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Il Santo del giorno

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    00 16/04/2012 08:28


    Lunedì 16 Aprile 2012


    S. Benedetto Giuseppe Labre

    dal Martirologio



    A Roma, S. Benedetto Giuseppe Labre, che, preso fin dall’adolescenza dal desiderio di un’aspra vita di penitenza, intraprese faticosi pellegrinaggi a celebri santuari, coperto soltanto di una povera e lacera veste, nutrendosi soltanto del cibo che riceveva in elemosina e dando ovunque esempio di pietà e penitenza; fece di Roma la meta ultima dei suoi viaggi, vivendo qui in estrema povertà e in preghiera.




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    00 17/04/2012 09:24



    Martedì 17 Aprile 2012


    B. Caterina Tekakwita

    "Il giglio dei Mohawks"
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    Il prossimo 21 ottobre 2012 Kateri Tekakwita, appartenente alla Nazione Mohawk, sarà canonizzata: e sarà la prima Santa “nativa americana”.


    Nacque verso il 1656 a Fort Orange (oggi nello stato di New York) da padre irochese, pagano e di madre algonchina, già cristiana. Perse i genitori a quattro anni, durante un’epidemia di vaiolo, e lei stessa restò col volto sfigurato e la vista indebolita. Educata da uno zio anticristiano, conservò nell’anima il ricordo degli inni e delle preghiere che aveva sentito cantare dalla mamma e che ripeteva nelle sue lunghe passeggiate tra i boschi che la incantavano.


    Cercava e amava Qualcuno che non conosceva, ma di cui intuiva la Presenza al punto da offrirgli il suo amore sponsale (in una specie di anticipata “consacrazione”). Si fece battezzare a vent’anni da un missionario gesuita. Avversata dai parenti a causa della sua nuova fede e importunata da molesti corteggiatori, fuggì a piedi percorrendo circa trecento km fino a raggiungere la missione cattolica di Sault St. Louis, vicino Montreal.


    A Natale del 1677 poté così ricevere la Prima Comunione e poté finalmente appagare quella “sete inestinguibile delle cose spirituali” che aveva sempre provata Nella festa dell’Annunciazione dell’anno successivo rinnovò con piena coscienza la sua antica consacrazione verginale, e impiegò tutte le sue povere forze dando assistenza ai bambini, agli anziani e ai malati. Morì a ventiquattro anni, e subito scomparvero dal suo viso le cicatrici lasciate dal vaiolo, come se Gesù le avesse dato la sua prima carezza, lasciandole il volto luminoso.


    Fu invocata come «Il giglio dei Mohawks», ed ha già ricevuto da Giovanni Paolo II il titolo di “Patrona della gioventù”.




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    00 18/04/2012 09:14


    Mercoledì 18 Aprile 2012


    S. Galdino

    Il dono del pane, a cura di Antonio Maria Sicari



    Galdino è un nome reso familiare da Alessandro Manzoni, nei Promessi Sposi, quando descrive il fraticello questuante che sa vantarsi simpaticamente così: “Noi viviamo della carità di tutto il mondo ed è giusto che serviamo tutto il mondo". Ma non è un personaggio legato al Santo vescovo di Milano che oggi ricordiamo, anche se c’è qualche riferimento, dato che a Milano c’era fino a qualche tempo fa, l’uso del “pane di San Galdino”, riservato ai poveri che si vergognavano di stendere la mano.


    La vicenda del Santo Vescovo è legata alla distruzione della città, ordinata da Federico Barbarossa nel 1162. Galdino, già cancelliere della Diocesi, viene consacrato Vescovo nel 1167 direttamente dal Papa. Anzi sembra che sia stato il primo a ricevere anche, subito, la porpora cardinalizia. Ma per poter raggiungere la città distrutta, dovette travestirsi da povero pellegrino.


    Inizia la sua missione dedicandosi alla ricostruzione della città. Ma per Galdino non si trattava soltanto di rialzare delle mura. Doveva anche "strappare il patrimonio della Chiesa dalle fauci dei rapinatori". Per questo, sulla pietra degli edifici destinati ai futuri amministratori della città, fece incidere le parole: «Voi siete qui solo per servire i poveri».


    Restaurò la Cattedrale con l’aiuto delle donne milanesi che gli portarono i pochi gioielli che erano riuscite a salvare dal saccheggio. Diede anche un nuovo impulso alla liturgia e alla dignità del culto. Morì sul pulpito al termine di una predica contro gli eretici.


    Diventò così uno dei tre patroni di Milano (con S. Ambrogio e S. Carlo), ma il suo nome venne osteggiato e rimosso durante la dominazione austriaca, perché evocava troppo la resistenza contro il Barbarosssa. Resta il ricordo della sua carità, del pane appunto, che egli volle garantire a tutto il suo popolo.




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    00 19/04/2012 08:16


    Giovedì 19 Aprile 2012


    S. Emma, vedova

    La fecondità del cuore
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    Emma (chiamata nelle antiche cronache col titolo di “nobilissima senatrix”) visse sul principio dell’anno Mille, e pare sia stata sorella del Vescovo di Paderborn.

    Andò sposa al conte Ludgero di Sassonia, ma rimase vedova in giovanissima età. In tale stato visse per più di quarant’anni – senza cedere a lusinghe di corteggiatori, né alle pressioni del parentado – scegliendo di diventare madre dei poveri. Usò perciò del suo ricchissimo patrimonio per dar vita a numerose istituzioni di carità.

    Il suo ricordo si lega, così, a quello di molte sante vedove che hanno segnato, fin dai primi secoli, la storia della Chiesa, e di cui parla già San Paolo nelle sue Lettere. Sono donne “sante” perché hanno fatto diventare “vocazione” e “libera consacrazione” non soltanto la sofferenza, inizialmente subìta, della perdita dello sposo, e a volte anche la privazione dei figli desiderati, ma anche la testimonianza dell’amore coniugale vissuto.

