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(segue)


Il tenente Dunbar rimase seduto di fronte alla baracca fino al crepuscolo, sorvegliando
costantemente l'orizzonte in ogni direzione.
Non venne nessuno.
Si sentì sollevato. Ma a mano a mano che il pomeriggio trascorreva con un fucile
Springfield e la sua grossa pistola pronti al tiro, il suo senso di isolamento si era
fatto più profondo. A un certo punto la parola "abbandonato" gli attraversò la mente,
facendolo rabbrividire. Sapeva che era la parola giusta. E sapeva che avrebbe dovuto
restare solo ancora per del tempo a venire. In un certo modo, profondamente e
segretamente, desiderava essere solo, ma l'essere abbandonato non aveva niente a
che vedere con l'euforia che aveva provato durante il viaggio con Timmons.
Questo smorzava ogni entusiasmo.
Mangiò una misera cena e stese il rapporto del suo primo giorno. Il tenente Dunbar se
la cavava bene con la scrittura, il che gli faceva provare meno antipatia per il lavoro
burocratico della maggior parte dei soldati. Era anche deciso a tenere uno scrupoloso
resoconto del suo soggiorno a Fort Sedgewick, soprattutto in considerazione della
strana situazione in cui si trovava.


12 aprile 1863
Ho trovato Fort Sedgewick completamente sguarnito. Il luogo sembra sia stato lasciato
marcire per un po' di tempo. Se vi era un contingente prima che io arrivassi, deve
essere marcito anche lui.
Non so che cosa fare.
Fort Sedgewick è l'avamposto a cui sono stato assegnato, ma non c'è nessuno a cui
riferire. Ogni comunicazione può aver luogo soltanto lasciando il forte, e io non voglio
abbandonare il mio posto.
Le provviste sono abbondanti.
Mi sono assegnato dei compiti di ripulitura. Cercherò di riparare e rinforzare il deposito
dei rifornimenti, ma non so se un uomo solo potrà farcela.
Qui alla frontiera dell'Ovest tutto è calmo.

Ten. John J. Dunbar, USA


Quella sera, mentre era sul pun to di addormentarsi, gli venne l'idea del riparo per la
baracca. Una lunga tenda che riparasse dal sole che si estendeva dall'entrata. Un
posto per stare seduto o per lavorare nei giorni in cui il caldo all'interno della baracca
diventava insopportabile. Un'aggiunta al forte.
E una finestra, praticando un'apertura nella parete di terriccio. Una finestra avrebbe
fatto una grossa differenza. Poteva restringere il recinto per i cavalli e usare le pertiche
per altri lavori di costruzione. Forse, dopotutto, si poteva fare qualcosa con il deposito
dei rifornimenti.
Dunbar si addormentò prima di aver catalogato tutte le possibilità per tenersi occupato.
Fu un sonno profondo e fece dei sogni molto reali.
Era in un ospedale da campo in Pennsylvania. Ai piedi del suo letto erano riuniti una
mezza dozzina di medici, i lunghi camici bianchi imbrattati del sangue di altri << casi >>.
Discutevano se dovessero amputargli il piede alla caviglia oppure al ginocchio. La
discussione degenerò in una disputa che si fece sempre più accesa e mentre il
tenente Dunbar guardava inorridito, cominciarono a picchiarsi.

