LA MIA ESPERIENZA IN INDIA - 1972 - (parte terza)

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lucky_luke
00lunedì 23 giugno 2008 10:47
LA MIA ESPERIENZA IN INDIA - 1972 - (parte terza)

MADRE TERESA - l'azione

Premessa:
Da questo momento comincia la nostra vera azione ed esperienza con le "Missionarie della carità", così erano chiamate le, non so se chiamarle suore, volontarie missionarie, loro ci dicevano di chiamarle per nome. Anche Madre Teresa non voleva essere chiamata superiora o madre - chiamatemi Teresa - ci disse un giorno - come se doveste chiamare una vostra sorella, perché siamo tutti fratelli e sorelle.
Inserirò, in questa parte, alcuni detti e preghiere che Lei era in uso dire o recitare assieme a tutti i volontari che vivevano e lavoravano nel campo, alcuni li ricordo ancora a memoria.
Di questo, ad esempio, ne ho fatto tesoro e filosofia di vita. - La povertà più grande che c'è nel mondo non è la mancanza di cibo ma quella d'amore. C'è la povertà della gente che non è soddisfatta da ciò che ha, che non è capace di soffrire, che si abbandona alla disperazione. La povertà di cuore spesso è più difficile da combattere e sconfiggere.-

21 luglio:

Franco e Bruno entrarono nella tenda dove avevo riposato, mi svegliarono e, come due fiumi in piena cominciarono a raccontarmi di come avevano trascorso la notte. Li dovetti far tacere:
- Per carità uno alla volta! Non capisco niente! Calmatevi!
Si calmarono e uno alla volta, trattenendo un'esuberanza che sembrava volesse uscire da tutti i pori mi raccontarono tutto, io, a mia volta, raccontai i miei trascorsi di quella notte.
Calò il silenzio, ci guardammo negli occhi. Notai che gli negli occhi dei miei amici brillava una luce diversa, come di desiderio, ma anche di fermezza. Io sentivo una cosa che mi rimestava dentro e che voleva uscire:
- Ci fermiamo qui qualche giorno? - parlammo all'unisono tutti e tre.
Non ci fu bisogno di altre parole, ci abbracciammo tutti e tre strettamente.
Entrò lo sherpa per avvisarci che Madre Teresa e la suore erano in mensa e che ci aspettavano. Guardai per un momento la madre con il piccolo fra le braccia che ancora dormiva, il suo visetto, nel sonno, sembrava risplendere tanto era tranquillo e rilassato, mi sembrò perfino più arrotondato. La donna invece era sveglia, mi guardò profondamente e mi fece un cenno sorridendomi. Non ho mai ricevuto un grazie, almeno così l'ho interpretato, più bello.
Nella mensa trovammo tutte le suore, i medici i volontari e gli aiutanti che lavoravano nel campo.

Madre Teresa fece a tutti un ringraziamento per il lavoro, un augurio per quello che avrebbero fatto durante quel giorno e intonò, seguita da tutti la:
PREGHIERA QUOTIDIANA
dei collaboratori di Madre Teresa
Rendici degni, Signore, di servire i nostri fratelli in tutto il mondo che vivono e muoiono in povertà e fame.
Dà loro quest'oggi, attraverso le nostre mani, il loro pane quotidiano, e, con il nostro amore comprensivo, dà pace e gioia.
Signore, fa di me un canale della tua pace così
che dove c'è odio, io possa portare amore;
che dove c'è ingiustizia io possa portare lo spirito del perdono;
che dove c'è discordia io possa portare armonia;
che dove c'è errore, io possa portare verità;
che dove c'è dubbio io possa portare fede;
che dove c'è disperazione io possa portare speranza;
che dove ci sono ombre io possa portare luce;
che dove c'è tristezza io possa portare gioia.
Signore fa che io possa piuttosto cercare di confortare invece di essere confortato;
di capire invece di essere capito; di amare invece di essere amato;
perché è col dimenticare se stessi che si trova;
è col perdonare che si è perdonati;
è col morire che ci si sveglia alla vita eterna. Amen.
Mi risuona ancora nella mente, è l'offerta di tutto sé stesso agli altri, è l'esistere in funzione dei bisogni degli altri, la negazione dell'egoismo. L'ho insegnata anche i miei figli .

