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Salvatore Quasimodo - Biografia e raccolta Poesie

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    Salvatore Quasimodo - Biografia e raccolta Poesie

    Biografia


    Salvatore Quasimodo nacque a Modica, in provincia di Ragusa, il 20 agosto 1901.
    Nel 1908 il padre, capostazione delle ferrovie, viene trasferito a Messina dopo il terremoto del 28 dicembre, nella città praticamente ridotta in macerie.
    I primi tentativi poetici risalgono al 1915. Nel 1917, mentre frequenta l'istituto tecnico, fonda una piccola rivista letteraria insieme ad amici (<< Il Nuovo Giornale Letterario >>), sulla quale pubblica i suoi primi versi.
    Nel 1919 si iscrive al Politecnico di Roma, per conseguire la laurea in ingegneria; ma i genitori non possono mantenerlo agli studi, e il poeta deve lavorare per poter continuare a stare a Roma. Non riuscirà mai a laurearsi, sia a causa del tempo presogli dal lavoro, sia perché ormai la vocazione letteraria lo distoglie dagli studi tecnici. A Roma lavorerà prima come disegnatore, poi come commesso in un negozio di ferramenta e in un grande magazzino. In questo periodo sente anche l'esigenza di approfondire gli studi ed incomincia ad imparare il greco e il latino.
    Nel 1926 viene assunto come geometra al Genio Civile, e mandato a Reggio Calabria. Qui riprende a frequentare i vecchi amici messinesi che lo incoraggiano, leggono le sue poesie, lo spingono a continuare.
    Nel 1930 conosce un gruppo di scrittori, tra i quali Eugenio Montale, che gravita intorno alla rivista << Solaria >> e proprio per le edizioni della rivista viene pubblicata, nel 1930, la sua prima raccolta di versi: Acque e terre.
    Nel 1932 la rivista << Circoli >> pubblica Oboe sommerso, che vince il premio dell'Antico Fattore ed è accolto con grande interesse dalla critica.
    E' questo forse il periodo in cui alla poesia di Quasimodo si attaglia di più la definizione di << ermetica >>, se con questo termine si indichi non una vaga scuola poetica, ma un preciso lavoro personale verso una espressione
    << difficile >>, di una cantabilità frammentaria e chiusa, incline alla soppressione dei più ovvi legamenti sintattici a favore dell'uso frequentissimo dell'analogia
    .

    Fra il 1934 e il 1936 va a vivere a Milano, dove stringe proficui legami con l'ambiente letterario. Nel 1936 pubblica Erato e Apòllion, e in questo stesso periodo viene trasferito, secondo la testimonianza dello stesso Quasimodo, in Valtellina, da un capufficio che << non sopportava i poeti >>.
    Finalmente nel 1938 può lasciare il Genio Civile, lavorando come segretario di Zavattini, e diventando poi più tardi redattore del << Tempo >>.
    In questi anni la sua avversione nei confronti del fascismo si fa sempre più profonda e motivata.
    Nel 1940 esce un libro che diventerà ben presto una tappa fondamentale nel rapporto tra poesia contemporanea e mondo classico: la traduzione dei Lirici Greci.
    Nel 1941 è nominato professore al Conservatorio di Milano, e l'anno dopo esce da Mondadori Ed è subito sera, raccolta che avrà un grande successo. (Da questo libro, nell'edizione Mondolibri S.p.A Milano, è tratta la presente biografia di Salvatore Quasimodo e le poesie qui sotto riportate.)

