Natasha

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florentia89
00giovedì 15 ottobre 2009 19:54
Remind giovanile del dopoguerra
Natasha – la Bologna di oggi e di ieri
Eccomi di nuovo a Bologna. E’ la Felsina Etrusca, la Bononia dei Galli Boi prima e Romana poi, la città per secoli papale, infine unitaria non so quanto convinta; la Bologna già fascista e quella rossa del dopoguerra.
Città fondata anch’essa, al pari di Roma, mercé l’intervento di un eroe troiano in cerca di una nuova Patria, Dardano, che diede anche il nome allo stretto dei Dardanelli, e da sempre industriosa, gaudente, estrema, con una personalità decisa e specifica. Sono giunto con moglie e figlia per una visita di piacere e lavoro alla Fiera della Ceramica per l’architettura e l’arredo domestico, che mi lascia attonito nel constatare l’industriosità delle imprese emiliane e viciniore in un settore di punta della loro attività. Aggiungo anche il girovagare senza una meta prefissa in quanto Bologna è per me un’amica ove mi sento accetto e non un estraneo che non percepisce lo spirito delle sue genti eccelse. Stavolta la rivedo con più calma di altre, dopo una lunga pausa di assenza, salvo passaggi fugaci.
Sin da bambino essa era la prima sosta che mio padre faceva nei viaggi svolti con la famiglia utilizzando i biglietti gratuiti delle ferrovie ove lavorava. Naturalmente ciò avveniva se la direzione era il nord, e non il sud italico e insulare. E allora mi vedo infante percorrere il modesto tour di sempre, la Fontana e la Piazza del Nettuno, la Piazza Maggiore con la maestosità di San Petronio, ove mia madre pianificava messa per tutti e comunione per lei, e poi i palazzi medioevali circostanti, laici e religiosi, nonché le torri degli Asinelli e della Grisenda, i tanti edifici della nuova città costruiti dal Duce, con le loro linee inconfondibili, classiche e moderne al tempo stesso, accompagnate da stupendi fregi, bassorilievi, altorilievi, iscrizioni latine. Terminato poi il break tutti in treno e via per il nord, il Piemonte, Lombardia, le Venezie di allora. Alcune soste bolognesi avvennero anche quando, come Balilla, vi sostavamo negli spostamenti verso i campi estivi della Val Gardena ed eravamo seguiti dalle sedi locali della Gioventù Italiana del Littorio. Una volta fummo anche ospiti in reciprocità e allora avemmo giorni pieni di attività ginnica, fisica, culturale. Poi la guerra dura, lunga, sofferta, con bombardamenti, privazioni, caduti, delusioni, crollo delle speranze e, al suo termine, dopo una travagliata lotta di neri – rossi italici, Bologna si troverà immersa nella realtà comunista, a mio giudizio affatto diversa dalla fascista e dalla Repubblica Sociale.
Bologna mi rivide più volte in vesti ed età diverse. Nel primo dopoguerra la frequentai per problemi di aiuti alimentari e vestiario provenienti da ambienti ecclesiastici anch’essi “neri”, di un nero diverso però dai gagliardetti, come se ne possano esistere di più gradi. Altre volte la presenza in Bologna e aree viciniore fu per dare aiuto a chi in difficoltà per le angherie subite in quel tempo bollente, ove bastava un nulla per essere spediti all’altro mondo. Ci furono anche missioni tese a ristabilire equilibri e giustizie mancate, svolte da gruppi più motivati, dei quali ne sentivamo parlare ma non era facile capire chi fossero, sia come operativi, sia decisionali.
Evitai per poco la bomba del 1980 nella Stazione Ferroviaria. Rimandai di un giorno la mia partenza di lavoro per Milano altrimenti avrei potuto incrociare la deflagrazione in quanto il treno passava per l’adiacente binario uno (alcuni dei caduti furono del vagone prospiciente la sala d’attesa). Transitai il giorno dopo in un clima surreale di emergenza civile. Il treno passò su binari interni in quanto i primi erano stati chiusi. L’edificio colpito era un ammasso di macerie ove militari e addetti d’ogni tipo si aggiravano fra macerie, soffitto crollato, resti umani.
Restammo muti fino a Milano col pensiero agli autori di quella strage infame, definita sbrigativamente fascista. I miei sospetti toccarono tutto e tutti, il terrorismo nero, quello rosso, l’opera di fazioni sospette e sconosciute o, peggio, un perverso estremismo di Stato per sovvertimento politico e sociale. La premessa è stata lunga, ma il mio desiderio era parlare di Bologna come città da me ben conosciuta, anche per i molti anni di lavoro nei settori industriale, finanziario, assicurativo con essa svolto, e del rispetto sempre dimostrato per le sue positività, pur non escludendo i lati oscuri del carattere duro, estremista, già nero ai tempi del Fascio e poi rosso staliniano degli anni successivi, come se i due colori, uno primario, l’altro derivato, fossero sfaccettature di una sola realtà.