Tutti fecero un inchino e uscirono ordinatamente per dedicarsi ai propri lavori. Io Bruno e Franco ci avvicinammo a Madre Teresa e allo sherpa.
- Vi faccio accompagnare al vostro albergo - ci disse Lei sorridendoci, - vi ringrazio ancora dell'aiuto che avete dato.
- Veramente... - intervenne Bruno con la voce leggermente rotta - noi vorremmo chiederle un'altra cosa...
- Dite! Se posso volentieri - il suo sguardo si fece più profondo e indagatore.
- Potremmo andare a prendere le nostre cose e poi venire qui per qualche tempo?
Ci guardò uno ad uno con i suoi profondi occhi, mi sentii scrutato dentro, scavato, sembrava leggere tutto il mio essere, cellula per cellula, cromosoma per cromosoma, mi rilassai e attesi.
Io, Bruno e Franco attendemmo la sua risposta, i pochi secondi sembrarono un'eternità, infine:
- Bene! Vedo che lo volete proprio, vi faccio accompagnare a prendere le vostre cose, però avvertite i vostri genitori, fare del bene agli altri non giustifica il lasciare altri nella preoccupazione, spiegate loro bene le vostre intenzioni e rassicurateli.
- Molti si accontentano di dare solo del denaro. Il denaro non è sufficiente. Vorrei che ci fossero più persone ad offrire le loro mani per servire ed i loro cuori per amare.
Ci abbracciò ad uno ad uno. Come una madre abbraccia i suoi figli. Il calore di quell'abbraccio (come se ce ne fosse stato bisogno) ci sciolse ancora di più, sarei rimasto per sempre fra quelle braccia, quello che trasmettevano è indescrivibile, piansi di commozione.
Lo sherpa ci accompagnò, con una vecchia jeep, al nostro albergo, dove trovammo la guida. Sembrava ci rimanesse a distanza e anche l'albergatore, al quale dicemmo di prepararci il conto, se ne stava sulle sue.
Salimmo in camera, approfittammo di una bella doccia, poi, dopo aver raccolto le nostre cose scendemmo per pagare il conto.
La guida vedendoci puliti e lavati si avvicinò di più, ma non troppo, chiedendoci come mai ce ne andavamo, gli spiegammo il motivo, non ci guardò male ma con una faccia incuriosita ci chiese il perché, ripetei le parole di Madre Teresa:
- La povertà più grande che c'è nel mondo non è la mancanza di cibo ma quella d'amore. C'è la povertà della gente che non è soddisfatta da ciò che ha, che non è capace di soffrire, che si abbandona alla disperazione. La povertà di cuore spesso è più difficile da combattere e sconfiggere.
Arrossì e, abbassando la testa borbottò - come volete - e ci salutò.
Il proprietario accettò i nostri dollari, anche lui a testa bassa.
Ci facemmo accompagnare, dallo sherpa con la sua jeep, ad un centro telefonico, dove in 10 minuti ci misero in contatto con l'Italia e il padre di Bruno, l'unico ad avere il telefono. Bruno gli parlò per circa venti minuti.
Mentre ritornavamo al campo Bruno ci raccontò del colloquio con il padre che, all'inizio si era preoccupato, poi, affrontato con calma e rassicurato da Bruno, si arrese, ponendo come condizione di essere informato almeno una volta alla settimana, e finendo con il dire che eravamo usciti di testa, comunque avrebbe avvisato i miei genitori e quelli di Franco.