    Comincia un periodo di intensissima attività letteraria, con una serie di traduzioni che andranno dal latino di Catullo al greco del Vangelo di Giovanni e di Sofocle, e nel 1949 anche dall'inglese di Shakespeare.
    Negli anni del dopoguerra l'antifascismo e l'impegno << politico >> di Quasimodo sono ormai diventati parte integrante della sua opera: << l'oboe sommerso >> che risuonava di note arcane è sostituito dal grido di una poesia che vuole essere
    << civile >>. << Rifare l'uomo: questo è l'impegno >>, scriverà nel 1946.
    Anche in seguito egli cercherà di mantenere il difficile equilibrio tra impegno civile e fedeltà ai valori della parola poetica, tra comunicabilità immediata e amore per la << parola pura >>.
    Tra il 1949 e il 1958 pubblica numerosi libri di traduzioni.
    Nel 1953 divide con il grande poeta inglese Dylan Thomas il premio Etna-Taormina; nel 1958 riceve il premio Viareggio per la raccolta La terra impareggiabile.
    Nel 1959 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura, consacrando una fama peraltro già europea. Il discorso tenuto in questa occasione ripropone quello che ora è il motivo fondamentale della poesia di Quasimodo: la lotta per conservare alla poesia un suo spazio vitale nella società cercando allo stesso tempo di non rinnegare il valore sociale dell'arte.
    Tra il 1959 e il 1965 viaggia in Europa e nelle Americhe, svolgendo una importante funzione di collegamento e interscambio culturale.
    Nel 1960 riceve la laurea honoris causa dall'università di Messina.
    In questi anni si fa anche scopritore e promotore di giovani talenti; continua a scrivere pezzi giornalistici dove esprime la sua estraneità alla civiltà dei consumi, senza rinunciare ad intervenire di continuo anche nelle questioni di costume o di attualità più scottanti.
    Muore per una emorragia cerebrale il 14 giugno 1968 a Napoli.


    Seguono le sue Poesie dalla raccolta: Ed è subito sera.







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    NUOVE POESIE 1936-1942


    RIDE LA GAZZA, NERA SUGLI ARANCI



    Forse è un segno vero della vita:
    intorno a me fanciulli con leggeri
    moti del capo danzano in un gioco
    di cadenze e di voci lungo il prato
    della chiesa. Pietà della sera, ombre
    riaccese sopra l'erba così verde,
    bellissime nel fuoco della luna!
    Memoria vi concede breve sonno;
    ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
    per la prima marea. Questa è l'ora:
    non più mia, arsi, remoti simulacri.
    E tu vento del sud forte di zàgare,
    spingi la luna dove nudi dormono
    fanciulli, forza il puledro sui campi
    umidi d'orme di cavalle, apri
    il mare, alza le nuvole dagli alberi:
    già l'airone s'avanza verso l'acqua
    e fiuta lento il fango tra le spine,
    ride la gazza, nera sugli aranci.



    [Modificato da auroraageno 26/12/2007 04:26]

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    STRADA DI AGRIGENTUM



    Là dura un vento che ricordo acceso
    nelle criniere dei cavalli obliqui
    in corsa lungo le pianure, vento
    che macchia e rode l'arenaria e il cuore
    dei telamoni lugubri, riversi
    sopra l'erba. Anima antica, grigia
    di rancori, torni a quel vento, annusi
    il delicato muschio che riveste
    i giganti sospinti giù dal cielo.
    Come sola allo spazio che ti resta!
    E più t'accori s'odi ancora il suono
    che s'allontana largo verso il mare
    dove Espero già striscia mattutino:
    il marranzano tristemente vibra
    nella gola al carraio che risale
    il colle nitido di luna, lento
    tra il murmure d'ulivi saraceni.





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    LA DOLCE COLLINA



    Lontani uccelli aperti nella sera
    tremano sul fiume. E la pioggia insiste
    e il sibilo dei pioppi illuminati
    dal vento. Come ogni cosa remota
    ritorni nella mente. Il verde lieve
    della tua veste è qui fra le piante
    arse dai fulmini dove s'innalza
    la dolce collina d'Ardenno e s'ode
    il nibbio sui ventagli di saggina.

    Forse in quel volo a spirali serrate
    s'affidava il mio deluso ritorno,
    l'asprezza, la vinta pietà cristiana,
    e questa pena nuda di dolore.
    Hai un fiore di corallo sui capelli.
    Ma il tuo viso è un'ombra che non muta;
    (così fa morte). Dalle scure case
    del tuo borgo ascolto l'Adda e la pioggia,
    o forse un fremere di passi umani,
    fra le tenere canne delle rive.






