsi pur essendo d’origine ebraica.
Questo dell’essere d’ascendenza israelita mai mi turbò e, vedendo che non me ne fece cenno, evitai di parlarne. Infine l’imprevisto.
D’improvviso il “Professore” fu arrestato e spedito in Germania.
Sapremo dopo la guerra che la sua destinazione era Dachau.
Noi, suoi amici, restammo colpiti e folgorati, non potendo intervenire in alcunché di fattibile. Oltretutto ne sapevamo poco sulle tragedie subite dagli ebrei in mano ai nazisti. Sembra che un abitante del palazzo l’avesse denunciato forse per livore razziale, ben più probabile per la ricompensa offerta dai tedeschi a chi comunicasse la presenza di ebrei.
Il laboratorio di sartoria e l’abitazione vennero saccheggiate dai militi, che portarono via stoffe, libri, mobilio, macchine da cucire.
A far sparire il poco dimenticato ci pensarono i soliti sciacalli.
Assieme al “Professore” venne arrestato il papà di Vitt il quale però, aiutato da qualcuno del Fascio che ben conosceva e contava, venne subito rilasciato, forse sborsando qualcosa a mo’ di riconoscenza.
Nulla poté fare per il parente “Professore” in quanto, oltre ad essere stato preso dai tedeschi e non fascisti, la deportazione fu immediata.
Il suo negozio di ottica non subì conseguenze in quanto la licenza era intestata da tempo ad un parente di razza “ariana” (boh!).
Su questa razza non ci avevo capito molto. Per vario tempo ritenei e ritenemmo ci si riferisse ai seguaci del vescovo eretico di Alessandria d’Egitto, Ario, vissuto ai tempi del primo cristianesimo.
Successivamente ci precisarono che fantomatiche tribù indoeuropee di Arii, ben prima dei tempi di Omero, si fossero indirizzate dall’India in Europa, divenendo così i nostri capostipiti (difficile capirci!).
Nella casa del “Professore” la sezione fascista di quartiere insediò una sede minore. Successivamente, entrati in Roma gli alleati, vi s’installò un ufficetto del Partito Repubblicano. Ciò si dimostrò una fortuna in quanto i locali vennero preservati da sequestri, occupazioni di sinistrati, sfollati, profittatori.
Col ”Professore” assente io decisi di fare un passo forse poco sensato, ma per me importante, del quale non mi pentii allora e dopo.
Preso dal fervore patriottico, in un momento nel quale in Italia tutto andava in malora, aderii alla nuova Repubblica Sociale e mi offrii volontario nelle sue forze armate, finendo invece, dopo peripezie varie, in un reparto sussidiario di Sussistenza della Whermacht germanica.
Gli eventi vollero che la guerra a Roma finisse presto, coi tedeschi che, ritirandosi, lasciarono me e altri al nostro destino, cioè in città, senza portarci con loro (per me, col senno del poi, fu una fortuna, ma ammetterlo allora mi pesava). Per quanto mi riguarda c’è che ci fu un incarico di presidiare con altri degli impianti nel momento del trapasso di fronte, che assolsi, ritenendomi poi libero dai vincoli precedenti. Forse col ”Professore” presente mi sarei comportato diversamente, senza rinunciare però al mio attaccamento per il Duce, i suoi uomini, il fascismo che tentava tornare alle sue origini.
Il ”Professore” tornò da Dachau nell’estate del 1945.
Venni avvertito da Vitt, rientrato in casa dopo l’ingresso degli yankees a Roma, e andai ad incontrarlo presso di lui, la cui famiglia l’ospiterà per un certo periodo, prima di risistemarsi nel suo laboratorio - abitazione.
Come parlare dell’incontro? come spiegare quanto ci si può emozionare per persone che pur non abbiano con noi legami familiari?
Vidi il “Professore” e i miei occhi si misero a lacrimare, facevano da soli, contro la mia volontà (non ero e non sono incline al pianto).
Un nodo alla gola mi impedì di pronunciare parole. Ci gettammo le braccia al collo. Dall’abbraccio compresi che per lui anch’io contavo qualcosa.
Un vero colloquio stentò ad avviarsi, comunque partì.