    Patrona delle vedove è considerata già S. Anna, ma sono ricordate e venerate anche Santa Monica, Santa Rita di Cascia, Santa Francesca Romana e la nostra santa Emma (il cui nome – molto diffuso in Europa – sembra significhi “Donna gentile e amica”). La santità di tali vedove consiste proprio nella fecondità creativa con la quale hanno saputo vivere la loro condizione di vita: fecondità dello spirito, del cuore e delle opere. E il popolo le ha spesso venerate chiamandole “ancillae Christi”: Donne che servono e aiutano Cristo.

    La Chiesa dei nostri tempi ha nuovamente riconosciuto, in maniera ufficiale, il valore della “consacrazione” propria delle Vedove.

    Il corpo di Santa Emma è venerato nella Cattedrale di Brema, dove riposa da quasi mille anni.




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    00 21/04/2012 10:14


    Sabato 21 Aprile 2012


    S. Anselmo d'Aosta

    Credere e amare, per comprendere
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    Anselmo nacque ad Aosta nel 1033, da famiglia imparentata con i Savoia. Reagendo alle pressioni del padre che voleva impegnarlo negli affari di famiglia, fuggì di casa recandosì alla abbazia di Le Bec in Normandia, una delle più fiorenti scuole di teologia di allora, guidata dall’abate Lanfranco. Qui completò gli studi fino al sacerdozio, facendosi stimare per le doti di mente e di cuore. Nel 1078 Lanfranco fu eletto alla sede episcopale di Canterbury e Anselmo, ancora piuttosto giovane, fu nominato abate. Non trascurò tuttavia gli studi filosofici e teologici e fu uno dei più fecondi autori religiosi del suo tempo.

    Nel 1089 successe a Lanfranco anche nella sede arcivescovile, divenendo Primate d’Inghilterra. Ma si scontrò con le pretese del re Guglielmo il Rosso che lo costrinse ripetutamente all’esilio. Il contrasto verteva sulla libertà della Chiesa e continuò anche sotto Enrico I. Ma Anselmo seppe coniugare la bontà con la fermezza e l’audacia, e riuscì infine a conquistarsi la fiducia del Sovrano. Assieme a S. Agostino e S. Tommaso d’Aquino, Anselmo è considerato uno dei tre più grandi teologi della Chiesa.

    Ci ha lasciato un trattato su Dio (intitolato Monologion, cioè “Soliloquio”) e un altro (intitolato Proslogion, cioè “Colloquio”) sulla Sua esistenza: secondo Anselmo, essa è provata dal fatto che deve necessariamente esistere “l’Essere di cui non si può pensare niente di più grande”. Scrisse anche un trattato sul mistero dell’Incarnazione (intitolato Cur Deus Homo - “Perché Dio si è fatto uomo”). È di Anselmo il famoso principio: “La fede chiede il lavoro della ragione”. Ed è una bella caratteristica della sua teologia il fatto che essa si tramuti spesso in preghiera.

    Morì a Canterbury il 21 aprile 1109. Nel 1720, Papa Clemente XI lo ha proclamato Dottore della Chiesa.




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    00 24/04/2012 08:00

    Martedì 24 Aprile 2012


    S. Fedele da Sigmaringa

    Avvocato della fede
    , a cura di Antonio Maria Sicari




    Marco Roy, nato nel 1578 a Sigmaringen (una cittadina tenacemente cattolica, sulle rive del Danubio) s’era laureato in Filosofia nel collegio dei gesuiti a Friburgo. Era stato subito scelto come precettore da alcune famiglie nobiliari, ed esercitò tale compito viaggiando per sei anni con i suoi allievi nelle diverse nazioni europee e acquistandosi fama di “filosofo cristiano” (cioè, di ottimo educatore). Era anche un brillante musicista. Tornato in Svizzera, terminò gli studi di Diritto e cominciò a esercitare la professione forense, meritandosi il titolo di “avvocato dei poveri”, perché accettava di difendere gratuitamente coloro che non potevano permettersi di pagargli un onorario.
    A trentaquattro anni, disgustato dalla corruzione che allignava tra i suoi colleghi avvocati, decise di farsi cappuccino, destinando i suoi beni alla formazione di studenti poveri, che dotò di borse di studio. Prese il nome di fra Fedele da Sigmaringen e divenne sacerdote. Era un buon predicatore e si trovò subito coinvolto nelle polemiche tra cattolici e protestanti calvinisti. Gli animi erano particolarmente accesi e nemmeno la vita era al sicuro. Nel 1622 la Congregazione di Propaganda Fide, appena istituita a Roma, lo nominò Superiore delle missioni Cattoliche nei Grigioni. Durante la quaresima di quello stesso anno, al termine di una predica (durante la quale era già risuonato un colpo d’arma da fuoco) Fra Fedele, fu attorniato da un gruppo di soldati che gli intimarono di ritrattare tutto ciò che aveva detto dal pulpito: “Non posso – rispose il frate – perché è la fede dei vostri antenati. E io darei volentieri la vita per farvi tornare a questa fede!”.
    Fu colpito al capo e trafitto dalle spade. Morì a quarantaquattro anni ed è onorato come “primo martire” nella Congregazione di Propaganda Fide.




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    00 26/04/2012 08:03

    Giovedì 26 Aprile 2012


    S. Pascasio Radberto

    Poeta dell'Eucaristia
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    Alla nascita – sul finire del sec. VIII – era stato abbandonato sui gradini della chiesa di Notre Dame di Soisson. Le monache lo chiamarono Radberto e lo fecero educare a loro spese. Ebbe una gioventù turbolenta, ma a ventidue anni si decise per la vita monastica nell’abbazia francese di Corbie, vicino ad Amiens. Per umiltà non volle mai diventare sacerdote, ma la sua bontà e la sua saggezza erano tali che i monaci lo scelsero ugualmente come Abate. Ma erano tempi di controversie dottrinale e politiche e Radberto, che anelava solo alla pace e alla tranquillità dei suoi studi teologici, si vide costretto ad abbandonare il monastero. Tornò soltanto dietro assicurazione che non gli avrebbero più imposto nessuna carica.