E così cominciò.
Ci consegnarono degli abiti che, a detta dello sherpa, erano rivelatori di quello che facevamo, compreso un turbante bianco con righe azzurre simile alle vesti delle suore. Ci mettemmo una giornata per imparare a indossarlo.
Ogni giorno si usciva con una jeep o con un camioncino per la periferia della città, era lì che si avevano maggiori possibilità di incontrare persone bisognose. Molti però venivano al campo di propria iniziativa, l'attività che vi si svolgeva era abbastanza conosciuta e perciò i bisognosi ogni giorno aumentavano. C'erano anche persone sane che venivano solo per avere il pranzo o la cena oppure per dormire la notte in un posto accogliente.
Era sempre un andirivieni di folla.
Cominciammo con i servizi interni al campo, Bruno si offrì subito per prestare la sua opera all'ospedale; Franco invece fu destinato alla cucina e alla distribuzione del cibo.
A me fecero affiancare due infermieri addetti alla medicazione dei ricoverati. Due volte al giorno facevamo il giro delle tende ricovero, si cambiavano le fasciature, si lavavano e disinfettavano le ferite. Uno dei due infermieri era una delle suore che, oltre ad insegnarmi a medicare le ferite fisiche cominciò a spiegarmi quello a cui Madre Teresa teneva più di tutto, la medicazione dell'anima.
Infatti la suora, che poi scoprii che era del Canton Ticino e parlava benissimo sia l'italiano che il francese, mi parlò del pensiero di Madre Teresa che ricordava a tutti:
C'è molta sofferenza nel mondo: fisica, materiale, mentale. La sofferenza di alcuni è da imputare all'avidità di altri. La sofferenza materiale e fisica è quella dovuta alla fame, alla mancanza di una casa, alle malattie. Ma la sofferenza più grande è causata dall'essere soli, dal non sentirsi amati, dal non avere nessuno.
Con il tempo ho capito che l'essere emarginati è la malattia peggiore di cui un essere umano possa soffrire.

Compresi meglio che cosa si faceva in quel luogo.

La sofferenza fisica era curabile con bende e medicazioni, un pasto caldo, un tetto ed una coperta.
Ma la sofferenza più grave era l'altra, quella spirituale, quella dell'anima, e io dovevo imparare a curare anche quella.
Mi ritornarono alla mente periodi della mia vita. Mio padre fra la vita e la morte, lo stringermi attorno a mia madre ed ai miei fratelli.
Gli amici che mi sono stati vicini, lenirono la mia sofferenza.
Osservavo la suora, partecipavo con lei alla consolazione dei malati, degli abbandonati, imparai a guardare nel profondo degli occhi delle persone per cercare di capire, vedere la solitudine, l'emarginazione, l'abbandono in cui erano spiritualmente.
Una carezza, lo stringere la mano guardandole in viso, bastavano per provocare in loro almeno un sorriso, era sempre un sorriso che rivelava la sofferenza fisica, ma l'altra sofferenza scemava.

Madre Teresa ci disse un giorno:
- Siate gentili e misericordiosi. Fate in modo che nessuno venga da voi senza andarsene migliore e più felice. Siate espressione vivente della bontà di Dio: bontà nei vostri occhi, nel volto, nel sorriso, nel saluto. Ai bambini, ai poveri ed a tutti coloro che soffrono e sono soli donate sempre un sorriso felice. Donate loro non soltanto le vostre cure, ma anche il vostro cuore.

Io imparai a metterlo in pratica.
Ogni tanto mi chiedevo perché mi aveva destinato a quel ruolo, possibile che lei avesse visto dentro il mio animo? che lo avesse fatto apposta dopo il colloquio che avemmo quella sera nella tenda?
Domande, domande che rimanevano senza risposte, io però non mi assillavo più di tanto, quello che avevo davanti agli occhi era più urgente, e le domande un giorno o l'altro avrebbero trovato risposta.
Passai tutto il giorno a girare per le tende, una ciotola di riso condito con una strana salsa a mezzogiorno e poi ancora per le tende fino a sera.
La sera a cena mi ritrovai con Franco e Bruno seduti al tavolo, eravamo spossati, ma la stanchezza fisica era poca cosa, mentre ci scambiavamo le nostra impressioni e racconti della giornata, quando parlavamo della sofferenza vista in quella gente, la nostra stanchezza era niente, quasi ci vergognavamo a dire che avevamo male alle gambe, alle braccia o alla schiena, la nostra non era sofferenza, erano capricci se confrontati con la vera sofferenza.

