00 09/09/2007 18:00
(segue:)


Quella sera piovve a dirotto. Ma la pioggia arrivò a scrosci violenti e irregolari come
spesso accade con i temporali estivi, così che sembrò che fosse meno umido di quanto
non avvenisse in altri periodi dell’anno e i due viaggiatori dormirono comodamente sotto
il carro protetto da un telone che non lasciava passare l’acqua.
Il quarto giorno passò più o meno come gli altri, senza nulla di particolare, e così il quinto
e il sesto. Il tenente Dunbar era deluso dalla mancanza di bisonti. Non aveva avvistato
un solo animale. Timmons diceva che a volte le grosse mandrie sembravano scomparire
del tutto. Ma aveva aggiunto che non era il caso di preoccuparsi, perché quando fossero
apparsi, i bisonti sarebbero stati più numerosi delle locuste.
Non avevano visto nemmeno un indiano, e per questo fatto Timmons non aveva alcuna
spiegazione. Aveva soltanto detto che se avesse visto un altro indiano, sarebbe sempre
stato troppo presto, e che era molto meglio per loro non avere dei ladri e degli straccioni
alle calcagna.
Ma al settimo giorno Dunbar ormai prestava ascolto soltanto alla metà di quello che diceva
Timmons.
Mentre percorrevano le ultime miglia che restavano, pensava sempre di più al momento in
cui sarebbe arrivato a destinazione.


Il capitano Cargill si tastò con le dita l’interno della bocca, con gli occhi che fissavano un
punto verso l’alto mentre si concentrava. Un lampo di certezza, e un rapido aggrottare
delle sopracciglia.
Un altro dente che se ne sta andando, pensò. Al diavolo.
Con aria afflitta, il capitano fece scorrere lo sguardo da una all’altra delle umide pareti di
terriccio che formavano il suo alloggio. Non c’era assolutamente nulla da vedere. Era
come una cella.
Alloggio, pensò con sarcasmo. Un dannato alloggio.
Da più di un mese tutti usavano quel termine, persino il capitano. Lo faceva
sfrontatamente anche di fronte ai suoi uomini, e loro di fronte a lui. Ma non era qualcosa
di confidenziale, un modo cameratesco di scherzare: era una vera imprecazione.
Ed era un brutto momento.
Il capitano Cargill ritrasse la mano dalla bocca. Rimase seduto nell’oscurità del suo
dannato alloggio e ascoltò. Fuori, tutto era calmo, e quella calma gli spezzava il cuore.
In condizioni normali, l’aria sarebbe stata piena dei rumori degli uomini impegnati nei loro
compiti. Ma da molti giorni non vi era stato alcun compito di servizio. Persino quelli di
ordinaria amministrazione si erano persi lungo il cammino. E non c’era nulla che il
capitano potesse fare in proposito. Questo era ciò che lo faceva soffrire.
Mentre ascoltava il terribile silenzio del luogo, capì che non poteva aspettare oltre. Oggi
avrebbe dovuto prendere la decisione che aveva tanto temuto. Anche se questo significava il disonore, o la rovina della sua carriera. O peggio.
Respinse quel << peggio >> dalla sua mente e si alzò pesantemente dalla sedia. Mentre
si dirigeva verso la porta, per un momento armeggiò con un bottone allentato della sua
giubba. Il bottone si staccò dal filo e rimbalzò sul pavimento. Non si preoccupò di
raccoglierlo. Non c’era niente con cui poterlo riattaccare.
Quando fu all’esterno, nella vivida luce del sole, il capitano Cargill si concesse di
immaginare un’ultima volta che nel cortile vi fosse un carro arrivato da Fort Hays.
Ma non c’era nessun carro. Solo quel luogo lugubre, quel foruncolo sul terreno che
non meritava un nome.
Fort Sedgewick.


(continua)

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_________Aurora Ageno___________