    Si dedicò così a scrivere la sua opera più bella: un trattato su “Il corpo e il sangue del Signore” dove difende la presenza reale del corpo di Gesù (proprio quello nato da Maria, veramente immolato sulla croce e veramente risorto) nell’Eucaristia. Gli chiesero anche di scrivere la vita di qualche santo e lo fece volentieri, perché diceva che “la vita dei santi non deve essere meno preziosa delle loro reliquie, e che – se si ha grande cura di avvolgere in ricche stoffe le loro sacre ossa – si devono pure narrare le loro azioni in uno stile nobile, ugualmente lontano dalla ricercatezza e dalla volgarità". Sentendosi vicino alla morte (forse ricordando l’umiltà della sua nascita, ma più ancora l’umiltà di ogni umana condizione) chiese ai suoi confratelli di non pensare a celebrazioni e a panegirici sulla sua vita: "Non merito di essere ricordato, dimenticatemi". E volle essere seppellito nel reparto dei poveri e dei servitori del monastero.

    Viene significativamente raffigurato in adorazione di un ostensorio sorretto dagli Angeli.




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    00 27/04/2012 11:00


    Venerdì 27 Aprile 2012


    S. Zita

    Le astuzie della bontà
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    È una Santa oggi quasi dimenticata, ma un tempo molto cara al popolo cristiano per le sue umili vicende in cui molte ragazze si riconoscevano. Era, infatti, venerata come patrona delle “donne di servizio”.
    La sua storia risale agli inizi del sec. XIII e non racconta altro che questo: la sua nascita in povero paesino di campagna e l’essere stata messa a servizio, a dodici anni, presso una famiglia nobiliare di Lucca. Non le mancavano i soliti maltrattamenti, né un ingiusto sovraccarico di lavoro. Al che si aggiungevano – come spesso accade – le sopraffazioni maligne che le infliggevano gli altri servi.
    La ragazza, da parte sua, si esponeva ai rimbrotti per la troppa generosità con cui accoglieva i poverelli alla porta del palazzo, ricorrendo anche a qualche sotterfugio. Ma col tempo tutto cambiò, anche a causa dei simpatici miracoli con cui Dio rimediava ai suoi piccoli espedienti di carità, in modo che non la rimproverassero (quello del pane nascosto nel grembiule che si tramuta in un mazzo di fiori, è un prodigio ricorrente nella storia della carità cristiana). Così i padroni finirono per affezionarsi e per affidarle la gestione dei servizi domestici, a vantaggio di tutta la famiglia, anche di quegli altri servi che prima la osteggiavano.
    Zita morì nel 1278, dopo cinquant’anni di servizio, amata da tutti e subito venerata come santa, al punto che la città di Lucca se la scelse come patrona.
    E proprio lei, un'umile servetta, ha avuto l’onore di essere nominata, nella Divina Commedia, da Dante, che parlando di un magistrato di Lucca, lo chiama “un anzian di Santa Zita”. Nonostante si tratti di un magistrato messo all’Inferno (nelle “malebolge”), è significativo il fatto che la città d’origine venga addirittura identificata con la sua protettrice.




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    00 28/04/2012 02:58

    Sabato 28 Aprile 2012

    S. Gianna Beretta Molla

    "Anzitutto il bambino!"
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    Nasce nel 1922 a Magenta in una famiglia con solide radici cristiane. Sceglie gli studi di medicina, specializzandosi in pediatria, anche perché sogna di raggiungere un suo fratello medico che s’è fatto missionario cappuccino in Brasile. Decisivo è invece l’incontro con l’ingegner Pietro Molla al quale si lega in matrimonio, desiderosa di viverlo come incarnazione dell’infinito amore di Dio per le sue creature. Un amore che si dilata poi con la decisione di «diventare collaboratori di Dio nella creazione, dandoGli dei figli che Lo amino e Lo servano».


    La casa viene allietata da tre bambini. Nell’estate del 1961 si annuncia una nuova maternità che Gianna accoglie subito con gioia, anche se non mancano le preoccupazioni per un fibroma che le cresce a fianco dell’utero. Consigliata ripetutamente di ricorrere all’aborto, Gianna rifiuta in maniera assoluta, accordandosi col marito sulla decisione di “salvare anzitutto il bambino”.


    La bambina nasce bella e sana nel sabato santo del 1962, ma Gianna muore dopo pochi giorni, lieta del suo sacrificio e della sua obbedienza a Dio.


    La spiegazione più profonda della drammatica scelta di Gianna l’ha data il marito stesso: «Non si può dimenticare la fiducia che lei aveva nella Provvidenza. Era persuasa, infatti, come moglie e come madre, d’essere utilissima a me e ai nostri figli, ma di essere soprattutto, in quel preciso momento, indispensabile per la piccola creatura che stava crescendo in lei». Gianna Beretta Molla si appoggiò dunque su questa evidenza di fede: offrì la vita, consapevole che, senza di lei, Dio poteva “provvedere” agli altri bambini, ma che neppure Dio avrebbe potuto “provvedere” alla creatura che aveva in grembo, se lei la rifiutava. Era una madre cristiana sapeva di dovere incarnare la Provvidenza, nel suo stesso grembo.


    È stata canonizzata nel 2004.





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    00 02/05/2012 09:12


    Mercoledì 2 Maggio 2012


    S. Antonino da Firenze

    «Servire Dio è regnare!»
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    Nato nel 1389, Antonino Pierozzi – di statura minuta, dalla voce un po’ sgraziata, ma di straordinaria intelligenza – era priore del convento domenicano di San Marco a Firenze, al tempo in cui il Beato Angelico lo abbelliva col suo ciclo di affreschi e l’umanista Niccolò Niccoli lo dotava della prima biblioteca pubblica d’Europa. Il Priore, da parte sua, si dedicava alla preghiera e allo studio, componendo opere di grande valore (la Somma Morale, la Somma storica, lo Specchio di Coscienza) nelle quali armonizzava assieme la teologia, il diritto, la morale, e la spiritualità, offrendo così degli ottimi manuali (vere e proprie enciclopedie) ai predicatori e ai confessori. Era anche ricercatissimo da chi aveva bisogno di un parere sicuro su questioni intricate, al punto che lo avevano soprannominato “Antonino dei consigli”.

