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IL RICHIAMO DELLA FORESTA - di Jack London - Romanzo completo

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    IL RICHIAMO DELLA FORESTA


    di Jack London – Romanzo completo





    INDICE:


    1. VERSO I PRIMORDI
    2. LA LEGGE DEL BASTONE E DELLA CAROTA
    3. LA DOMINANTE BELVA PRIMITIVA
    4. COLUI CHE HA RAGGIUNTO IL DOMINIO
    5. LA FATICA DEL TIRO E DELLA PISTA
    6. PER L'AMORE DI UN UOMO
    7. SUONA IL RICHIAMO




    1. VERSO I PRIMORDI




    Buck, non leggendo i giornali, non poteva sapere i guai che si
    preparavano non solo per lui ma per tutti i cani di grandi
    dimensioni, di forte muscolatura e di lungo e caldo pelo fra lo
    stretto di Puget e San Diego. Perché gli uomini scavando nelle
    buie profondità dell'Artico, avevano trovato un biondo metallo, e
    le compagnie di navigazione e di trasporti ne avevano diffuso la
    notizia facendo accorrere migliaia di cercatori nelle regioni del
    Nord. Questi uomini avevano bisogno di cani, e i cani che
    cercavano dovevano essere forti, di robusta muscolatura per
    sopportare le fatiche, e con folte pellicce che li proteggessero
    dal freddo.
    Buck viveva in una grande casa nella vallata di Santa Chiara
    baciata dal sole. Era detta la "Proprietà del giudice Miller". Un
    po' lontana dalla strada, era mezzo nascosta tra gli alberi,
    attraverso i quali si poteva scorgere la grande e ombrosa veranda
    che la circondava dai quattro lati. Si giungeva alla casa per
    viali di ghiaia che andavano per vasti prati sotto i rami
    intrecciati di alti pioppi. Sul dietro tutto era costruito in
    dimensioni più vaste che sul davanti. Vi erano grandi stalle, a
    cui accudivano una dozzina di mozzi e di stallieri, file di
    casette rivestite di vite selvatica, per la servitù, e una distesa
    ordinata e senza termine di costruzioni minori, i lunghi filari di
    viti, verdi pascoli, frutteti, e cespugli.
    Vi era un impianto per il pozzo artesiano, e la grande vasca di
    cemento dove i ragazzi del giudice Miller facevano il bagno tutte
    le mattine e prendevano il fresco al pomeriggio. Buck regnava su
    questa vasta tenuta. Lì era nato e lì era vissuto per quattro anni
    della sua vita. E' vero che vi erano altri cani: non si sarebbe
    potuto fare a meno di altri cani, in una proprietà così vasta; ma
    non contava. Andavano e venivano, alloggiando nei popolosi canili
    o vivendo oscuramente nell'intimo della casa come Toots, il
    cagnolino giapponese, o Ysabel, la messicana senza pelo, strana
    creatura che raramente metteva il naso fuori dell'uscio o le zampe
    a terra. Vi erano inoltre i fox-terriers, una banda che gridava
    paurose minacce a Toots e a Ysabel guardandoli attraverso le
    finestre e sfidando una legione di cameriere che li proteggevano
    armate di scope e di strofinacci.
    Buck non era né un cane casalingo né un cane da canile. Il reame
    era tutto suo. Si tuffava nella vasca o andava a caccia con i
    figli del giudice; scortava Mollie e Alice, le figlie del giudice,
    durante lunghe passeggiate mattutine o crepuscolari; e, nelle
    serate invernali, stava sdraiato ai piedi del giudice davanti al
    camino scoppiettante della biblioteca. Si lasciava cavalcare dai
    nipotini del giudice o li faceva rotolare sulI'erba, e sorvegliava
    i loro passi nelle loro avventurose escursioni alla fontana nel
    cortile delle scuderie e anche più in là, verso i prati e i
    cespugli. Andava imperiosamente fra i terriers e ignorava Toots e
    Ysabel nel modo più assoluto, perché era un re: un re di tutto ciò
    che camminava, strisciava o volava nella proprietà del giudice
    Miller, compresi gli uomini.
    Elmo, suo padre, un grande San Bernardo, era stato il compagno
    inseparabile del giudice, e Buck prometteva di seguire le orme
    paterne. Non era grosso come lui: pesava solo centoquaranta
    libbre, perché sua madre Shep era una cagna da pastore scozzese.
    Queste centoquaranta libbre, tuttavia, a cui bisognava aggiungere
    la dignità che proviene da un buon vivere e da un universale
    rispetto, gli permettevano di comportarsi in un modo veramente
    regale. Durante i suoi primi quattro anni di vita aveva vissuto al
    modo di un aristocratico benestante; era orgogliosamente
    soddisfatto di sé, ed era anche un tantino egoista come sono
    spesso i gentiluomini di campagna per il loro stesso isolamento.
    Ma si era salvato dal pericolo di diventare solo un grasso cane
    casalingo. La caccia e gli altri esercizi affini all'aria aperta
    gli avevano tolto il grasso e rafforzato i muscoli; e l'amore per
    l'acqua era stato per lui, come per tutti quelli della sua razza,
    un tonico salutare.
    Questa era la condizione del cane Buck sullo scorcio del 1897,
    quando la scoperta dei giacimenti del Klondike, richiamò uomini da
    tutte le parti del mondo nel gelato Nord. Ma Buck non leggeva i
    giornali, e non sapeva che Manuel, uno degli aiutanti del
    giardiniere, era una conoscenza alquanto pericolosa. Manuel aveva
    una passione fatale: gli piaceva giocare alla lotteria cinese.
    Inoltre, in questo gioco, aveva una debolezza ancora più fatale:
    la fede in un sistema; e questo fu la sua rovina. Perché per
    giocare con un sistema bisogna avere molto denaro, mentre il
    salario di un aiuto giardiniere poteva bastargli solo a mantenere
    una moglie e una numerosa progenie.
    Nella memorabile sera del tradimento di Manuel, il giudice era a
    una riunione dell'Associazione dei Viticoltori, e i ragazzi si
    davano da fare per organizzare un circolo sportivo. Nessuno vide
    lui e Buck attraversare il frutteto dove Buck credeva di andare a
    fare una semplice passeggiata. Ad eccezione di un unico uomo,
    nessuno li vide arrivare alla piccola stazione di College Park.
    L'uomo parlò con Manuel e ci fu tra loro un tintinnio di monete.
    - Dovete impacchettare la merce prima di consegnarla, - disse
    rudemente lo straniero; e Manuel passò due volte una solida corda
    attorno al collo di Buck sotto il collare.
    - Torcetela e lo terrete fermo come vorrete, - disse Manuel, e lo
    straniero grugnì un cenno affermativo. Buck aveva accettato la
    corda con tranquilla dignità; certo era una cosa insolita: ma
    aveva imparato ad aver fiducia negli uomini che conosceva e a far
    loro credito di una saggezza superiore alla propria. Quando però i
    capi della fune furono messi nelle mani dello straniero, ringhiò
    in modo minaccioso. Aveva semplicemente espresso il suo scontento,
    pensando nel proprio orgoglio che questo equivalesse ad un
    comando. Con sua sorpresa la fune gli si strinse attorno al collo
    togliendogli il respiro. Furioso balzò addosso all'uomo, che lo
    fermò a mezza strada, lo strinse ancor più forte alla gola e con
    uno strattone se lo caricò sulla schiena. La fune strinse senza
    misericordia mentre Buck annaspava furiosamente con la lingua
    penzoloni fuori della bocca e il grande petto anelante. Mai in
    vita sua era stato trattato così vilmente, e mai in vita sua si
    era arrabbiato tanto... Ma le forze lo abbandonarono, la vista gli
    si annebbiò, ed egli non capiva più nulla quando i due uomini lo
    caricarono sul bagagliaio di un treno.
    Quando riprese i sensi si accorse che la lingua gli faceva male e
    che era sballottato in qualche cosa in movimento. Il fischio acuto
    di una locomotiva a un passaggio a livello gli fece capire
    dov'era: aveva viaggiato troppo spesso col giudice per non
    conoscere la sensazione di essere in un bagagliaio. Aprì gli occhi
    con l'angoscia di un re rapito. L'uomo gli saltò alla gola, ma
    Buck fu più svelto di lui: le sue mascelle gli afferrarono la mano
    e non la lasciarono finché non perse nuovamente i sensi.
    - Maledizione, ha un attacco, - disse l'uomo nascondendo la sua
    mano straziata al custode del bagagliaio che era accorso al rumore
    della lotta. - Lo porto a San Francisco per incarico del padrone;
    crede che un veterinario laggiù possa curarlo.
    Quel che era avvenuto in quella notte di viaggio, I'uomo lo
    raccontò con molta eloquenza nel piccolo retrobottega di una
    taverna del porto di San Francisco.
    - Ci ho guadagnato in tutto cinquanta dollari, - brontolava; - se
    lo avessi saputo non l'avrei fatto nemmeno per mille pagati l'uno
    sull'altro.
    La sua mano era avvolta in un fazzoletto insanguinato e il
    pantalone destro era stracciato dal ginocchio alla caviglia.
    - E quello che te l'ha venduto quanto ha preso? - domandò il
    padrone della taverna.
    - Cento, - fu la risposta. - Neppure un soldo di meno.
    - Fanno centocinquanta, - disse il taverniere facendo il conto, -
    ma li vale davvero.
    Il ladro si tolse la fasciatura sanguinosa e si guardò la mano
    lacerata. - Se non mi piglio l'idrofobia...
    - Vorrà dire che sei nato per essere impiccato, - disse il
    taverniere ridendo. - Sù, dammi una mano per imballare il carico,
    - aggiunse.
    Sbigottito, soffrendo tremendamente alla gola e alla lingua, mezzo
    morto, Buck cercò di resistere ai suoi tormentatori. Ma fu domato
    e abbattuto più volte finché i due riuscirono a limare il suo
    grosso collare di ottone; poi gli tolsero anche la fune e lo
    spinsero in una gabbia di legno. Rimase per il resto di quella
    spaventosa notte covando la sua rabbia e il suo orgoglio ferito.
    Non riusciva a capire che cosa significasse tutto questo. Che cosa
    volevano fare di lui quegli strani uomini? Perché lo avevano
    chiuso in quella stretta gabbia? Non riusciva a capacitarsi, ma si
    sentiva oppresso dal vago senso di una sciagura imminente. Più
    volte durante la notte balzò in piedi nel sentire aprire la porta,
    aspettandosi di vedere il giudice o almeno i ragazzi. Ogni volta
    era la faccia gonfia del taverniere che lo guardava alla fioca
    luce di una candela. E ogni volta il grido di gioia che già
    tremava nella gola di Buck si cambiava in un mugolio selvaggio.
    Infine il taverniere lo lasciò solo e al mattino quattro uomini
    entrarono e presero su la gabbia. Più che aguzzini apparvero a
    Buck come esseri diabolici, sudici e stracciati, ed egli si volse
    furioso contro di loro di là dalle sbarre. Gli uomini si misero a
    ridere e gli tesero un bastone che Buck subito addentò finché non
    comprese che era proprio quello che volevano. Allora si sdraiò
    tristemente e lasciò che la gabbia fosse issata su di un vagone.
    Poi lui e la cassa in cui era rinchiuso passarono per varie mani.
    Impiegati della ferrovia si presero cura di lui; fu portato in un
    altro vagone, un carro lo trasportò insieme a un mucchio di
    scatole e di pacchi su di un traghetto, dal traghetto fu portato
    in un grande magazzino ferroviario e finalmente messo su di un
    treno espresso.
    Per due giorni e due notti il vagone fu trascinato da fischianti
    locomotive, e per due giorni e due notti Buck non mangiò né bevve.
    Nella sua angoscia si era messo a latrare al personale del treno,
    che aveva risposto facendogli dispetti. Quando si gettò contro le
    sbarre fremendo e con la bava alla bocca, quelli si misero a
    ridere e a canzonarlo. Mugolavano e abbaiavano come vilissimi
    cani, miagolavano, agitavano le braccia e strepitavano. Tutto ciò
    era veramente ignobile, egli lo capiva; ma appunto per questo la
    sua dignità ne era maggiormente offesa e la sua rabbia cresceva
    sempre di più. Non badava molto alla fame, ma la mancanza di acqua
    gli dava crudeli sofferenze e portava la sua rabbia fino al
    delirio. Sensibilissimo com'era, il cattivo trattamento avuto gli
    aveva infatti dato un accesso di febbre alimentata
    dall'infiammazione della gola arsa e tumefatta. Era contento di
    una cosa: gli avevano tolto la corda. Quella corda aveva dato loro
    uno sleale vantaggio, ma ora che non c'era più, avrebbe potuto
    mostrare quel che sapeva fare. Non gli avrebbero certo messo
    un'altra corda al collo: su questo aveva già deciso. Non, mangiò
    né bevve per due giorni e per due notti, e durante questo periodo
    di pena accumulò una riserva di rabbia che prometteva male per il
    primo che gli fosse capitato davanti. Aveva gli occhi iniettati di
    sangue e si era trasformato in un demonio arrabbiato. Era così
    cambiato che lo stesso giudice non l'avrebbe riconosciuto. Gli
    impiegati del treno respirarono di sollievo quando lo scaricarono
    a Seattle.
    Quattro uomini portarono cautamente la gabbia dal vagone in un
    piccolo cortile dalle alte mura. Venne un omaccione con una maglia
    rossa che gli saliva fino al collo e firmò il registro del
    corriere. Buck indovinò che quest'uomo era un altro aguzzino e gli
    abbaiò furiosamente gettandosi contro le sbarre. L'uomo ebbe un
    riso crudele e afferrò un'ascia ed un bastone.
    - Non vorrete mica farlo uscire adesso! - chiese il corriere.
    - Sicuro, - rispose l'altro dando un colpo d'accetta alla gabbia
    per provarla.
    Immediatamente i quattro uomini che l'avevano portata balzarono
    via e, mettendosi in salvo sul ciglio del muro, si prepararono a
    osservare lo spettacolo.
    Buck si avventò sulle schegge di legno e vi affondò i denti pieno
    di furia; dovunque l'ascia si abbatteva dall'esterno egli si
    precipitava dall'interno ringhiando e latrando freneticamente
    ansioso di gettarsi sull'uomo dalla maglia rossa che continuava
    tranquillo il suo lavoro.
    - E adesso avanti, diavolo dagli occhi rossi, - disse l'uomo
    quando ebbe fatto nella gabbia un'apertura sufficiente perché Buck
    potesse passare. Nello stesso tempo lasciò cadere l'ascia e
    afferrò il bastone con la destra.
    Buck era veramente un diavolo dagli occhi rossi, tutto raccolto
    per scattare, col pelo irto, la bocca grondante di bava e un lampo
    folle negli occhi sanguigni. Si scagliò dritto contro l'uomo con
    le sue centoquaranta libbre di furia aumentate da tutta la
    passione accumulata in quei due giorni e in quelle due notti. A
    mezz'aria, proprio quando le sue mascelle stavano per chiudersi
    addentando, ricevette un colpo che lo arrestò di colpo facendogli
    battere i denti dolorosamente. Fece una capriola battendo a terra
    col dorso e col fianco. Non era mai stato colpito da un bastone in
    vita sua, e non riusciva a capacitarsi. Con un ringhio che era in
    parte un latrato ma assai più uno strido, balzò in piedi e si
    slanciò. Ancora fu colpito e gettato a terra. Questa volta
    comprese cos'era un bastone, ma la sua furia non gli permetteva di
    essere prudente. Caricò ancora una dozzina di volte, e ogni volta
    il bastone arrestò il suo attacco e lo stese a terra.
    Dopo un colpo più crudele, strisciò ai piedi dell'uomo troppo
    stordito per slanciarsi. Fece qualche passo barcollando mentre il
    sangue gli usciva dal naso, dalla bocca e dagli orecchi; il suo
    bel pelo era sporco di bava sanguinosa. Allora l'uomo fece un
    passo avanti e gli diede risolutamente un terribile colpo sul
    naso. Tutte le sofferenze che aveva avuto fino allora erano nulla
    in confronto del profondo spasimo che provò. Con un ruggito
    feroce, che sembrava quello di un leone, si slanciò ancora contro
    l'uomo, ma questi, passando il bastone dalla destra nella
    sinistra, lo afferrò con tranquilla sicurezza alla mascella
    inferiore e gliela torse. Buck descrisse nell'aria un giro
    completo e la metà di un altro. Picchiando poi a terra con la
    testa e col petto, s'avventò per l'ultima volta. L'uomo gli diede
    il capo di grazia che aveva accortamente serbato per ultimo, e
    Buck si abbatté come un cencio, privo di sensi.
    - Per domare i cani non ha l'eguale, ecco quel che dico, - gridò
    entusiasta uno degli uomini sul muro.
    - Druther doma un cane al giorno e il sabato due - rispose il
    corriere arrampicandosi sul suo carro e avviando i cavalli.
    Buck riprese i sensi, ma non le forze. Rimase sdraiato là dov'era
    caduto e gettò uno sguardo all'uomo dalla maglia rossa.
    - "Risponde al nome di Buck", - disse tra sé l'uomo leggendo la
    lettera del taverniere che gli annunciava la spedizione della
    gabbia e del suo contenuto.- Bene, Buck, ragazzo mio,- continuò
    bonariamente, - abbiamo avuto una piccola conversazione, e la
    miglior cosa che si possa fare adesso è di non pensarci più. Tu
    hai capito qual è il tuo posto e io so qual è il mio. Se sarai un
    buon cane, tutto andrà benone, ma se sarai un cane cattivo, te ne
    darò quante potrai portarne, capito?
    Così parlando gli carezzava senza paura la testa che aveva colpito
    così crudelmente, e sebbene il pelo di Buck si ergesse
    istintivamente al tocco di quella mano, egli sopportò la carezza
    senza protestare. Quando l'uomo gli portò dell'acqua, bevve
    avidamente e poi mangiò una generosa porzione di carne cruda, a
    pezzo a pezzo, prendendola dalla mano stessa dell'uomo.
    Era stato vinto, lo sapeva; ma non prostrato. Capì una volta per
    tutte che contro un uomo armato di un bastone non c'era niente da
    fare, imparò la lezione e non la dimenticò più per tutta la vita.
    Quel bastone fu una rivelazione: lo introdusse nel regno della
    legge primitiva. Le vicende della vita avevano adesso un aspetto
    più fiero; ed egli le affrontò con tutta la sagacia nascosta nella
    sua intelligente natura. Nei giorni successivi giunsero altri
    cani, in gabbie o al guinzaglio, alcuni docilmente altri
    infuriando e latrando come aveva fatto lui e, ad uno ad uno, li
    vide sottomettersi al dominio dell'uomo dalla maglia rossa. Ogni
    volta osservò lo spettacolo brutale e si fissò in mente la
    lezione: un uomo con un bastone fa legge, è un padrone che deve
    essere obbedito anche se non necessariamente amato. Su questo
    ultimo punto, Buck non cadde mai in colpa, sebbene vedesse dei
    cani che dopo essere stati picchiati facevano servilmente festa
    all'uomo, scodinzolando e leccandogli la mano. Vide anche un cane
    che non volle mai cedere né obbedire, e che infine fu ucciso nella
    lotta.
    Ogni tanto venivano uomini, degli stranieri, che parlavano ora
    rudemente, ora gentilmente e in tutti i possibili modi con l'uomo
    dalla maglia rossa. E quando passava fra di loro del denaro, gli
    stranieri se ne andavano portando con sé uno o più cani. Buck si
    domandava dove andassero, perché non tornavano mai indietro. La
    paura del futuro era forte in lui, e ogni volta si rallegrava di
    non essere stato scelto.
    Venne anche il suo turno sotto forma di un ometto magro che
    parlava un cattivo inglese con molte espressioni strane e insolite
    che Buck non capiva.
    - Sacredame! - gridò scorgendo Buck. - Quello un buon forte cane!
    Eh? Quanto?
    - Trecento ed è regalato, - fu l'immediata risposta dell'uomo in
    maglia rossa. - E poiché è denaro del governo, non vorrete
    contrattare, eh, Perrault?
    Perrault rise. Considerando che i prezzi dei cani erano andati
    alle stelle per la straordinaria richiesta, non era quella una
    somma eccessiva per un così bell'animale. Il governo canadese non
    ci avrebbe rimesso, e le sue spedizioni non sarebbero state meno
    veloci. Perrault s'intendeva di cani e guardando Buck comprese che
    di cani simili se ne poteva trovare uno su mille. - Uno su
    DISMILLE, - commentò fra sé.
    Buck vide passare denaro fra loro e non si meravigliò quando,
    insieme con Curly, una brava cagna di Terranova, fu portato via
    dall'ometto magro. Fu l'ultima volta che vide l'uomo dalla maglia
    rossa, e quando, insieme con Curly, dal ponte del Narwhal, guardò
    il porto di Seattle che si allontanava, fu l'ultima volta che vide
    le calde terre del Sud. Lui e Curly furono condotti da Perrault
    sotto coperta e consegnati a un gigante dalla faccia bruna
    chiamato François.
    Perrault era un franco-canadese di carnagione bruna; ma François
    era un franco-canadese di mezzo sangue e ancor più bruno di lui.
    Appartenevano ad un tipo di uomini che Buck non conosceva, ma che
    in seguito avrebbe incontrato in gran numero, e sebbene non si
    affezionasse a loro, li rispettò tuttavia lealmente. Capì subito
    che Perrault e François erano brave persone, calme e imparziali
    nell'amministrare la giustizia, troppo esperte in fatto di cani
    per poter essere ingannate. Sotto il ponte del Narwhal, Buck e
    Curly incontrarono altri due cani. L'uno era un grande animale dal
    pelo bianco che era stato portato dallo Spitzberg dal capitano di
    una baleniera, e che aveva poi partecipato ad una spedizione
    geologica alle isole Barrens. Aveva una certa cordialità
    traditora, sempre in festa anche quando meditava qualche tiro,
    come quando, ad esempio, rubò la porzione di Buck durante il primo
    pasto. Buck già si preparava a punirlo, ma in quel momento stesso
    la frusta di François fischiò nell'aria raggiungendo il colpevole;
    e Buck non dovette fare altro che ricuperare il suo cibo. Concluse
    che era stato quello un bel gesto da parte di François e il
    mezzosangue salì molto nella sua stima.
    L'altro cane non diede manifestazioni di amicizia né ne ricevette;
    e non cercò di rubare niente ai nuovi venuti. Era un tipo triste,
    imbronciato, e fece capire subito a Curly che desiderava essere
    lasciato solo altrimenti ci sarebbe stata baruffa. Si chiamava
    Dave, mangiava, dormiva, sbadigliava nel frattempo e non si
    interessava a nulla nemmeno quando il Narwhal attraversò lo
    stretto della Regina Carlotta, e si mise a rullare, a beccheggiare
    e a scuotersi come un indemoniato. Mentre Buck e Curly,
    eccitatissimi, sembravano impazziti dalla paura, egli alzò la
    testa con un gesto di noia, volse loro uno sguardo distratto,
    sbadigliò e tornò a dormire.
    Giorno e notte la nave vibrava sotto il continuo impulso delle
    eliche, e sebbene i giorni scorressero eguali, Buck si accorse che
    l'aria diveniva più fredda; infine, un mattino, l'elica si fermò,
    e il Narwhal, fu pervaso da un'atmosfera di eccitazione. Buck se
    ne accorse al pari degli altri cani, e capì che stava per avvenire
    un cambiamento. François mise loro il guinzaglio e li portò sul
    ponte. Al primo passo sulla superficie fredda le zampe di Buck
    affondarono in qualche cosa di bianco e di morbido, molto simile
    al fango. Balzò indietro sbuffando. Una gran quantità di quel
    fango bianco si agitava nell'aria. Si scosse; ma continuava a
    venirgli addosso. Annusò curiosamente quella cosa e provò a
    leccarla. Sembrava fuoco e subito scompariva. Buck non capiva.
    Provò ancora con lo stesso risultato. Intorno a lui quelli che lo
    guardavano ridevano forte ed egli si sentì pieno di vergogna senza
    sapere perché: era la prima neve che vedeva.