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    CHE VUOI, PASTORE D'ARIA?



    Ed è ancora il richiamo dell'antico
    corno dei pastori, aspro sui fossati
    bianchi di scorze di serpenti. Forse
    dà fiato dai pianori d'Acquaviva,
    dove il Plàtani rotola conchiglie
    sotto l'acqua fra i piedi dei fanciulli
    di pelle uliva. O da che terra il soffio
    di vento prigioniero, rompe e fa eco
    nella luce che già crolla: che vuoi,
    pastore d'aria? Forse chiami i morti.
    Tu con me non odi, confusa al mare
    dal riverbero, attenta al grido basso
    dei pescatori che alzano le reti.






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    DAVANTI AL SIMULACRO D'ILARIA DEL CARRETTO



    Sotto tenera luna già i tuoi colli,
    lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse
    e turchine si muovono leggere.
    Così al tuo dolce tempo, cara; e Sirio
    perde colore, e ogni ora s'allontana,
    e il gabbiano s'infuria sulle spiagge
    derelitte. Gli amanti vanno lieti
    nell'aria di settembre, i loro gesti
    accompagnano ombre di parole
    che conosci. Non hanno pietà; e tu
    tenuta dalla terra, che lamenti?
    Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto
    forse è il tuo, uguale d'ira e di spavento.
    Remoti i morti e più ancora i vivi,
    i miei compagni vili e taciturni.






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    ORA CHE SALE IL GIORNO



    Finita è la notte e la luna
    si scioglie lenta nel sereno,
    tramonta nei canali.

    E' così vivo settembre in questa terra
    di pianura, i prati sono verdi
    come nelle valli del sud a primavera.
    Ho lasciato i compagni,
    ho nascosto il cuore dentro le vecchie mura,
    per restare solo a ricordarti.

    Come sei più lontana della luna,
    ora che sale il giorno
    e sulle pietre batte il piede dei cavalli!






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    GIA' LA PIOGGIA E' CON NOI



    Già la pioggia è con noi,
    scuote l'aria silenziosa.
    Le rondini sfiorano le acque spente
    presso i laghetti lombardi,
    volano come gabbiani sui piccoli pesci;
    il fieno odora oltre i recinti degli orti.

    Ancora un anno è bruciato,
    senza un lamento, senza un grido
    levato a vincere d'improvviso un giorno.





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    UNA SERA, LA NEVE



    Di te lontana dietro una porta
    chiusa odo ancora il pianto d'animale:
    così negli alti paesi al vento della neve
    ulula l'aria fra i chiusi dei pastori.

    Breve gioco avverso alla memoria:
    la neve è qui discesa e rode
    i tetti, gonfia gli archi del vecchio Lazzaretto,
    e l'Orsa precipita rossa fra le nebbie.

    Dove l'anca colore dei miei fiumi,
    la fronte della luna dentro l'estate
    densa di vespe assassinate? Resta il lutto
    della tua voce umiliata nel buio delle spalle
    che lamenta la mia assenza.






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    00 15/12/2007 16:21
    PIAZZA FONTANA



    Non a me più il vento fra i capelli
    caro dilunga, e delusa è la fronte
    inclina il capo docile ai fanciulli
    sulla piazza, agli alberi rossi in curva.

    Con umana dolcezza
    autunno mi consuma. E questa furia
    d'ultimi uccelli estivi sulle mura
    della curia ha il grigio dei portali,
    dura nell'aria e dentro il mio
    quieto stormire.

    Risento
    il monotono ridere senile
    dei migranti acquatici,
    lo scroscio improvviso di colombe
    che divise la sera e a noi il saluto
    a riva di Hautecombe.

    Esatto quel tempo s'umilia nei simboli,
    e anche questo, vivo alla sua morte.

    Se ne va il mio dominio da te; rapido
    muta: così contro il vento nero
    delle finestre, l'acqua della fontana
    in pioggia leggera.