Nella tenda, dove ritornai per riposare la notte, trovai la donna con il bambino che avevamo raccolto il primo giorno. Stava parlando con la suora che le aveva portato la cena, al mio entrare la suora mi chiamò e mi chiese se ero disposto a dare il latte al piccolo, la madre mi fissava con un leggero sorriso, acconsentii, presi il piccolo in braccio e la suora mi passò il biberon. Cominciai a dare il latte al piccolo, come la sera precedente, a piccole poppate, ma questo era più avido e faticavo a togliergli il biberon dalla bocca. Sentii la madre e la suora ridacchiare sommessamente mentre mi guardavano lottare con il piccolo che si era fatto più furbo e stringeva il biberon con i suoi due primi dentini. Alzai gli occhi sorridendo anch'io, la stanchezza se n'era andata.
Dormii la seconda notte tutta d'un fiato, senza sogni, fino al mattino quando mi svegliarono per la riunione del mattino nella mensa.
Così passavano i giorni, mi stavo affinando nel consolare la sofferenza dell'animo, cominciavo a capire che le cure fisiche erano ben poca cosa se non si curavano anche le sofferenze morali.
Ricordo, un giorno arrivò al limite delle tende un'auto signorile nera e lunga, un modello americano con le tendine nella parte posteriore mentre la parte dell'autista era scoperta. L'autista scese e chiese qualcosa ad un inserviente del campo, quest'ultimo chiamò altri due con una barella, si avvicinarono all'auto, l'autista aprì gli sportelli e gli inservienti aiutarono a scendere una donna dall'abbigliamento signorile di forgia indiana, la sdraiarono sulla barella e la portarono agli ambulatori.
Seppi dopo qualche giorno che era la moglie di un ricco possidente, che come ultimo atto "d'amore" era stato quello di farla accompagnare al lebbrosario invece di scaraventarla in una strada come facevano molti altri. La lebbra era appena agli inizi e c'erano buone possibilità di fermarla in tempo prima che facesse danni gravi.
Trovare uomini, donne o bambini allontanati brutalmente dalle case perché si scopriva essere lebbrosi, era una cosa frequente, bastava girare per le strade, quelli che potevano muoversi arrivavano al campo da soli, tutta Calcutta e anche la regione intorno sapeva cosa si faceva dalla Madre Bianca, sapevano che lì avrebbero trovavano accoglienza, cure, riparo, un pasto caldo. Arrivano, attendevano il loro turno con dignità e calma. Non ho mai visto nessuno fare ressa, né per le cure neppure per avere da mangiare, sempre con calma e con lo sguardo dignitoso, anche quelli che erano considerati i "paria".

Un giorno, passando per una via secondaria di Calcutta dove gli abitanti vivevano abbastanza dignitosamente, sentimmo un vociare da dietro un vicolo accompagnato da abbaiare di cani.
Ero andato con lo sherpa un infermiere e la suora per prelevare un uomo anziano che viveva da solo e nessuno lo accudiva, lasciammo la suora sul camion con l'anziano e andammo a vedere cosa succedeva.
Per Istinto o, non so per quale motivo, presi dalla cabina del camion lo zainetto con i medicinali che conteneva sempre anche delle focacce di pane bianco e soffice.
Nel vicolo c'erano quattro ragazzini di circa 7 o 8 anni che dai bidoni dei rifiuti di una bettola stavano combattendo con tre cani per dei rifiuti, uno dei ragazzini teneva una pagnotta di pane raffermo e mezzo ammuffito da una parte mentre un cane ringhiante tirava dall'altra parte.
Lo sherpa e l'infermiere scacciarono i cani con delle urla e qualche calcio, cedettero con riluttanza, si allontanarono di decina di metri ma rimasero in attesa.
I ragazzini veniva dai quartieri poveri, per abitudine girovagavano nei vicoli dietro ai locali dove sapevano di trovare nei rifiuti qualcosa di commestibile, lo sherpa parlò loro, io mi avvicinai estraendo dallo zaino quattro focacce e ne porsi loro una a testa, presi il pane ammuffito dalle mani del bambino che il cane aveva lasciato al nostro arrivo, e lo buttai verso i tre animali i quali, affamati forse anche di più dei bambini, gli saltarono addosso ringhiandosi l'un l'altro.
Non solo i bambini soffrivano la fame ma anche gli animali.
I bambini divorarono letteralmente le focacce, sembrava non masticassero nemmeno.
Lo sherpa spiegò loro che se volevano mangiare un pasto potevano venire al campo di Madre Teresa, sapevano dov'era, ma avevano paura a causa dei lebbrosi. Ma lui spiegò loro che i lebbrosi erano nelle tende e alla mensa sarebbero potuti entrare senza problemi e che noi, dopo tanto tempo che eravamo lì, non eravamo stati contagiati. Annuirono quasi sollevati. Da quel giorno li vidi molte volte entrare o uscire dalla mensa allegri e vocianti.
Qualche volta vennero anche i loro genitori e la madre si offrì ad aiutare per le pulizie in cucina in cambio di un pranzo di riso al giorno.