    _________Aurora Ageno___________
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    2. LA LEGGE DEL BASTONE E DELLA ZANNA



    Il primo giorno che Buck trascorse sulla spiaggia di Dyea fu come
    un incubo. Ad ogni momento erano scosse e sorprese. Era stato
    strappato in un attimo dal cuore della civiltà e gettato nel vivo
    di un ambiente primordiale. Non era più la vita oziosa baciata dal
    sole, senza altro da fare se non andare a zonzo e annoiarsi. Qui
    non c'era né pace, né riposo, né un momento di tranquillità. Tutto
    era confusione e movimento, e ad ogni istante le membra e la vita
    erano in pericolo. Bisognava stare sempre all'erta perché non si
    aveva più a che fare con cani e uomini di città: erano tutti
    selvaggi e non conoscevano altra legge se non quella del bastone e
    della zanna.
    Non aveva mai visto dei cani combattere come quegli esseri che
    sembravano lupi, e la sua prima esperienza fu per lui una lezione
    indimenticabile. E' vero che fu un'esperienza indiretta, perché
    altrimenti non sarebbe sopravvissuto per trarne profitto. La
    vittima fu Curly. Erano accampati presso i depositi di legname,
    quando lei, coi suoi modi cordiali, cercò di fare amicizia con un
    cane eschimese, grosso quanto un lupo adulto e tuttavia neppure la
    metà di lei. Non ci fu preavviso, soltanto uno scatto fulmineo, un
    rumore metallico di zanne, un balzo da parte ugualmente veloce e
    il muso di Curly fu lacerato dall'occhio alla mascella. Era il
    modo di combattere dei lupi, colpire e balzare via; ma la cosa non
    finì lì. Trenta o quaranta eschimesi accorsero e circondarono i
    combattenti in un cerchio attento e silenzioso. Buck non capì
    quella tacita attenzione né perché essi si leccassero avidamente
    le labbra. Curly aggredì l'avversario, che colpi ancora e balzò da
    parte. Al suo terzo attacco, il cane l'arrestò col petto in un
    modo particolare e la fece rotolare a terra. Curly non ebbe il
    tempo di rimettersi in piedi: gli eschimesi che stavano attorno
    non aspettavano altro. Fecero massa su di lei soffiando e
    ringhiando, e Curly fu sepolta, urlante di dolore, sotto i loro
    corpi irsuti.
    Tutto avvenne cosi rapidamente e inaspettatamente, che Buck rimase
    stordito. Vide Spitz che si passava sulle labbra la lingua
    scarlatta come faceva quando rideva. E poi François che si gettava
    in mezzo ai cani brandendo un'ascia. Tre uomini armati di bastoni
    vennero in suo aiuto per disperderli. Non fu cosa lunga. Due
    minuti dopo che Curly era caduta, l'ultimo degli assalitori era
    scacciato e bastonato. Ma la cagna giaceva esanime nella neve
    sanguinosa e calpestata, fatta quasi a brandelli, mentre il
    mezzosangue la guardava bestemmiando orribilmente. Quella scena
    tornò più volte a turbare i sogni di Buck. Così dunque andavano le
    cose. Non era un gioco facile. Una volta a terra, era finita.
    Bene, avrebbe cercato di non cadere. Spitz tirò fuori la lingua e
    rise ancora, e da quel momento Buck lo odiò di odio profondo e
    mortale.
    Non si era ancora rimesso dal colpo causatogli dalla tragica fine
    di Curly, che ne ricevette un altro: François gli mise addosso un
    insieme di cinghie e di fibbie. Era una bardatura simile a quella
    che, a casa sua, aveva visto mettere ai cavalli dai mozzi di
    stalla. Come aveva visto lavorare i cavalli, così doveva adesso
    lavorare lui, trascinare François su di una slitta attraverso la
    foresta che fiancheggiava la vallata e tornare con un carico di
    legna da ardere. Sebbene la sua dignità fosse profondamente offesa
    nel vedersi considerare un animale da tiro, egli era troppo saggio
    per ribellarsi. Si sottomise di buona volontà e fece del suo
    meglio sebbene fosse quella una strana novità. François era
    severo, chiedeva immediata obbedienza e la riceveva in grazia
    della sua frusta; d'altra parte Dave, che era già esperto, mordeva
    i quarti posteriori di Buck quando sbagliava. Spitz, anche lui già
    esperto, era la guida, e, non potendo raggiungere Buck, lo
    rimproverava ringhiando furiosamente, o tirava da parte con
    accortezza per far capire a Buck in che direzione doveva andare.
    Buck imparò facilmente e, sotto la triplice guida dei suoi due
    compagni e di François, fece notevoli progressi. Prima che
    tornassero al campo, sapeva già fermarsi al grido di "oh", e
    avanzare al grido di "mush", e girare al largo nelle voltate, e
    lasciar spazio al cane di dietro quando la slitta carica, in
    discesa, li incalzava alle calcagna.
    - Proprio tre buoni cani, - disse François a Perrault. - Quel Buck
    tira come un dannato. Gli insegnerò tutto in un momento.
    Nel pomeriggio Perrault, che aveva fretta di partire col suo
    carico, tornò con altri due cani: Billee e Joe, fratelli e veri
    eschimesi. Sebbene figli di una stessa madre, erano diversi tra
    loro come il giorno e la notte. L'unica colpa di Billee era la sua
    eccessiva cordialità, mentre Joe era l'opposto, cupo e taciturno,
    sempre pronto a mugolare e con lo sguardo maligno. Buck li accolse
    cordialmente, Dave non si occupò di loro, mentre Spitz volle
    battersi prima con l'uno poi con l'altro. Billee agitò
    bonariamente la coda, girò al largo quando si accorse che quelle
    gentilezze erano inutili, e gemette, tuttavia mitemente, quando
    l'acuta zanna di Spitz gli strinse il fianco. Ma per quanto Spitz
    girasse intorno a Joe, questi ruotò sui calcagni per stargli
    sempre di fronte, co] pelo irto, le orecchie indietro, le labbra
    contratte, le mascelle che si urtavano fra loro quanto più
    velocemente potevano, e gli occhi sinistramente lampeggianti: la
    vera incarnazione della paura bellicosa. Il suo aspetto era così
    terribile, che Spitz fu costretto a trattenersi; ma per
    dissimulare la sua sconfitta, si volse all'inoffensivo e gemente
    Billee e lo inseguì fino al limite del campo. La sera Perrault
    portò un altro cane. Un vecchio eschimese, grande, grosso e
    gagliardo, col muso pieno di cicatrici gloriose, e un occhio solo,
    che però fiammeggiava così arditamente da imporre rispetto. Si
    chiamava Sol-leks, che significa rabbioso. Al pari di Dave, non
    chiedeva nulla, non dava nulla, non si aspettava nulla e quando se
    ne venne lentamente ma risolutamente in mezzo a loro, anche Spitz
    lo lasciò in pace. Aveva una particolarità che Buck scoprì in modo
    piuttosto disgraziato: non voleva essere avvicinato dalla parte
    del suo occhio cieco.
    Buck si rese involontariamente colpevole di questa offesa e se ne
    accorse solo quando Sol-leks si slanciò su di lui e gli lacerò la
    spalla fino all'osso per una lunghezza di tre pollici. Dopo di
    allora Buck evitò di avvicinarsi a lui da quel lato e finché
    furono insieme non ebbero più motivo di lite. Al pari di Dave,
    Sol-leks aveva un unico desiderio apparente: quello di starsene
    per conto suo, ma entrambi, come Buck scoprì più tardi, avevano
    un'altra e più profonda ambizione.
    Quella notte Buck affrontò il gran problema di dormire. La tenda,
    illuminata da una candela, risplendeva; tiepida in mezzo alla
    bianca pianura; e quando lui vi entrò, nel modo più naturale,
    tanto Perrault quanto François lo scaraventarono fuori a forza di
    improperi e a colpi di stoviglie, finché, riavutosi dallo
    sbigottimento, fuggì ignominiosamente nel gelo di fuori. Soffiava
    un vento freddo che lo pungeva dolorosamente specialmente sulla
    spalla ferita; si gettò sulla neve e cercò di dormire, ma il
    freddo lo fece subito balzare in piedi. Triste e desolato, si
    aggirò intorno alle tende ma dappertutto c'era lo stesso freddo.
    Qua e là cani selvaggi gli ringhiarono, ma lui rizzò il pelo
    mugolando, come aveva imparato a fare, ed essi lo lasciarono
    tranquillo.
    Finalmente gli venne un'idea: sarebbe andato a vedere quello che
    facevano i suoi compagni. Con suo grande stupore essi erano
    scomparsi. Si aggirò ancora per il vasto campo cercandoli, ma
    tornò deluso. Erano forse nella tenda? No, non era possibile,
    altrimenti non avrebbero cacciato via lui. E allora dove potevano
    essere? A coda bassa e tutto intirizzito, veramente disperato,
    continuò a girare intorno alla tenda, senza meta. Improvvisamente
    la neve cedette sotto le sue zampe ed egli affondò. Qualche cosa
    si muoveva là sotto. Fece un salto indietro mugolando e
    ringhiando, pauroso di quella cosa invisibile e sconosciuta. Un
    piccolo mugolio amichevole lo rassicurò e lo indusse a farsi
    avanti per vedere meglio. Un soffio di aria calda giunse alle sue
    narici, e là, arrotolato sotto la neve, come una soffice palla, vi
    era Billee. Guaiva amichevolmente agitandosi per mostrare le sue
    buone intenzioni e, in segno di pace, giunse a leccare il muso di
    Buck con la lingua umida e calda.
    Un'altra lezione. Così dunque, facevano gli altri? Pieno di
    fiducia Buck si scelse un posticino e, a forza di tentativi
    disordinati, riuscì a scavarsi una buca. In breve il calore del
    suo corpo riempì l'angusto spazio ed egli si addormentò. La
    giornata era stata lunga e faticosa, ed egli dormì profondamente e
    a suo agio, sebbene mugolasse e ringhiasse in sogno. Non aprì gli
    occhi finché non fu svegliato dai rumori del campo che si
    ridestava, e a tutta prima non riuscì a capire dove si trovasse.
    Durante la notte era nevicato e la neve lo aveva completamente
    sepolto. Da ogni lato lo premeva una bianca copertura, e un gran
    terrore lo invase: il terrore dell'animale selvaggio preso in
    trappola. Certo la sua esistenza si ricollegava ora, risalendo il
    tempo a quella dei suoi antenati; perché lui era un cane civile, e
    non aveva mai conosciuto trappole per sua propria esperienza, né
    poteva dunque temerle. Con i muscoli di tutto il corpo
    spasmodicamente tesi, irto il pelo sul collo e sulla schiena, con
    un ringhio feroce balzò fuori nella luce accecante del giorno,
    mentre la neve volava intorno a lui in una nube fulgente. Prima di
    ricadere sulle quattro zampe vide il bianco accampamento dinanzi a
    lui e capì dove era, ricordando tutto ciò che era avvenuto da
    quando era uscito a passeggio con Manuel al momento in cui si era
    scavata la buca, la sera prima.
    L'esclamazione di François salutò la sua comparsa. - Che dicevo?
    - gridava a Perrault il conducente. - Quel Buck imparerà subito
    tutto.
    Perrault assentì gravemente. Come corriere del governo canadese,
    incaricato di portare importanti dispacci, egli voleva assicurarsi
    i cani migliori, ed era molto contento di avere acquistato Buck.
    Dopo un'ora, altri tre eschimesi furono aggiunti all'attacco che
    arrivò cosi a un totale di nove; e prima che trascorresse un altro
    quarto d'ora tutti erano al loro posto e trascinavano la slitta
    verso il cañon Dyea. Buck era contento di essere partito, e il
    lavoro, sebbene faticoso, non gli dispiaceva affatto. Fu sorpreso
    dello zelo che animava tutto il tiro e che si era comunicato anche
    a lui, ma ancor più lo sorprese il cambiamento avvenuto in Dave e
    in Sol-leks: erano diversi, completamente trasformati dalla
    bardatura. Avevano perso tutta la loro passività e la loro
    indifferenza, erano attivi e solerti, pieni di zelo perché il
    lavoro procedesse bene, e profondamente irritati se qualche cosa
    lo ritardava per qualche ostacolo o qualche confusione. Sembrava
    che la suprema espressione del loro essere fosse il fare forza
    sulle tirelle, che vivessero solo per questo, e che in questo
    lavoro consistesse l'unico loro piacere.
    Dave era il cane di ruota, o meglio di slitta, Buck correva
    davanti a lui, e più avanti ancora Sol-leks; il resto dell'attacco
    era disposto in fila indiana, fino al cane di testa, che era
    Spitz. Buck era stato messo apposta tra Dave e Sol-leks perché
    imparasse. Era un buono scolaro, ed essi erano non meno buoni
    maestri: non gli permettevano di rimanere a lungo nell'errore e
    davano forza al loro insegnamento con i loro denti acuti. Dave era
    buono e saggio, non mordeva mai Buck senza un motivo, ma non
    dimenticava mai di farlo quando era necessario.
    Poiché interveniva anche la frusta di François, Buck s'accorse che
    costava meno correggersi che ribellarsi. Una volta, durante una
    breve sosta, aggrovigliò le tirelle ritardando la partenza; e Dave
    e Sol-leks si avventarono su di lui somministrandogli un duro
    castigo. Le tirelle si aggrovigliarono ancor più, ma Buck si
    preoccupò di tenerle bene in ordine, in seguito. Prima che finisse
    il giorno si era così bene impadronito del suo lavoro, che i
    compagni non lo rimproverarono più. La frusta di François colpì
    con minore frequenza e Perrault gli fece l'onore di esaminargli i
    piedi molto attentamente.
    Fu quella una rude galoppata su per il cañon, attraverso il Campo
    della Pecora oltre le Scale e la linea della foresta, attraverso
    ghiacciai e cumuli di neve di cento piedi, fin oltre il grande
    Passo di Chilcot, che sorge tra la zona marina e la fredda, e si
    leva come sentinella del triste e solitario Nord.
    Andarono veloci giù per la catena dei laghi che riempiono i
    crateri di vulcani estinti, e a notte avanzata giunsero al grande
    campo sull'estremo del lago Bennett, dove migliaia di cercatori
    d'oro si stavano costruendo barche in attesa della rottura dei
    ghiacci a primavera. Buck si scavò la sua buca nella neve e dormì
    il sonno di un giusto molto stanco, ma fu risvegliato molto
    presto, ancora a buio, e riattaccato alla slitta con i suoi
    compagni.
    Quel giorno percorsero quaranta miglia perché la pista era già
    tracciata; ma il giorno dopo, e per molti altri giorni ancora,
    dovettero tracciare loro stessi la pista, lavorando di più e
    facendo meno strada. Di norma Perrault camminava in testa
    all'attacco comprimendo la neve con le racchette per aprire la
    via. François guidava la slitta, e qualche volta, ma non spesso,
    scambiava il suo posto con lui. Perrault aveva fretta ed era
    orgoglioso della sua conoscenza dei ghiacci, indispensabile perché
    il ghiaccio era molto sottile e non ve ne era affatto là dove
    l'acqua correva più velocemente. Giorno per giorno, per giorni
    senza fine, Buck corse tra le tirelle. Levavano sempre il campo a
    notte alta, e il primo grigiore dell'alba li trovava già a
    galoppare sulla pista con molte miglia alle spalle. Sempre
    piantavano il campo a notte, mangiando la loro razione di pesce e
    gettandosi a dormire sulla neve. Buck era affamato. La libbra e
    mezzo di salmone seccato che formava la sua razione giornaliera,
    spariva in un attimo. Non era mai sazio e soffriva continuamente i
    crampi della fame. Gli altri cani, che pesavano di meno ed erano
    già allenati, ricevevano solo una libbra di pesce, e questo
    bastava a mantenerli in buone condizioni.
    Abbandonò presto quella schifiltosità che era stata caratteristica
    della sua vita di un tempo; era un mangiatore difficile, e si
    accorse che i suoi compagni, che finivano prima, rubavano una
    parte della sua razione. Non c'era mezzo di difenderla, perché,
    mentre egli si azzuffava con due o tre, il cibo scompariva nelle
    bocche degli altri. Per rimediare a questo, cominciò a mangiare in
    fretta come gli altri; e la fame lo incalzava tanto che non si
    fece scrupoli di prendere anche quello che non gli spettava.
    Osservava e imparava. Quando vide Pike, uno dei cani ultimi
    arrivati, ladro astuto e malizioso, rubare un pezzo di lardo in un
    momento in cui Perrault voltava le spalle, il giorno dopo imitò su
    più vasta scala quella prodezza, portandosi via tutto il pezzo. Ne
    sorse un gran tafferuglio, ma egli non fu sospettato; e Dub, uno
    stordito che si faceva sempre cogliere, fu punito per colpa sua.
    Questo primo furto mise in evidenza che Buck era capace di
    sopravvivere nell'ostile ambiente del Nord: mise in rilievo la sua
    capacità di adattamento alle mutevoli condizioni, la cui mancanza
    avrebbe significato morte pronta e terribile. Nello stesso tempo
    segnò la decadenza o addirittura lo sfacelo delle sue qualità
    morali, vano ingombro nella selvaggia lotta per l'esistenza. Nel
    Sud, sotto la legge dell'amore e dell'amicizia, il rispetto della
    proprietà privata e dei sentimenti personali erano buone cose; ma
    nel Nord, sotto la legge del bastone e della zanna, chi avesse
    dato importanza ad esse sarebbe stato un pazzo, e finché le avesse
    osservate avrebbe avuto ben pochi vantaggi.
    Non che Buck ragionasse così. Era adatto all'esistenza, tutto qui,
    e si adattava inconsapevolmente al nuovo genere di vita. In tutta
    la sua vita non aveva mai evitato un combattimento senza badare a
    disparità di condizione. Ma il bastone dell'uomo in maglia rossa
    gli aveva istillato un codice più fondamentale e primitivo. Come
    civile, avrebbe potuto morire per un principio morale, ad esempio,
    per difendere il frustino del giudice Miller; ma l'insieme della
    sua regressione era adesso messo in evidenza dalla sua abilità di
    evitare le proibizioni di ordine morale per salvare così la pelle.
    Non rubava per il piacere di rubare, ma per placare le esigenze
    del suo stomaco; e non lo faceva apertamente, ma in segreto e con
    astuzia, fuori del raggio d'azione del bastone e della zanna.
    Insomma, faceva quello che era più facile fare che non fare.
    Il suo sviluppo, o la sua regressione, fu rapido: i suoi muscoli
    divennero duri come acciaio, si abituò a tutte le sofferenze
    quotidiane e riuscì a formarsi un'economia interna come una
    esterna. Poteva mangiare qualunque cosa anche se ripugnante e
    indigeribile; e quando l'aveva mangiata, i succhi del suo stomaco
    ne traevano ogni minima particella di nutrimento; e il sangue la
    portava nei più reconditi angoli del suo corpo trasformandola in
    forti e solidi tessuti. La vista e l'odorato divennero acutissimi,
    e l'udito gli si sviluppò tanto, che nel sonno poteva udire i
    rumori più deboli e capire se annunciavano pace o pericolo. Imparò
    a strapparsi coi denti il ghiaccio che gli impastava le dita; e
    quando aveva sete e uno strato di ghiaccio ricopriva una pozza,
    egli sapeva spezzarlo drizzandosi e colpendolo colle zampe
    davanti. La sua più notevole abilità era quella di fiutare il
    vento e di prevederlo anche con una notte di anticipo. Per quanto
    non tirasse un filo d'aria, quando si scavava il suo giaciglio
    presso un albero o una roccia, il vento che sorgeva più tardi lo
    trovava inevitabilmente al riparo, ben coperto e tranquillo. E non
    solo imparò per propria esperienza, ma si risvegliarono in lui gli
    istinti da molto tempo sopiti. Le generazioni domestiche
    scomparivano via via dal suo ricordo. In modo confuso egli
    riandava con la memoria alla gioventù del mondo, ai tempi in cui i
    cani selvaggi si riunivano in branchi nelle foreste primordiali e
    uccidevano la loro preda facendo scorrerie. Non fu faticoso per
    lui imparare a combattere lacerando e azzannando al modo dei lupi,
    perché così avevano combattuto i suoi avi dimenticati. Essi
    ravvivavano in lui l'antica vita, e le antiche astuzie da loro
    lasciate in eredità all'esistenza erano le sue stesse astuzie.
    Apparivano in lui senza sforzo e senza meraviglia, come se fossero
    sempre state sue; e quando nelle lunghe notti gelate levava il
    muso alle stelle gettando lunghi ululati nello stile dei lupi,
    erano i suoi antenati morti e ridotti in polvere, che levavano il
    muso alle stelle e ululavano nei secoli attraverso di lui. Quel
    grido modulato era il loro grido con cui avevano espresso la loro
    pena e tutto ciò che potevano suggerire loro la quiete, il freddo
    e la notte.
    Così, prova evidente di quale lieve cosa sia la vita, l'antico
    canto tornava in lui, ed egli tornò nel suo antico essere; e tutto
    questo perché gli uomini avevano trovato un biondo metallo nel
    Nord, e perché Manuel era un aiuto giardiniere che non guadagnava
    abbastanza per mantenere la moglie e le varie piccole copie di se
    stesso.








    _________Aurora Ageno___________
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    00 12/01/2008 13:26
    3. LA DOMINANTE BELVA PRIMITIVA