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    00 15/12/2007 16:22
    L'ALTO VELIERO



    Quando vennero uccelli a muovere foglie
    degli alberi amari lungo la mia casa,
    (erano ciechi volatili notturni
    che foravano i nidi sulle scorze)
    io misi la fronte alla luna,
    e vidi un alto veliero.

    A ciglio dell'isola il mare era sale;
    e s'era distesa la terra e antiche
    conchiglie lucevano fitte ai macigni
    sulla rada di nani limoni.

    E dissi all'amata che in sé agitava un mio figlio,
    e aveva per esso continuo il mare nell'anima
    « Io sono stanco di tutte quest'ali che battono
    a tempo di remo, e delle civette
    che fanno il lamento dei cani
    quando è vento di luna ai canneti.
    Io voglio partire, voglio lasciare quest'isola. »
    Ed essa: « O caro, è tardi: restiamo. »

    Allora mi misi lentamente a contare
    i forti riflessi d'acqua marina
    che l'aria mi portava sugli occhi
    dal volume dell'alto veliero.






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    00 15/12/2007 16:24
    SULLE RIVE DEL LAMBRO



    Illeso sparì da noi quel giorno
    nell'acqua coi velieri capovolti.
    Ci lasciarono i pini,
    parvenza di fumo sulle case,
    e la marina in festa
    con voce alle bandiere
    di piccoli cavalli.

    Nel sereno colore
    che qui risale a morte della luna
    e affila i colli di Brianza,
    tu ancora vaga movendo
    hai pause di foglia.

    Le api secche di miele
    leggere salgono con le spoglie dei grani,
    già mutano luce le Vergilie.

    Al fiume che solleva ora in un tonfo
    di ruota il vuoto della valle,
    si rinnova l'infanzia giocata coi sessi.

    Mi abbandono al suo sangue
    lucente sulla fronte,
    alla sua voce in servitù di dolore
    funesta nel silenzio del petto.
    Tutto che mi resta è già perduto.

    Nel nord della mia isola e nell'est
    è un vento portato dalle pietre
    ad acque amate: a primavera
    apre le tombe degli Svevi;
    i re d'oro si vestono di fiori.

    Apparenza d'eterno alla pietà
    un ordine perdura nelle cose
    che ricorda l'esilio.
    Sul ciglio della frana
    esita il macigno per sempre,
    la radice resiste ai denti della talpa.
    E dentro la mia sera uccelli
    odorosi di arancia oscillano
    sugli eucalyptus.

    Qui autunno è ancora nel midollo
    delle piante; ma covano i sassi
    nell'alvo di terra che li tiene;
    e lunghi fiori bucano le siepi.
    Non ricorda ribrezzo ora il tepore
    quasi umano di corolle pelose.
    Tu in ascolto sorridi alla tua mente:
    e quale sole leviga i capelli
    a fanciulle in corsa;
    che gioie mansuete e confuse paure
    e gentilezza di pianto lottato,
    risorgono nel tempo che s'uguaglia!
    Ma come autunno, nascosta è la tua vita.

    Anche tramonta questa notte
    nei pozzi dei declivi; e rulla il secchio
    verso il cerchio dell'alba.
    Gli alberi tornano di là dai vetri
    come navi fiorite.
    O cara,
    come remota, morte era da terra.






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    00 15/12/2007 16:26
    SERA NELLA VALLE DEL MASINO



    Nello spazio dei colli,
    tutto inverno, il silenzio
    del lume dei velieri:
    fredda immagine eterna
    navigante! E qui risorge.

    Presto la rana cresce il verde:
    è foglia; e l'insetto di spine
    s'avventa sull'erbe dei canali.
    I mulini tentano le ruote,
    deserti, all'acqua che si piega.

    Non udrò ancora fragore del mare
    lungo i lidi dell'infanzia omerica
    il libeccio sull'isole
    funebre a luna meridiana,
    e donne urlare ai morti cantando
    dolcezze di giorni nuziali.