La visita odierna mi ha riportato a tempi ormai ancestrali. Stasera sono in una grande birreria in Piazza dei Martiri, presumo rossi, e ceniamo dopo un viaggio e una giornata faticosi. Siamo al tavolo all’aperto quando viene a noi una forza della natura, una esternazione della estroversione emiliana e bolognese. Cioè una insuperabile assistente di tavolo (perché chiamarla cameriera?) che ci prende in tutela e ci subissa di consigli, suggerimenti, moine, mossette, saltelli, scuotimenti civettuoli, oltre di inenarrabile simpatia: … “questo vale la pena ordinarlo, questo no, questo (sottovoce) è surgelato, meglio evitarlo, il piatto migliore eccolo, e costa poco, per la birra se ne ordinate una pinta, oltretutto più economica di due piccole, vi regalo il cappello di feltro a punta che porto in capo, è quello dei birrai di Monaco (pensavo fosse delle streghe!)”… con un conversare di felice gradevolezza.
Ci dice di essere diplomata al liceo musicale ma il prosieguo artistico, sia come studi, sia di applicazione pratica, deve rimandarlo a tempi migliori. Nel frattempo si applica a servire clienti di norma giovani, salvo me e noi, pur se io tento di apparire tale. Gli chiedo il nome che, in ossequio alla Bologna progressista, non poteva che essere di stampo sovietico. Poi : …“mi chiamo Natascia, mio padre e mia madre avevano idee particolari, così me l’hanno imposto con buona pace del parroco, anche se fa pensare a Guerra e Pace e Tostoi; ci sono abituata ma fosse un altro non mi sarebbe dispiaciuto”…Al termine ci porta un conto non esoso, come invece mi tocca spesso subire a Roma. Accetta perplessa qualche Euro di mancia; che non siano previste nella proletaria Bologna? Saluta e ci invita al pranzo dell’indomani consigliandoci varie opportunità di cucina( che seguiremo volentieri).
Lei, nativa del luogo, parlava, gesticolava, sorrideva, ammiccava, col carattere aperto della gente bononiense, pur se il papà avesse derivazioni sudiste e la mamma di altre aree del nord, ma la città plasma i figli e figlie nati nel suo grembo adeguandoli alla solarità emiliana di esistenza e comportamento. Ebbene la Natascia di questa serata mi ha riportato a fatti di sessanta anni orsono, alla Bologna sofferente e difficile del dopoguerra:…
Il nostro camion targato POA (Pontificia Opera Assistenza) porta da Roma, alla città roccaforte della Falce e Martello, un carico di farina americana e altro, parte di un programma di aiuti attuato non tanto dallo Stato, quanto da quella parte sempre nera, pur se diversa dalla fascista. Vogliamo dire preti? E che preti siano. Non è il primo viaggio per me, che faccio parte di un equipaggio di scorta, facchinaggio, ausilio ai due autisti che se la devono vedere con strade dissestate o sotto riparazioni di emergenza. Il luogo ove scarichiamo è un capannone di una fabbrica che produceva per l’esercito, ora ferma in attesa di una riconversione che presto arriverà.
Nel magazzino, oltre il personale locale, spadroneggia una stupenda giovane bolognese, più o meno ventenne, spigliata, scherzosa, aperta, che faceva un po’ da impiegata, magazziniera, factotum, come se il complesso fosse di sua proprietà. Tutti gli facevano un po’ di filo ed io in particolare tentavo degli approcci, facilitato dai miei venti anni, dal titolo di studio noto sia all’equipaggio del mezzo che nel loro ufficio, e poi venivo da Roma, la Capitale agognata e odiata, non ero imbranato e niente male fisicamente. Così qualche preliminare e poi parte un feeling che s’interromperà presto in maniera inaspettata. …”Senti, siamo coetanei e che balle il lei, posso usare il Tu?”
…”Sorbole se puoi darmi del tu, anzi devi farlo. Io sono Katia, meglio Katiuscia e scordati di imbrogliarmi con la farina e scatole che quei capitalisti di americani e Papa fanno l’elemosina di inviarci”.
Evito di rispondergli che il tutto potevano farselo dare da Stalin.
…”ah! ti chiami Francesco, Franz per gli amici. E’ un nomignolo strano, hai avuto a fare coi partigiani, la resistenza? Ah, no! me lo dirai altra volta, ora è suonata la campanella della mensa, andiamo a mangiare”…