Si colpivano l'un l'altro con gli arti che avevano asportato nelle precedenti amputazioni,
e mentre si inseguivano per tutto l'ospedale agitando le loro grottesche mazze, i
pazienti che avevano perso i loro arti balzavano o si trascinavano fuori dai loro giacigli,
frugando disperatamente fra quello che i medici avevano lasciato, alla ricerca delle
loro braccia o delle loro gambe.
Nel mezzo del parapiglia il tenente era fuggito, zoppicando follemente fino all'uscita
sul suo piede maciullato.
Saltellando e incespicando si inoltrò in un prato di un verde brillante, disseminato di
cadaveri di soldati confederati e dell'Unione. Come un gioco del domino alla rovescia,
i cadaveri si tirarono su a sedere mentre correva in mezzo a loro, e gli puntarono contro
le pistole.
Si ritrovò in mano una rivoltella e prima che potessero premere il grilletto, sparò addosso
a ciascun cadavere. Sparava velocemente e ogni pallottola centrava una testa. E ogni
testa si spappolava all'impatto del colpo. Sembrava una lunga fila di meloni che
esplodevano l'uno dopo l'altro schizzando dalle spalle dei cadaveri.
Il tenente Dunbar poteva vedere se stesso come appariva da lontano: una folle figura con
la camicia da notte dell'ospedale imbrattata di sangue che correva zoppicando in mezzo
a una moltitudine di cadaveri, con le teste che volavano in aria al suo passaggio.
Improvvisamente, non vi furono più cadaveri e colpi di pistola. Ma dietro di lui qualcuno
lo stava chiamando. Una voce dolcissima.
<< Tesoro... tesoro. >>
Dunbar si girò a guardare da sopra la spalla.
Dietro di lui una donna arrivava correndo, una donna bellissima, con un viso dagli zigomi
alti, dei folti capelli biondi e degli occhi così densi di passione che poteva sentire il proprio
cuore accelerare i battiti. Indossava unicamente dei pantaloni da uomo e correva tenendo
nella mano tesa un piede inzuppato di sangue, come in un gesto di offerta.
Il tenente abbassò lo sguardo sul suo piede ferito e vide che non c'era più. Stava correndo
su un bianco moncone di osso.
Si svegliò rizzandosi a sedere, sconvolto, cercando furiosamente a tastoni il suo piede al
fondo del letto. Era là.
Le coperte erano madide di sudore. Annaspò sotto il letto per cercare la sua borsa del
tabacco e frettolosamente si arrotolò una sigaretta. Poi scostò con un calcio le coperte
appiccicaticce, si appoggiò con le spalle al cuscino e aspirò delle lunghe boccate di fumo,
aspettando che facesse chiaro.
Sapeva esattamente che cosa aveva ispirato il sogno. Gli elementi principali erano accaduti
realmente. Dunbar lasciò che la sua mente ritornasse a quegli avvenimenti.
Era stato ferito a un piede. Schegge di granata. Era stato per un po' di tempo in un ospedale
da campo e avevano parlato di amputargli il piede. Non era riuscito a sopportare il pensiero
dell'amputazione ed era fuggito. Nel mezzo della notte, fra i lamenti dei feriti che echeggiavano
nel reparto in cui si trovava, era scivolato fuori dal letto e aveva rubato qualche indumento a caso.
Si era cosparso il piede di polvere antisettica, lo aveva fasciato con delle bende e in qualche
modo era riuscito a infilarlo nello stivale.
Era uscito di soppiatto da una porta laterale, aveva rubato un cavallo e, non avendo altro
posto in cui andare, all'alba aveva raggiunto la sua unità, raccontando la frottola di una ferita
leggera all'alluce.
Dopo due giorni il dolore era così lancinante che il tenente non desiderava altro se non morire.
Quando l'occasione si presentò, la colse.
Separate fra loro da trecento metri di campo spoglio, due unità avversarie si erano fronteggiate
per tutto un pomeriggio, sparando al riparo dei muri di pietra che delimitavano i due lati opposti
del campo, ciascuna delle due incerta sulla forza dell'altra, ciascuna esitante a passare alla
carica.
L'unità del tenente Dunbar aveva lanciato un pallone di osservazione ma i ribelli sudisti lo
avevano abbattuto immediatamente.
Si era a un punto morto e quando, nel tardo pomeriggio, la tensione giunse al culmine, anche
il tenente Dunbar giunse al proprio limite di sopportazione personale. I suoi pensieri si
concentrarono sul fermo proposito di mettere fine alla sua vita.
Si offrì volontario per fare una sortita a cavallo e attirare il fuoco nemico.
Il colonnello al comando del reggimento non era adatto alla guerra. Era debole di stomaco
e di mente ottusa.
Normalmente non avrebbe mai acconsentito a una cosa del genere, ma quel pomeriggio
era decisamente sotto pressione. Il pover'uomo era completamente disorientato e per
qualche inspiegabile motivo, nella sua mente continuava a insinuarsi il pensiero di una
grossa coppa di gelato alla pesca.
Per rendere le cose ancora peggiori, il generale Tipton e i suoi aiutanti avevano da poco
occupato una posizione di osservazione in cima a una collina verso Ovest. La sua condotta
veniva osservata, tuttavia era impossibilitato ad agire.
Chi aveva delle qualità di prim'ordine era questo giovane tenente dalla faccia esangue,
che gli diceva in tono concitato di voler andare ad attirare il fuoco nemico. I suoi occhi
spiritati e senza pupille gli incutevano timore.
L'inetto comandante acconsentì al piano.
Poiché il suo cavallo tossiva malamente, a Dunbar venne concesso di sceglierne un altro
fra quelli di riserva. Prese un piccolo ma robusto cavallo dal mantello bruno fulvo di nome
Cisco e cercò di issarsi sulla sella senza gridare di dolore, mentre l'intera unità stava a
osservare.
Mentre si dirigeva con il cavallo al passo verso il basso muro di pietra, dall'altra parte del
campo si udì il suono secco di qualche colpo di fucile, ma per il resto vi era un silenzio
mortale e il tenente Dunbar si chiese se il silenzio fosse reale, o se invece non succedesse
sempre così prima che un uomo morisse.


(continua)


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_________Aurora Ageno___________