    E tu come la terra
    riappari a volte, e mi deludi
    discorde. Basta così poco tempo
    per morire da vivi.

    Nella veste di colore infantile
    inventi il passo d'una spirale
    al timpano che imita la notte.
    Ma il tuo volto dilegua in tonfi,
    in cesure straziate.

    Tornano già i prati alla valle; forte
    il lamento del corvo. Che certa
    presenza, cara, di vita! Avverto
    la sera alle tempie, e l'allarme
    è un canto di cupo dialetto.

    Nulla rimane della mia giornata.
    Mi sorprende immutabile la noia
    misericorde a ogni gioia apparsa
    e alle radici subito indurita.

    Calma notte superiore
    volontà di consensi,
    mi forzerò in così stretta misura
    d'ingenua sapienza,
    in tutto il freddo pietoso
    serrato dentro il mio corpo.







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    00 15/12/2007 16:27
    ELEGOS PER LA DANZATRICE CUMANI



    Il vento delle selve
    chiaro corre alle colline.
    Precoce aggiorna: l'adolescente,
    del sangue, ha simile sgomento.

    E l'orma dell'acqua è l'alba
    sulla riva. Si esauriva in me
    il supplizio della sabbia,
    a batticuore, spaziando la notte.

    Duole durevole antichissimo grido:
    pietà per l'animale giovane
    colpito a morte fra l'erbe
    d'agro mattino dopo le piogge nuove.

    La terra è in quel petto disperato,
    e ivi ha misura la mia voce:

    tu danzi al suo numero chiuso
    e torna il tempo in fresche figure:
    anche dolore, ma così a quiete
    volto che per dolcezza arde.

    In questo silenzio che rapido consuma
    non mi travolgere effimero,
    non lasciarmi solo alla luce;

    ora che in me a mite fuoco,
    nasci Anadiomene.






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    00 15/12/2007 16:29
    DELFICA



    Nell'aria dei cedri lunari,
    al segno d'oro udimmo il Leone.
    Presagio fu l'ululo terreno.
    Svelata è la vena di corolla
    sulla tempia che declina al sonno
    e la tua voce orfica e marina.

    Come il sale dall'acque
    io esco dal mio cuore.
    Dilegua l'età dell'alloro
    e l'inquieto ardore
    e la sua pietà senza giustizia.

    Perisce esigua
    l'invenzione dei sogni
    alla tua spalla nuda
    che di miele odora.

    In te salgo, o delfica,
    non più umano. Segreta
    la notte delle piogge di calde lune

    ti dorme negli occhi:
    a questa quiete di cieli in rovina
    accade l'infanzia inesistente.
    Nei moti delle solitudini stellate,
    al rompere dei grani,
    alla volontà delle foglie,
    sarai urlo della mia sostanza.






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    00 20/12/2007 08:32
    IMITAZIONE DELLA GIOIA



    Dove gli alberi ancora
    abbandonata più fanno la sera,
    come indolente
    è svanito l'ultimo tuo passo,
    che appare appena il fiore
    sui tigli e insiste alla sua sorte.

    Una ragione cerchi agli affetti,
    provi il silenzio nella tua vita.
    Altra ventura a me rivela
    il tempo specchiato. Addolora
    come la morte, bellezza ormai
    in altri volti fulminea.
    Perduto ha ogni cosa innocente,
    anche in questa voce, superstite
    a imitare la gioia.






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    CAVALLI DI LUNA E DI VULCANI
    alla figlia




    Isole che ho abitato
    verdi su mari immobili.

    D'alghe arse, di fossili marini
    le spiagge ove corrono in amore
    cavalli di luna e di vulcani.

    Nel tempo delle frane,
    le foglie, le gru assalgono l'aria:

    in lume d'alluvione splendono
    cieli densi aperti agli stellati;

    le colombe volano
    dalle spalle nude dei fanciulli.

    Qui finita è la terra:
    con fatica e con sangue
    mi faccio una prigione.

    Per te dovrò gettarmi
    ai piedi dei potenti,
    addolcire il mio cuore di predone.