    La belva primitiva dominava fortemente in Buck, e in quelle fiere
    condizioni di vita si sviluppò sempre più. Tuttavia era uno
    sviluppo segreto. La sua nuova astuzia gli ispirava un equilibrio
    ed un controllo. Era troppo occupato ad adattarsi alla nuova vita
    per sentirsi a suo agio, e non solo non cercò combattimenti, ma li
    evitò il più possibile. Una certa ponderatezza era caratteristica
    del suo atteggiamento. Non si abbandonava ad atti imprudenti o
    precipitati, e nel suo profondo odio per Spitz non mostrava alcuna
    impazienza e celava ogni ostilità.
    D'altra parte, forse perché indovinava in Buck un pericoloso
    rivale, Spitz non si lasciava mai sfuggire l'occasione per
    mostrargli i denti. Giunse perfino ad attraversargli la strada
    cercando sempre di far sorgere una zuffa che sarebbe finita solo
    con la morte dell'uno o dell'altro. Questo avrebbe potuto
    succedere fin dall'inizio del viaggio, se non fosse avvenuto un
    incidente inconsueto.
    Una sera avevano piantato un piccolo e triste campo sulle rive del
    lago Le Barge; nevicava e tirava un vento che tagliava come una
    lama di coltello, e l'oscurità li aveva costretti a cercare a
    tentoni un posto per accamparsi. Difficilmente avrebbero potuto
    trovarne uno peggiore: alle loro spalle sorgeva una roccia a
    picco, e Perrault e François erano stati costretti ad accendere il
    fuoco e a stendere i loro lettucci sul ghiaccio del lago stesso.
    Avevano lasciato la tenda a Dyea per avere meno bagagli. Furono
    accesi pochi rami di legno secco, ma il fuoco cadde nell'acqua
    attraverso il ghiaccio fuso e li lasciò a finire la cena al buio.
    Buck si scavò il giaciglio al piede della roccia. Se ne stava lì
    così bene riparato e al caldo, che lo lasciò a malincuore quando
    François distribuì il pesce dopo averlo sgelato sul fuoco. Ma
    quando Buck ebbe finito la sua razione e tornò alla buca, la trovò
    occupata. Un ringhio minaccioso lo avvertì che l'usurpatore era
    Spitz. Fino ad ora Buck aveva evitato ogni litigio col suo nemico,
    ma questo era troppo. La belva che era in lui ruggì. Balzò sopra
    Spitz con una furia che li sorprese entrambi, ma soprattutto
    Spitz, perché tutta l'esperienza che aveva di Buck gli aveva
    insegnato che il suo rivale era un cane molto timido, capace di
    cavarsela solo in grazia del suo peso e delle sue dimensioni.
    Anche François fu sorpreso quando balzarono fuori dalla buca in un
    solo groviglio e capì la causa di quella zuffa. - Ah, ah! - gridò
    a Buck, - dagli, perbacco! Dagli addosso a quel ladro!
    Spitz era non meno furioso. Urlava pieno di rabbia correndo in su
    e in giù, cercando il momento opportuno di slanciarsi. Buck era
    non meno attento e non meno prudente, e si aggirava anche lui in
    sù e in giù cercando il momento più opportuno. Proprio in
    quell'istante accadde l'inaspettato, che doveva differire la loro
    lotta a migliore occasione, dopo molte e molte faticose miglia di
    pista e di lavoro.
    Una bestemmia di Perrault, il colpo sonoro di un bastone su di un
    corpo ossuto e uno strido di dolore segnarono l'inizio di un
    pandemonio. Il campo apparve improvvisamente popolato di forme
    irsute: una sessantina di eschimesi affamati, che avevano sentito
    l'odore da qualche villaggio indiano, si erano avvicinati mentre
    Buck e Spitz stavano per azzannarsi, e quando i due uomini si
    scagliarono in mezzo a loro a colpi di bastone, indietreggiarono
    mostrando i denti. Erano esasperati dall'odore del cibo. Perrault
    ne trovò uno con la testa infilata in una cassa; il suo bastone
    piombò pesantemente sulle costole dell'animale e la cassa si
    rovesciò. Immediatamente il branco di bestie affamate si azzuffò
    contendendosi le gallette e il lardo. Le bastonate caddero su di
    loro senza avere alcun effetto: mugolavano e guaivano sotto la
    grandine dei colpi, ma continuavano a lottare pazzamente fra loro
    finché l'ultima briciola non fu divorata. Frattanto i cani
    dell'attacco, stupiti erano saltati fuori dalle loro buche e
    subito furono aggrediti dai fieri invasori. Buck non aveva mai
    visto cani simili: con le ossa che quasi scappavano fuori dalla
    pelle, veri scheletri avvolti in sudice pellicce, con occhi
    fiammeggianti e la bava alla bocca. Ma la fame li rendeva paurosi
    e irresistibili. Non era possibile opporsi a loro. La muta fu
    respinta contro la rupe al primo assalto. Buck fu incalzato da tre
    eschimesi e in un attimo ebbe il muso e la schiena lacerati. La
    mischia era paurosa. Billee guaiva come al solito. Dave e Sol-leks
    grondanti sangue da molte ferite, combattevano coraggiosamente a
    fianco a fianco; Joe lottava come un demonio. Una volta i suoi
    denti strinsero la zampa davanti di un eschimese e schiacciarono
    l'osso. Pike, balzò accortamente sull'animale azzoppato
    spezzandogli l'osso del collo con un morso furioso. Buck prese
    alla gola un avversario e fu inzuppato di sangue quando gli recise
    coi denti la vena iugulare; il caldo sapore di quel sangue lo
    inferocì ancor più, si gettò su di un altro ma in quel momento si
    sentì addentare alla gola: era Spitz che lo attaccava a tradimento
    di fianco.
    Perrault e François, dopo aver liberato una parte del campo
    corsero in aiuto dei loro cani. L'onda selvaggia degli animali
    affamati indietreggiò davanti a loro, Buck riuscì a liberarsi. Fu
    solo per un momento; due uomini furono costretti a tornare
    indietro per salvare le riserve di viveri su cui gli eschimesi
    tornavano a slanciarsi dopo aver lasciato la muta. Billee, reso
    coraggioso dal terrore, balzò attraverso il cerchio selvaggio e
    fuggì via sul ghiaccio. Pike e Dub gli si misero alle calcagna
    tirandosi dietro il resto della muta. Mentre Buck si raccoglieva
    per balzare dietro di loro, vide con la coda dell'occhio Spitz che
    si avventava su di lui con l'evidente intenzione di rovesciarlo.
    Una volta abbattuto e caduto sotto la massa degli eschimesi, non
    c'era più speranza per lui. Ma egli si preparò a sostenere l'urto
    di Spitz e poi fuggì sul lago con altri.
    Infine i nove cani dell'attacco si riunirono rifugiando nella
    foresta. Sebbene non fossero stati inseguiti, si trovarono a mal
    partito: nessuno di loro era ferito in meno di quattro o cinque
    punti, e alcuni gravemente. Dub era malamente colpito in una gamba
    posteriore; Dolly, l'ultimo eschimese aggiunto al tiro, a Dyea,
    aveva una brutta ferita alla gola; Joe aveva perso un occhio,
    mentre quel bonaccione di Billee, con un orecchio ridotto a
    brandelli, mugolò e uggiolò tutta notte. All'alba, cautamente, si
    trascinarono zoppicando all'accampamento: i predoni se n'erano
    andati e i due uomini erano di pessimo umore: una buona metà dei
    viveri era andata persa. Gli eschimesi avevano roso le tirelle
    della slitta e le coperte; in realtà niente di quello che era
    anche lontanamente commestibile era loro sfuggito. Avevano
    divorato i mocassini di pelle di daino di Perrault, parte dei
    tiranti di cuoio, e perfino il laccio di pelle lungo due piedi
    all'estremità della frusta di François. Egli si riscosse dalla
    malinconica contemplazione di tutto ciò per guardare i suoi cani
    feriti.
    - Ah, ah! Amici miei,- disse dolcemente,- può darsi che tutti
    questi morsi vi facciano diventare idrofobi. Tutti idrofobi,
    forse, Sacredame! Che ne dite, eh, Perrault?
    Il corriere scosse la testa con un gesto dubbioso; con
    quattrocento miglia di pista che rimanevano ancora tra lui e
    Dawson non poteva ammettere che l'idrofobia scoppiasse tra i suoi
    cani. Dopo due ore di maledizioni e di lavoro, le bardature furono
    rimesse a posto, e il tiro, dolente delle ferite, era ancora in
    cammino e si trascinava penosamente lungo la parte più dura che
    avessero incontrato nel loro viaggio, la più dura sulla strada di
    Dawson.
    Il fiume delle Trenta Miglia era completamente libero dai ghiacci.
    Le sue acque impetuose sfidavano il gelo, e solo nelle zone di
    riflusso e in quelle più calme il ghiaccio si era potuto formare.
    Sei giorni di lavoro sfibrante furono necessari per superare
    quelle terribili trenta miglia. Terribili in realtà, perché ad
    ogni passo vi era un pericolo di vita per gli uomini e per i cani.
    Una dozzina di volte Perrault, che faceva da battistrada,
    sprofondò passando i ponti di ghiaccio e fu salvato solo dalla sua
    lunga pertica che portava in modo che ogni volta si mettesse
    attraverso il buco formato nel ghiaccio dal suo corpo. Il freddo
    era divenuto intenso, il termometro segnava ventidue gradi sotto
    zero, e ogni volta che Perrault sprofondava nel fiume attraverso
    il ghiaccio era costretto ad accendere il fuoco e asciugarsi se
    voleva salvare la vita.
    Nulla lo domava; e appunto per questo era stato scelto come
    corriere del governo. Affrontava ogni rischio, esponendo
    risolutamente al gelo il suo volto rugoso e lottando dal grigiore
    dell'alba al buio della notte. Costeggiava le aspre rive del fiume
    sul ghiaccio che si curvava e scricchiolava sotto i piedi, così
    che non osavano fermarsi. Una volta la slitta sprofondò con Dave e
    Buck, ed essi furono cavati fuori semiassiderati e quasi affogati.
    Per salvarli fu necessario il solito fuoco. Si erano coperti di
    una solida crosta di ghiaccio e i due uomini li fecero correre
    intorno al fuoco perché sudassero e si liberassero da freddo, così
    vicino alle fiamme da averne il pelo strinato.
    Un'altra volta toccò a Spitz, che si trascinò dietro tutto il tiro
    fino a Buck, il quale tirava indietro con tutte le sue forze,
    puntando le zampe anteriori sul ciglio scivoloso mentre il
    ghiaccio cedeva e scricchiolava tutto intorno. Dopo di lui c'era
    Dave, che tirava indietro, e al di là della slitta c'era François,
    che tirava fino a farsi scricchiolare i tendini.
    Un'altra volta il ghiaccio si ruppe davanti e dietro di loro, e
    non vi era altro scampo se non su per la ripa scoscesa. Perrault
    la scalò per miracolo, mentre François pregava appunto che il
    miracolo avvenisse; con ogni corda e ogni cinghia della slitta e
    usando anche il più piccolo frammento dei finimenti, intrecciarono
    una lunga fune; i cani furono issati uno per uno sul ciglio della
    scarpata. François arrivò per ultimo, e infine furono tirati sù la
    slitta e il carico. Poi si cercò un punto per scendere nuovamente,
    e la discesa fu compiuta con l'aiuto della fune; la notte li trovò
    nuovamente sul fiume: avevano percorso un quarto di miglio in
    tutta la giornata. Quando giunsero a Hootalinqua, e al ghiaccio
    buono, Buck era esausto. Gli altri cani erano nelle stesse
    condizioni, ma Perrault, per riprendere il tempo perduto, continuò
    a farli correre velocemente. Il primo giorno percorsero
    trentacinque miglia fino al Grande Salmone; il giorno dopo altre
    trentacinque miglia fino al Piccolo Salmone; il terzo giorno
    quaranta miglia, che li portarono molto innanzi verso le Cinque
    Dita.
    Le zampe di Buck non erano solide e dure come quelle degli
    eschimesi. Si erano ammorbidite durante molte generazioni fin dal
    giorno in cui l'ultimo dei suoi antenati selvaggi era stato domato
    da un uomo della caverna o del fiume. Per tutto il giorno
    zoppicava dolorosamente, e quando si piantava il campo, si buttava
    giù come morto. Per quanto affamato, non si sarebbe mosso per
    prendere la sua razione di pesce, e François doveva portargliela.
    Il conducente doveva strofinargli i piedi per una mezz'ora ogni
    sera, dopo la cena; e sacrificò gli alti gambali dei suoi
    mocassini per farne quattro mocassini a Buck. Fu un grande
    sollievo, e un mattino Buck costrinse a contrarsi in una smorfia
    di riso perfino la faccia grinzosa di Perrault, perché François si
    era dimenticato di mettergli i mocassini e lui si sdraiò sulla
    schiena agitando nell'aria le quattro zampe in modo supplichevole
    e rifiutandosi di muoversi senza di essi. Più tardi i suoi piedi
    divennero più solidi per la pista, e quelle calzature ormai logore
    furono gettate via.
    Una mattina, al Pelly, mentre stavano attaccando Dolly, che fino
    allora non s'era fatta notare per nulla d'eccezionale, essa,
    improvvisamente, divenne idrofoba. Avvisò con un lungo ululato da
    lupo che spezzava il cuore e fece rizzare il pelo a tutti cani per
    il terrore; poi si slanciò dritta su Buck. Lui non aveva mai visto
    un cane diventare idrofobo né aveva alcuna ragione per temere
    l'idrofobia; tuttavia comprese che era qualche cosa di orribile e
    fuggì via preso dal panico. Fuggì via deciso, con Dolly che ansava
    e perdeva bava a un salto dietro di lui; ella non poteva
    raggiungerlo, tanto era il suo terrore, né egli poteva fuggire da
    lei, tanta era la sua follia. Si slanciò nel grembo boscoso di un
    isolotto, corse verso l'estremità più bassa, attraversò un canale
    irto di ghiacci, balzò su di un altro isolotto, ne raggiunse un
    terzo, tornò al corso principale del fiume e, nella sua
    disperazione, stava per attraversarlo. Per tutto questo tempo,
    sebbene non guardasse, sentiva l'ansare a un salto dietro di sé.
    François lo chiamò da un quarto di miglio, ed egli si voltò,
    sempre mantenendo la distanza, ansando penosamente e riponendo in
    François tutte le sue speranze. Il conducente afferrò l'ascia, e
    appena Buck gli fu passato davanti, la fece cadere sulla testa
    della folle Dolly.
    Buck si abbatté esausto contro la slitta, senza respiro, incapace
    di muoversi. Era il momento buono per Spitz; egli si slanciò su
    Buck e due volte i suoi denti si affondarono nella carne del suo
    nemico indifeso e la lacerarono fino all'osso. Intervenne la
    frusta di François, e Buck ebbe la soddisfazione di vedere Spitz
    ricevere il più duro castigo che fosse mai stato inflitto a
    qualcuno del tiro.
    - Un diavolo, quello Spitz, - disse Perrault. - Un giorno o
    l'altro ammazzerà Buck.
    - Ma quel Buck vale due diavoli, - rispose François. - Più lo
    osservo e più ne son sicuro. Datemi retta: un qualche maledetto
    giorno diventerà matto peggio di un demonio, si masticherà Spitz
    ben bene e lo risputerà sulla neve. Proprio così, lo so.
    Da quel momento fra i due cani vi fu guerra. Spitz guida e capo
    riconosciuto del tiro, sentiva minacciata la sua supremazia da
    quello strano cane del Sud. E Buck era strano davvero, perché dei
    tanti cani del Sud che Spitz aveva conosciuto, nessuno si era
    mostrato capace di sopportare le fatiche del campo e della pista.
    Erano tutti troppo delicati e morivano di fatica, di freddo e di
    fame. Buck era un'eccezione. Lui solo resisteva e prosperava,
    eguagliando gli eschimesi in forza, violenza e astuzia. Era dunque
    un cane dominatore, e quel che lo rendeva pericoloso era il fatto
    che il bastone dell'uomo in maglia rossa aveva tolto ogni cieco
    impulso, ogni avventatezza, dal suo desiderio di dominio. Era
    scaltro, e poteva aspettare il suo momento con una pazienza che
    era veramente primitiva.
    Era inevitabile che avvenisse l'urto per il predominio. Buck ne
    sentiva l'esigenza perché lo richiedeva la sua natura stessa,
    perché era stato preso dall'orgoglio ineffabile e senza nome della
    pista: quell'orgoglio che tiene i cani legati al loro lavoro fino
    all'ultimo respiro, che li induce a morire felici sotto la
    bardatura, e spezza loro il cuore se ne sono distolti.
    Era questo l'orgoglio di Dave come cane di ruota, l'orgoglio di
    Sol-leks quando tirava con tutte le sue forze; l'orgoglio che li
    afferrava quando si toglieva il campo trasformandoli da bruti
    sordi e ostinati in creature ardenti, franche, ambiziose;
    I'orgoglio che li spronava tutto il giorno, e li lasciava quando,
    a sera, si piantava il campo, facendoli ricadere in uno scontento
    e irrequieto buio. Era l'orgoglio che animava Spitz e lo
    costringeva a punire i cani della slitta che sbagliavano o
    cercavano di non lavorare lungo la pista, o al mattino si
    nascondevano quando dovevano essere attaccati. Ugualmente era
    questo orgoglio che gli faceva temere in Buck un possibile cane
    guida. Ed era appunto questo l'orgoglio di Buck. Egli minacciava
    apertamente il dominio dell'altro. Cominciò ad intromettersi fra
    lui e i cani che doveva punire, e lo fece deliberatamente. Una
    notte vi fu una grande nevicata, e al mattino quel malizioso di
    Pike non si fece vedere. Se ne stava al sicuro, ben nascosto nella
    sua tana sotto un piede di neve. François lo chiamò e lo cercò
    invano. Spitz era furente di rabbia. Andava tutto incollerito per
    il campo fiutando e scavando dappertutto, ringhiando così
    terribilmente, che Pike, udendolo, rabbrividì nel suo
    nascondiglio.
    Quando alla fine fu scovato e Spitz si slanciò su di lui per
    punirlo, Buck saltò fra i due con eguale furore. Giunse così
    inatteso e si comportò così accortamente, che Spitz fu respinto e
    rovesciato. Pike, che tremava come un vigliacco, si rianimò a
    questa aperta ribellione e si gettò sul capo abbattuto. Buck, per
    cui la lealtà cavalleresca era una legge ormai dimenticata, si
    gettò a sua volta su Spitz, ma François, ridacchiando
    dell'incidente e tuttavia inflessibile nell'amministrare la
    giustizia, fece cadere a tutta forza la frusta sulla schiena di
    Buck. Questo non valse ad allontanare Buck dal suo rivale
    prostrato e si dovette ricorrere al manico della frusta; stordito
    dal colpo, Buck indietreggiò e la frusta cadde più volte su di lui
    mentre Spitz puniva rudemente il più volte colpevole Pike.
    Nei giorni che seguirono, mentre Dawson si avvicinava sempre più,
    Buck continuò a intervenire tra Spitz e i colpevoli; ma lo fece
    accortamente, quando François non era nelle vicinanze. Con questa
    chiotta ribellione di Buck, sorse e andò crescendo una
    insubordinazione generale. Solo Dave e Sol-leks ne rimasero
    immuni, ma tutto il resto dell'attacco andò di male in peggio. Le
    cose non procedevano più regolarmente, vi erano continue zuffe,
    continui disordini, e alla base vi era sempre Buck. François
    cominciava a preoccuparsi, perché il bravo conducente temeva da un
    momento all'altro la lotta mortale tra i due cani, sapendo che
    prima o poi sarebbe avvenuta; e più di una notte i rumori delle
    zuffe fra gli altri cani lo costrinsero a uscire nel suo
    abbigliamento notturno temendo che Buck e Spitz si stessero
    azzuffando.
    Ma non se ne presentò l'occasione, e giunsero a Dawson in un buio
    pomeriggio senza che la grande lotta fosse ancora avvenuta. Vi
    erano là molti uomini e innumerevoli cani; Buck li trovò tutti al
    lavoro. Sembrava che nelI'ordine stabilito delle cose i cani
    dovessero lavorare. Per tutto il giorno andavano in sù e in giù
    lungo la via principale in lunghi tiri, e di notte si sentivano
    ancora tintinnare i loro campanelli. Trasportavano travi da
    costruzione e legna da ardere fino alle miniere, e facevano tutti
    quei lavori che nella vallata di Santa Clara erano compiuti dai
    cavalli. Qua e là Buck incontrò dei cani del Sud ma per la maggior
    parte erano eschimesi della razza dei lupi selvaggi. Ogni notte,
    regolarmente, alle nove, alle dodici ed alle tre, essi alzavano il
    loro canto notturno, un canto misterioso e strano a cui Buck si
    univa con gioia. Quando l'aurora boreale s'illuminava fredda
    nell'alto, o le stelle saltavano nella danza del gelo, e la terra
    era intorbidita e assiderata sotto il suo manto di neve, il canto
    degli eschimesi avrebbe potuto essere la sfida della vita, solo
    che era modulato in tono minore con lunghi lamenti e singhiozzi, e
    sembrava quasi la supplica della vita, la voce della fatica di
    esistere. Era un antico canto, antico quanto la stessa razza, uno
    dei primi canti del giovane mondo, in un periodo in cui le canzoni
    erano tristi. Avvolto nel dolore di generazioni senza numero, era
    un lamento che commuoveva Buck nel profondo. Quando egli si
    lamentava e singhiozzava, vi era in lui la pena del vivere che era
    stata l'antica pena dei suoi padri selvaggi, e insieme la paura e
    il mistero del freddo e del buio che erano stati la loro paura e
    il loro mistero. E il fatto che egli ne fosse così commosso
    indicava l'intensità con cui ascoltava, attraverso la lontananza
    dei secoli dei primi fuochi e dei primi tetti, i rudi inizi della
    vita nell'età dei ruggiti.
    Sette giorni dopo il loro ingresso in Dawson, essi discendevano la
    costa scoscesa che, passando vicino alle Baracche volge alla Pista
    dell'Yukon, e si dirigevano verso Dyea e Acqua Salata.
    Perrault portava dispacci ancora più urgenti di quelli con cui era
    venuto; inoltre si era impadronito di lui l'orgoglio del viaggio,
    ed egli si proponeva di battere il record dell'anno. Varie
    circostanze lo favorivano. La settimana di riposo aveva
    ristabilito i cani restituendogli tutte le energie. La pista che
    avevano tracciato durante l'andata era stata battuta e indurita da
    altri viaggiatori. Inoltre il governo aveva disposto in due o tre
    punti depositi di viveri per i cani e per gli uomini, e si poteva
    dunque viaggiare più leggeri.
    Il primo giorno raggiunsero Sessanta Miglia percorrendo
    cinquantacinque miglia; il secondo giorno li vide andare a tutta
    velocità verso lo Yukon, un bel pezzo avanti sulla strada di
    Pelly. Una corsa così bella non fu condotta a termine senza grandi
    crucci e arrabbiature da parte di François, perché l'insidiosa
    rivolta di Buck aveva distrutto la solidarietà del tiro. Non
    sembrava più che un unico cane corresse lungo la pista: l'appoggio
    di Buck induceva i ribelli a piccole trasgressioni di ogni genere.
    E Spitz non era più un capo molto temuto: scomparve l'antico
    timore, e tutti sfidarono la sua autorità. Pike una notte gli rubò
    mezzo pesce e se lo divorò sotto la protezione di Buck. Un'altra
    notte Dub e Joe si avventarono contro Spitz costringendolo a
    rinunziare a castigarli come si erano meritati. E anche quel
    bonaccione di Billee era diventato meno bonaccione e non mugolava
    più pacatamente come nei primi tempi. Buck non si avvicinava mai a
    Spitz senza ringhiare e arruffare il pelo minacciosamente. In
    realtà si comportava come un vero provocatore e si diede a far lo
    spavaldo camminando in su e in giù sotto il naso di Spitz.
    Quel rilassamento della disciplina influiva egualmente sui
    reciproci rapporti dei cani fra di loro. Essi si azzuffavano assai
    più di prima, finché a volte il campo si trasformava in un
    manicomio urlante. Dave e Sol-leks erano gli unici che non fossero
    cambiati, ma erano divenuti più irritabili per quelle continue
    liti. François lanciava strane bestemmie nel suo barbaro
    linguaggio, e pestava i piedi sulla neve per sfogare la sua
    inutile rabbia, e si strappava i capelli. La sua frusta fischiava
    continuamente sui cani, ma serviva a poco. Appena voltava le
    spalle, essi ricominciavano. Cercava di aiutare Spitz con la
    frusta, ma Buck capeggiava il resto della muta. François sapeva
    che dietro tutto quel disordine c'era Buck; e Buck sapeva che lui
    lo sapeva; ma era troppo intelligente per farsi cogliere
    nuovamente sul fatto. Quando era attaccato alla slitta lavorava
    fedelmente perché il lavoro era divenuto per lui una gioia; ma
    molto maggior diletto era il fare insorgere una zuffa tra i
    compagni e imbrogliare le tirelle.
    Alla foce del Tahkeena, una notte, dopo il pasto, Dub scoprì un
    coniglio da neve, gli saltò addosso e se lo fece sfuggire. In un
    attimo tutta la muta balzò sù urlando. Ad un centinaio di passi vi
    era un accampamento della polizia del Nord-Ovest con una
    cinquantina di cani, tutti eschimesi, che si unirono alla caccia.
    Il coniglio correva lungo il fiume e voltò in un piccolo affluente
    correndo sulla sua superficie gelata. Filava leggermente sulla
    neve mentre i cani vi passavano attraverso con violenza. Buck
    guidava il branco, composto di una sessantina di animali, per
    tutte le anse del fiumiciattolo, ma non riusciva a raggiungere la
    preda. Correva ventre terra, uggiolando di eccitazione, gettando
    avanti a balzi il suo splendido corpo nella fioca e bianca luce
    lunare. E il coniglio da neve, come un pallido spettro di
    ghiaccio, fuggiva via a balzi.
    Tutto quel sommuoversi di antichi istinti che in certi periodi
    trae gli uomini fuori delle città sonanti per spingerli nella
    foresta o nella pianura a uccidere esseri animati con pallottole
    di piombo lanciate da mezzi chimici, l'avidità di sangue, la gioia
    di uccidere, tutto ciò era in Buck, ma infinitamente più profondo.
    Correva alla testa del branco dietro quell'essere selvaggio, quel
    cibo vivente, per uccidere coi suoi denti e immergere fino agli
    occhi il muso nel sangue caldo.
    Vi è un'estasi che segna la sommità della vita e oltre la quale la
    vita non può levarsi. E il paradosso dell'esistenza è tale, che
    quest'estasi viene quando più si è vivi, e si presenta come un
    completo oblio di vivere. Questa estasi, questa felice
    dimenticanza, aggredisce l'artista, lo trae fuori di sé avvolto di
    fiamma; aggredisce il soldato spingendolo folle nella lotta senza
    quartiere. Ed ecco che aggredì Buck mentre guidava il branco e
    lanciava l'antico grido del lupo correndo dietro al cibo ancor
    vivo che fuggiva dinanzi a lui nel plenilunio. Sprofondava negli
    abissi della sua natura, di quella parte della sua natura che più
    era profonda, tornando indietro nel grembo del tempo. Era dominato
    dal violento insorgere della vita, dalla marea dell'essere, dalla
    completa gioia di ogni singolo muscolo, di ogni giuntura, di ogni
    nervo in quanto essi erano tutto ciò che non è morte, tutto ciò
    che arde e che aggredisce esprimendosi nel movimento, volando
    esultante sotto le stelle e sulla superficie della materia morta e
    immobile.
    Spitz, freddo e calcolatore anche nei suoi supremi slanci, lasciò
    il branco e tagliò attraverso un angusto lembo di terra intorno a
    cui il fiumiciattolo faceva una vasta ansa. Buck non se ne
    accorse, e mentre girava la curva avendo sempre dinanzi a sé il
    gelido spettro del coniglio, vide un altro più grande spettro di
    ghiaccio balzare dalla ripa sovrastante sulla strada stessa del
    coniglio. Era Spitz. Il coniglio non poté voltarsi, e mentre i
    denti bianchi del cane gli spezzavano la schiena afferrandolo a
    mezz'aria, diede uno strido alto come può gridare un uomo
    abbattuto. A questo suono, il grido della vita che precipita dalla
    propria altezza nella stretta della morte, tutto il branco che
    seguiva Buck levò un coro di gioia infernale.
    Buck non gridò. Non frenò la sua corsa, ma si avventò contro
    Spitz, spalla contro spalla, con tanta violenza che non riuscì ad
    afferrarlo alla gola. Rotolarono più volte sulla neve che si
    alzava in polvere. Spitz si rimise in piedi così in fretta che
    sembrava non fosse stato nemmeno rovesciato, azzannò la spalla di
    Buck e fece subito un salto da parte. Due volte i suoi denti
    urtarono insieme come le mascelle d'acciaio di una tagliola mentre
    indietreggiava per prendere una migliore posizione ringhiando e
    contraendo le labbra sottili.
    In un lampo Buck comprese: era venuto il momento, era la lotta
    mortale. Mentre si giravano attorno ringhiando, le orecchie tese
    all'indietro, attenti a cogliere l'occasione propizia, la scena
    apparve a Buck in un aspetto familiare. Gli sembrò di ricordare
    tutto, i boschi bianchi di neve, la terra, la luce lunare e il
    fremito della battaglia. Una calma spettrale gravava su quel
    silenzioso candore. Non vi era il minimo alito di vento, non
    tremava una foglia, e il respiro dei cani si alzava lentamente
    visibile, e indugiava nell'aria gelata. Quei cani che rimanevano
    pur sempre lupi mal domati, avevano spacciato in fretta il
    coniglio da neve, e adesso si erano raccolti in cerchio,
    aspettando. Erano silenziosi, solo i loro occhi brillavano e i
    loro fiati si alzavano lentamente nell'aria. Per Buck questa scena
    di antichi tempi non aveva nulla di nuovo né di strano. Sembrava
    che fosse stato sempre così, nella consueta vicenda delle cose.
    Spitz era un combattente esperto. Dallo Spitzberg all'Artico,
    attraverso il Canadà e le Barrens, si era battuto con cani di ogni
    genere e li aveva dominati. La sua rabbia era intensa, ma non
    cieca. Nella sua ansia di lacerare e distruggere non dimenticava
    mai che il suo nemico era animato dalla stessa ansia di lacerare e
    distruggere. Non si slanciava se non era pronto a resistere allo
    slancio dell'avversario; non attaccava prima di essersi preparato
    a respingere un attacco.
    Invano Buck tentava di affondare i denti nel collo del grande cane
    bianco; dovunque le sue zanne cercavano la morbida carne,
    incontravano le zanne di Spitz. I denti urtavano contro i denti,
    le labbra erano lacerate e sanguinanti, ma Buck non riusciva a
    forzare la guardia del suo avversario. Allora si riscaldò e
    avvolse Spitz in un turbine di attacchi. Più e più volte tentò di
    raggiungere la bianca gola dove la vita pulsava alla superficie, e
    ogni volta Spitz lo colpì balzando poi da parte. Allora Buck
    cominciò a slanciarsi come se mirasse alla gola, e volgendo
    improvvisamente la testa e curvandola da parte, cercava di colpire
    con la spalla la spalla di Spitz come un ariete per rovesciarlo.
    Ogni volta la spalla di Buck veniva azzannata e Spitz balzava via
    leggermente.
    Spitz era ancora illeso mentre Buck grondava sangue e ansava. La
    lotta era ormai disperata e il cerchio silenzioso degli antichi
    lupi attendeva per finire il vinto. Adesso che Buck sentiva che il
    fiato gli mancava, Spitz cominciò ad aggredirlo facendolo
    barcollare. Una volta Buck fu quasi rovesciato e l'intero cerchio
    dei sessanta cani balzò in piedi; ma egli si riprese quasi a
    mezz'aria e il cerchio tornò ad accovacciarsi aspettando.
    Buck possedeva una qualità propria della grandezza:
    l'immaginazione. Lottava per istinto, ma poteva anche combattere
    col cervello. Si slanciò come se volesse dare il solito colpo di
    spalla, ma all'ultimo momento si appiattì contro la neve, e i suoi
    denti afferrarono la zampa sinistra anteriore di Spitz. Si udì uno
    scricchiolio di ossa spezzate, e adesso il cane bianco lo
    affrontava su tre sole zampe. Per tre volte egli tentò di
    rovesciarlo. Poi ripeté il colpo e gli spezzò la zampa destra.
    Nonostante il dolore e l'impotenza, Spitz lottava follemente per
    tenersi in piedi. Vedeva il cerchio silenzioso con gli occhi
    fiammeggianti e le lingue penzoloni e i fiati argentei che
    salivano nell'aria, chiudersi intorno a lui, come aveva visto
    altre volte quei circoli chiudersi intorno ai suoi avversari
    sconfitti. Questa volta il vinto era lui. Non vi era più speranza.
    Buck era inesorabile. La pietà è propria di climi più miti. Si
    preparò all'ultimo assalto. Il cerchio si era così ristretto che
    egli poteva sentire il respiro degli eschimesi sui fianchi. Li
    poteva vedere dietro Spitz e ai due lati, già raccolti per lo
    slancio con gli occhi fissi su di lui.
    Vi fu una pausa; gli animali erano immobili, come impietriti. Solo
    Spitz fremeva ed ergeva il pelo brancolando avanti e indietro,
    ringhiando minacciosamente come per atterrire la morte vicina.
    Allora Buck balzò di fianco e finalmente la sua spalla colpì bene
    l'altra spalla. Il cerchio buio divenne un'unica macchia sulla
    neve illuminata dalla luna e Spitz scomparve. Buck stette a
    guardare, campione vittorioso, belva dominatrice dei primordi,
    che aveva ucciso e aveva trovato che era buona cosa.