Fra le altre cose il Professore, rivolgendosi a me, disse se fossi impazzito ad aver combinato… certe cose con fascisti e tedeschi, senza precisarle in dettaglio e non parlandone più. Aggiunse poi che gli dispiaceva non avessimo finito di leggere e commentare la Storia di Roma del Mommsen, e chiese se sentivo la mancanza della sua Enciclopedia visto che n’ero stato in concreto il solo vero utilizzatore. Espresse poi, come amara considerazione e un pizzico di ironia che, se avesse immaginato la fine fatta dai libri e tutto il resto, le due opere me le avrebbe regalate prima.
Lo trovai invecchiato e debilitato, pesava poche decine di chili, ma nel complesso gli era andata meglio degli altri internati in quanto, per il suo inglese corrente, l’eccellente tedesco, oltre l’italiano, venne utilizzato come interprete e ciò, di certo, gli salvò la vita.
Riferì cose orribili. Disse di aver visto la morte non solo di una moltitudine di individui, ma dell’umanità nel suo insieme, in quanto simili tragedie dimostrano che il genere umano non ha più speranza o giustificazione di sopravvivenza. Affermò che Dio era finito e che lo era anche il Demonio (lo chiamò all’ebraica, Shatan, così mi parve), il quale non sarebbe stato capace di compiere tali e tante efferatezze. Aggiunse che per Dio e Demonio, viste simili tragedie, l’ipotesi restava che entrambi non fossero mai esistiti, creati solo dalle nostre paure, pazzie, debolezze, immaginazione.
Il suo sfogo lo fece singhiozzare, pur se tentava di darsi un contegno.
La vita infine riprese con una non splendida normalità.
Anche Vitt, senza farne un dramma, mi chiese, riferendosi a quello che per me era stato, se mi avesse dato di volta il cervello, dicendomi comunque di apprezzare la mia fede per la persona errata e il mio sacrificio per una causa perversa e perduta, due cose che, con un po’ di buon senso, avrei dovuto avvedermi (non lo ammetteva ma al Duce, prima delle leggi che colpirono la sua comunità, gli portarono rispetto ed affetto sia lui, balilla, sia il padre antemarcia e amico dei quadriumviri Balbo e De Bono e altri esponenti Top).
Successivamente egli si trasferirà in Israele, ove ne prenderà la cittadinanza, aggiuntiva alla italiana, e combatterà le guerre del periodo. Poi tornerà in concomitanza con la morte del papà, di cui rilevò i negozi di ottica, divenuti nel frattempo due. Il “Professore” rioccuperà la sua abitazione-atelier, riprendendo la professione di sarto, coi vecchi clienti che non lo lasciarono ed i nuovi che l’apprezzarono per l’accuratezza e bravura di lavoro.
In più iniziò a impartire delle lezioni di lingue e matematica.
Non aveva però l’entusiasmo e la serenità di un tempo. Le aveva perse a Dachau, assieme alle speranze riposte e alla fiducia nella vita.
Tornai a trovarlo più volte; frattanto mi ero sposato, lavoravo e abitavo a due passi da lui. Gli feci conoscere mia moglie e i figli. Dal padre di Vitt, che aveva ripreso la conduzione del suo esercizio, seppi altri particolari sulla sua vita e di un certo legame di parentela materno che in qualche modo li univa.
Passarono anni e col “Professore” mantenei un rapporto intenso, interessante, quasi filiale oltre che amichevole, sia diretto, sia epistolare, sia telefonico, nei cui dettagli non intendo entrare, sono personali per lui e per me, e non sarebbero oltretutto determinanti ai fini del racconto. Con molta probabilità non verrebbero nemmeno ben compresi da chi potrebbe leggere questo testo. Poi il “Professore” si aggravò per una malattia incurabile che combatteva da tempo e ci lasciò; aveva poco più di settanta anni. Era la fine degli anni sessanta e io mi trovavo per lavoro in Lombardia.
Il suo stato mi fu comunicato dal papà di Vitt. Rientrai a Roma appena in tempo per raccoglierne qualche parola e stargli vicino negli ultimi giorni.
Morì serenamente, sotto i miei occhi, nel primissimo mattino di un giorno di Maggio, nel suo letto di ferro dietro la sartoria, senza alcun altro presente; eravamo soli io e lui, nel palazzo tutti riposavano.