Madre Teresa sembrava onnipresente, si vedeva sempre, di giorno, di sera, anche di notte.
Mi veniva il dubbio che non riposasse mai, consolava gli ammalati, per ognuno c'era una buona parola, se qualcuno di noi era stanco o affranto arrivava lei, sembrava avvertisse i nostri momenti di frustrazione e una carezza delle sue o un "coraggio" ci dava nuova energia.
Un giorno, arrivarono delle provviste dalla Francia, dodici camion di farina, riso e altri generi alimentari più due camion di medicinali.
Arrivavano sempre aiuti da vari stati, ma questo era un carico eccezionale tutti aiutarono a scaricare i camion, il magazzino venne riempito fino all'ultimo angolo, gli addetti alle cucine gongolarono, questi rifornimenti sarebbero bastati per un intero mese.
Madre Teresa il mattino dopo alla riunione di tutti i collaboratori diede l'annuncio dell'arrivo dei rifornimenti, ci fu un'esplosione di gioia e applausi accompagnati da un ringraziamento generale verso i francesi e verso nostro Signore.
Madre Teresa disse:
- Di fronte alle difficoltà, ai dubbi ed alle obiezioni, abbiate fiducia in Lui. Egli non vi deluderà. Se Dio non fornisce i mezzi, significa che non vuole che quel particolare lavoro venga fatto. Se desidera che venga fatto, ve ne renderà i mezzi. Perciò non preoccupatevi e abbiate fiducia in Lui.
Poi intonò una preghiera che ormai anch'io conoscevo:
eccola:
MANDAMI QUALCUNO DA AMARE
Signore, quando ho fame, dammi qualcuno che ha bisogno di cibo,
quando ho un dispiacere, offrimi qualcuno da consolare;
quando la mia croce diventa pesante,
fammi condividere la croce di un altro;
quando non ho tempo,
dammi qualcuno che io possa aiutare per qualche momento;
quando sono umiliato, fa che io abbia qualcuno da lodare;
quando sono scoraggiato, mandami qualcuno da incoraggiare;
quando ho bisogno della comprensione degli altri,
dammi qualcuno che ha bisogno della mia;
quando ho bisogno che ci si occupi di me,
mandami qualcuno di cui occuparmi;
quando penso solo a me stesso, attira la mia attenzione su un'altra persona.
Rendici degni, Signore, di servire i nostri fratelli
Che in tutto il mondo vivono e muoiono poveri ed affamati.
Dà loro oggi, usando le nostre mani, il loro pane quotidiano,
e dà loro, per mezzo del nostro amore comprensivo, pace e gioia.