    _________Aurora Ageno___________
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    4. COLUI CHE HA RAGGIUNTO IL DOMINIO



    - Eh! Che vi dicevo? L'avevo indovinata quando dicevo che Buck
    vale due diavoli.
    Così parlò François la mattina dopo quando si accorse che Spitz
    mancava e Buck era coperto di ferite. Lo portò vicino al fuoco e a
    quella luce mostrò le sue piaghe.
    - Quello Spitz combatte come un demonio, - disse Perrault
    osservando le ferite aperte.
    - E Buck come due demoni, - rispose François. - Ed ora andremo
    tranquilli. Non più Spitz non più confusioni, questo è certo.
    Mentre Perrault levava il campo e caricava la slitta, il
    conducente attaccava i cani. Buck trotterellò al posto che Spitz
    avrebbe occupato come guida; ma François senza badare a lui, portò
    Sol-leks in quell'ambita posizione. A suo parere Sol-leks era la
    miglior guida che gli restava. Buck si scagliò furioso contro Sol-
    leks respingendolo e prendendo il suo posto.
    - Eh, eh? - gridò François battendosi allegramente la coscia.
    Guardate Buck! Ha ammazzato Spitz e adesso vorrebbe mettersi al
    suo posto.
    - Via di qua, piccioncino, - gridò. Ma Buck non si mosse.
    Allora afferrò Buck per la pelle del collo, e sebbene il cane
    mugolasse minacciosamente, lo mise da parte per far posto a Sol-
    leks. Il vecchio cane non ne era affatto contento e mostrò
    chiaramente di aver paura di Buck; François era ostinato, ma
    appena ebbe voltato le spalle, Buck scacciò nuovamente Sol-lecks,
    che se ne andò molto volentieri.
    Questo fece infuriare François. - Adesso ci penso io, perbacco!-
    gridò avvicinandosi a lui con un randello in mano.
    Buck si ricordò dell'uomo dalla maglia rossa e indietreggiò
    lentamente; non tentò più di aggredire Sol-leks quando questi fu
    riportato ancora una volta al posto di guida, ma si mise a girare
    ringhiando di rabbia e di dolore fuori del raggio di azione del
    randello. Frattanto teneva d'occhio il bastone per scansarlo se
    mai François glielo avesse scagliato; perché in fatto di bastoni
    era diventato prudente.
    Il conducente terminò il suo lavoro e quando fu pronto chiamò Buck
    per metterlo al suo antico posto davanti a Dave. Buck indietreggiò
    di due o tre passi. François si fece avanti verso di lui, ed egli
    indietreggiò ancora. Dopo che la cosa si fu ripetuta qualche
    volta, François gettò a terra il bastone pensando che Buck ne
    avesse paura ma Buck era in aperta rivolta. Voleva non già evitare
    il bastone, ma avere il posto di comando. Gli apparteneva per
    diritto; se l'era guadagnato e non si sarebbe accontentato di
    qualche cosa di meno.
    Perrault venne a dare una mano. Insieme lo rincorsero per quasi
    un'ora. Gli lanciarono dei bastoni, ma lui li schivò. Maledissero
    lui, i suoi padri, le sue madri e tutta la sua razza a venire fino
    alla più remota generazione, nonché ogni pelo del suo corpo e ogni
    goccia di sangue delle sue vene; ed egli rispose a quelle
    maledizioni con ringhiate, sempre tenendosi fuori della loro
    portata. Non cercò di scappare ma indietreggiava sempre più
    intorno all'accampamento, facendo capire chiaramente che se fosse
    stato esaudito il suo desiderio sarebbe tornato al lavoro e
    sarebbe stato buono.
    François si mise a sedere grattandosi la testa. Perrault guardava
    l'orologio e bestemmiava. Il tempo passava e loro dovevano essere
    in cammino da un'ora. François si grattò ancora la testa. Poi si
    scosse e sorrise stupidamente al corriere, che scrollò le spalle
    come per dire che dovevano considerarsi vinti. Allora François si
    avvicinò a Sol-leks e chiamò Buck. Buck rise al modo dei cani, ma
    si tenne lontano. François sciolse Sol-leks e lo rimise al suo
    antico posto. La muta era già attaccata alla slitta in una fila
    continua pronta a partire; per Buck non vi era altro posto libero
    che quello di guida. François lo chiamò ancora una volta e ancora
    una volta Buck rise e restò ancora lontano. - Getta giù il
    bastone, - disse Perrault.
    François obbedì e allora Buck arrivò trotterellando con un riso di
    trionfo, e si mise al suo posto di guida. Le sue cinghie furono
    allacciate, la slitta si mosse, e si spinsero lungo la pista del
    fiume mentre i due uomini correvano dietro di loro.
    Per quanto il conducente avesse valutato molto Buck con i suoi due
    diavoli, dovette accorgersi, prima che il giorno finisse, che
    valeva di più. Di colpo Buck prese su di sé tutti i doveri del suo
    dominio, e dove si richiedeva giudizio, rapida concezione e rapida
    azione, si mostrò superiore perfino a Spitz, di cui François non
    aveva mai visto l'eguale.
    Soprattutto eccelleva nello stabilire la legge e nel costringere i
    suoi compagni a rispettarla. Dave e Sol-leks non fecero caso al
    cambiamento di guida. Non era affar loro. Il loro lavoro
    consisteva nel tirare, e nel tirare validamente lungo la pista.
    Finché non erano colpiti direttamente, non badavano a quello che
    avveniva. Per quel che li riguardava anche quel bonaccione di
    Billee poteva fare da guida, purché sapesse mantenere l'ordine. Il
    resto della muta, però, durante gli ultimi giorni di Spitz era
    divenuto molto indisciplinato, e grande fu la sua sorpresa ora che
    Buck si diede a riportarlo nell'ordine.
    Pike, che tirava dietro Buck e che non metteva mai contro il
    pettorale un'oncia più del proprio peso, fu subito e ripetutamente
    punito per la sua pigrizia; e prima che quel primo giorno
    terminasse egli tirava più che non avesse mai fatto in tutta la
    sua vita. La prima notte nell'accampamento, l'immusonito Joe fu
    punito severamente, cosa che Spitz non era mai riuscito a fare.
    Buck lo abbatté in grazia del proprio maggior peso e lo morsicò
    finché smise di ringhiare e cominciò a mugolare chiedendo pietà.
    Il tono generale del tiro si rialzò immediatamente. Ritornò la
    solidarietà di un tempo, e di nuovo i cani corsero come un sol
    cane lungo la pista. Alle Rapide della Pista furono aggiunti al
    tiro altri due eschimesi, Teek e Koona; e la celerità con cui Buck
    li addestrò tolse il fiato a François.
    - Non è mai esistito un cane come Buck! - esclamò.- Proprio mai!
    Vale un migliaio di dollari, perbacco, eh? che ne dite Perrault?
    Perrault accennò di sì. Era già avanti col suo record e si
    avvantaggiava ogni giorno. La pista era in ottime condizioni, dura
    e ben battuta, e non vi era neve fresca con cui lottare. Non
    faceva troppo freddo. La temperatura scese a trentotto sotto zero
    e rimase stazionaria per tutto il viaggio. Gli uomini correvano o
    si facevano trascinare a turno e i cani erano tenuti al galoppo
    con rare fermate.
    Il Fiume delle Trenta Miglia era abbastanza coperto di ghiaccio, e
    in un sol giorno percorsero il cammino compiuto in dieci giorni
    nel viaggio di andata. In una sola tappa percorsero le sessanta
    miglia dallo sbocco del lago Le Barge alle rapide del Cavallo
    Bianco. Attraverso Marsh, Tagish e Bennet (settanta miglia di
    laghi) volarono così in fretta che l'uomo a cui toccava correre a
    turno si faceva trascinare dietro la slitta aggrappandosi
    all'estremità di una fune.
    Nell'ultima notte della seconda settimana raggiunsero il Passo
    Bianco e scesero lungo la ripida costa marina avendo ai loro piedi
    le luci di Skaguay e delle navi.
    Fu una corsa da record. Per due settimane avevano percorso in
    media quaranta miglia al giorno. Perrault e François si
    pavoneggiarono per tre giorni in sù e in giù per la via principale
    di Skaguay, tempestati da un diluvio di inviti a bere, mentre la
    muta era continuamente al centro di una folla rispettosa di
    conducenti e di mediatori. Poi tre o quattro furfanti dell'Ovest
    tentarono di mettere a sacco la città e furono sforacchiati come
    peparole per la pena che si erano data, e l'interesse del pubblico
    si volse ai nuovi idoli. Infine vennero ordini governativi.
    François chiamò a sé Buck, gli gettò le braccia al collo e pianse
    su di lui. E questo fu l'ultimo contatto con François e Perrault:
    al pari di altri uomini, essi scomparvero per sempre dalla sua
    vita.
    Uno scozzese di mezzo sangue prese in consegna Buck e i suoi
    compagni, e insieme con una dozzina di altri tiri si rimise sulla
    dura pista per Dawson. Adesso non era più la leggera corsa da
    record, ma la pesante fatica di ogni giorno, con un greve carico
    da trascinare, perché questa era la slitta postale che portava le
    notizie del mondo agli uomini che cercavano oro sotto l'ombra del
    polo.
    Buck non amava quel lavoro, ma lo eseguiva coscienziosamente,
    riponendo in esso il proprio orgoglio come facevano Dave e Sol-
    leks, e badando che i suoi compagni, animati o no da quello stesso
    orgoglio, facessero bene la loro parte. Era una vita monotona che
    si svolgeva con regolarità meccanica. Ogni giorno era eguale al
    precedente. Ogni mattina, a una certa ora, arrivavano i cucinieri,
    si accendevano i fuochi e si faceva colazione. Poi, mentre alcuni
    levavano il campo, altri attaccavano i cani; ed erano già in
    viaggio circa un'ora prima che si diradassero le tenebre dinanzi
    alle primi luci del giorno. Al calare della notte si piantava il
    campo. Alcuni rizzavano le tende, altri tagliavano legna da ardere
    e rami di pino per farne giacigli, altri ancora portavano acqua o
    ghiaccio per i cucinieri. Anche i cani erano nutriti, ed era
    questo, per loro, l'unico avvenimento della giornata, sebbene
    fosse piacevole, dopo aver mangiato il pesce, andare attorno
    bighellonando per un'oretta insieme agli altri cani, un centinaio
    o più. Fra di loro vi erano dei forti lottatori, ma tre battaglie
    con i più fieri diedero a Buck il primato, cosicché quando
    arruffava il pelo e mostrava i denti, gli altri si facevano da
    parte.
    Più di tutto, forse, gli piaceva stare accanto al fuoco
    accovacciato sulle zampe posteriori e con quelle anteriori stese
    avanti, la testa alta e lo sguardo assorto sulle fiamme. A volte
    pensava alla grande casa del giudice Miller nella vallata di Santa
    Chiara baciata dal sole, e alla grande vasca di cemento, e a
    Ysabel, la messicana senza pelo, e a Toots, il cagnolino
    giapponese; ma più spesso ricordava l'uomo dalla maglia rossa, la
    morte di Curly, la gran lotta con Spitz e le buone cose che aveva
    mangiato o desiderava mangiare.
    Non soffriva di nostalgia. La Terra del Sole svaniva nella
    lontananza, e quei ricordi non avevano più potere su di lui. Molto
    più potenti erano i ricordi ereditari che gli facevano apparire
    familiari cose che non aveva mai viste. Gli istinti (che erano
    solo reminiscenze dei suoi antenati, divenute abitudini)
    indeboliti negli ultimi tempi, si risvegliavano in lui e
    divenivano nuovamente vivi.
    A volte, quando se ne stava così accovacciato con lo sguardo
    assorto nelle fiamme, gli sembrava che esse appartenessero a un
    altro fuoco, e accanto a questo fuoco vedeva un uomo assai diverso
    dal cuciniere mezzo-sangue che gli stava davanti. Era uomo corto
    di gambe e dalle braccia lunghe, con muscoli fibrosi e nocchiuti
    piuttosto che tondeggianti. I suoi capelli erano lunghi e
    arruffati, e la fronte sfuggiva sotto di essi. Pronunciava strani
    suoni e sembrava temere le tenebre entro le quali stava
    continuamente spiando, mentre la sua mano che pendeva fino a metà
    gamba tra il ginocchio e il piede, stringeva un bastone alla cui
    estremità era legata una pesante pietra. Era quasi completamente
    nudo; una pelle lacera e bruciacchiata gli scendeva giù dalle
    reni, e il suo corpo era villoso: in alcuni punti, anzi, sul petto
    e sulle spalle e sulla parte esteriore delle braccia e delle
    cosce, coperto da una vera pelliccia. Non si teneva eretto, ma con
    il tronco inclinato in avanti dai fianchi in sù; e le ginocchia
    erano un po' piegate. Vi era nel suo corpo una particolare
    agilità, una elasticità quasi felina e la vigile attenzione di un
    essere abituato a vivere nel continuo timore di cose visibili e
    invisibili. Altre volte quell'uomo villoso si rannicchiava accanto
    al fuoco con la testa fra le gambe e dormiva. Allora i suoi gomiti
    poggiavano sulle ginocchia, e le mani si univano sul capo come per
    proteggerlo dalla pioggia con le braccia pelose. E al di là di
    quel fuoco, nell'oscurità tutt'attorno, Buck vedeva tanti carboni
    ardenti, riuniti a due a due, sempre a due a due, e sapeva che
    erano gli occhi di grandi bestie da preda. E poteva udire il
    rumore dei loro corpi fra i cespugli e le loro grida nella notte.
    Sognando così sulle rive dell'Yukon, con i pigri occhi assorti sul
    fuoco, quei suoni e quei sospiri di un altro mondo gli facevano
    ergere il pelo sulla schiena, sulle spalle e sul collo, finché
    dava un gemito basso e soffocato o un fioco mugolio, e il cuoco
    mezzo-sangue gli gridava: - Ehi, Buck, svegliati! - Ed ecco che
    l'altro mondo svaniva, e gli tornava negli occhi il mondo reale;
    allora si alzava, sbadigliava e si stirava come se avesse dormito.
    Era un viaggio duro, con la slitta postale dietro di sé; e il rude
    lavoro logorava i cani. Quando arrivarono a Dawson erano in
    cattive condizioni di salute e avrebbero avuto bisogno di almeno
    dieci giorni di riposo. Ma dopo due giorni scescero ancora lungo
    le rive del Yukon giù dalle Baracche, carichi di lettere per il
    mondo lontano. I cani erano stanchi, i conducenti di cattivo
    umore, e per colmo di misura ogni giorno nevicava. Questo
    significava strada molle, maggiore attrito dei pattini e maggiore
    fatica per i cani; i conducenti tuttavia furono molto umani
    durante il viaggio e fecero per gli animali il meglio che
    poterono.
    Ogni notte per prima cosa si occupavano dei cani, che mangiavano
    prima dei conducenti. Nessun uomo avrebbe mai pensato a ficcarsi
    nel suo sacco di pelo prima di avere esaminato attentamente le
    zampe dei suoi cani. Ma le loro forze venivano meno. Dall'inizio
    dell'inverno avevano percorso milleottocento miglia trascinando
    slitte per tutta questa distanza; e milleottocento miglia pesano
    anche sul cane più resistente. Buck resisteva, incitando i
    compagni al lavoro e mantenendo la disciplina sebbene fosse anche
    lui molto stanco. Billee piangeva e mugolava regolarmente ogni
    notte, dormendo. Joe era più immusonito che mai e Sol-leks era
    inavvicinabile sia dalla parte dell'occhio cieco sia dall'altra.
    Ma più di tutti soffriva Dave. Qualcosa in lui andava male.
    Divenne cupo e irritabile. Si scavava subito la sua buca non
    appena veniva piantato il campo, e il conducente andava là a
    portargli il cibo. Appena liberato dal finimento e buttatosi giù,
    non si alzava fino al mattino. A volte, lungo la pista, se era
    scosso da una fermata improvvisa o dallo strappo di una partenza,
    guaiva di dolore. Il conducente lo esaminò, ma non trovò nulla.
    Tutti i conducenti s'interessarono di lui: ne parlavano durante i
    pasti e fino alla loro ultima pipata prima di andare a letto; e
    una notte tennero consulto. Fu tirato fuori dalla sua tana,
    portato vicino al fuoco e premuto e palpato tanto che gridò più
    volte. C'era dentro qualche cosa che non andava. Ma non trovarono
    nessun osso rotto né altro male.
    Prima che giungessero a Cassiar Bar, era diventato così debole che
    più volte cadde sotto le tirelle. Lo scozzese mezzo-sangue fece
    fermare e lo staccò dalla muta mettendo al suo posto Sol-leks, che
    veniva dopo di lui. Voleva far riposare Dave lasciandolo correre
    liberamente dietro la slitta. Ammalato com'era, Dave si addolorò
    di essere messo fuori e mugolò di scontento mentre gli toglievano
    i finimenti, piagnucolando poi disperato quando vide Sol-leks al
    posto che aveva occupato per tanto tempo. Perché era in lui
    l'orgoglio del tiro e della pista e, malato a morte, non poteva
    sopportare che un altro cane facesse il suo lavoro.
    Quando la slitta si mosse, egli corse sulla neve soffice a fianco
    del tiro, attaccando Sol-leks a morsi, gettandoglisi addosso e
    cercando di rovesciarlo nella neve dall'altra parte e di mettersi
    egli stesso nei tiranti tra lui e la slitta. Nel frattempo
    mugliava e guaiva di dolore e di angoscia. Il mezzo-sangue cercò
    di allontanarlo a frustate; ma egli non badava ai colpi di frusta
    e l'uomo non si sentiva il cuore di colpire più forte. Dave si
    rifiutò di correre tranquillamente sulla pista dietro la slitta
    dove la strada era più agevole, ma continuò a trascinarsi di
    fianco ad essa sulla neve soffice, dove era più difficile correre,
    finché fu esausto. Allora cadde e giacque là dov'era caduto,
    ululando lugubremente mentre la lunga fila delle slitte gli
    passava accanto.
    Con l'ultimo residuo delle sue forze poté trascinarsi dietro di
    esse fino alla prima fermata, e allora superò tutte le file delle
    slitte fino a raggiungere la propria, fermandosi vicino a Sol-
    leks. Il conducente si fermò un momento per farsi accendere la
    pipa dall'uomo che veniva dietro. Poi si volse e mise in moto i
    cani. Essi si spinsero avanti senza dover esercitare alcuna
    fatica, poi volsero la testa perplessi e si fermarono pieni di
    meraviglia. Anche il conducente era sorpreso: la slitta non si era
    mossa. Chiamò i compagni a vedere quello che era successo. Dave
    aveva tagliato coi denti tutti e due i tiranti di Solleks e stava
    proprio davanti alla slitta al suo posto.
    Supplicava con gli occhi che lo lasciassero lì. Il conducente era
    perplesso. I suoi compagni raccontavano come un cane possa morire
    di crepacuore se tolto da un lavoro che tuttavia lo uccide, e
    ricordavano casi a loro noti, in cui i cani, troppo vecchi per
    lavorare o feriti, erano morti per essere stati tolti dalle
    tirelle. Consideravano dunque un atto di pietà, poiché Dave doveva
    morire ad ogni modo, lasciarlo morire tra le tirelle, a cuor
    leggero e contento. Così fu nuovamente attaccato ed egli tirò
    baldamente come un tempo, sebbene più di una volta urlasse
    involontariamente per il dolore della sua ferita interna.
    Parecchie volte cadde e fu trascinato dalle tirelle e una volta la
    slitta gli andò addosso, cosi che in seguito zoppicò da una delle
    gambe posteriori.
    Tuttavia tenne duro finché si giunse al campo; e il conducente gli
    fece una cuccia accanto al fuoco. Al mattino era troppo debole per
    viaggiare. Al momento di attaccare cercò di trascinarsi dietro il
    conducente. Con sforzi convulsi, riuscì a mettersi in piedi,
    barcollò e cadde. Allora si trascinò lentamente, come un verme,
    verso il luogo dove si stavano bardando i suoi compagni. Metteva
    avanti le zampe anteriori e trascinava il corpo procedendo a
    balzi, poi spingeva ancora avanti le zampe e faceva un nuovo balzo
    di pochi pollici. Infine le forze lo abbandonarono, e i compagni
    lo videro anelante nella neve, sforzandosi tuttavia di
    raggiungerli. Lo poterono sentire ululare di angoscia finché
    scomparvero dietro una fila d'alberi sulla riva del fiume.
    Qui il traino si fermò. Lo scozzese mezzo sangue rifece lentamente
    i propri passi fino al campo che avevano lasciato. Gli uomini
    cessarono di parlare. Risuonò un colpo di rivoltella. L'uomo tornò
    indietro in fretta. Le fruste schioccarono lungo la pista; ma Buck
    sapeva e tutti i cani sapevano ciò che era avvenuto dietro gli
    alberi del fiume.