    A lui ricorrevano in particolare, da ogni parte d'Italia, commercianti e banchieri cristiani che gli chiedevano di esaminare la correttezza giuridica e morale di scritture legali e contratti. Nel 1446 papa Eugenio IV lo nominò arcivescovo della città, costringendolo ad accettare. Non volle onori (nemmeno il solito stemma) e continuò a portare il suo povero saio, recandosi in visita alle parrocchie della diocesi su un misero ronzino e senza alcun preavviso, per evitare inutili spese. Si dedicò tenacemente a un’attenta riforma delle parrocchie e del clero; curò in modo particolare l’istruzione del popolo e diede impulso ad alcune “compagnie di laici” dediti alle più urgenti opere di carità.

    Difese la libertà di Firenze contro l’assolutismo di Cosimo dei Medici. Combatté strenuamente l’usura e si fece difensore del diritto degli operai al giusto salario. Sul letto dell’agonia, ancora umile e lieto, esclamò: “Servire Dio è regnare”. Firenze lo ha scelto come suo patrono.




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    00 03/05/2012 10:23

    Giovedì 3 Maggio 2012

    Santi Filippo e Giacomo

    «Coloro che hanno visto»
    , a cura di Antonio Maria Sicari




    Gli apostoli sono spesso definiti “colonne e fondamento della fede cristiana”, anche se di alcuni non sappiamo quasi a, se non il fatto che hanno risposto alla chiamata di Gesù e hanno costituito la prima Chiesa. Perciò le poche notizie riportate su di loro nella Bibbia hanno una particolare preziosità. A volte, sono così incisive che bastano a delineare “un volto”. Di Filippo, ad esempio, sappiamo solo che ha condotto a Gesù l’amico Natanaele, vincendo le sue resistenze con quella semplice e bella espressione che è diventata patrimonio e metodo di tutti i missionari: “Vieni e vedi!” (Gv 1,46). E il verbo “vedere” sembra che abbia caratterizzato intimamente la sua maturazione spirituale. Durante l’ultima cena, sarà Filippo a dire a Gesù: “Signore, facci vedere il Padre e ci basta!”, ricevendo questa risposta che gli avrà certamente colmato la mente e il cuore per tutta la vita: «Da tanto tempo sono con voi, Filippo, e tu non mi conosci ancora? Chi ha visto me ha visto il Padre! Come puoi dire: “Facci vedere il Padre!”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre e in me?» (Gv 14,8-9). Anche di Giacomo (detto “il minore”, cugino di Gesù), abbiamo poche notizie, ma essenziali: sappiamo che, tra tutti i discepoli, fu quello più attaccato alla tradizione giudaica (e per questo è ancora un punto di riferimento essenziale per tutti gli ebrei che vogliono orientarsi a Cristo) e che fu martirizzato mentre era Vescovo di Gerusalemme. Inoltre gli viene attribuita la Lettera cattolica che porta il suo nome: uno scritto particolarmente intenso e severo, che riprende volentieri i temi delle Beatitudini evangeliche. Ed è utile, inoltre, ricordare che, in essa, trova fondamento il sacramento dell’Unzione degli Infermi.




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    Venerdì 4 Maggio 2012


    S. Ciriaco di Ancona

    «Abbracciare la Croce di Gesù»
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    Il nome Ciriaco ha un’origine greca che significa “consacrato al Signore”. Ma egli l’avrebbe assunto solo al momento della conversione, che ci è stata tramandata con molti abbellimenti leggendari.
    Il suo vero nome sarebbe stato Giuda, rabbino a Gerusalemme. Sarebbe stato lui a rivelare all’imperatrice Elena, madre di Costantino, il luogo dov’era stata nascosta la croce di Gesù, convertendosi poi per i prodigi che si sarebbero verificatisi in seguito a quel ritrovamento. Sembra che sia morto martire al tempo di Giuliano l’Apostata.
    Il suo rapporto con Ancona e con la stupenda cattedrale a lui dedicata probabilmente è dovuto al dono delle reliquie del martire, fatto successivamente alla città per intercessione di Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio.
    Un'altra tradizione sostiene invece che Ciriaco, convertito, sarebbe venuto in Italia e sarebbe divenuto davvero vescovo di Ancona, anche se in seguito avrebbe compiuto un pellegrinaggio in Palestina, nel desiderio di rivedere la Terra Santa e i propri familiari. Qui sarebbe stato torturato a lungo e martirizzato, assieme alla madre.
    Il legame tra la città di Ancona e san Ciriaco, suo Patrono, è comunque antichissimo e dura da circa millecinquecento anni, tanto che l’effigie del Santo è riprodotta nelle antiche monete coniate dalla zecca anconitana.
    La data della sua festa è stata fissata nel giorno successivo a quello in cui – secondo la tradizione – sarebbe stata ritrovata la Santa Croce (3 maggio dell’anno 326).