Poi, in progressione, man mano che la confidenza aumentava:
…”veramente non mi chiamo Katiuscia, il nome è Marta, ma ho fatto la partigiana nella bassa e il mio riferimento doveva essere Natascia, ma fra noi ce n’era un’altra così ho ripiegato su Katiuscia, niente male se riferito ai razzi dell’esercito sovietico che così si chiamavano, pur se io preferivo il primo”…
…”ma dove diavolo dormite? nel salone che vi hanno organizzato quelli della Pontificia? Peggio di un convento! Ma la notte vi fate le pugnette o peggio? e con le donne niente? Non siete mica seminaristi o preti e poi guarda che loro, in tonaca o cambiati d’abito, con noi fanno la fila e pretendono più di voi, “porcellun” che sono! Insomma se tu e i tuoi amici voleste dormire in un letto vero, con le lenzuola di bucato e qualche ragazzuola vicina, basta dirlo, sorbole! il repertorio a disposizione è tutto da sognare. E non perdere tempo a riportarlo ai due scarafaggi con tonaca che sono con voi, loro ne sanno più di tutti”… Katiuscia, alias Natascia o Marta, giocava a fare la disinibita, l’estroversa, la compagna di tutti (era stata o no staffetta partigiana?) mentre in effetti non era disponibile affatto con la facilità che pensavamo. Cercava solo uno sbocco più concreto e duraturo alla sua vita e prorompente femminilità, cioè una adeguata sistemazione, escludendo i disperati di allora i quali puntavano solo a una cosa, che lei in verità non dispensava affatto o, pur lo facesse, doveva essere di una sporadicità sconcertante.
Non dico come si comportò con me, lascio immaginare ogni sviluppo positivo o negativo esso sia.
Comunque una sera, dopo un discreto”qualcosa” e un bacio super, il discorso si complica: …”non mi hai detto perché ti chiamano Franz, è un brutto nome, ricorda quei porci delle SS; hai avuto a farci qualcosa? Come se gradisco la verità, la pretendo! qualcosa di te mi è arrivato d’altra mano, ma preferisco lo dica tu … San Petronio! mamma! sorbole! sei stato volontario con quei maiali dei crucchi? allora è vero! non ci avevo creduto! E sei stato col Duce? E non bastasse ora coi preti? E quanti compagni hai e avete impiccato, fucilato, torturato? E non conta un c.zzo che mi dica di averne le mani pulite! E come ti sei permesso di illudermi senza sapere che potrei dire di te ai miei compagni di ieri? Fra noi è tutto finito, non c’è stato nulla, sparisci e fai conto non mi abbia mai vista.
Cessò così un feeling appena nato ed evidentemente non ancora consolidato con la dovuta serietà d’intenti e propositi. Marta (alias Katiuscia) non volle capire che avevo intenzioni più che serie ed ebbi anch’io pensieri concreti circa uno possibile futuro, con buona pace dei colori rosso per lei, nero per me. E presto cesserà, lei a parte, il mio viaggiare con farina e altro USA. Ah! a che porta il colore politico, il nero dei fascisti, il nero ecclesiastico, il rosso dei comunismi e partigianerie varie! riesce a interrompere un sogno di comunanza e amore laico, sia pure variegato con effetti cromatici solo apparentemente diversi. Ecco ciò che la simpatica e gioiosa Natascia di oggi, di stasera, ha fatto risorgere nei meandri della mia mente e del mio passato.
Mi piacerebbe rivedere la Marta di un tempo, non più la Katiuscia staffetta partigiana, solo la donna ormai anziana e, forse, non sarebbe nemmeno impossibile, posto lei ci sia sempre, ma a che pro’ poi? i bolognesi, nonché le bolognesi, insomma gli abitanti tutti, non sono cambiati affatto e anch’io in verità sono ben poco diverso dal me di quegli anni lontani. E’ un peccato! e la responsabilità è di tutti, nessuno escluso. O forse di nessuno, magari solo del carattere accidioso che da sempre ci sovrasta, stavo per dire dai giorni di Dante ma ho errato, e confermo a perdita d’occhio nella notte italica esistenziale, indipendentemente dai colori più o meno accesi delle fazioni che si sono sempre succedute, dalle mura merlate alla guelfa o ghibellina, delle motivazioni più impegnate alle più insulse. Insomma è ingiusto che si viva così e non si capisca che, volendo, potrebbe pur applicarsi un certo buon senso. Ma è inutile illudersi, è solo impossibile e, non nascondo, me ne dispiace.

auroraageno
00venerdì 16 ottobre 2009 09:51
Bel racconto...
Grazie, caro FRancesco!

Un caro saluto

aurora

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