    _________Aurora Ageno___________
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    00 12/01/2008 13:37
    5. LA FATICA DEL TIRO E DELLA PISTA



    Trenta giorni dopo aver lasciato Dawson, la posta di Acqua Salata,
    con Buck e i suoi compagni in testa, arrivò a Skaguay. Erano in
    condizioni pietose, esausti e abbattuti. Le centoquaranta libbre
    di Buck erano ridotte a centoquindici. I suoi compagni, sebbene
    meno pesanti, avevano perso relativamente di più. Pike, sempre
    pronto a simulare malattie e che nella sua vita di imbrogli aveva
    spesso, e con successo, fatto finta di aver una zampa malata,
    adesso zoppicava sul serio. Anche Sol-leks zoppicava, e Dub
    soffriva per uno strappo a una spalla.
    Tutti avevano acuti dolori ai piedi. Erano incapaci di saltare e
    di correre, le loro zampe battevano pesantemente sulla pista
    facendo traballare il corpo e raddoppiando la fatica del viaggio
    giornaliero. Non si trattava altro che di stanchezza, ma di una
    stanchezza mortale. Non quella che segue ad uno sforzo breve ed
    eccessivo dalla quale ci si rimette in poche ore; ma la
    prostrazione che si accumula lentamente durante uno sforzo
    prolungato per mesi. Non vi erano più possibilità di ricupero,
    riserve di forze a cui fare appello. Tutto era stato consumato,
    fino all'ultima briciola. Ogni muscolo, ogni fibra, ogni cellula
    erano stanchi, mortalmente stanchi. E a ragione. In meno di cinque
    mesi avevano percorso duemilacinquecento miglia, e durante le
    ultime milleottocento avevano avuto solo cinque giorni di riposo.
    Quando arrivarono a Skaguay apparivano ridotti agli estremi.
    Potevano appena tenere tese le tirelle, e nelle discese badavano
    solo a non restare davanti alla slitta.
    - Avanti, poveri piedi malati, - li incoraggiava il conducente
    mentre andavano barcollando per la via principale di Skaguay. -
    Siamo alla fine. Adesso avrete un lungo riposo. Eh ? Certo, un
    riposo maledettamente lungo.
    I conducenti attendevano fiduciosi una lunga sosta. Anche loro
    avevano percorso milleduecento miglia con due giorni di riposo, e
    secondo il buon senso e la giustizia comune meritavano un periodo
    di ozio. Ma tanti erano gli uomini convenuti nel Klondike, e tante
    le fidanzate, le mogli, le parentele rimaste nel mondo, che il
    mucchio della posta assumeva le dimensioni di una montagna;
    inoltre vi erano dei dispacci ufficiali. Nuove mute di cani della
    baia di Hudson dovevano prendere il posto di quelli ormai inabili
    alla pista. Questi dovevano essere messi da parte e, poiché i cani
    contano poco di fronte ai dollari, dovevano essere venduti.
    Trascorsero tre giorni durante i quali Buck e i suoi compagni
    capirono quanto fossero realmente stanchi e indeboliti. Poi, la
    mattina del quarto, vennero due uomini degli Stati Uniti e li
    comprarono con i finimenti e tutto, per poco o nulla. Gli uomini
    si chiamavano tra loro Hal e Charles. Charles era di mezza età,
    pallido, con due occhi deboli e acquosi e un paio di baffi
    fieramente e baldamente rivolti all'insù, che contrastavano con il
    labbro cadente nascosto dietro di essi. Hal era un giovanotto di
    diciannove o vent'anni, con una grossa rivoltella Colt e un
    coltello da caccia infilato alla cintura irta di cartucce. Questa
    cintura era la cosa più notevole in lui: denotava la sua mentalità
    infantile, un'infantilità assoluta e ineffabile. Tutti e due erano
    evidentemente fuori posto; perché mai tipi simili si fossero
    avventurati nel Nord, fa parte di quel mistero delle cose che
    supera il nostro intelletto.
    Buck udì contrattare e vide il denaro passare dalla mano degli
    uomini in quelle della gente governativa, e comprese che lo
    scozzese mezzosangue e i conducenti della valigia postale stavano
    per passare dalla sua vita sulle tracce di Perrault e François e
    degli altri che erano scomparsi prima di loro. Quando fu condotto
    con i suoi compagni al campo dei suoi nuovi padroni, Buck vide un
    insieme disordinato e sudicio; la tenda era tirata a metà, i
    piatti non erano lavati, tutto era fuori di posto; inoltre vide
    una donna. La chiamavano Mercedes. Era moglie di Charles e sorella
    di Hal: una simpatica famiglia.
    Buck li osservò pieno di apprensione mentre smontavano la tenda e
    caricavano la slitta. Facevano grandi sforzi, ma senza metodo e
    senza risparmio di energie. La tenda fu arrotolata in un goffo
    pacco grande tre volte quello che avrebbe dovuto essere. I piatti
    di metallo furono riposti senza essere lavati. Mercedes era sempre
    tra i piedi degli uomini e non faceva che chiacchierare
    rimproverando o dando consigli. Quando misero un sacco di abiti
    sul davanti della slitta, suggerì di metterlo sulla parte
    posteriore, e quando questo fu fatto e il sacco fu coperto da
    altri due fagotti, scoprì altri oggetti che non potevano essere
    messi altrove che in quel sacco, ed essi scaricarono nuovamente.
    Tre uomini vennero da una tenda vicina e si misero a guardare
    sogghignando e ammiccando fra loro.
    - Avete un bel carico, - disse uno di loro; - non tocca a me dirvi
    quello che dovete fare, ma se fossi in voi non mi porterei dietro
    la tenda.
    - Sognate! - esclamò Mercedes alzando le braccia con un grazioso
    gesto di smarrimento. - Come potrei fare senza una tenda?
    - E' primavera e il freddo ormai è passato, - rispose l'uomo.
    Ella scosse risolutamente la testa, e Charles e Hal misero le
    ultime cose su quel mastodontico carico.
    - Credete che marcerà? - domandò uno degli uomini.
    - Perché no? - rispose Charles con una certa rudezza.
    - Bene, bene, - si affrettò a dire l'uomo bonariamente, - era
    solo una domanda. Mi sembrava un po' troppo pesante.
    Charles gli voltò le spalle e attaccò i cani come meglio poté,
    ossia non proprio nel modo migliore.
    - Naturalmente i cani non potranno tirare avanti per tutta la
    giornata con tutto quel po' po' di roba dietro, - affermò un
    altro.
    - Certo, - disse Hal con gelida cortesia, afferrando il timone con
    una mano e agitando con l'altra la sua frusta.- Mush, - gridò. -
    Mush, avanti!
    I cani fecero forza contro i pettorali, tirarono energicamente per
    pochi istanti e poi cedettero. Erano incapaci di muovere la
    slitta.
    - Maledetti poltroni, ve la faccio vedere io, - gridò accingendosi
    a frustarli.
    Mercedes intervenne piagnucolando: - Oh, Hal, non lo fare. - E
    intanto afferrava la frusta e gliela strappava dalle mani. -
    Poverini! Devi promettermi di non esser cattivo con loro per tutto
    il viaggio, altrimenti non mi muovo.
    - Te ne intendi proprio, di cani, tu, - le rispose il fratello
    sghignazzando. - Ti prego di lasciarmi in pace. Sono dei poltroni,
    ti dico, e bisogna frustarli per ottenere qualche cosa da loro.
    Così bisogna fare. Domandalo a chi vuoi: domandalo a uno di
    questi.
    Mercedes volse loro uno sguardo implorante, con impressa sul volto
    grazioso un'indicibile ripugnanza alla vista del dolore.
    - Sono deboli come l'acqua, se volete saperlo, - rispose uno
    degli uomini. - Magri come prugne secche, ecco il fatto. Hanno
    bisogno di riposo.
    - Accidenti al riposo, - disse Hal con le sue labbra imberbi; e
    Mercedes emise un "oh" di pena a quella bestemmia.
    Ma era una donna molto legata alla famiglia e scattò in difesa del
    fratello. - Non badare a quest'uomo, - disse risoluta. - Tu sei il
    conducente dei nostri cani e devi fare quello che credi meglio.
    La frusta di Hal cadde ancora sui cani. Essi si gettarono di nuovo
    contro i pettorali puntando le zampe contro la neve indurita, si
    abbassarono ventre terra impegnandosi con tutte le forze. Ma la
    slitta rimaneva ferma come se fosse ancorata. Dopo due sforzi si
    fermarono ansanti. La frusta fischiava selvaggiamente e Mercedes
    intervenne ancora. Cadde in ginocchio davanti a Buck, con le
    lacrime agli occhi e lo abbracciò.
    - Poverini, poverini, - piagnucolava piena di tenerezza, -
    perché non tirate? Non vi frusterebbero.
    Buck non provava molta simpatia per lei, ma si sentiva troppo
    miserabile per resisterle e la sopportò come una parte del triste
    lavoro di quel giorno. Uno degli astanti, che aveva stretto i
    denti fino allora per non pronunciare parole dure, disse infine:
    - Non che mi curi di quel che vi succederà, ma per amor dei cani
    vi devo dire che potreste aiutarli un bel po' liberando la slitta.
    I pattini si sono gelati e hanno fatto blocco. Gettatevi con tutto
    il peso contro il timone spingendo a destra e a sinistra, e
    libererete la slitta.
    Fu fatto un terzo tentativo, e questa volta, seguendo il
    consiglio, Hal liberò i pattini gelati nella neve. La slitta
    sovraccarica avanzò a fatica; Buck e i suoi compagni spingevano
    disperatamente sotto una pioggia di colpi. Un'ottantina di iarde
    più avanti il sentiero voltava e scendeva ripidamente sulla via
    principale. Sarebbe stato necessario un uomo esperto per impedire
    a quella slitta così carica di rovesciarsi, e Hal non lo era. Nel
    fare la voltata la slitta si capovolse lasciando sfuggire metà del
    suo contenuto attraverso le cinghie allentate. I cani non si
    fermarono. La slitta, alleggerita, trascinata su di un fianco,
    sobbalzava dietro di loro. Erano furiosi per il cattivo
    trattamento ricevuto e per quel carico assurdo. Buck schiumava di
    rabbia. Si gettò a corsa pazza, mentre la muta seguiva il suo
    capo. Hal gridava: - Uha! Uha! - Loro non gli badarono. Hal
    inciampò e fu rovesciato; la slitta capovolta gli passò sopra, e i
    cani si precipitarono sulla strada, divertendo tutta Skaguay e
    spargendo il resto del carico lungo la via principale.
    Dei cittadini di buon cuore fermarono i cani e raccolsero la roba
    disseminata dappertutto. Inoltre diedero consigli. Metà carico e
    doppio numero di cani se volevano arrivare a Dawson, ecco quello
    che dicevano. Hal, la sorella e il cognato ascoltarono di
    malavoglia, piantarono la tenda ed esaminarono il loro
    equipaggiamento. Fu tratto fuori dello scatolame che fece ridere
    gli uomini, perché lo scatolame sulla Pista Lunga è roba che non
    se l'è mai sognata nessuno.
    - Queste coperte vanno bene per un albergo, - disse ridendo uno
    che li aiutava. - La metà di tutto questo è anche troppa,
    sbarazzatevene. Gettate via quella tenda e tutti quei piatti; chi
    potrebbe lavarli? Buon Dio, credete di viaggiare in pullman?
    Così continuò l'inesorabile eliminazione del superfluo. Mercedes
    pianse quando i sacchi degli abiti furono gettati a terra e ne fu
    tolto il contenuto pezzo per pezzo. Pianse per l'insieme e pianse
    su ogni particolare che veniva scaricato. Si puntava le mani sulle
    ginocchia, dondolandosi avanti e indietro piena di angoscia.
    Affermava che non si sarebbe mossa di un pollice nemmeno per una
    dozzina di Charles, si appellava a tutti e a tutto, e infine
    asciugandosi gli occhi cominciò a gettar via anche oggetti
    assolutamente necessari. E nel suo zelo, quando ebbe finito con la
    roba propria, attaccò quella dei due uomini, avventandosi su di
    essa come un ciclone.
    Fatto questo, l'equipaggiamento, sebbene ridotto a metà,
    costituiva ancora un mucchio formidabile. Charles e Hal uscirono
    verso sera e comprarono sei cani forestieri. Questi, uniti ai sei
    della prima muta e a Tek e a Koona, gli eschimesi comprati alle
    Rapide della Pista, nel viaggio record, portarono a quattordici il
    numero nel tiro. Ma i cani forestieri, sebbene allenati fin dal
    loro sbarco, valevano poco. Tre erano cani da punta dal pelo
    corto, uno era un Terranova, e gli altri due, bastardi di razza
    indefinibile. Questi nuovi venuti sembravano ignorare tutto. Buck
    e i suoi compagni li guardarono con disgusto, e sebbene riuscisse
    a insegnar loro molto in fretta quale era il loro posto e che cosa
    non dovevano fare, Buck non riuscì a fargli capire quello che
    dovevano fare. Sopportavano mal volentieri i tiranti e la pista,
    e, ad eccezione dei due bastardi, erano smarriti e abbattuti dallo
    strano ambiente selvaggio in cui erano capitati e dai cattivi
    trattamenti ricevuti. I due bastardi non avevano un'ombra di
    spirito; le uniche cose che si potessero abbattere in loro erano
    le ossa.
    Con quei nuovi venuti affranti e disperati, e col vecchio tiro
    logorato da duemilacinquecento miglia di lavoro continuo, le
    prospettive non erano affatto brillanti. Tuttavia i due uomini
    erano tranquillissimi e addirittura orgogliosi. Con quattordici
    cani facevano veramente le cose in grande stile. Avevano visto
    altre slitte partire sul Passo per Dawson, o venire da Dawson, ma
    non ne avevano mai vista una di quattordici cani. Nella natura
    stessa dei viaggi artici c'era una ragione per cui quattordici
    cani non dovessero tirare una slitta, e questa era data dal fatto
    che una slitta non poteva portare cibo per quattordici cani. Ma
    Charles e Hal non lo sapevano. Essi avevano preparato il loro
    viaggio sulla carta: tanto per cane, tanti cani, tanti giorni,
    come dovevasi dimostrare. Mercedes li osservava al disopra delle
    loro spalle e approvava: era tutto così semplice!
    Il giorno seguente, a mattino avanzato, Buck guidò il lungo tiro
    lungo la strada. In tutto ciò non vi era nulla che li animasse,
    nessuno slancio, nessun impeto in lui né nei suoi compagni.
    Partivano stanchi morti. Per quattro volte aveva percorso la
    distanza tra Acqua Salata e Dawson. E il sapere che, esausto
    com'era, doveva percorrere ancora una volta la pista, lo colmava
    di amarezza. Non poteva mettere il cuore in quel lavoro, e così
    pure gli altri cani. I forestieri erano timidi e atterriti, gli
    altri non avevano fiducia nei loro padroni. Buck sentiva vagamente
    che non si poteva far conto su quei due uomini e quella donna. Non
    sapevano fare niente, e col passar dei giorni fu chiaro che non
    avrebbero mai imparato.
    Erano maldestri in tutto, senza ordine né disciplina. Dedicavano
    metà della notte a piantare un accampamento scombinato e metà del
    mattino a toglierlo e a caricare la slitta in un modo così goffo,
    che per tutto il resto del giorno dovevano fermarsi continuamente
    per rimettere in sesto il carico. In certi giorni non riuscivano a
    fare neppure dieci miglia, e a volte non partivano nemmeno. Mai
    furono capaci di percorrere più della metà della distanza
    considerata come base nel computo del cibo necessario ai cani.
    Era inevitabile che in breve sarebbero venuti a trovarsi privi di
    nutrimento per un tiro, ed essi, distribuendo il nutrimento con
    eccessiva abbondanza, affrettarono l'arrivo del giorno in cui esso
    sarebbe venuto a mancare. I cani forestieri, la cui digestione non
    era stata allenata da una fame cronica a ricavare il massimo dal
    poco, avevano un appetito vorace. Inoltre, quando gli eschimesi
    esausti cominciarono a tirare debolmente, Hal decise che la
    razione consueta era troppo scarsa. E la raddoppiò. A completare
    l'opera, Mercedes non essendo riuscita, con le lacrime dei suoi
    begli occhi e i tremiti della sua graziosa gola, a persuaderlo ad
    aumentare ancora la razione, andò a rubare il pesce nei sacchi e
    lo diede loro di nascosto. Ma Buck e gli eschimesi non avevano
    bisogno di cibo, bensì di riposo; e, sebbene viaggiassero
    lentamente, il pesante carico li esauriva.
    Poi venne la penuria. Hal un giorno dovette riconoscere che il
    cibo per i cani si era ridotto alla metà mentre la distanza era
    stata coperta solo per un quarto, e inoltre che né per amore né
    per denaro vi era modo di procurarsi altro cibo. Di conseguenza
    ridusse la razione normale e in egual tempo tentò di aumentare il
    percorso giornaliero. La sorella e il cognato lo aiutavano, ma
    erano ostacolati dalla pesantezza del carico e dalla loro
    incompetenza. Era semplice dar meno cibo ai cani, ma impossibile
    farli camminare più spediti, mentre la loro stessa incapacità di
    mettersi in viaggio più presto al mattino impediva loro di
    aumentare le ore di viaggio. Non solo non sapevano disciplinare i
    cani, ma neppure disciplinare se stessi.
    Il primo ad andarsene fu Dub. Era un povero ladro ingenuo, sempre
    colto sul fatto e sempre punito, ma era stato un fedele
    lavoratore. La sua spalla ferita priva di cure e di riposo, andò
    di male in peggio, e alla fine Hal lo spacciò con la sua grossa
    rivoltella. Nella contrada si dice che un cane forestiero muore di
    fame con la razione di un eschimese, e i sei forestieri alle
    dipendenze di Buck non potevano fare altro che morire con la metà
    della razione di un eschimese. Dapprima se ne andò il Terranova,
    seguito dai tre cani di punta dal pelo corto; i due bastardi, più
    tenacemente attaccati alla vita, se ne andarono per ultimi.
    Frattanto, tutta l'allegria e la gentilezza del Sud avevano
    abbandonato quelle tre persone. Il viaggio artico, spogliato del
    suo splendore e del suo romanticismo, divenne una realtà troppo
    cruda per lo spirito di quegli uomini e di quella donna. Mercedes
    smise di piagnucolare sui cani, troppo occupata com'era a piangere
    su di sé e a litigare col marito e col fratello. Il litigio era
    l'unica cosa a cui non si stancavano mai di applicarsi. La loro
    irritabilità sorgeva dalla loro stessa condizione disgraziata,
    aumentava con essa, si raddoppiava con essa e la superava. La
    meravigliosa pazienza della pista, propria degli uomini che
    lavoravano e soffrono duramente e tuttavia rimangono cortesi nelle
    parole e bonari, era ignota ai due uomini ed alla donna. Di quella
    pazienza essi non ne possedevano nemmeno un briciolo. Le
    sofferenze li indurivano; i loro muscoli, le loro ossa, perfino il
    loro cuore erano dolenti, e per questo divennero aspri nel
    parlare, parole aspre affioravano per prime sulle loro labbra al
    mattino ed erano le ultime alla sera.
    Charles e Hal litigavano ogni volta che Mercedes ne offriva loro
    l'occasione.
    La convinzione prediletta di ognuno di loro era di lavorare più di
    quanto gli spettasse e nessuno trascurava di esprimerla alla prima
    occasione. A volte Mercedes prendeva le parti del marito, a volte
    quelle del fratello. E il risultato era una bellissima e
    interminabile lite familiare. Cominciavano magari a disputare su
    chi dovesse spaccare qualche pezzo di legna per il fuoco (litigio
    che riguardava solo Charles e Hal) e poco dopo era trascinato
    nella controversia tutto il resto della famiglia, padri, madri,
    zii, cugini, gente distante mille miglia e taluni addirittura
    morti. Che le opinioni di Hal sull'arte o sul tipo di commedie
    scritte dal fratello di sua madre avessero qualche cosa a che fare
    con lo spaccare un po' di legna per il fuoco, superava ogni
    comprensione; tuttavia la disputa si svolgeva con tutta facilità
    in questo senso come in quello dei pregiudizi politici di Charles.
    E in che cosa la lingua loquace della sorella di Charles avesse
    rapporti con la necessità di accendere un fuoco sul Yukon, avrebbe
    potuto dirlo solo Mercedes, che dava la stura alle sue numerose
    opinioni su questo tema, estendendosi magari ad alcune altre
    spiacevoli caratteristiche proprie della famiglia del marito.
    Frattanto il fuoco restava spento, il campo era lasciato a mezzo e
    i cani rimanevano senza cibo.
    Mercedes nutriva un risentimento particolare: il risentimento del
    sesso. Graziosa e delicata, per tutta la vita era stata trattata
    con molto riguardo. Ma il modo con cui la trattavano adesso il
    marito e il fratello era tutto fuorché cavalleresco. Si era
    abituata a non sapersi cavare d'impaccio, ed essi se ne lagnarono.
    Ostacolata in quella che era la più essenziale prerogativa del suo
    sesso, ella rese loro insopportabile la vita.
    Non si curò più dei cani, e, stanca e abbattuta com'era, volle
    essere trascinata sulla slitta. Sebbene fosse graziosa e delicata,
    pesava centoventi libbre: una notevole ultima briciola aggiunta al
    carico trascinato da animali deboli e affamati. Si fece condurre
    così per intere giornate finché i cani caddero fra le tirelle e la
    slitta si fermò. Charles e Hal la pregarono di scendere e di
    andare a piedi, la supplicarono, la scongiurarono, e lei piangeva
    e importunava il Cielo raccontando la loro brutalità. Una volta la
    trassero giù dalla slitta a furia, ma non lo fecero più. Ella
    lasciò ciondolare inerti le gambe come un bambino viziato e si
    sedette sulla pista. Loro tirarono avanti, ma lei non si mosse.
    Dopo aver proseguito per tre miglia, scaricarono la slitta,
    tornarono indietro e la caricarono di peso. All'estremo della
    miseria, divennero insensibili alle sofferenze degli animali. La
    teoria di Hal, da lui messa in pratica sugli altri, era che
    bisognava diventare duri. Aveva cominciato col predicarla alla
    sorella e al cognato; non essendo riuscito con loro, cominciò a
    istillarla ai cani a colpi di bastone. Alle Cinque Dita non vi fu
    più cibo per i cani, e una vecchia indiana sdentata barattò con
    loro poche libbre di pelle di cavallo gelata per la rivoltella
    Colt che faceva compagnia al grande coltello da caccia infilato
    alla cintura di Hal. Un ben povero surrogato di cibo era quella
    pelle tolta sei mesi prima ai cavalli morti di fame dei mandriani.
    Gelata com'era, sembrava fatta di strisce di ferro galvanizzato, e
    quando un cane riusciva a cacciarsela nello stomaco, si
    discioglieva in sottili fibre coriacee, incapaci di nutrire, e in
    una massa di corti peli irritanti e indigesti.
    In mezzo a queste pene, Buck barcollava alla testa del tiro come
    in un incubo. Tirava quando poteva; e quando non poteva più tirare
    si abbatteva e rimaneva a terra finché i colpi di frusta o di
    bastone non lo costringevano a rimettersi in piedi. La sua bella
    pelliccia aveva perso la sua compatta lucentezza: pendeva floscia
    e sudicia, macchiata di sangue rappreso là dove il bastone di Hal
    lo aveva ferito. I suoi muscoli si erano ridotti a cordoni
    nocchiuti, il grasso era scomparso dalle sue carni, così che ogni
    costola, ogni osso apparivano chiaramente sotto la pelle cascante
    che si raggrinzava in vuote pieghe. Era cosa da spezzare il cuore,
    ma il cuore di Buck era infrangibile. L'uomo dalla maglia rossa ne
    aveva avuto la prova.
    Nelle stesse condizioni di Buck erano i suoi compagni, ridotti a
    scheletri ambulanti. Erano sette in tutto, compreso lui. Nel colmo
    delle loro sofferenze, erano divenuti insensibili al morso della
    frusta e ai colpi del bastone. Il dolore delle percosse era sordo
    e lontano, così come sordo e lontano era tutto ciò che i loro
    occhi vedevano e le loro orecchie ascoltavano. Non erano vili per
    la metà o per un quarto: erano semplicemente dei sacchi d'ossa in
    cui poche scintille di vita palpitavano debolmente. Ad ogni sosta,
    cadevano giù tra le tirelle come morti e la scintilla si
    offuscava, impallidiva e sembrava spegnersi. Quando il bastone o
    la frusta cadevano su di loro, quella scintilla si ravvivava
    debolmente, ed essi si rialzavano a stento e proseguivano
    barcollando.
    Venne il giorno in cui il bonaccione Billee cadde e non poté
    rialzarsi. Hal aveva ceduto la rivoltella; prese dunque l'ascia e
    colpì Billee alla testa mentre era ancora fra le tirelle. Poi
    trasse fuori il corpo dai finimenti e lo trascinò da parte. Buck
    vide e anche i suoi compagni videro, e compresero che la stessa
    sorte era loro molto vicina. Il giorno dopo toccò a Koona, e
    rimasero solo in cinque: Joe, troppo estenuato per essere
    malvagio; Pike, sciancato e zoppicante, consapevole solo per metà
    e non abbastanza per fingere ancora; Sol-leks, il monocolo, sempre
    fedele alla fatica del tiro e della pista e dolente di avere ormai
    così poche forze per spingere avanti; Tek, che quell'inverno aveva
    viaggiato meno degli altri e che adesso era picchiato di più
    perché era più fresco; e Buck ancora alla guida del tiro, ma non
    più capace di far rispettare la disciplina, quasi sempre cieco di
    stanchezza, che seguiva la pista guidato dal suo fioco bagliore e
    dall'oscura sensazione di averla sotto le zampe.
    Era un bellissimo tempo primaverile ma né gli uomini né i cani se
    ne accorgevano. Ogni giorno il sole si alzava più presto e
    tramontava più tardi. L'alba sorgeva alle tre del mattino e il
    crepuscolo durava fino alle nove di sera. L'intera giornata era un
    bagliore di sole. Il silenzio spettrale dell'inverno cedeva al
    grande mormorio primaverile della vita che si destava. Quel
    mormorio sorgeva da tutta la terra, pieno di gioia di vivere.
    Veniva dagli esseri che tornavano alla vita e ancora si muovevano
    dopo essere stati come morti e immobili durante i lunghi mesi di
    gelo. La linfa saliva nel tronco dei pini. I salici e i pioppi
    tremuli lasciavano esplodere le giovani gemme. I cespugli e le
    viti si coprivano di nuovo verde. Di notte i grilli cantavano, e
    durante il giorno esseri striscianti o rampicanti di ogni genere
    uscivano al sole. Le pernici e i picchi frullavano e becchettavano
    nella foresta. Gli scoiattoli chiacchieravano, gli uccelli
    cantavano e risuonava sulle loro teste lo strido delle anitre
    selvatiche che venivano dal Sud in sagaci stormi disposti a cuneo
    fendendo l'aria.
    Dai fianchi scoscesi di ogni colle veniva il sussurro di acque
    scorrenti, la musica d'invisibili sorgive. Tutto usciva dal gelo e
    si dispiegava sbocciando. Lo Yukon si sforzava di rompere il
    ghiaccio che lo opprimeva. Lo corrodeva dal di sotto, mentre il
    sole lo consumava in superficie. Si formavano cavità, si aprivano
    fessure che subito si allargavano mentre sottili lembi di ghiaccio
    cadevano attraverso di esse nel fiume. In mezzo a questo erompere,
    a questo fendersi, a questo fremere di vita nel risveglio sotto il
    sole ardente e nel dolce respiro delle brezze, come viandanti
    avviati alla morte barcollavano i due uomini, la donna e i cani
    eschimesi.
    I cani erano ormai sfiniti, Mercedes piangeva abbandonata sulla
    slitta, Hal bestemmiava senza costrutto, e lo sguardo acquoso di
    Charles vagava ansiosamente quando giunsero barcollando al campo
    di John Thornton, alle foci del Fiume Bianco. Appena fermi, i cani
    caddero come colpiti a morte; Mercedes si asciugò gli occhi
    guardando John Thornton, e Charles si sedette per riposare su di
    un tronco. Si sedette lentamente e a fatica perché era irrigidito.
    Hal parlò. John Thornton stava dando gli ultimi tocchi a un manico
    di scure che aveva fatto con un ramo di betulla. Lavorava e
    ascoltava rispondendo a monosillabi, e, quando ne era richiesto,
    dando brevi consigli. Conosceva quei tipi ed esprimeva il proprio
    parere con la certezza che non sarebbe stato seguito.
    - Ci hanno già detto che il fondo sta cedendo e che la miglior
    cosa per noi sarebbe di fermarci, - disse Hal rispondendo
    all'esortazione di Thornton di non avventurarsi oltre sul ghiaccio
    rotto. - Ci hanno detto che non avremmo potuto fare il Fiume
    Bianco, ed eccoci qua. - Quest'ultima frase fu pronunciata con un
    ghigno trionfante.
    - E vi hanno detto il vero, - rispose John Thornton. - Il fondo
    può spezzarsi da un momento all'altro. Solo dei matti, con la
    cieca fortuna dei matti, potrebbero riuscirvi. Vi dico chiaro che
    non arrischierei la mia carcassa su quel ghiaccio per tutto l'oro
    dell'Alaska.
    - Sarà perché non sei matto, - disse Hal. - Tuttavia noi andremo
    a Dawson. - Prese la frusta. - Sù, Buck! Hi! In piedi! Mush.
    Thornton continuò il suo lavoro. Sapeva che era inutile
    intromettersi tra un pazzo e la sua pazzia; due o tre matti di più
    o di meno non avrebbero modificato l'ordine delle cose.
    Ma la muta non si alzò al comando. Era entrata da un pezzo in
    quello stato in cui solo le percosse potevano farla muovere. La
    frusta sibilò qua e là senza misericordia. John Thornton strinse
    le labbra. Sol-leks fu il primo a rialzarsi penosamente. Teek lo
    seguì. Poi si alzò Joe guaendo di dolore. Pike fece penosi sforzi:
    cadde due volte quando si era già per metà rialzato e alla terza
    ci riuscì. Buck non fece alcuno sforzo e rimase tranquillo là
    dov'era caduto. La frusta si abbatté ripetutamente su di lui, ma
    egli non gemette e non si mosse. Più volte Thornton sussultò come
    se volesse parlare, ma poi mutò idea. I suoi occhi si inumidirono
    e, mentre la frusta continuava ad abbattersi, si
    alzò e si mise a passeggiare senza scopo in sù e in giù.
    Era la prima volta che Buck veniva meno, ed era questa una ragione
    sufficiente per far divenire furibondo Hal. Lasciò la frusta per
    prendere il solito bastone. Buck si rifiutò di muoversi sotto la
    pioggia dei più dolorosi colpi che adesso cadevano su di lui. Al
    pari dei suoi compagni egli aveva appena la forza di alzarsi, ma
    diversamente da loro, aveva deciso di restare a terra. Aveva la
    vaga sensazione di una condanna imminente. Lo aveva sentito
    nell'intimo mentre tirava lungo la riva, e quella sensazione non
    lo aveva più lasciato. Sembrava che il ghiaccio sottile e
    screpolato che si era sentito sotto i piedi per tutto il giorno,
    gli facesse intuire il disastro vicino, là su quel ghiaccio dove
    il suo padrone avrebbe voluto spingerlo. Si rifiutò di muoversi.
    Aveva sofferto tanto ed era ormai così stremato, che i colpi non
    gli facevano molto male. E, poiché continuavano a cadere su di
    lui, la scintilla di vita nel suo intimo vacillò e si abbassò:
    quasi si spense. Si sentiva stranamente intorpidito. Aveva
    l'impressione di essere percosso come attraverso una grande
    distanza. Le ultime sensazioni di dolore lo abbandonarono. Non
    sentì più nulla sebbene molto debolmente potesse udire i colpi del
    bastone sul suo corpo. Ma non era più il suo corpo, tanto sembrava
    lontano. E allora, d'un tratto, senza preavviso, con un grido
    inarticolato, simile a quello di un animale, John Thornton si
    scagliò sull'uomo che impugnava il bastone. Hal fu spinto indietro
    come colpito da un albero abbattuto. Mercedes diede uno strido,
    Charles guardava smarrito asciugandosi gli occhi acquosi, ma non
    si alzò, tanto era irrigidito.
    John Thornton era chino su Buck tentando di dominarsi, troppo
    preso dal furore per poter parlare.
    - Se batti ancora questo cane, ti ammazzo, - riuscì finalmente a
    dire con voce soffocata.
    - Il cane è mio, - rispose Hal asciugandosi il sangue che gli
    usciva dalla bocca e tornando verso di lui. - Togliti dai piedi o
    ti faccio fuori. Vado a Dawson. - Thornton stava tra lui e Buck e
    non mostrava alcuna intenzione di levarsi di mezzo. Hal trasse il
    suo lungo coltello da caccia. Mercedes strillava, piangeva, rideva
    abbandonandosi a un confuso attacco di isterismo. Thornton colpì
    le dita di Hal con il manico della scure facendogli cadere il
    coltello, e gliele colpì ancora mentre tentava di raccoglierlo.
    Poi si chinò, lo raccolse egli stesso, e con due colpi recise le
    tirelle di Buck.
    Hal non aveva più voglia di combattere. Inoltre la sorella gli
    teneva ferme le mani, o meglio le braccia. Buck era troppo vicino
    alla morte per poter ancora tirare la slitta. Pochi minuti dopo
    essi se ne andavano lungo il fiume. Buck li udì allontanarsi e
    alzò la testa per vedere. Pike guidava, Sol-leks era il cane di
    slitta e tra loro stavano Joe e Teek. Zoppicavano e barcollavano.
    Mercedes si faceva trascinare sulla slitta carica. Hal era al
    timone e Charles veniva dietro incespicando. Mentre Buck li
    guardava, Thornton s'inginocchiò vicino a lui, e con le sue rozze
    e affettuose mani cercò se vi fossero ossa rotte. Quando fu sicuro
    che non vi era niente altro se non molte contusioni e un terribile
    stato d'inedia, la slitta si era allontanata di un quarto di
    miglia. Il cane e l'uomo la guardavano strisciare sul ghiaccio.
    Improvvisamente videro sprofondare la parte posteriore e il
    timone, con Hal aggrappato, ergersi nell'aria. Giunse alle loro
    orecchie l'urlo di Mercedes. Videro Charles voltarsi e fare un
    passo per tornare indietro, poi un'intera lastra di ghiaccio
    cedette, e i cani e gli uomini scomparvero. Rimase solo una buca
    aperta. La pista aveva ceduto. John Thornton e Buck si guardarono.
    - Poveri diavoli, - disse John Thornton. E Buck gli leccò la mano.