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    Sabato 5 Maggio 2012


    S. Angelo di Sicilia

    Monaco e missionario, a cura di Antonio Maria Sicari



    Secondo la tradizione, Angelo sarebbe nato a Gerusalemme da genitori giudei convertiti. In gioventù si aggregò agli eremiti latini che vivevano sul Monte Carmelo, e fu uno dei primi monaci carmelitani a trasferirsi dalla Palestina in Europa, nella prima metà del sec. XIII. Dopo un pellegrinaggio a Roma (dove si sarebbe incontrato con s. Francesco e s. Domenico) fra Angelo passò in Sicilia, predicando soprattutto nell’agrigentino e nell’entroterra dell’isola.
    Tracce prodigiose del suo passaggio (e del suo culto) sono rimaste a Palermo, a Cefalà Diana (si dice che ci sia l’impronta del suo piede su una pietra, là dove sgorga l’acqua calda delle terme!), a Misilmeri e a Bolognetta. Fissò infine la sua residenza a Licata, dove tentò di convertire il signorotto locale, Berengario, un eretico cataro, che viveva incestuosamente con la sorella. Riuscì a convertire la donna, ma Berengario non temette di aggredirlo sul sagrato della chiesa dove Angelo aveva appena predicato, ferendolo con numerosi colpi di spada. Il carmelitano morì il 5 maggio 1220 chiedendo agli abitanti di Licata di non vendicare la sua morte, ma di perdonare l’assassino.
    Sul luogo del martirio fu poi edificato un santuario, nel quale è custodito anche un pozzo: la tradizione dice che l’acqua salmastra, sgorgata miracolosamente al momento del martirio, si addolcisce ogni anno nel giorno della festa del Santo, e opera prodigi. Nel 1553 gli abitanti di Licata attribuirono alla sua intercessione l’aver potuto resistere a un attacco dei Turchi. Nel 1625 la città, liberata dalla peste per intercessione di s. Angelo, lo scelse come Patrono. Anche la città di Palermo lo annovera tra i suoi patroni.
    La sua vicenda contribuì alla diffusione dell’Ordine Carmelitano in Italia.




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    Lunedì 7 Maggio 2012


    S. Domitilla, martire

    dal Martirologio




    A Roma, commemorazione di santa Domitilla, martire, che, nipote del console Flavio Clemente, accusata durante la persecuzione di Domiziano di aver rinnegato gli dèi pagani, per la sua testimonianza di fede in Cristo fu deportata insieme ad alcuni altri nell’isola di Ponza, dove consumò un lungo martirio.





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    Martedì 8 Maggio 2012

    Madonna del Rosario

    «Maria prega per noi»
    , a cura di Antonio Maria Sicari




    Il Rosario è una corona di cinquanta grani di legno, spesso intagliati a forma di piccole rose: scorrendoli, il cristiano recita delle “Ave Marie” e va meditando i misteri (gioiosi, luminosi, dolori, gloriosi) della vita di Cristo. E’ stato definito “il Salterio e il Vangelo dei poveri”: una preghiera che tutti possono tenere a mente e che dona una tranquilla intimità col Figlio di Dio e con la Vergine Santa. Pare che tale forma di preghiera sia stata inventata dai monaci cistercensi e sia stata poi diffusa da s. Domenico e da s. Caterina da Siena.

    Nelle raffigurazioni tradizionali della Madonna del Rosario sono questi due santi che ricevono in dono la corona, per diffonderne l’uso tra i cristiani. E fu con una povera riproduzione di questo quadro, che Bartolo Longo (un incredulo convertito) giunse nella valle di Pompei, allora paludosa e malsana, abitata da gente misera e abbandonata a se stessa, per costruirvi una “città di Maria”: un imponente santuario, attorniato da molteplici case della carità (un orfanatrofio femminile, un istituto per i figli dei carcerati, un ospedale, una tipografia religiosa e poi asili, scuole, ospizi per anziani e case d’accoglienza per i pellegrini).

    Ad ogni anniversario della posa della prima pietra del santuario, (avvenuta l’otto maggio 1876), davanti all’immagine della Madonna di Pompei, viene recitata una famosa “supplica” (composta dal santo fondatore) per deporre ai piedi della Vergine Santa tutte le necessità del popolo cristiano: una supplica che, fino a qualche decennio fa, veniva recitata a mezzogiorno anche nelle nostre case.

    Per quanto riguarda poi la recita del Rosario, è importante sottolineare che noi preghiamo la Madonna affinché sia lei “a pregare per noi, adesso e nell’ora della nostra morte”, come se dessimo a Maria un appuntamento per l’ora decisiva.





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    Mercoledì 9 Maggio 2012

    S. Pacomio il Grande

    Monaco a servizio dei fratelli
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    A rendere grande Pacomio basterebbe la visione che raccontò ai suoi monaci, lasciandola loro come testamento. Aveva visto una caverna tenebrosa piena di gente che anelava ad uscire per ritrovare la luce del sole, e una sola schiera che avanzava sicura senza perdersi nelle tenebre: una piccola schiera di monaci in possesso di una piccola lampada, il Vangelo. E tutti coloro che non volevano perdersi potevano con sicurezza camminare sulle loro orme. Ciò non voleva dire che soltanto i monaci di Pacomio potevano salvarsi, ma che era loro compito irrinunciabile quello di tenere alta per tutti quella “piccola grande luce”. La visione era anche un racconto della storia del grande Abate: prima di lui i monaci avevano preferito esclusivamente l’esperienza eremitica, ma Pacomio s’era convertito al cristianesimo per la carità fraterna che aveva visto esercitata dai cristiani. Infatti, da giovane, era stato costretto alla vita militare e aveva trovato, in una caserma di Tebe, dei cristiani (gente per lui sconosciuta) che l’avevano accolto e aiutato fraternamente.
    “Anch’io voglio fare la volontà di Dio e amare tutti gli uomini”, si era detto. Divenuto cristiano, si era recato a vivere tra gli eremiti della Tebaide, ma poi aveva cominciato ad allargare la sua dimora per accogliervi tutti coloro che venivano a lui. Divenne così l’inventore della “vita monastica comunitaria”, dando origine a un villaggio di monaci con case diverse, in base al lavoro cui i gruppi di monaci si dedicavano. A tutti Pacomio diede una Regola che contemperava le severe esigenze della vita comune con quelle dei singoli monaci, spesso bisognosi di più misericordia. E a volte c’era chi criticava il santo Abate, per la sua condiscendenza. Ma quando Pacomio morì i monaci si dissero con malinconia: “Oggi siamo diventati orfani!”.





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    Giovedì 10 Maggio 2012

    S. Giovanni d'Avila

    Maestro di Santi
    , a cura di Antonio Maria Sicari




    Giovanni d’Avila, detto l’Apostolo dell’Andalusia, fu un grande predicatore vissuto nel 1500. Eppure la sua canonizzazione è avvenuta soltanto nel 1970, per opera di Paolo VI che lo ha proclamato anche patrono dei sacerdoti. Più recentemente ancora, durante la Giornata Mondiale della Gioventù del 2011, Benedetto XVI ha preannunciato la sua prossima proclamazione a Dottore della Chiesa.