Ormai era passato un mese da quando ci eravamo fermati.
Io, Bruno e Franco un giorno mentre chiacchieravamo dopo cena ci guardammo l'un l'altro notando il nostro fisico, era la prima volta in un mese che pensavamo ai nostri corpi.
Ci lavavamo, ci cambiavamo di abito, avevamo sempre da mangiare, quello che c'era, molto riso, focacce, qualche zuppa, ma stranamente nessuno di noi aveva fatto caso a com'era il cibo.
Ci nutrivamo e basta.
Pensai alle volte che a casa lasciavo il pranzo o la cena perché non mi andava quello che mia madre mi preparava e finiva buttato al cane, in quel campo ci avrebbero mangiato tre persone.
Eravamo dimagriti, un bel 5 o 6 chili a testa, eravamo belli asciutti e abbronzati, ci mettemmo a ridere.
Pensate - disse Bruno - a casa facevamo i difficili su quello che mangiavamo, lo sport per tenersi in forma, i divertimenti che sembravano necessari come l'aria che respiravamo; qui invece, i divertimenti non ne sentiamo il bisogno, abbiamo mangiato di tutto senza fare gli schizzinosi, siamo in perfetta forma fisica e abbiamo pure fatto del bene a tanta gente.
Che vita abbiamo fatto finora? - Rifletté Bruno a voce alta - io e Franco abbiamo ciondolato in giro per le scuole, poca voglia di studiare. Solo tu Giuliano, anche per l'incidente di tuo padre, hai avuto da sudarti la vita, ma noi? Signorini mantenuti dai papà, con la puzza sotto il naso, mentre qui la gente moriva, noi ci lamentavamo perché il papà ci dava pochi soldi per la pizza, o perché non ci prestava l'auto, oppure perché la minestra di mamma faceva schifo, e qui la gente moriva di fame.
Rimanemmo in silenzio.
I nostri occhi si incrociarono più volte. Non c'era niente da dire.

Dietro di noi una voce che conoscevamo bene e che forse aveva ascoltato i nostri discorsi disse:
- Qualcuno tempo fa mi ha chiesto: "cosa farai quando non sarai più superiora?". Io gli ho risposto che ho sempre una mente per pregare e che sono insuperabile a lavare bagni e latrine. Non è importante ciò che facciamo, ma con quanto amore lo facciamo. Se Dio desidera che pulisca i bagni, che mi prenda cura dei lebbrosi o parli con il presidente degli Stati Uniti, per me fa lo stesso. Io gli appartengo.
Perciò non crucciatevi per quello che non avete fatto nel passato, Dio ha voluto così, siate docili nelle Sue mani e Lui guiderà il vostro cammino verso la via che vi ha preparato.

G. (continua)

fiordineve
00lunedì 23 giugno 2008 18:33
La povertà più grande che c'è nel mondo non è la mancanza di cibo ma quella d'amore. C'è la povertà della gente che non è soddisfatta da ciò che ha, che non è capace di soffrire, che si abbandona alla disperazione. La povertà di cuore spesso è più difficile da combattere e sconfiggere.-


Io, divenuta invalida, conosco questa sensazione; persino le persone più care si stancano di accudire un malato cronico che può solo peggiorare.




auroraageno
00lunedì 23 giugno 2008 19:51

Giuliano caro... non so dire la commozione, il turbamento, la gratitudine che sto provando nel profondo.
Sii sempre benedetto, amico mio
Attraverso te, attraverso il dono che stai facendo, Dio ci sta donando i suoi doni, il suo amore, il suo aiuto!


Maria Antonietta... non avvilirti cara... Come sai è solo per l'umana debolezza, della qusale siamo tutti partecipi, che le persone care avvertono stanchezza, nel tempo, a curare una persona invalida... E sai quanto se lo rimproverano, magari?
Ti abbraccio cara...

aurora

fiordineve
00martedì 24 giugno 2008 01:09


La condivisione del suo incontro con madre Teresa ha contribuito a donare un angolo di Sole Eterno tra noi; lei povera tra i poveri, piccola, fragile con una Fede che oltrepassava la miseria che la circondava è stata un Profeta.
E, Giuliano, facendosi suo servitore ha potuto scorgere la Vita che verrà già sulla Terra, era accanto ad un Angelo, non ci può lasciare indifferente l'abbraccio di un Angelo.

Leggendolo pure noi siamo là con le suore della carità e con il testamento di una piccola suora albanese che è stata riverita da tutti i potenti del mondo.



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