    _________Aurora Ageno___________
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    00 12/01/2008 13:41
    6. PER L'AMORE DI UN UOMO



    Il dicembre precedente, quando John Thornton aveva avuto i piedi
    congelati, i suoi compagni lo avevano sistemato con cura e lo
    avevano lasciato perché si ristabilisse, risalendo poi il fiume
    per prendere una partita di tronchi da portare a Dawson lungo il
    fiume. Quando salvò Buck zoppicava ancora un poco, ma con
    l'inoltrarsi della nuova stagione anche questo leggero
    inconveniente scomparve. E là, sdraiato sulla riva del fiume, nei
    lunghi giorni di primavera, osservando il fluire delle acque,
    ascoltando pigramente il canto degli uccelli e il mormorio della
    natura, Buck a poco a poco recuperò le forze.
    Un buon riposo viene molto a proposito quando uno ha viaggiato per
    tremila miglia. E bisogna confessare che Buck divenne pigro,
    mentre le sue ferite rimarginavano, i suoi muscoli tornavano a
    farsi turgidi e la carne copriva nuovamente le sue ossa. A dire il
    vero, tutti loro stavano tranquillamente in ozio: Buck, John
    Thornton e Skeet e Nig, aspettando il carico di tronchi che doveva
    portarli a Dawson. Skeet era una piccola setter irlandese, che
    fece presto amicizia con Buck: mezzo morto com'era, egli non
    poteva respingere i suoi approcci. Essa aveva quelle facoltà
    risanatrici che alcuni cani posseggono; e come una gatta lava i
    suoi gattini così ella lavava e puliva le ferite di Buck. Ogni
    mattina, quando lui aveva finito la colazione, Skeet veniva
    regolarmente ad adempiere al compito che si era prefisso, finché
    egli cominciò a desiderare le sue cure non meno di quelle di
    Thornton. Nig, egualmente amichevole, sebbene meno espansivo, era
    un grande cane nero, mezzo alano e mezzo segugio, con gli occhi
    ridenti e una bonarietà senza limiti.
    Con molta sorpresa di Buck, questi cani non apparivano affatto
    gelosi di lui. Sembravano condividere la bontà e la generosità di
    John Thornton. Via via che Buck riprendeva le forze, essi lo
    invitarono a buffi giochi di ogni sorta, ai quali lo stesso
    Thornton non poteva fare a meno di unirsi; e in questo modo Buck
    durante la sua convalescenza giunse a un nuovo periodo della sua
    vita facendo il chiasso. Per la prima volta conobbe l'amore,
    l'amore schietto e appassionato. Non ne aveva avuto esperienza
    nella casa del giudice Miller, laggiù, nella valle di Santa Clara
    baciata dal sole. Con i figli del giudice, andando a caccia o a
    passeggio, era stato un compagno di lavoro; per i nipoti del
    giudice una specie di solenne guardiano; e per il giudice stesso
    un dignitoso e serio amico, ma l'amore, febbre ardente,
    adorazione, follia, lo aveva fatto sorgere in lui solo John
    Thornton.
    Quell'uomo gli aveva salvato la vita, e questo era qualche cosa;
    ma inoltre era il padrone ideale. Gli altri provvedevano al
    benessere dei loro cani per un senso di dovere e di pratica
    utilità; lui invece lo faceva come se fossero stati suoi figli,
    perché non poteva fare altrimenti. E andava anche oltre. Non
    dimenticava mai di dar loro un saluto benevolo, di rivolgergli una
    buona parola, e si divertiva non meno di loro a sedersi in mezzo
    ai suoi cani facendo con loro lunghe conversazioni ("a
    chiacchierare" diceva).
    Aveva un modo particolare di prendere tra le mani il muso di Buck
    o di posare su quella di Buck la propria testa scuotendolo avanti
    e indietro, dicendogli affettuosamente parolacce che per Buck
    erano parole d'amore.
    Buck non conosceva gioia più grande di quel rude abbraccio e del
    suono di quelle ingiurie mormorate, e ad ogni scossone gli
    sembrava che il cuore gli balzasse fuori dal petto tanta era la
    sua estasi. E quando, lasciato libero, balzava in piedi con la
    bocca ridente, gli occhi parlanti, la gola vibrante di suoni
    inarticolati, e rimaneva così immobile, John Thornton esclamava
    con riverenza: "Dio mio, non ti manca che la parola!".
    Buck aveva un modo per esprimere il suo amore che sembrava
    un'aggressione violenta. Spesso afferrava tra i denti la mano di
    Thornton e stringeva così forte che l'impronta rimaneva per
    parecchio tempo nella carne. E come Buck interpretava le parolacce
    come parole d'amore, così l'uomo considerava quel finto morso come
    una carezza.
    Tuttavia l'amore di Buck si esprimeva in genere come adorazione.
    Sebbene divenisse folle di gioia quando Thornton lo toccava o gli
    parlava, non cercava mai queste espressioni di affetto.
    Diversamente da Skeet, che era solita spingere il naso sotto la
    mano di Thornton e continuava a dare piccole spinte finché
    l'accarezzasse, o da Nig, che avanzava solennemente e appoggiava
    la grande testa sulle ginocchia di Thornton, Buck si accontentava
    di adorare a distanza. Stava sdraiato per ore, vigile e attento,
    ai piedi di Thornton, guardandolo in volto, contemplandolo,
    studiandolo, seguendo col più vivo interesse ogni sua fuggevole
    espressione, ogni movimento, ogni mutamento delle sue fattezze. O
    se, per caso, era lontano da lui, al suo fianco o alle sue spalle,
    contemplava il profilo dell'uomo e i movimenti casuali del suo
    corpo. E spesso, tanta era la comunione in cui vivevano, la forza
    dello sguardo di Buck costringeva John Thornton a volgere la
    testa, e allora l'uomo contraccambiava lo sguardo senza parlare,
    col cuore che gli scintillava negli occhi, così come scintillava
    il cuore negli occhi di Buck.
    Per molto tempo dopo essere stato salvato, Buck mal sopportò che
    Thornton s'allontanasse dalla sua vista. Da quando lasciava la
    tenda a quando vi rientrava, Buck seguiva i suoi passi. Il
    continuo mutamento di padrone da quando era giunto nel Nord, aveva
    fatto sorgere in lui il timore che nessun padrone fosse duraturo.
    Ed egli paventava che Thornton uscisse dalla sua vita come
    Perrault e François e il mezzo-sangue scozzese. Perfino di notte,
    in sogno, era ossessionato da questa paura; e allora balzava dal
    sonno e scivolava nel freddo fino all'apertura della tenda,
    restando lì ad ascoltare il suono del respiro del suo padrone.
    Ma nonostante questo grande amore per John Thornton, che sembrava
    rivelare l'influenza della mite civiltà, I'impeto del primitivo
    che il Nord aveva risvegliato in lui rimaneva vivo e attivo. Egli
    possedeva la fedeltà e la devozione, creature del fuoco e del
    tetto; e tuttavia manteneva la sua selvatichezza e la sua astuzia.
    Era una creatura della foresta, venuta dalla foresta per sedersi
    davanti al fuoco di John Thornton, piuttosto che un cane del mite
    Sud segnato dalle impronte di generazioni civili. Per il suo
    grande amore non avrebbe mai rubato nulla a quell'uomo, ma per
    qualsiasi altro uomo, in un altro accampamento, non avrebbe
    esitato un attimo; e l'astuzia con cui sapeva rubare gli
    permetteva di evitare di lasciarsi cogliere. Aveva il muso e il
    corpo segnati dai denti di molti cani, e sapeva combattere ancor
    più fieramente che mai, e con maggiore accortezza. Skeet e Nig
    erano troppo bonari per azzuffarsi con loro, e inoltre
    appartenevano a John Thornton; ma i cani stranieri, di qualsiasi
    razza e valore, dovevano riconoscere subito il dominio di Buck o
    trovarsi a combattere per la vita con un terribile avversario.
    Buck era senza pietà. Aveva conosciuto bene la legge del bastone e
    della zanna, e mai trascurava un vantaggio o si ritraeva davanti
    ad un nemico che aveva avviato sulla strada della morte. Aveva
    preso lezione da Spitz, e dai principali cani combattenti della
    polizia e della posta, e sapeva che non c'era via di mezzo.
    Doveva dominare o essere dominato; e mostrare pietà sarebbe stato
    debolezza. La pietà non esisteva nella vita dei primordi. Veniva
    considerata come paura, e questo malinteso significava morte.
    Uccidere o essere ucciso, mangiare o essere mangiato, era questa
    la legge; e a questo comandamento che sorgeva dalle profondità del
    tempo egli prestava obbedienza.
    Era più vecchio dei giorni che aveva vissuto, dei respiri che
    aveva respirato. Riuniva il passato al presente, e l'eternità
    dietro di lui palpitava in lui in un ritmo potente insieme al
    quale egli oscillava al pari delle maree e delle stagioni. Sedeva
    presso il fuoco di John Thornton: cane dal petto largo, dalle
    bianche zanne, dal lungo pelo; ma dietro di lui vi erano le ombre
    di cani di ogni specie, metà lupi e lupi selvaggi, che lo
    incalzavano e lo sollecitavano assaporando il cibo che lui
    mangiava, assetati dell'acqua che beveva, fiutando con lui il
    vento, ascoltando con lui e sussurrandogli i suoni della vita
    selvaggia nella foresta, suggerendogli i movimenti, dirigendo le
    sue azioni, sdraiandosi al suo fianco a dormire quando si
    accovacciava, sognando con lui e su di lui divenendo essi stessi
    l'oggetto dei suoi sogni.
    Cosi imperioso era il richiamo di quelle ombre, che di giorno in
    giorno il genere umano e le sue pretese s'allontanavano da lui.
    Nel profondo della foresta risuonava un invito, e ogni volta che
    egli l'udiva, misteriosamente vibrante e lusinghiero, si sentiva
    costretto a volgere il dorso al fuoco e alla terra battuta intorno
    ad esso per immergersi nella foresta, sempre avanti, non sapeva
    dove né perché; né si domandava il dove o il perché, tanto
    imperiosamente risuonava il richiamo nel profondo della foresta.
    Ma ogni volta che raggiungeva la soffice terra intatta e la verde
    ombra, l'amore per John Thornton lo faceva tornare ancora al
    fuoco. Solo Thornton lo tratteneva. Il resto dell'umanità era meno
    che nulla. Viaggiatori casuali potevano lodarlo o accarezzarlo; ma
    egli rimaneva freddo, e se incontrava qualcuno troppo espansivo si
    alzava e se ne andava.
    Quando i compagni di Thornton, Hans e Pete, arrivarono con il
    legname tanto atteso, Buck si rifiutò di occuparsi di loro finché
    non comprese che erano amici di Thornton; allora li tollerò in un
    certo modo passivo, accettandone i favori come se facesse loro
    l'onore di accettarli. Essi erano dello stesso tipo di Thornton,
    semplici e generosi; vivevano vicino alla terra, pensavano in modo
    elementare e vedevano chiaro. E prima che il carico fosse giunto
    nel grande vortice presso la segheria di Dawson, essi avevano
    capito Buck e i suoi modi, e non insistevano per ottenere con lui
    quell'intimità che avevano con Skeet e con Nig.
    L'amore per Thorton sembrava crescere sempre più. Era lui l'unico
    uomo che potesse mettere un fardello sul dorso di Buck nei viaggi
    estivi. Nulla era troppo difficile per Buck quando Thornton
    comandava. Un giorno, dopo essersi riforniti con la vendita del
    legname trasportato, avevano lasciato Dawson per le sorgenti del
    Tanana, gli uomini e i cani se ne stavano seduti sul ciglio di una
    roccia che cadeva a picco su di un letto di roccia nuda trecento
    piedi più sotto. John Thornton era seduto presso il margine, e
    Buck era dietro di lui. Thornton fu preso da un capriccio
    insensato e richiamò l'attenzione di Hans e di Pete
    sull'esperimento che voleva fare. - Salta, Buck! - comandò
    stendendo il braccio oltre il precipizio. Un attimo dopo stava
    lottando con Buck sull'estremo ciglio mentre Hans e Pete li
    traevano indietro al sicuro.
    - E' strano, - disse Pete quando tutto fu passato ed ebbero
    ripreso a parlare. Thornton scosse il capo. - No, è splendido ed è
    anche terribile. Sapete, a volte mi fa paura.
    - Non mi piacerebbe affatto di essere l'uomo che ti mette le mani
    addosso quando lui ti è vicino, - concluse Pete accennando a Buck.
    - Perbacco! - aggiunse Hans. - Nemmeno a me.
    A Circle City, prima che l'anno finisse, le previsioni di Pete si
    avverarono. Burton il Nero, un tipaccio facinoroso, aveva
    attaccato lite con un "piedipiatti" del bar e Thornton intervenne
    bonariamente. Buck come soleva, se ne stava sdraiato in un angolo,
    con la testa sulle zampe, seguendo ogni atto del suo padrone.
    Burton colpì improvvisamente con un diretto e Thornton girò su se
    stesso riuscendo a tenersi in piedi solo aggrappandosi al
    parapetto del bar.
    Quelli che stavano a guardare udirono qualche cosa che non era né
    un ringhio né un latrato, ma piuttosto un ruggito, e videro il
    corpo di Buck balzare in aria saltando dal pavimento alla gola di
    Burton. L'uomo si salvò alzando istintivamente un braccio, ma fu
    rovesciato a terra con Buck sopra. Buck staccò i denti dalla carne
    del braccio e cercò ancora la gola. Questa volta l'uomo riuscì a
    difendersi solo in parte ed ebbe la gola squarciata. Allora tutti
    si rovesciarono su Buck e riuscirono a cacciarlo via; ma, mentre
    un chirurgo cercava di stagnare il sangue, Buck andava in su e in
    giù mugolando furiosamente, tentando di gettarsi nel folto e
    trattenuto solamente da una siepe di bastoni minacciosi. Un
    "consiglio di minatori" chiamato sul posto, sentenziò che il cane
    era stato provocato e Buck fu assolto, ma ormai la sua reputazione
    era fatta, e da quel giorno il suo nome fu conosciuto in tutti i
    campi dell'Alaska.
    Più tardi, verso la fine di quell'anno, Buck salvò la vita a
    Thornton in un modo molto diverso. I tre soci facevano scendere
    per una brutta successione di rapide del Quaranta Miglia una di
    quelle lunghe e strette imbarcazioni che si spingono con una
    pertica. Hans e Pete camminavano lungo la riva, trattenendo la
    barca con una sottile fune di manila che avvolgevano di albero in
    albero, mentre Thornton era sull'imbarcazione e l'aiutava a
    scendere per la corrente con una pertica, gridando ordini a quelli
    che erano a terra. Buck, sulla riva, pieno di ansia, precedeva di
    poco la barca con gli occhi fissi sul suo padrone.
    In un punto particolarmente pericoloso dove una lingua di rocce
    nude si spingeva nel fiume, Hans sciolse la fune e, mentre
    Thornton guidava la barca nel mezzo della corrente, corse lungo la
    riva tenendo in mano l'estremità della corda per arrestare
    l'imbarcazione non appena fosse girata al largo dalle rocce. Fatto
    questo, la barca filò velocemente lungo una corrente rapida come
    la gora di un mulino, quando Hans la arrestò con la fune, ma
    troppo bruscamente. La barca si rovesciò e fu spinta capovolta
    contro la riva, mentre Thornton fu sbalzato fuori e trascinato
    dalla corrente verso il peggior punto delle rapide: un tratto di
    acque furiose nel quale nessun nuotatore avrebbe potuto salvarsi.
    Buck si gettò subito nel fiume, e dopo un trecento iarde raggiunse
    Thorton in mezzo a un turbine di acque impazzite. Quando lo sentì
    aggrapparsi alla sua coda, Buck si diresse verso la sponda
    nuotando con tutta la sua splendida forza, ma l'avanzata verso la
    riva era molto lenta mentre quella nel senso della corrente
    terribilmente veloce. Dal basso veniva il fatale ruggito, là dove
    la corrente selvaggia si faceva ancor più selvaggia, spezzata in
    brandelli spumosi dalle rocce che sporgevano dall'acqua come i
    denti di un enorme pettine. La forza dell'acqua nel punto in cui
    cominciava l'ultimo pendio era terribile, e Thornton comprese che
    era impossibile giungere a riva. Passò furiosamente sopra una
    roccia, batté contro una seconda, colpì una terza con terribile
    violenza. Con entrambe le mani si aggrappò all'estremità scivolosa
    lasciando Buck e gridò sul rumore delle acque sconvolte:
    - Va', Buck, va'!
    Buck non riusciva a dirigersi e fu travolto dalla corrente mentre
    lottava disperatamente senza riuscire a risalirvi. Quando udì
    ripetersi il comando di Thornton balzò in parte sù dalle acque
    ergendo la testa come per l'ultimo sguardo e poi si volse
    obbediente verso la riva. Nuotava gagliardamente e fu tratto in
    secco da Pete e Hans proprio nel tratto in cui sarebbe stato
    impossibile nuotare e la distruzione era imminente.
    Essi compresero che un uomo avrebbe potuto restare aggrappato a
    una roccia scivolosa combattendo contro quella furiosa corrente
    solo per pochi minuti, e corsero più in fretta che poterono lungo
    la riva fino a un punto molto più a monte di quello in cui
    Thornton era in pericolo. Legarono al collo e alle spalle di Buck
    la corda con cui trattenevano la barca, badando che non lo
    strozzasse né gli impedisse di nuotare, e lo gettarono nel fiume.
    Egli lottò vigorosamente, ma non riuscì ad andare abbastanza
    dritto nella corrente. Si accorse dell'errore troppo tardi, quando
    Thornton gli fu di fronte alla distanza di poche bracciate, mentre
    egli era irrimediabilmente trascinato via.
    Hans lo trattenne con la corda, come se fosse stato una barca. La
    corda, lo arrestò nel punto più impetuoso della corrente. Buck fu
    sommerso e rimase sott'acqua finché il corpo fu sbattuto contro la
    riva e tirato fuori. Era mezzo annegato, e Hans e Pete si
    gettarono su di lui facendogli entrare l'aria e uscire l'acqua. Si
    rialzò barcollando e subito ricadde. Giunse a loro il debole suono
    della voce di Thornton, e sebbene non potessero udire le sue
    parole, compresero che era agli estremi. La voce del padrone fu
    per Buck come una scossa elettrica. Balzò in piedi e risalì
    correndo la riva precedendo gli uomini fino al punto da cui si era
    slanciato la volta precedente.
    Gli fu attaccata nuovamente la corda e fu lanciato; e di nuovo si
    mise a lottare contro le acque, ma questa volta ben dritto contro
    la corrente. Aveva sbagliato una volta, ma non sarebbe caduto in
    errore una seconda. Hans faceva scorrere la fune senza permetterle
    di allentarsi, e Pete stava attento che non si imbrogliasse. Buck
    avanzò fino a che non si trovò perpendicolarmente a Thornton;
    allora si volse e piombò su di lui con la velocità di un diretto.
    Thornton lo vide venire e quando Buck lo colpì come un montone che
    carica, sospinto dalla corrente, alzò le braccia e le strinse
    attorno al suo collo irsuto. Hans fissò la corda a un tronco, e
    Buck e Thornton vennero travolti sotto le acque. Strangolati,
    soffocati, I'uno sull'altro, trascinati sul fondo roccioso,
    sbattuti contro scogli e tronchi, furono spinti fino alla riva.
    Thornton tornò in sé a pancia in giù su di un tronco d'albero,
    violentemente massaggiato da Hans e da Pete. Il suo primo sguardo
    fu per Buck sul cui corpo immobile e apparentemente senza vita Nig
    ululava mentre Skeet gli leccava il muso umido e gli occhi chiusi.
    Thornton era tutto contuso, ma appena Buck fu rianimato esaminò
    accuratamente il suo corpo e gli trovò tre costole rotte.
    - Questo decide della situazione, - disse. - Mettiamo il campo
    qui. - E si accamparono là finché le costole di Buck si
    rinsaldarono ed egli poté riprendere il viaggio.
    Quell'inverno, a Dawson, Buck compì un'altra impresa, non
    altrettanto eroica, forse, ma tale da porre il suo nome di
    parecchie tacche più sù sul palo della fama in Alaska. Questa
    prodezza fu particolarmente utile per i tre uomini perché fornì
    loro l'equipaggiamento di cui avevano bisogno; essi poterono così
    compiere una spedizione a lungo desiderata nel vergine Est, dove
    non erano ancora apparsi i minatori. La cosa nacque da una
    conversazione nell'Eldorado Saloon, dove i minatori vantavano i
    meriti dei loro cani favoriti. Buck, conosciuto come era, veniva
    preso di mira da quegli uomini che cercavano di esaltare i loro
    favoriti, e Thornton lo difendeva strenuamente. Dopo una mezz'ora,
    un uomo affermò che il suo cane poteva smuovere una slitta carica
    di cinquecento libbre e tirarla; un secondo vantò seicento libbre
    per il suo cane; un terzo settecento.
    - Poh! - disse John Thornton. - Buck può smuovere mille libbre.
    - E liberarle dal ghiaccio? E trascinarle per cento iarde? -
    domandò Matthewson, un re della miniera, lo stesso che aveva
    vantato settecento libbre.
    - E liberarle, e trascinarle per cento iarde, - disse freddamente
    John Thornton.
    - Bene, - disse Matthewson lentamente e decisamente in modo che
    tutti potessero sentire, - ho mille dollari che dicono che non ce
    la fa. Eccoli qui. - E così dicendo gettò sul banco un sacchetto
    di polvere d'oro grande come una salsiccia.
    Nessuno aprì bocca. Qualcuno aveva risposto "vedo" al bluff di
    Thornton, seppure era un bluff. Egli sentì un'onda di sangue caldo
    salirgli al volto. La lingua lo aveva tradito: in realtà non
    sapeva se Buck poteva muovere mille libbre, mezza tonnellata!
    L'enormità della cosa lo sbigottì. Aveva molta fiducia nella forza
    di Buck e spesso lo aveva pensato capace di trascinare un tale
    carico; ma mai come adesso aveva affrontato questa possibilità,
    con gli occhi di una dozzina di uomini fissi su di lui aspettando
    in silenzio. Inoltre non aveva mille dollari né li avevano Hans e
    Pete.
    - Ho qui fuori una slitta che aspetta con venti sacchi di farina
    da cinquanta libbre, - riprese Matthewson con rude decisione; -
    puoi dunque approfittarne.
    Thornton non rispose. Non sapeva che dire e volgeva lo sguardo da
    faccia a faccia con l'aria assente di chi ha perduto la facoltà di
    pensare e cerca in qualche parte qualche cosa che gli rischiari le
    idee. La faccia di Jim O'Brien, un altro re della miniera e antico
    camerata si presentò al suo sguardo. Fu per lui un suggerimento
    che parve spingerlo a quello che mai si sarebbe sognato di fare.
    - Puoi prestarmi mille dollari? - domandò quasi sussurrando.
    - Sicuro, - rispose O'Brien gettando un grosso sacchetto accanto
    a quello di Matthewson. - Sebbene creda assai poco, caro John, che
    il tuo cane possa fare il colpo.
    L'Eldorado rovesciò nella strada i suoi clienti che andavano a
    vedere la prova. I tavoli rimasero deserti, e quelli che
    scommettevano e quelli che tenevano banco uscirono a vedere la
    conclusione della sfida e a puntare. Alcune centinaia di uomini
    impellicciati e con le mani coperte da mezzi guanti si raccolsero
    intorno alla slitta tenendosene un po' discosti. La slitta di
    Matthewson, carica di mille libbre di farina, era rimasta ferma
    per un paio di ore e, nel freddo intenso di oltre quaranta sotto
    zero, i pattini avevano fatto blocco, gelando, con la neve
    battuta. Si scommetteva a due contro uno che Buck non avrebbe
    smosso la slitta. Sorse una discussione sulla parola "liberare":
    O'Brien sosteneva che Thornton doveva avere il diritto di liberare
    i pattini battendoli e lasciando poi a Buck di "liberare" la
    slitta dalla sua immobilità. Matthewson insisteva che
    l'espressione significava liberare i pattini dalla gelata morsa
    della neve. La maggioranza di coloro che erano stati testimoni
    della scommessa decise in suo favore. E allora le scommesse
    giunsero a tre contro uno a svantaggio di Buck.
    Nessuno scommetteva per lui, nessuno lo credeva capace di tanto.
    Thornton era stato trascinato nella scommessa pieno di dubbi; e
    adesso che vedeva la slitta concreta e solida davanti a sé, con il
    suo regolare tiro di dieci cani accovacciati nella neve, l'impresa
    gli sembrò ancora più impossibile. Matthewson raggiava giubilante.
    - Tre contro uno! - proclamò. - Metto altri mille dollari a tre
    contro uno. Che ne dici, Thornton?
    Thornton aveva il dubbio impresso sul volto, ma il suo spirito
    combattivo era stato eccitato: quello spirito di lotta che aleggia
    sulle scommesse, non vuol riconoscere l'impossibile, ed è sordo a
    tutto eccetto che al richiamo a combattere. Chiamò Hans e Pete. I
    loro sacchi erano flosci e i tre soci poterono mettere insieme
    solo duecento dollari. In quel momento di magra questa somma era
    tutto il loro capitale, tuttavia l'arrischiarono senza esitare
    contro i seicento dollari di Matthewson.
    I dieci cani furono staccati e Buck con i propri finimenti fu
    messo alla slitta. Era stato preso dal contagio dell'eccitazione e
    sentiva in qualche modo che doveva compiere qualche cosa di grande
    per John Thornton. Davanti al suo splendido aspetto si udirono
    mormorii di ammirazione.
    Era in perfette condizioni, senza un briciolo di carne superflua:
    le sue centocinquanta libbre erano altrettante libbre di energia e
    di fierezza. La sua pelliccia aveva riflessi di seta. Lungo il
    collo e sulle spalle la sua criniera, sebbene in riposo, era a
    metà sollevata e sembrava ergersi ogni momento come se l'eccesso
    del suo vigore rendesse ogni crine vivo e attivo. Il largo petto e
    le forti gambe anteriori erano proporzionate al resto del corpo; i
    muscoli apparivano sotto la pelle in fasci compatti. Gli uomini
    palparono quei muscoli e dichiararono che erano duri come acciaio,
    le scommesse scesero a due contro uno.
    - Signore Iddio, Signore Iddio! - balbettò un membro della più
    recente dinastia, un re delle Skookum Benches. - Vi offro
    ottocento dollari per lui, signore, prima della prova, signore;
    ottocento dollari così com'è.
    Thornton scosse il capo e si avvicinò a Buck. - Devi star lontano
    da lui, - protestò Matthewson. - Gioco libero e spazio.
    La folla si fece silenziosa; si potevano udire solo le voci dei
    giocatori che offrivano invano a due contro uno. Tutti
    riconoscevano che Buck era un magnifico animale, ma venti sacchi
    di farina da cinquanta libbre apparivano loro troppo pesanti per
    indurli ad allentare i cordoni della borsa.
    Thornton s'inginocchiò al fianco di Buck. Gli prese la testa fra
    le mani e rimase con la gota appoggiata alla sua. Non lo scosse
    scherzosamente come era solito, né gli mormorò affettuose
    maledizioni; ma gli sussurrò alI'orecchio - Se mi vuoi bene,
    Buck, se mi vuoi bene! ... - Sussurrava così. Buck diede un
    guaito di zelo represso.
    La folla guardava curiosamente. La faccenda diveniva misteriosa,
    sembrava quasi un rito magico. Quando Thornton si rialzò, Buck gli
    afferrò fra i denti la mano coperta dal mezzo guanto, stringendola
    un po' e lasciandola poi lentamente, quasi a malincuore. Era la
    risposta, in termini non di linguaggio ma di amore. Thornton si
    trasse risolutamente indietro.
    - Sù, Buck, - disse.
    Buck tese le tirelle, poi le allentò per alcuni pollici. Aveva
    imparato a fare così.
    - Va'! - risuonò la voce di Thornton, tagliente nel silenzio
    assoluto.
    Buck si gettò verso destra concludendo il movimento con uno
    slancio che tese le tirelle allentate e arrestò, con una scossa
    improvvisa, le sue centocinquanta libbre. Il carico tremò, e
    disotto ai pattini si udì un leggero scricchiolio.
    - Forza! - comandò Thornton.
    Buck ripeté la manovra, questa volta a sinistra. Lo scricchiolio
    divenne rumore di ghiaccio frantumato, la slitta girò un poco su
    di sé e i pattini scivolarono di fianco per qualche pollice. La
    slitta era liberata. Gli uomini trattenevano il respiro senza
    accorgersene.
    - E adesso, mush!
    Il comando di Thornton scoppiò come un colpo di pistola. Buck si
    spinse in avanti tendendo le tirelle con un rude strappo. Tutto il
    suo corpo era raccolto e compatto nel tremendo sforzo, i muscoli
    si torcevano e si annodavano come esseri vivi sotto la pelliccia
    di seta. Il suo largo petto toccava quasi la terra, la testa era
    tesa in avanti e in basso, le zampe si muovevano impetuose, le
    unghie scavavano la neve indurita in lunghi solchi paralleli. La
    slitta tremò e ondeggiò quasi, cominciando ad avanzare. Una zampa
    di Buck scivolò e un uomo diede un alto gemito. Poi la slitta si
    mosse avanzando come in una rapida successione di scosse sebbene
    in realtà non si arrestasse mai... mezzo pollice... un pollice...
    due pollici... Le scosse diminuirono sensibilmente; via via che la
    slitta acquistava velocità, Buck le attenuava, finché il movimento
    divenne continuo.
    Gli uomini trassero il fiato e ripresero a respirare senza
    immaginare che per un momento avevano smesso. Thornton correva
    dietro la slitta incoraggiando Buck con brevi e gioiose parole.
    La distanza era stata già misurata, e quando la slitta si avvicinò
    alla catasta di legna che indicava la fine delle cento iarde
    cominciò a levarsi un applauso che divenne sempre più forte e che
    si trasformò in un'acclamazione quando la slitta superò la catasta
    e si fermò al comando. Tutti si abbandonavano all'entusiasmo,
    perfino Matthewson. I cappelli e i mezzi guanti volavano
    nell'aria. Gli uomini si scambiarono strette di mano senza badare
    con chi e traboccavano di allegria in una confusione generale.
    Thornton cadde in ginocchio accanto a Buck; aveva la sua testa
    contro la testa di lui e lo scuoteva avanti e indietro. Quelli che
    erano accorsi lo udirono maledire Buck, e lo maledisse a lungo,
    con fervore, dolcemente e amorosamente.
    - Signore Iddio, Signore Iddio! - cincischiò il re di Skookum
    Benches. - Vi dò mille dollari per lui, mille dollari, signore...
    mille e duecento, signore.
    Thornton si alzò in piedi; aveva gli occhi bagnati e le lacrime
    scorrevano liberamente lungo le sue gote. - Signore, - disse al re
    di Skookum Benches, - no, signore. Potete andare all'inferno,
    signore. E' tutto quello che posso fare per voi, signore.
    Buck prese fra i denti una mano di Thornton. Thornton lo scosse
    avanti e indietro. Come animati da un comune impulso, gli
    spettatori si trassero a rispettosa distanza; e non furono più
    tanto indiscreti da turbarli.