    È dunque giusto cominciare a diffondere il suo ricordo, rimasto piuttosto in ombra. Eppure, quand’era in vita, egli fu amico e consigliere dei più celebri protagonisti della storia spagnola: ricorsero a lui s. Teresa d’Avila e s. Ignazio di Loyola; s. Pietro d’Alcantara e s. Tommaso da Villanova. Giovanni Cidade (il futuro san Giovanni di Dio) si convertì ascoltando una sua predica; e lo stesso accadde a Francesco Borgia, vicerè di Catalogna che si convertì (e divenne poi santo) ascoltando la predica che Giovanni d’Avila tenne per i funerali di Isabella di Portogallo, moglie di Carlo V.

    Particolarmente interessante è il volume che raccoglie le numerosissime lettere di Giovanni d’Avila, dal titolo Epistolario spirituale per tutti gli stati di vita.

    Un altro suo testo, ancora più celebre, si intitola “Audi Filia”, un trattato di ascetica e vita cristiana, scritto per una giovane discepola e poi universalmente diffuso. L’efficacia del suo stile è bene evocata anche solo da questa invocazione: «O croce santa, accogli anche me…. Allargati, o corona di spine, perché vi possa trovar posto anche il mio capo. Chiodi, lasciate le mani innocenti del mio Signore e trapassate il mio cuore… Signore, quanto io Ti vedo sulla croce, tutto mi invita ad amarti: il legno, le tue sembianze, le tue ferite, e soprattutto il tuo amore, m’invitano ad amarti e a non dimenticarti mai più!».

    Giovanni d’Avila morì nel 1569 e un suo celebre amico e discepolo, fra Luigi di Granada, ne scrisse la vita.






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    Venerdì 11 Maggio 2012


    S. Francesco De Geronimo
    «Il missionario di Napoli»
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    È un santo tipicamente meridionale non solo perché nato in Puglia (nel 1642), ma perché trovò a Napoli la sua “terra di missione”, senza volerla mai abbandonare.

    Era già sacerdote, laureato in Diritto civile e canonico, oltre che in Teologia, quando si fece gesuita a ventotto anni, affascinato dal sogno di riprendere la missione di s. Francesco Saverio in Oriente. Ma trovò la sua terra di missione nei quartieri più poveri e degradati di Napoli, dove operò per quarant’anni. Era lui a raggiungere i fedeli nei vicoli, nei “bassi”, nei “fondaci”, nelle carceri, negli ospedali, nel porto e sulle navi. E si faceva aiutare (con molto anticipo sui tempi) da un gruppo di artigiani amici (ne ebbe fino a duecento!) che curavano l’organizzazione pratica dei suoi interventi missionari.

    Ogni terza domenica del mese – da lui particolarmente indicata per le confessioni e le comunioni – la chiesa dei Gesuiti diventava la metà di circa ventimila fedeli che accorrevano da tutta Napoli. Qui trovavano decine di sacerdoti pronti ad ascoltare le confessioni. Le conversioni, operate da Francesco furono innumerevoli e molte fecero scalpore. Ma non gli mancarono anche persecuzioni e aggressioni da parte di chi vedeva danneggiati i propri traffici. Alla fine però il santo predicatore riuscì ad avere sul popolo un tale ascendente, da poter quietare gli animi anche in ore tragiche che potevano dare adito alle peggiori violenze. Fu quel che accadde all’inizio del sec. XVIII, quando l’esercito austriaco occupò la città, cacciando gli spagnoli.

    Morì nel 1716 e si racconta che, nella domenica successiva alla sua morte, nella chiesa dove era stato seppellito, furono distribuite più di quarantamila comunioni.






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    00 12/05/2012 06:49




    Sabato 12 Maggio 2012


    B. Giovanna di Portogallo

    Regina solo al fianco di Gesù
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    Nei tempi in cui la fede s’indebolisce, anche per molti cristiani diventa particolarmente difficile capire la vocazione di giovani donne che si dicono innamorate di Gesù, al punto da non potere né volere amare un altro Sposo. Perciò il ricordo e l’esempio di alcune splendide figure di vergini cristiane diventa ancora più prezioso. È stato così, fin dalle origini del cristianesimo, anche quando scegliere la verginità consacrata voleva dire andare incontro al martirio.
    Tra queste “vergini Spose di Cristo” merita d’essere ricordata la principessa Giovanna di Portogallo (detta anche Giovanna di Aviz), nata nel 1452 a Lisbona e subito proclamata erede al trono. Non c’era allora in Europa una fanciulla più nobile, più bella e più desiderata di lei. Era figlia del re Alfonso IV e, ancora giovanissima, era già stata chiesta in sposa dal Delfino di Francia, da Massimiliano d’Austria e dal re d’Inghilterra.
    Alla sua vocazione monastica si opponevano non soltanto il padre e i dignitari di corte, ma anche tutti i procuratori delle città portoghesi, che esigevano il suo matrimonio per garantire un erede al regno. Più volte Giovanna entrò nel monastero domenicano di Aveiro e più volte il padre o il fratello la costrinsero ad uscirne. Fu reggente del regno del Portogallo, mentre suo padre guerreggiava in nord-Africa per conquistare Tangeri. Solo negli ultimi anni della sua vita Giovanna ottenne d’esser lasciata in pace col suo Sposo Gesù.
    Raccontano che morì mentre, accanto al suo letto, venivano recitate litanie dei santi, spirando dolcemente proprio al momento in cui s’invocavano i santi Innocenti.