Nella notte egli, non più sofferente, con gli occhi chiusi e la mano che a volte strinse un po' la mia, emise per vario tempo un flebile suono nasale, modulato, , quasi un soffio, come tentasse di elevare un canto, un inno.
Sapevo che pregava e innalzava al cielo il cantico dell'incontro rivolto ai suoi magistri, la cui aria, accennata o immaginata, mi parve di riconoscere.
Lo vegliai per ore senza timore alcuno, finché non sorse il giorno.
Della sua morte, che racchiude un qualcosa di riservato, quasi un segreto, di cui fummo a conoscenza io e il padre di Vitt (ormai io solo, lui se n’è andato), ne parlerò in chiusura. Anche Vitt però, che rividi in Italia ai funerali del papà, mi sembrò ne sapesse qualcosa, ma non ne sono certo.
Comunque, in data recente, pure Vitt ha ritenuto di raggiungere il papà e il Professore; ne sono venuto a conoscenza dal figlio in occasione di una visita che intendevo fargli in un nuovo negozio di Ostia, il quartiere marino di Roma
Passarono veloci una trentina d’anni quando due fatti recenti, svoltisi a pochi mesi l’uno dall’altro, mi riportarono improvvisamente in un tempo lontano, non però dimenticato.
Mia figlia, medico primario in un ospedale Lombardo, mi comunicò, in una visita che gli feci, che una sua paziente, sentendo da lei che suo papà, cioè io, era appassionato di storia e cose romane, aveva pensato di regalarle alcuni libri importanti su Roma, già di un suo parente defunto, affinché li consegnasse a me, certa che sarebbero finiti nelle mani di un estimatore, come si sarebbe augurato il proprietario di prima. Fu così che entrai in possesso della Storia di Roma Antica del Mommsen, nei tre volumi rilegati in similpelle degli anni 40, cioè l’edizione di lusso, la stessa della quale io lessi il primo e una parte del successivo. Nel secondo testo un segnalibro indicava il punto ove era giunto il lettore d’una volta; per me era come lo avessi posto io.
Passarono soltanto pochi mesi quando un amico di famiglia, che vive in una villa nelle vicinanze di Roma, mi telefonò invitandomi ad andare da lui, senza fretta, in quanto aveva qualcosa da mostrarmi. Pochi giorni dopo, profittando di una giornata di sole, lo andammo a visitare, io e mia moglie. Terminato il pranzo, mentre le signore parlavano, egli mi invitò a scendere nel magazzino e disse: …“Ho appena regalato ad un polacco, nostro lavorante, alcune casse di libri di mio padre, deceduto da poco, in pratica una parte della sua libreria, ma ho escluso quest’opera, che ho ritenuto troppo impegnativa per lui. Conoscendo poi i tuoi interessi, ho pensato di mostrartela, se vuoi è tua”....
Mi trovai di fronte al Dizionario Enciclopedico UTET, edizione anteguerra in dieci volumi, oltretutto in condizioni discrete.
Aggiunse: …“Aspetta, c’è anche questo” e mi porse l’aggiornamento 1940. Era l’Enciclopedia che usavo nella casa del “Professore”.
Da notare che nel passato mai avemmo occasione fra noi di concretare operazioni del genere o similari. Né ripetemmo alcunché
Ora le due opere sono in una mia libreria particolare, ove gli ho dedicato un ripiano apposito. Così, mentre ho ricominciato a leggere la Storia del Mommsen, come fosse stata appena interrotta, ho sfogliato pagina per pagina l’intero Dizionario Enciclopedico. Ho ripreso inoltre a consultarlo, malgrado la vetustà e la disponibilità di opere ben più recenti, complete ed aggiornate.
Ciao e grazie “Professore” qualora per queste due acquisizioni particolari sia stato tu a ricordarti di me, ad ogni modo sappi, anche ciò non fosse, che non ti ho dimenticato e non ti dimenticherò.

auroraageno
00martedì 17 febbraio 2009 09:41

NON POSSO CHE DIRTI: gRAZIE. gRAZIE, fRANCESCO PER QUESTO TESORO DI MEMORIA, DI STORIA, DI VITA E DI SENTIMENTI VISSUTI CHE FANNO PARTE DEL TUO PATRIMONIO INTERIORE CHE CI HAI DONATO!

INAVVERTITAMENTE ho scritto in maiuscolo, ma non riscrivo.

Ti abbraccio, commossa enormemente e grata

aurora


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