    _________Aurora Ageno___________
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    00 12/01/2008 13:44
    7. SUONA IL RICHIAMO



    Buck, facendo guadagnare mille e seicento dollari in cinque minuti
    a John Thornton, permise al suo padrone di pagare certi debiti e
    di mettersi in viaggio con i suoi compagni verso l'Est, alla
    ricerca di una leggendaria miniera di cui si era persa ogni
    traccia e la cui storia era vecchia quanto la storia del paese.
    Molti l'avevano cercata; pochi l'avevano trovata e assai più non
    erano mai tornati da quelle ricerche. La miniera perduta era
    imbevuta di tragedia e avvolta di mistero. Nessuno aveva
    conosciuto il primo che l'aveva scoperta. La più antica tradizione
    si arrestava prima di risalire fino a lui. Fin dagli inizi vi era
    stata una vecchia capanna in rovina. Uomini in punto di morte
    avevano giurato sulla sua esistenza e su quella della miniera di
    cui essa indicava la ubicazione; e avevano confermato la loro
    testimonianza con pepite che erano diverse da qualsiasi tipo d'oro
    conosciuto nel Nord.
    Ma nessuno uomo vivente aveva potuto saccheggiare questa casa del
    tesoro, e i morti erano morti; per questo John Thornton, Pete e
    Hans con Buck e una mezza dozzina di altri cani, si avviarono
    verso l'Est, lungo una pista sconosciuta, per riuscire là dove
    uomini esperti quanto loro avevano fallito. Risalirono con la
    slitta lo Yukon per settanta miglia, poi volsero a sinistra, nel
    fiume Stewart, passarono il Mayo e il McQuestion, e proseguirono
    finché lo Stewart divenne un fiumiciattolo che si snodava tra gli
    alti picchi che segnavano la spina dorsale del continente.
    John Thornton chiedeva poco all'uomo o alla natura. La zona
    selvaggia non lo spaventava. Con una manciata di sale e un fucile
    poteva immergersi nella foresta vergine e nutrirsi dove voleva e
    quanto voleva. Non avendo fretta, al modo degli indiani, dava la
    caccia al proprio desinare durante il viaggio; e, se non lo
    trovava, al modo degli indiani continuava a viaggiare con la
    certezza che prima o poi lo avrebbe trovato. Così in questo gran
    viaggio verso l'Est la cacciagione fu il loro cibo, le munizioni e
    gli attrezzi costituirono il principale carico della slitta, e il
    termine del viaggio fu stabilito nel futuro senza limiti.
    Per Buck era una gioia illimitata questo andare a caccia e a
    pesca, questo vagabondare senza meta attraverso luoghi
    sconosciuti. Per intere settimane andavano avanti
    ininterrottamente, giorno per giorno; e per intere settimane
    restavano accampati, qua e là, i cani in ozio e gli uomini intenti
    a far buchi col fuoco nella melma gelata e a lavare infiniti
    secchi di sabbia al calore del fuoco. A volte soffrivano la fame e
    a volte banchettavano sfrenatamente a seconda dell'abbondanza
    della selvaggina e della fortuna della caccia.
    Venne l'estate, e gli uomini e i cani, con i fardelli sul dorso,
    attraversarono su zattere azzurri laghi montani e risalirono o
    discesero fiumi sconosciuti in sottili barche costruite con il
    legname della foresta. I mesi andavano e venivano ed essi vagavano
    avanti e indietro nella vastità misteriosa dove non vi erano
    uomini e tuttavia ve ne erano stati, se la leggenda della capanna
    abbandonata era vera. Attraversarono creste montane durante le
    tempeste dell'estate, rabbrividirono sotto il sole di mezzanotte
    su nude montagne al limite tra i boschi e le nevi eterne, scesero
    in valli estive tra sciami di zanzare e di mosche e all'ombra di
    ghiacciai colsero fragole mature e bei fiori quali avrebbero
    potuto vantare le terre del Sud. Verso la fine dell'anno entrarono
    in una selvaggia regione di laghi, triste e silenziosa, dove erano
    passate le anatre selvatiche ma non rimaneva vita né indizio di
    vita: solo il soffio di venti gelidi, il formarsi dei ghiacci nei
    luoghi in ombra e il malinconico batter delle onde sulle spiagge
    solitarie.
    E per un altro inverno camminarono sulle orme cancellate di uomini
    che erano passati prima. Una volta incontrarono un sentiero che
    scintillava nella foresta, un antico sentiero, e la Capanna
    Perduta sembrò molto vicina. Ma il sentiero non aveva principio né
    fine, e rimase un mistero, così come erano misteriosi l'uomo che
    lo aveva tracciato e le ragioni che lo avevano indotto a
    tracciarlo. Un'altra volta trovarono i residui corrosi dal tempo
    di una casa da caccia, e, tra i lembi di coperte imputridite, John
    Thornton trovò un fucile a lunghe canne. Lo riconobbe per un
    fucile della Compagnia della Baia di Hudson dei primitivi tempi
    del Nord-Ovest, quando quell'arma valeva la propria altezza in
    pelli di castoro ammucchiate le une sulle altre. Niente altro:
    nessuna traccia dell'uomo che in quei primitivi tempi aveva
    costruito la capanna e lasciato il fucile fra le coperte.
    Tornò ancora la primavera e, al termine del loro vagabondaggio,
    trovarono non la Capanna Perduta ma un giacimento non molto
    profondo in una vasta vallata, dove l'oro appariva come biondo
    burro attraverso le maglie del setaccio. Non cercarono altro. Ogni
    giorno di lavoro procurava loro migliaia di dollari in polvere
    lavata e pepite, ed essi lavoravano ogni giorno. L'oro veniva
    messo in sacchetti di pelle d'alce, ognuno di cinquanta libbre,
    che erano ammucchiati come legna da ardere fuori della capanna di
    tronchi di abete. Lavoravano come giganti, i giorni tenevano
    dietro ai giorni come sogni mentre essi accumulavano il tesoro.
    I cani non avevano nulla da fare se non trasportare ogni tanto la
    selvaggina uccisa da Thornton, e Buck trascorreva lunghe ore
    assorto accanto al fuoco. La visione dell'uomo peloso dalle gambe
    corte venne a lui più di frequente, adesso che c'era poco da fare;
    e spesso guardando il fuoco, Buck errava con lui in quell'altro
    mondo che era il suo ricordo.
    La cosa più importante di quest'altro mondo sembrava essere la
    paura. Quando egli guardava l'uomo peloso dormire accanto al
    fuoco, la testa fra le ginocchia e le mani raccolte su di essa,
    Buck si accorgeva che quel sonno era inquieto, pieno di sussulti e
    di risvegli, durante i quali egli spiava pauroso l'oscurità e
    gettava altra legna sul fuoco. Se camminavano lungo le rive del
    mare, dove l'uomo peloso raccoglieva molluschi e li divorava via
    via che li raccoglieva, i suoi occhi si volgevano dappertutto
    cercando pericoli nascosti, e le sue gambe erano pronte a correre
    come il vento al loro primo apparire. Scivolavano silenziosi
    attraverso la foresta, Buck alle calcagna dell'uomo peloso; ed
    erano attenti e vigili entrambi, le orecchie tese e irrequiete, le
    narici frementi, perché l'uomo aveva un udito e un fiuto non meno
    acuti di quelli di Buck. L'uomo peloso poteva balzare sugli alberi
    e avanzare là in alto, veloce come se fosse sulla terra, saltando
    di ramo in ramo aggrappandosi con le braccia, talvolta con balzi
    di dodici piedi, lasciandosi andare e aggrappandosi senza mai
    cadere né fallire la stretta. In realtà, sembrava a suo agio fra
    gli alberi come a terra; e Buck ricordava notti di veglia
    trascorse al piede degli alberi dove l'uomo peloso stava
    rannicchiato aggrappandosi solidamente mentre dormiva.
    Vicinissimo alle visioni dell'uomo peloso era il richiamo che
    sempre risuonava nelle profondità della foresta. Quell'appello lo
    colmava di una grande irrequietudine e di strani desideri,
    provocava in lui una vaga, dolce felicità, ed egli si rendeva
    conto di selvaggi desideri e impulsi per cose che non conosceva.
    Qualche volta seguiva il richiamo nella foresta, cercandolo come
    se fosse una cosa tangibile, latrando dolcemente o a sfida, a
    seconda dell'umore. Cacciava il naso nel fresco muschio del bosco,
    o nella nera terra dove crescevano alte erbe, e fiutava con gioia
    i grassi odori del terreno; oppure stava acquattato per ore, come
    se si nascondesse, dietro i tronchi ricoperti di funghi o gli
    alberi abbattuti, con gli occhi e gli orecchi tesi a tutto ciò che
    si muoveva o risuonava intorno a lui. Forse, standosene così,
    sperava di sorprendere quel richiamo che non riusciva a capire. Ma
    non sapeva perché facesse tutto ciò. Era costretto a farlo, ma non
    poteva afferrarlo con il pensiero.
    Impulsi irresistibili lo afferrarono. Se ne stava magari
    tranquillo nell'accampamento, sonnecchiando oziosamente nel caldo
    pomeriggio, quando a un tratto ergeva la testa con le orecchie
    dritte, tutte intese ad ascoltare, e poi balzava in piedi e si
    slanciava avanti sempre avanti, per ore, attraverso gli
    intercolunni della foresta e le aperte radure dove crescevano
    folti i canneti. Gli piaceva correre nei letti asciutti dei
    torrenti, spiare la vita degli uccelli del bosco. A volte per un
    giorno intero se ne stava sdraiato nel sottobosco dove poteva
    osservare le pernici che andavano in sù e in giù becchettando. Ma
    soprattutto gli piaceva correre nel cupo crepuscolo delle
    mezzenotti estive, ascoltando i soffocati e sonnolenti sussurri
    della foresta, interpretando segni e suoni così come un uomo può
    leggere un libro, e cercando quella misteriosa cosa che
    continuava, continuava a chiamarlo, nel sogno e nella veglia, ad
    ogni ora, perché la raggiungesse.
    Una notte balzò dal sonno sussultando, l'occhio intento, le nari
    frementi, la criniera irta in onde fuggenti. Dalla foresta
    giungeva il richiamo (o per lo meno una nota di esso, ché il
    richiamo aveva molte note) distinto e definito come non mai: un
    lungo ululato, simile a un qualsiasi suono emesso da un cane
    eschimese e tuttavia diverso. Ed egli lo riconobbe in quell'antico
    clima familiare come suono già udito. Balzò attraverso il campo
    addormentato, e rapido e silenzioso si precipitò tra i boschi. Via
    via che si avvicinava al grido rallentava la sua corsa, divenendo
    cauto in ogni movimento, finché giunse a una radura fra gli alberi
    e, spiando vide, eretto sulle anche, il muso puntato al cielo, un
    lungo e sottile lupo dei boschi.
    Non aveva fatto alcun rumore, e tuttavia il lupo cessò di ululare
    e cercò di sentire la sua presenza. Buck avanzò decisamente nello
    spazio aperto, un poco piegato, col corpo raccolto, la coda dritta
    e rigida, mentre i piedi si posavano a terra con inconsueta cura.
    Ogni movimento esprimeva minacce frammiste con profferte di
    amicizia. Era la minacciosa tregua propria dell'incontro di bestie
    selvagge in cerca di preda. Poi il lupo fuggì alla sua vista ed
    egli lo inseguì con balzi felini, nella frenesia di raggiungerlo.
    Lo spinse in un canale cieco, nel letto di un torrente asciutto,
    dove un mucchio di tronchi sbarrava la via. Il lupo si voltò
    girando sulle zampe posteriori come facevano Joe e tutti i cani
    eschimesi quando erano spinti in un angolo, ringhiando e
    arruffando il pelo e battendo i denti in una continua e veloce
    successione di morsi.
    Buck non attaccò, ma gli girò attorno avvolgendolo di amichevoli
    proposte. Il lupo era diffidente e spaurito, perché Buck pesava
    tre volte più di lui, e la sua testa gli arrivava appena alle
    spalle. Alla prima occasione fuggì via e la caccia ricominciò.
    Più volte fu spinto in un angolo chiuso, e la scena si ripeté,
    sebbene il lupo fosse in cattive condizioni, senza di che Buck non
    lo avrebbe raggiunto così facilmente. Correva finché la testa di
    Buck era all'altezza del suo fianco, e allora si voltava
    all'improvviso per balzare via di nuovo alla prima occasione.
    Alla fine l'ostinazione di Buck fu premiata; perché il lupo,
    accorgendosi che non gli si voleva fare alcun male avvicinò infine
    il suo naso a quello di Buck scambiando con lui il fiuto.
    Divennero amici e giocarono insieme in quel modo nervoso e quasi
    timido con cui le fiere smentiscono la loro ferocia. Dopo qualche
    tempo il lupo si allontanò trotterellando lentamente in un modo
    che mostrava chiaramente che si recava in qualche luogo, fecendo
    capire a Buck che doveva andarvi anche lui, e corsero a fianco a
    fianco nel buio crepuscolo su per il letto del torrente, nella
    gola da cui scaturiva, e varcando la nuda cresta ove erano le sue
    sorgenti.
    Sull'opposto pendio scesero in una regione pianeggiante con grandi
    distese di boschi e molti fiumi, e per queste distese corsero
    decisi, per ore e ore, mentre il sole saliva sempre più e il
    giorno diveniva sempre più caldo. Buck aveva una gioia selvaggia.
    Capiva di rispondere finalmente al richiamo correndo così a fianco
    del suo fratello del bosco verso il luogo da cui certo quel
    richiamo veniva. Antichi ricordi lo assalivano adesso, ed egli ne
    era eccitato come un tempo era eccitato dalla realtà di cui essi
    erano l'ombra. Aveva già fatto le stesse cose in qualche parte di
    quell'altro mondo oscuramente rievocato, e le ripeteva adesso
    correndo libero nell'aperto spazio con la terra vergine sotto i
    piedi e gli aperti cieli sul capo.
    Si fermarono presso un corso d'acqua per bere e, fermandosi, Buck
    si ricordò di John Thornton. Si sedette. Il lupo si rimise in
    cammino verso il luogo da cui certo veniva il richiamo, poi tornò
    a lui annusandolo e facendo gesti come se volesse incoraggiarlo.
    Ma Buck si volse e si avviò lentamente verso il ritorno. Per quasi
    un'ora il fratello selvaggio gli corse a fianco gemendo piano. Poi
    si sedette, puntò il muso al cielo e ululò. Era un ululato triste,
    e Buck, continuando risoluto la sua strada, lo udì divenire sempre
    più debole finché si perse nella distanza.
    John Thornton stava mangiando quando Buck fece irruzione
    nell'accampamento e gli balzò addosso in una frenesia di affetto
    rovesciandolo, saltandogli sopra leccandogli la faccia,
    mordendogli la mano: "facendo il buffone", come diceva John
    Thornton scuotendolo avanti e indietro e ingiuriandolo
    affettuosamente.
    Per due giorni e due notti Buck non lasciò mai il campo né perse
    di vista Thornton. Lo seguì nel suo lavoro, rimase ad osservarlo
    mentre mangiava, lo guardò mettersi sotto le coperte la sera e
    uscirne il mattino. Ma dopo due giorni il richiamo nella foresta
    risuonò più imperiosamente che mai. Buck si sentì ripreso
    dall'inquietudine e ossessionato dal ricordo del fratello
    selvaggio e della ridente regione oltre la cresta montana, e della
    corsa a fianco a fianco attraverso le grandi distese boscose. E
    ancora una volta tornò a vagare nei boschi, ma il fratello
    selvaggio non venne più; e per quanto tendesse l'orecchio durante
    le lunghe veglie, non più si levò il triste ululato.
    Cominciò a dormire fuori la notte, restando lontano dal campo per
    interi giorni, e una volta attraversò la cresta montana alle fonti
    del torrente e scese nelle regioni dei boschi e dei fiumi.
    Vagabondò laggiù per una settimana cercando invano tracce recenti
    del fratello selvaggio, cacciando il proprio cibo durante il
    viaggio e avanzando con quel trotto lungo e facile che sembra non
    dover stancare mai. Pescò il salmone in un largo fiume che
    sfociava nel mare chi sa dove, e presso quel fiume stesso uccise
    un grande orso nero accecato dalle zanzare mentre pescava come lui
    e infuriante per la foresta, disperato e terribile. Anche così fu
    una lotta dura, che risvegliò gli ultimi residui ancor latenti
    della ferocia di Buck. E due giorni dopo, quando tornò all'animale
    ucciso da lui e trovò una dozzina di ghiottoni che si disputavano
    la carcassa, li disperse come festuche; e quelli che riuscirono a
    scappare ne lasciarono indietro due che non avrebbero litigato
    più.
    La passione del sangue lo assalì più forte che mai: era un
    uccisore, un essere fatto per la preda, vivente di cose viventi;
    senza aiuti, solo, per virtù della sua forza e del suo coraggio,
    riusciva trionfalmente a vivere nell'ambiente ostile in cui solo i
    forti sopravvivevano. Per questo fu preso da un grande orgoglio,
    che si comunicava come per contagio al suo essere fisico. Si
    esprimeva in tutti i suoi movimenti, era evidente nel gioco di
    ogni muscolo, parlava con chiaro linguaggio nel modo con cui egli
    avanzava e rendeva ancor più splendida, se era possibile, la sua
    splendida pelliccia.
    Senza le brune macchie sul muso e sugli occhi e il ciuffo di peli
    bianchi che gli cadeva in mezzo al petto, avrebbe potuto essere
    confuso con un gigantesco lupo, più grande dei più grandi della
    razza. Da suo padre, un San Bernardo, aveva ereditato la mole e il
    peso, ma la forma a quella mole e a quel peso era stata data dalla
    madre, cagna da pastore.
    Il suo muso era il lungo muso del lupo, solo che era più largo di
    quello di qualsiasi lupo; e la sua grossa testa era una testa di
    lupo di dimensioni più grandi.
    Selvaggia astuzia di lupo era la sua astuzia; la sua intelligenza
    era intelligenza di cane da pastore e di San Bernardo; e tutto
    questo, unito a un'esperienza conquistata nella più severa delle
    scuole, aveva fatto di lui l'essere più formidabile fra quelli che
    si aggiravano nella foresta. Animale carnivoro, vivente di sola