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    00 15/05/2012 09:49




    Martedì 15 Maggio 2012


    S. Isidoro, agricoltore

    Lavorare con gli angeli
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    Il patrono di Madrid, città nobile e fiera, è un contadino (Isidoro, detto appunto “l’agricoltore”) vissuto al tempo in cui la Spagna cercava di liberarsi dalla dominazione araba. La sua vita non è ricca di vicende straordinarie, ma è tutta una risposta alle nostre fatiche e negligenze, quando siamo tentati di scusarci per non saper come mettere assieme lavoro e preghiera.
    Isidoro passa la sua giovinezza lavorando nei campi, perseguitato dall’accusa dei compagni che, vedendolo pregare a lungo, lo accusano di non lavorare abbastanza, mettendolo in cattiva luce agli occhi dei padroni. Ma accade sempre una specie di miracolo: quando il padrone si mette di puntiglio a controllare l’opera dei contadini, scopre che Isidoro ha mietuto la stessa quantità di grano e ha arato la stessa estensione di terreno dei suoi compagni.
    Qualcuno spiega le cose assicurando che, quando Isidoro si ferma a pregare, un angelo lavora al suo posto. Ciò che è certamente possibile, ma forse la narrazione popolare vuol dirci, per immagini, una semplice verità: che la preghiera fatta per amore raddoppia le energie perché dà gusto e significato al lavoro.
    D’altra parte è sotto gli occhi di tutti la scarsa produttività di un lavoro fatto senza amore e senza avere nessuno a cui offrirlo. Inutile dire che quella sua particolare operosità gli rendeva anche possibile la carità verso i più poveri.
    Isidoro esperimentò, inoltre, la stessa fruttuosità anche nella vita coniugale e familiare: ebbe, infatti, una moglie che imparò assieme a lui la santità. Assieme sopportarono con fede la morte prematura dell’unico figlio.
    Isidoro ha avuto, infine l’onore d’essere canonizzato assieme ai più grandi santi spagnoli (Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola) e all’italiano Filippo Neri.



    L'Avvenire


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    00 16/05/2012 08:23




    Mercoledì 16 Maggio 2012

    S. Alipio, vescovo

    La santità nell'amicizia
    , a cura di Antonio Maria Sicari




    Ci sono dei Santi (come s. Agostino) che hanno segnato la storia con la forza immensa della loro personalità, mettendo inevitabilmente in ombra altre figure meno incisive: eppure, senza di queste, quella grandezza non si sarebbe forse realizzata. Tale è Alipio, il santo che oggi celebriamo: è poco conosciuto, eppure s. Agostino lo chiama ripetutamente “fratello del mio cuore”.

    Da lui sappiamo che Alipio, da ragazzo, era stato tra i suoi scolari, poi gli era divenuto amico e compagno per tutta la vita: negli errori di gioventù, nei viaggi, nella passione per lo studio, nella conversione.

    Nelle sue Confessioni Agostino è fiero di descrivere l’indole nobile e incorruttibile di questo suo amico. Avendo egli ottenuto a Roma un’importante carica che gli permetteva di amministrare molto denaro, aveva saputo resistere con forza a un potente senatore che voleva corromperlo ad ogni costo. “Era un’anima rara” – scrive Agostino – “che non si piegava alle amicizie interessate né temeva l’inimicizia di un uomo così potente, famosissimo per gli innumerevoli mezzi che aveva di far del bene o di far del male”. Fu nel giardino di Alipio che Agostino udì la voce che lo indusse a darsi interamente a Cristo: i due furono battezzati assieme il 25 aprile del 387 da s. Ambrogio. Poi condivisero anche la vita monastica, il sacerdozio e, infine, l’episcopato: Alipio fu eletto per primo alla sede di Tagaste, e poi Agostino fu eletto a quella di Ippona. I due vescovi collaborarono per circa quarant’anni, sostenendo vigorosamente la Chiesa d’Africa, lottando contro scismi ed eresie.

    Morirono ambedue nello stesso anno 430, mentre la città era assediata dai Vandali.





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    00 19/05/2012 10:35


    Sabato 19 Maggio 2012


    S. Pietro Celestino

    Il coraggio della rinuncia
    , a cura di Antonio Maria Sicari



    Il pontificato di Celestino V durò solo due mesi e mezzo e s’interruppe con la rinuncia, caso rarissimo nella storia dei papi. Era stato eletto da un conclave ridotto all’estremo, che durava da più di ventisette mesi, senza riuscire ad accordarsi. Alla fine, dato che le ingerenze dei regnanti del tempo si facevano sempre più pericolose, i pochi cardinali rimasti avevano scelto il monaco Pietro del Morrone, che conoscevano solo per fama di santità.
    Fu consacrato a L’Aquila e non si recò mai a Roma. Nelle ultime settimane si trasferì a Napoli, sperando nel sostegno del re Carlo d’Angiò. Non aveva esperienza di governo e si lasciva facilmente suggestionare da consiglieri interessati. Tutti lo ammiravano per la sua “semplicità”, ma in bocca ad alcuni questa parola aveva anche un suono derisorio. Così, quando Celestino si accorse di non poter adempiere il proprio ministero, trovò il coraggio e la forza di rinunciare al papato e di tornare umilmente al suo eremo. Il suo gesto fu mal giudicato da chi considerò una iattura la nomina del suo successore Bonifacio VIII.
    Tra i denigratori pare ci sia stato anche Dante che avrebbe messo Celestino V all’Inferno, definendolo: “Colui che fece per viltade il gran rifiuto”. Ma il riferimento non è certo. Egli fu, invece, ammirato da chi riconobbe la grandezza d’animo e l’umiltà dell’anziano papa che seppe riconoscere la propria impotenza. Per evitare rischi di contrapposizioni nella Chiesa, Bonifacio VIII costrinse il suo predecessore a un domicilio coatto, aggravandone le sofferenze, ma accrescendo nel popolo la fama della santità di Celestino.
    Il ricordo più bello che egli ci ha lasciato è “la Perdonanza”, la grande indulgenza plenaria, legata alla sua Basilica di Santa Maria di Collemaggio, che egli volle concedere a tutti i peccatori, sei anni prima del grande giubileo del 1300.







