Mio padre

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ceciliarossini
00sabato 3 dicembre 2005 22:47
La telefonata arrivò inattesa dall’ultima persona che avrei voluto sentire.
Mio padre stava morendo.
Feci le valigie non ben conscia dei miei movimenti e dei miei pensieri; l’aereo atterrò all’aeroporto di Fiumicino in perfetto orario.
Mia madre mi venne incontro sorridendo, felice che fossi a casa dopo tanto tempo. Provai rabbia e rancore verso quella donna che aveva vissuto tanti anni con il suo uomo e lo aveva ignorato al punto di non accorgersi che era irrimediabilmente malato; continuava ad ignorare e nella sua inconsapevolezza progettava giorni di festa ed allegria per la figlia tornata all’ovile.
Mio padre giaceva nel letto dell’ospedale, in una stanzetta riservata, con la compagnia di altri due malati terminali. Aveva avuto la “certezza”, misericordiosa, della completa riuscita dell’operazione e la sicurezza che presto sarebbe ritornato a casa.
Ricordo che quel giorno l’infermiera aveva portato un pasto solido e sorridendo aveva sussurrato:- Lei ce la farà, di tutti e tre è quello che ce la farà.
Compresi che avevano deciso di non dire nulla a nessuno, solo io, la figlia prediletta , aveva avuto la fortuna della verità: trenta, forse quaranta giorni ancora.
Quando lo sollevammo dalla vettura per entrare nel portone della casa dov’era nato e dove avevano chiuso gli occhi i suoi genitori, fummo circondati da tanta gente venuta a congratularsi per lo scampato pericolo.
Un bimbetto di quattro anni circa, che non avevo mai visto, si attaccò alla sua camicia:- Nonno, ci vengo a casa tua?
Mio padre lo guardò:- Oggi sono stanco, quando mi passerà la tosse ti chiamo. Tu aspetta.
Non ho mai visto quel bimbo nella casa di mio padre.
La stanza da letto non era molto grande ma arredata con cura e signorilità: ricordo con tenerezza il lettone di ottone in cui la domenica mattina mi era permesso entrare, l’odore buono di mio padre, un odore di bontà e onestà che non ho trovato in nessun altro uomo, odore di “grande” di forte; mi stringevo a lui e ridevo al solletico dei suoi baffi e pensavo a quando, un giorno lontano, qualcuno tutto mio, mi avrebbe fatto provare ancora tanta pace e tanto amore.
Davanti al letto uno specchio enorme faceva da porta all’armadio a muro dove i vestiti di mia madre venivano letteralmente ingoiati, così pensavo tremando da bambina, da una caverna lunga e buia.
Ricordo con terrore quel mobile di mogano scuro.
Una sera, appena morta mia nonna, dovevo avere circa otto anni, mia madre, mi ordinò di andare in camera da letto a prendere nella giacca appoggiata sul letto, il fazzoletto per rimediare ad un raffreddore insistente.
Con mia madre non si discuteva: si andava se diceva va’, si tornava se diceva vie’.
Mi misi l’animo in pace e terrorizzata dal buio e dalle frasi ascoltate per caso dopo il recente lutto, sull’agonia della mia ava, attraversai l’androne ed entrai nella stanza.
La luce della cucina rompeva le tenebre rischiarandole debolmente e creando sui muri ombre sfocate e dando vita all’indumento poggiato ordinatamente sul letto.
Un brivido di freddo mi attraversò la schiena e sentii come degli occhi scrutarmi; ricordo di aver allungato la mano e di aver toccato la stoffa calda, poi ho visto, ne sono sicura, la porta dell’armadio a muro muoversi e uscirne mia nonna, eterea, bianca……….una nuvola.
Il terrore mi aveva paralizzata, sarei certamente morta di paura se mio padre, non vedendomi arrivare, presagendo i rimproveri di mia madre, non fosse venuto a cercarmi accendendo in quell’attimo la luce.
Non ho mai raccontato a nessuno ciò che ho vissuto, mi avrebbero considerata più strana di quanto già non credessero, ma da quel giorno, non entrai in quella camera da sola di notte, per molti anni, fino alla malattia di mio padre.
Avevano steso un lenzuolo bianco sopra le poltroncine ai piedi del letto d’ottone, la tendina abbassata discretamente ed un odore di creolina ammorbava l’aria: avevano riprodotto la camera dell’ospedale, forse pensando che il malato sarebbe stato più a suo agio. E pensare che mio padre aveva sempre odiato l’odore della creolina. E’ puzza di cremazione, diceva. Non ho mai saputo perché affermasse ciò, ma ho sempre associato quell’odore alla morte.
Lo accudii con tutto l’amore che può dare una figlia, lo coccolai assaporando attimo per attimo i preziosi minuti che fuggivano inesorabilmente.
Pregai.
Pregai che la morte misericordiosa arrivasse veloce per toglierlo dalla condizione di degrado fisico cui lo costringeva la malattia.
Per giorni e giorni mi caricai sulle spalle il suo fardello ed ogni giorno lo sentivo farsi più leggero, diventare più piccolo.
Non parlava mai del futuro; sempre più spesso i suoi pensieri erano ricordi e diventava triste se qualcuno gli faceva visita.
Mandali via, diceva, non sono ancora morto.
Mia madre non dormiva più con lui. La notte spesso si lamentava e lei non sapendo come alleviare le sue sofferenze, cercava la mia esperienza con il risultato di restare svegli tutti tutta la notte: dormii io con lui.
Lo guardavo addormentarsi e stavo in silenzio a spiare il suo respiro, il suo sollevarsi del petto e capivo finalmente la preoccupazione che doveva aver provato quando vegliava le mie malattie di bambina, le premure che aveva avuto e come fossero spontanee e dolci.
Una mattina si svegliò senza voce.
Calde lacrime scivolarono sulle sue guance e sulle mie.
Liberai la mia disperazione nel chiuso del bagno: non potevo più accettare che un uomo come lui potesse essere ridotto ad un rottame dalla malattia.
Signore pregai, prendilo presto. Signore dove sei? Perchè non rispondi?
Passai delle ore seduta sul pavimento, la testa tra le mani non sapendo cosa fare.
Lo sguardo dell’uomo che mi aveva messa al mondo gridava aiuto ed io non riuscivo a sostenerlo perché, per la prima volta nella mia vita, non potevo aiutarlo a vivere.
Ma potevo aiutarlo a morire.
Quella sera, quando mia madre spense il televisore e chiuse la porta della sua camera,, accesi la luce grande della camera da letto. Prelevai dalla grande scatola di latta una siringa ipodermica …
Babbo, ti voglio bene.
Aprì gli occhi e mi fissò. La mia vita entrò in lui e la sua in me, catene invisibili legarono le nostre esistenze, mi sorrise e mosse la testa con gesto affermativo.
Babbo, ti voglio bene.
Infilai l’ago…
Babbo, ti voglio bene.
Mi sedetti prendendo la sua testa tra le braccia e cominciai a cantare.
Fai la ninna mio tesoro,
mentre dormi io lavoro,
ti lavoro la camicia,
te la metti domani mattina.
Vedevo il mare Adriatico frangersi sugli scogli e sentivo sotto i piedi nudi il calore della sabbia, lontano all’orizzonte gabbiani stridenti si innalzavano e abbassavano su flutti; l’aria bianca vorticava intorno agli oleandri colorati e diffondeva odore di pesce arrosto e pane appena sfornato.
Fai la ninna bebè,
ora viene papà,
ti porta mommò.
Non so quando si addormentò. Forse quando il vento smise di scuotere gli oleandri, o quando i gabbiani si posarono sulla sabbia ormai fredda.
Sono fuggita da quella casa la mattina stessa: non ho potuto aspettare lo mettessero nella bara, ne’ avrei potuto sopportare gli isterismi di mia madre.
Non piansi.
Non avevo più lacrime da versare su quel mucchio di ossa: tutto il dolore era stato con lui.
So che mia madre va ogni giorno al cimitero anche dopo tanti anni; io non saprei nemmeno arrivarci.
Lei dice a tutti che l’ho dimenticato, che forse non l’ho mai amato.
Lei non sa che ogni notte allungo la mano verso lo spazio vuoto del mio letto e lo chiamo: babbo.
E lui viene da me e prende tra le braccia la sua bambina e le canta:
Fai la ninna bebè
Adesso viene papà,
ti porta mommò,
mentre il vento scuote gli oleandri in fiore e i gabbiani impazziscono nell’azzurro cielo dell’Adriatico.