    Ma cacciato dagli uomini,
    nel fulmine di luce ancora giaccio
    fanciullo a mani aperte,
    a rive d'alberi e fiumi:

    ivi la latomìa l'arancio greco
    feconda per gl'imenei dei numi.






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    00 20/12/2007 08:35
    ANCORA UN VERDE FIUME



    Ancora un verde fiume mi rapina
    e concordia d'erbe e pioppi,
    ove s'oblia lume di neve morta.

    E qui nella notte, dolce agnello
    ha urlato con la testa di sangue:

    diluvia in quel grido il tempo
    dei lunghi lupi invernali,
    del pozzo patria del tuono.






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    00 20/12/2007 08:37
    SPIAGGIA A SANT'ANTIOCO



    Nel fiele delle crete,
    nel sibilo dei rettili,
    il forte buio che sale dalla terra
    abitava il tuo cuore.

    Tu già dolente al cielo delle rive
    ti crescevi crudele il sangue
    d'una razza senza legge.

    Qui dove dorme verde l'aria
    di questi mari in cancrena,
    affiora bianco scheletro marino.
    E tu senti una povera vertebra umana
    consorte a quella che il flutto
    logora e il sale.

    Fino a che memoria ti sollevi
    a sospirati echi,
    dimenticata è morte:
    e la candida immagine sull'alghe
    segno è dei celesti.






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    00 20/12/2007 08:38
    GIA' VOLA IL FIORE MAGRO



    Non saprò nulla della mia vita,
    oscuro monotono sangue.

    Non saprò chi amavo, chi amo,
    ora che qui stretto, ridotto alle mie membra,
    nel guasto vento di marzo
    enumero i mali dei giorni decifrati.

    Già vola il fiore magro
    dai rami. E io attendo
    la pazienza del suo volo irrevocabile.






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    00 20/12/2007 08:39
    INIZIO DI PUBERTA'



    Saccheggiatrice d'inerzie e dolori,
    notte; difesa ai silenzi,
    l'età rigermina
    delle oblique tristezze.

    E vedo in me fanciulli
    leggiadri ancora sull'anca,
    al declivio delle conchiglie
    turbarsi alla mia voce mutata.






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    00 20/12/2007 08:50
    ERATO E APOLLION

    1932 - 1936



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    00 20/12/2007 08:52
    SILLABE A ERATO



    A te piega il cuore in solitudine,
    esilio d'oscuri sensi
    in cui trasmuta ed ama
    ciò che parve nostro ieri,
    e ora è sepolto nella notte.

    Semicerchi d'aria ti splendono
    sul volto; ecco m'appari
    nel tempo che prima ansia accora
    e mi fai bianco, tarda la bocca
    a luce di sorriso.

    Per averti ti perdo,
    e non mi dolgo: sei bella ancora,
    ferma in posa dolce di sonno:
    serenità di morte estrema gioia.






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    00 21/12/2007 06:48
    CANTO DI APOLLION



    Terrena notte, al tuo esiguo fuoco
    mi piacqui talvolta,
    e scesi fra i mortali.

    E vidi l'uomo
    chino sul grembo dell'amata
    ascoltarsi nascere,
    e mutarsi consegnato alla terra,
    le mani congiunte,
    gli occhi arsi e la mente.

    Amavo. Fredde erano le mani
    della creatura notturna:
    alti terrori accoglieva nel vasto letto
    ove nell'alba udii destarmi
    da battito di colombe.

    Poi il cielo portò foglie
    sul suo corpo immoto:
    salirono cupe le acque nei mari.

    Mio amore, io qui mi dolgo
    senza morte, solo.





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    00 21/12/2007 06:49
    APOLLION



    I monti a cupo sonno
    supini giacciono affranti.

    L'ora nasce
    nella morte piena, Apòllion;
    io sono tardo ancora di membra
    e il cuore grava smemorato.

    Le mie mani ti porgo
    dalle piaghe scordate,
    amato distruttore.





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