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    00 22/05/2012 07:51




    Martedì 22 Maggio 2012


    S. Rita da Cascia

    Il dono di una rosa
    , a cura di Antonio Maria Sicari




    Nacque in Umbria, a Roccaporena, nel 1381.
    Giovanissima fu costretta ad accettare la volontà dei genitori che la diedero in sposa a Paolo Mancini, un giovane nobile, ma di notoria violenza. Con la sua dolcezza – non senza averne prima subito i maltrattamenti – Rita riuscì ad ammansire il focoso marito, ma ciò non impedì che gli odi accumulati tra le famiglie esplodessero e costassero a Paolo la vita.
    Rita cercò in ogni modo di proteggere dalla contaminazione dell’odio i due figli adolescenti che già ardevano dal desiderio di vendicare il padre, ma, vedendo inutili i suoi sforzi, disse a Dio che preferiva che Egli se li prendesse, piuttosto che vederli cadere, con l’odio nel cuore, vittime delle proprie e delle altrui vendette.
    Si dedicò quindi alla rappacificazione tra le famiglie lacerate da antichi rancori e, quando la pace fu finalmente realizzata, chiese d’essere accolta nel monastero agostiniano di Cascia. Vi portò tutta la sua dolcezza e la sua sofferenza, ma vissute come mistico abbandono a Gesù Crocifisso. E fu tale l’immedesimazione con Lui che un giorno Rita ricevette sulla fronte la grazia di una ferita lasciata da una spina. Da allora fu tutto un fiorire di miracoli che attrassero al monastero folle di devoti. E il pellegrinaggio dura da secoli, con tale abbondanza di prodigi, che ella viene universalmente invocata come «la Santa degli impossibili», di coloro, cioè, che sperano al di là dell’umanamente possibile.
    Rita morì nel 1457. Si racconta che prima di morire ella abbia chiesto una rosa e, benché fuori stagione, fu trovato nel giardino un roseto in piena fioritura. A tal episodio si rifà la tradizione della benedizione delle rose, nel giorno della festa della santa. Per la compiutezza della sua vita (di fidanzata, sposa, madre, vedova, religiosa) Rita è una delle sante più amate dal popolo.





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    00 24/05/2012 07:55




    Giovedì 24 Maggio 2012

    S. Vincenzo di Lérins

    Fedeltà e sviluppo
    , a cura di Antonio Maria Sicari




    Lérins è un'isola dell’arcipelago omonimo (situato nel Mediterraneo, davanti a Cannes), nota per un celebre monastero dove Vincenzo approdò, dopo aver trascorso una giovinezza piuttosto turbolenta, agli inizi del sec. V, dedicandosi alla preghiera e allo studio.
    Non è un santo molto noto, ma tutti gli studiosi di problemi teologici conoscono il suo nome per un’opera da lui scritta nel 434, quand’era già avanti negli anni. Si tratta del Commonitorium (definito da s. Roberto Bellarmino “un libro tutto d’oro”). In esso viene trattato il problema di come debba essere trasmessa la vera fede cristiana e secondo quali regole. Vi si trovano un paio di principi divenuti celebri.
    Il primo di essi dice che “bisogna soprattutto preoccuparsi perché sia conservato e trasmesso ciò che è stato creduto in ogni luogo, in ogni tempo e da tutti”. È un principio saggio, anche se serve a escludere dottrine erronee piuttosto che a precisare la vera dottrina.
    Il secondo principio dice che nella fede cristiana, col passare dei secoli, ci può essere uno sviluppo o un progresso, ma a patto che ciò accada “eodem sensu ac sententia”, come avviene negli organismi viventi (ad esempio nelle piante e nel corpo umano) che crescono, pur restando se stessi. Fedeltà alla tradizione e sviluppo della Dottrina sono dunque le due condizioni necessarie “per sfuggire alle frodi e ai lacci degli eretici” e per garantire un armonico sviluppo della scienza teologica nella Chiesa.
    Le norme dettate da S. Vincenzo di Lérins sono molto più conosciute di quanto lo sia la sua vita. Ma dobbiamo essergli grati perché egli ci aiuta anche oggi a orientarci e a saper distinguere i veri dai falsi maestri.






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    00 25/05/2012 07:20


    Venerdì 25 Maggio 2012


    S. Gregorio VII



    "Ho amato la giustizia"
    , a cura di Antonio Maria Sicari

    Nell’immaginario popolare la figura di Gregorio VII (anche per chi ne ha dimenticato il nome e l’opera) è quella del papa severo che, a Canossa, fa attendere tre giorni alla porta del castello – in pieno inverno, mentre fiocca la neve – l’imperatore Enrico IV, che egli aveva scomunicato perché pretendeva nominare i vescovi come se fossero suoi feudatari.

    Non era rara perciò la compravendita delle cariche e la nomina di persone indegne. Perfino l’elezione del papa era condizionata dall’imperatore, e il danno sembrava ormai irrimediabile. La fortuna fu che si era riusciti a far nominare cardinale e abate del monastero di s. Paolo fuori le Mura il monaco benedettino Ildebrando che godeva fama di santità e di grande forza morale, il quale s’era subito schierato tra i più decisi riformatori del clero e della curia. Ed ecco che nel 1073, alla morte di papa Alessandro II, il popolo radunato nella Basilica del Laterano per i funerali, acclamò papa Ildebrando. L’elezione non era regolare, ma fu poi ratificata dai cardinali elettori che vi videro un segno di Dio. Divenuto papa col nome di Gregorio VII, egli decise di condurre fino in fondo la riforma della Chiesa, interessandosi anche della evangelizzazione dell’Europa dell’Est e del Nord.

    Purtroppo nel 1084 l’imperatore tornò in Italia, riuscendo ad espugnare anche Roma, mentre il papa restava assediato a Castel Sant’Angelo. In suo soccorso vennero i normanni di Roberto il Guiscardo, ma i liberatori furono i peggiori nemici: devastarono Roma e costrinsero il papa a risiedere a Salerno. Qui il grande pontefice morì, esclamando desolato (secondo la tradizione): “Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità, per questo muoio in esilio”.

    La sua riforma, però, aveva cominciato a portare frutti di libertà e di santità nella Chiesa.






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