U.N. (ceciliarossini)











paranoimia
00lunedì 5 dicembre 2005 14:09
Non mi vergogno di dire che ho pianto.
hunkchinasky
00martedì 6 dicembre 2005 12:33
Tratta un tema molto delicato... io dai bastioni della mia ignoranza, sono dell'idea che... finchè c'è vita c'è speranza.

Un abbraccio


ceciliarossini
00martedì 6 dicembre 2005 16:12
Hai ragione... finchè c'è vita,... ma quando la vita sta fuggendo e sai che nn potrai più averla, perchè dare vittoria al dolore oltre che alla morte? Morire con dignità come si è vissuti credo sia un diritto di ciascun uomo. Ma... rispetto il tuo pensiero.
Amarganta
00mercoledì 7 dicembre 2005 10:42
....

...la morte è naturale...il dolore e la sofferenza inutili, no.

Ho pianto anche io....

Piperthree
00mercoledì 7 dicembre 2005 23:44
RE
...credo in tutta onestà che la morte non sia nient'altro che parte della vita, così come credo in genere negli equilibri, quindi che sofferenze ed agonie compensino (anche se non in tutte le persone) gioiosi periodi a volte anche lunghi........

la vita offre se non altro l'opportunità di conoscere persone mirabili e di conoscere quella che forse è la cosa più bella, l'amore: il fatto che ancora senti tuo padre accanto al tuo cuscino può forse significare che egli è lì davvero e non solo nei tuoi desideri o nella tua triste nostalgia......


un abbraccio, la commozione è stata spontanea anche per me.....


Piper
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