    selvaggina, era nel pieno fiore, al culmine dell'esistenza,
    esuberante di vigore e di fierezza. Quando Thornton passava
    carezzandolo, la mano lungo la sua schiena, un crepitio seguiva le
    sue dita perché ogni pelo scaricava a quel contatto la sua
    elettricità condensata. Ogni parte di lui, cervello e corpo, nervi
    e fibre, era accordata sulla nota più alta, e fra tutte le parti
    vi era un perfetto equilibrio, un perfetto accordo. A visioni,
    suoni, avvenimenti che richiedevano azione, rispondeva con la
    rapidità di un lampo. Per quanto rapidamente un cane eschimese
    possa balzare per difendersi o attaccare, egli balzava ancor più
    rapido. Vedeva il movimento, udiva il suono e rispondeva in minor
    tempo di quanto ne richiedesse qualsiasi altro cane solo per
    vedere o udire. Percepiva decideva e rispondeva nello stesso
    istante. In realtà i tre atti del percepire, decidere e rispondere
    erano consecutivi, ma con intervalli così minimi da apparire
    simultanei. I suoi muscoli erano sovraccarichi di vitalità e
    scattavano agili come molle d'acciaio. La vita fluiva in lui in
    uno splendido flusso, elevandosi felice finché sembrava dover
    scoppiare in assoluta estasi e traboccare generosamente sul mondo.
    - Nessuno ha mai visto un cane come questo, - aveva detto un
    giorno John Thornton mentre con i suoi soci osservava Buck uscire
    dall'accampamento.
    - Dopo averlo fatto hanno spezzato la forma, - disse Peter.
    - Lo credo anch'io, perbacco, - affermò Hans. Lo videro uscire dal
    campo, ma non videro l'improvvisa e terribile trasformazione che
    avvenne non appena fu nel segreto della foresta. Non marciava più.
    A un tratto era divenuto un essere della foresta che scivolava
    dolcemente con zampe di gatto, un'ombra scorrente che appariva e
    scompariva fra le ombre. Sapeva come sfruttare ogni riparo, come
    camminare sul ventre come un serpente e al pari di un serpente,
    scattare e colpire. Poteva afferrare nel nido una pernice di
    montagna, uccidere un coniglio addormentato, e acchiappare a
    mezz'aria i piccoli scoiattoli del Nord che fuggivano su per gli
    alberi un attimo troppo tardi. Negli stagni aperti i pesci non
    erano troppo agili per lui; né erano troppo astuti i castori che
    riparavano le loro dighe. Uccideva per mangiare, non per puro
    piacere; ma preferiva mangiare quello che uccideva egli stesso.
    Così nei suoi atti si insinuò il senso dell'agguato, e con grande
    gioia si gettava sugli scoiattoli per lasciarli poi fuggire sulle
    cime degli alberi, quando li aveva presi urlanti di paura mortale.
    All'arrivo dell'inverno gli alci apparvero con maggiore abbondanza
    spostandosi lentamente verso il basso per svernare nelle meno
    fredde vallate. Buck aveva già abbattuto un giovane alce sbandato,
    ma desiderava ardentemente una più grande e più temibile preda e
    la incontrò un giorno sulla cresta montana, alle fonti del
    torrente. Una mandria di venti alci era venuta dalla regione dei
    boschi e dei fiumi e un grande alce era il loro capo. Era pieno di
    furia e, alto sei piedi da terra, era un avversario formidabile,
    quale Buck poteva desiderare. L'alce faceva oscillare avanti e
    indietro le sue grandi corna palmate, ramificate in quattordici
    punte, che abbracciavano una distanza di sette piedi fra le punte
    estreme. I suoi piccoli occhi ardevano di una luce cattiva e
    irritata, mentre muggiva furiosamente alla vista di Buck.
    Dal fianco dell'alce, un poco prima della coscia, sporgeva
    l'estremità piumata di una freccia, che spiegava la sua ira.
    Guidato da un istinto che gli veniva dagli antichi tempi di caccia
    nel mondo primordiale, Buck cominciò a tagliar fuori l'alce dal
    branco. Non era lavoro semplice. Prese a saltare latrando di
    fronte all'alce, appena fuori della portata delle grandi corna e
    dei terribili zoccoli piatti che lo avrebbero ucciso con un sol
    colpo. Incapace di voltare le spalle a quel dentato pericolo e
    andarsene, l'alce si abbandonava a crisi di furore. Allora si
    scagliava su Buck che, astutamente, indietreggiava invitandolo con
    una finta incapacità di fuggire.
    Ma quando era così separato dai suoi seguaci, due o tre dei più
    giovani tornavano indietro per caricare Buck e permettere al capo
    ferito di raggiungere il branco.
    Vi è una pazienza della foresta, ostinata, instancabile, continua
    come la vita stessa, che tiene immobile per ore il ragno nella sua
    tela, il serpente nelle sue spire, la pantera nell'agguato; questa
    pazienza è propria della vita quando va a caccia del suo cibo
    vivente; ed era propria di Buck quando si aggrappò al fianco della
    mandria ritardandone la marcia, irritando i giovani, inquietando
    le madri coi loro piccoli e facendo diventare folle di rabbia
    impotente l'alce ferito. Continuò per una mezza giornata: Buck si
    moltiplicava, attaccava da tutti i lati avvolgendo il branco in un
    turbine di minacce, tagliando fuori la sua vittima non appena
    raggiungeva i compagni, logorando la pazienza degli esseri
    aggrediti, minore di quella degli esseri che aggrediscono.
    Via via che il giorno si inoltrava e il sole scendeva nel suo
    letto a Nord-Ovest (l'oscurità era tornata e le notti autunnali
    duravano sei ore) i giovani alci si mostrarono sempre più
    riluttanti a tornare indietro per aiutare il loro condottiero
    assediato. L'avvicinarsi dell'inverno li spingeva ad affrettarsi
    verso i livelli più bassi, ed essi avevano l'impressione di non
    potersi più sbarazzare di quell'essere instancabile che li
    tratteneva. Inoltre la minaccia non si volgeva alla vita della
    mandria né a quella dei giovani. Era richiesta solo la vita di un
    membro, che aveva un interesse assai più remoto di quello delle
    loro proprie vite; e, in fondo, essi erano contenti di pagare il
    tributo.
    Quando cadde il crepuscolo, il vecchio alce stava a testa bassa
    guardando i suoi compagni, le femmine che aveva conosciuto, i
    piccoli a cui aveva fatto da padre, gli adulti che aveva dominato,
    andarsene a passo strascicante e tuttavia svelto attraverso le
    ultime luci. Non poteva seguirli perché davanti al suo muso
    saltava quel terrore zannuto e senza pietà che non voleva
    lasciarlo andare. Pesava trecento libbre, più di mezzo quintale;
    aveva vissuto a lungo una forte vita piena di lotte e di
    battaglie, e infine la morte gli giungeva dai denti di un essere
    la cui testa non era più alta delle sue grandi ginocchia nodose.
    Da allora, notte e giorno, Buck non abbandonò più la sua preda,
    non le diede un attimo di riposo, non le permise di brucare le
    foglie degli alberi né i germogli delle betulle e dei salici. E
    neppure concesse all'alce ferito di placare la sua sete ardente
    nei piccoli ruscelli che incontravano. Spesso, preso dalla
    disperazione, l'alce si dava a lunghe corse; allora Buck non
    cercava di fermarlo ma gli stava dietro tranquillamente, contento
    del modo con cui il gioco procedeva, acquattandosi quando l'alce
    si fermava, attaccandolo furiosamente quando cercava di mangiare o
    di bere.
    La grande testa si abbassò sempre più sotto l'albero delle corna,
    e il trotto strascicato divenne sempre più debole. L'animale
    cominciò a star fermo per lunghi periodi, il muso a terra, le
    orecchie cadenti e umiliate; e Buck aveva più tempo per cercare da
    bere e per riposare. In questi momenti, ansimando, con la rossa
    lingua pendente e gli occhi fissi sul grande alce, sembrava a Buck
    che avvenisse un cambiamento sul volto delle cose. Un nuovo
    fremito passava per la regione, altre forme di vita la
    attraversavano insieme al branco degli alci. Le foreste, i fiumi e
    l'aria stessa sembravano palpitare di quella presenza. L'avviso
    gli fu portato non già dalla vista, dall'udito o dal fiuto, ma da
    un qualche altro senso più sottile. Non udiva nulla, non vedeva
    nulla, e tuttavia si accorgeva che la regione era in qualche modo
    diversa, che strane cose stavano muovendosi attraverso di essa. E
    decise che, appena sbrigato l'affare presente, avrebbe
    investigato.
    Infine, al termine del quarto giorno, abbatté il grande alce. Per
    un giorno e una notte rimase accanto all'animale ucciso mangiando
    e dormendo alternativamente. Poi, riposato, rifocillato e forte,
    volse il muso all'accampamento di John Thornton. Prese il suo
    lungo e facile galoppo e andò avanti, per ore e ore, senza mai
    smarrirsi nella via intricata, dritto attraverso la regione
    sconosciuta con una sicurezza di direzione da far vergognare
    l'uomo e il suo ago magnetico.
    Procedendo, divenne sempre più consapevole della nuova
    inquietudine della regione. Vi era su di essa una vita diversa da
    quella che v'era stata durante l'estate. E l'avvenimento non gli
    era più portato, adesso, per sottili e misteriose vie. Ne
    parlavano gli uccelli, gli scoiattoli ne chiacchieravano striduli,
    perfino la brezza lo sussurrava. Più volte si fermò aspirando a
    grandi boccate la fresca aria del mattino e leggendo un messaggio
    che lo spingeva a balzare avanti con ancor maggior fretta. Era
    oppresso da un senso di calamità incombente se non già avvenuta; e
    quando ebbe attraversato l'ultimo spartiacque e fu sceso nella
    vallata verso il campo, procedette con maggior precauzione.
    Tre miglia più avanti trovò una traccia fresca che gli fece ergere
    i peli del collo. Conduceva dritta al campo di John Thornton. Buck
    si affrettò, rapido e guardingo, con ogni nervo teso attento ai
    molteplici particolari che narravano una storia: tutta, eccetto la
    fine. Il suo fiuto gli dava una descrizione sempre varia del
    passaggio della vita sulle cui tracce stava muovendosi. Sentì il
    profondo silenzio della foresta. La vita degli uccelli era volata
    via. Gli scoiattoli si erano nascosti. Ne vide solo uno, una
    cosetta liscia e grigia appiattita contro un grigio tronco morto
    così che sembrava farne parte, escrescenza legnosa sul legno.
    Mentre Buck scivolava avanti con la segretezza di un'ombra
    fuggevole, il suo fiuto fu improvvisamente tratto da una parte,
    come se una forza materiale lo avesse afferrato e lo tirasse.
    Seguì il nuovo odore in un folto e trovò Nig. Giaceva su di un
    fianco, morto là dove si era trascinato, con una freccia
    sporgente, punta e penne, dal due lati del corpo.
    Cento passi più avanti Buck incontrò uno dei cani della slitta che
    Thornton aveva comprato a Dawson; lottava faticosamente con la
    morte, proprio in mezzo alla pista, e Buck lo scansò senza
    fermarsi. Dal campo veniva un suono fioco di numerose voci che si
    alzavano e abbassavano come in cantilena. Più avanti ancora, alla
    estremità della radura, trovò Hans, bocconi, coperto di frecce
    come un porcospino. Nello stesso istante Buck diede uno sguardo al
    luogo in cui era stata la capanna di abete e vide qualche cosa che
    gli fece ergere il pelo sul collo e sulla schiena. Un turbine di
    furore travolgente lo assali. Non si accorse di ringhiare, ma
    ringhiava forte con terribile ferocia. Per l'ultima volta in vita
    sua permise alla passione di imporsi all'astuzia e alla ragione, e
    fu il grande amore per John Thornton, che gli fece perdere la
    testa.
    Gli Yeehats danzavano intorno alle rovine della capanna di abete
    quando udirono un ruggito terribile e videro precipitarsi su di
    loro un animale di cui non avevano mai visto l'eguale. Era Buck,
    vivente uragano di furore, che si slanciava su di loro in una
    frenesia di distruzione. Balzò sul primo uomo che gli capitò, il
    capo degli Yeehats, squarciandogli la gola così che dalla iugulare
    sprizzò una fontana di sangue. Senza fermarsi a incrudelire sulla
    vittima, con un altro salto squarciò passando via la gola di un
    altro. Era impossibile resistergli. Si slanciava nel folto
    lacerando, squarciando, distruggendo, con un moto continuo e
    terribile che sfidava le frecce scagliate su di lui. In realtà,
    così rapidi erano i suoi movimenti e così folti gli indiani
    intorno a lui, che essi si colpivano l'un l'altro con le frecce; e
    un giovane cacciatore, scagliata una freccia su Buck, a mezz'aria
    colpì al petto un compagno con tale forza che la punta forò la
    pelle della schiena uscendo dalla parte opposta. Allora il panico
    si impadronì degli Yeehats, ed essi fuggirono atterriti nei
    boschi, gridando che era arrivato il Malvagio Spirito.
    E in realtà Buck era un demonio incarnato che infuriava alle loro
    calcagna abbattendoli come cervi mentre essi fuggivano tra gli
    alberi. Fu quello un giorno nefasto per gli Yeehats. Dispersi qua
    e là per la regione, solo dopo una settimana i sopravvissuti
    poterono raccogliersi in una valle più bassa e contare le loro
    perdite. Buck, stanco dell'inseguimento, tornò all'accampamento
    distrutto. Trovò Pete là dov'era stato ucciso, ancora avvolto
    nelle coperte, alla prima sorpresa. La disperata difesa di
    Thornton era scritta in segni ancor freschi sul suolo, e Buck ne
    fiutò ogni particolare fino al margine di un profondo stagno. Là,
    con la testa e le zampe anteriori nell'acqua, giaceva Skeet,
    fedele fino all'ultimo. Lo stagno, fangoso e torbido per gli scavi
    fatti, nascondeva il suo contenuto; e là in fondo vi era John
    Thornton: perché Buck seguì la sua traccia fino nell'acqua e
    dall'acqua nessuna traccia usciva.
    Per tutto il giorno Buck rimase meditando presso lo stagno o vagò
    senza riposo per il campo. La morte, come cessazione del
    movimento, come un passar oltre la vita di ciò che vive, la
    conosceva; e sapeva che John Thornton era morto. Questo lasciava
    in lui un gran vuoto, qualche cosa di simile alla fame, ma che
    doleva e doleva e che non vi era cibo che potesse saziarlo. A
    volte, quando sostava a contemplare i cadaveri degli Yeehats,
    dimenticava quella pena, e si accorgeva allora del proprio
    profondo orgoglio, superiore a ogni orgoglio fino allora provato.
    Aveva ucciso l'uomo, la più nobile cacciagione, e l'aveva ucciso
    per la legge del bastone e della zanna. Annusava incuriosito quei
    corpi. Erano morti così facilmente! Era più difficile uccidere un
    cane eschimese: senza le loro frecce, le loro aste e i loro
    bastoni, non potevano minimamente competere con lui. Da quel
    momento non li avrebbe temuti più, se non quando avevano in mano
    frecce, aste e bastoni.
    Scese la notte, e la luna piena si levò sugli alberi, alta nel
    cielo, illuminando la regione fino a irrorarla di una spettrale
    luce. E col sopraggiungere della notte, meditando e soffrendo
    presso lo stagno, Buck cominciò ad avvertire il fremito di una
    nuova vita nella foresta, diverso da quello che gli Yeehats vi
    avevano suscitato. Si drizzò ascoltando e fiutando. Dalla
    lontananza si levava un debole, acuto ululato seguito da un coro
    di ululati simili, che via via divenivano più fitti e più alti.
    Ancora una volta Buck li riconobbe come cose udite in quell'altro
    mondo che persisteva nella sua memoria. Si portò al centro della
    radura e si mise in ascolto. Era il richiamo. Il richiamo dalle
    molte note che risuonava più allettante e imperioso che mai. E
    come mai prima di allora egli era pronto a obbedire. John Thornton
    era morto, l'ultimo legame era spezzato. L'uomo e le pretese
    dell'uomo non lo tenevano più avvinto.
    Alla caccia di cibo vivo, al pari degli Yeehats, seguendo le piste
    degli alci migranti, il branco dei lupi era finalmente venuto dal
    paese dei fiumi e dei boschi, invadendo la valle di Buck. Nella
    radura inondata dal plenilunio, i lupi si riversarono infine come
    un fiume d'argento; e là nel mezzo stava Buck, immobile come una
    statua, aspettando la loro venuta. Essi ne sbigottirono, tanto era
    grande e immobile, e vi fu un momento di sosta finché il più
    ardito si slanciò contro di lui. Buck colpì come un lampo
    spezzandogli il collo. Poi rimase ancora immobile, mentre il lupo
    colpito ruzzolava agonizzante dietro di lui. Altri tre tentarono
    la prova in rapida successione; e l'uno dopo l'altro si ritirarono
    grondando sangue dalle gole e dalle spalle squarciate.
    Bastò perché l'intero branco si slanciasse in massa confusa e
    compatta, impacciata dalla stessa avidità di balzare sulla preda.
    La prontezza e l'agilità meravigliosa di Buck lo aiutarono
    perfettamente. Ruotando sulle zampe posteriori, azzannando e
    lacerando, egli era dappertutto contemporaneamente, presentando un
    fronte apparentemente continuo, tanto velocemente turbinava
    guardandosi da ogni lato. Ma, per non essere colto alle spalle, fu
    costretto a indietreggiare oltre lo stagno fin nel letto del
    torrente, fino ad addossarsi a un alto banco di sabbia. Riuscì a
    raggiungere un angolo creato entro la riva dagli uomini, nei loro
    lavori di scavo, e in quell'ansa si asserragliò, protetto da tre
    lati, con il solo compito di difendere il fronte.
    Cosi bene lo difese che, dopo una mezz'ora, i lupi
    indietreggiavano sconfitti. Avevano le lingue pendenti, e le
    bianche zanne brillavano crudeli nel plenilunio. Alcuni si erano
    accovacciati con le teste dritte e le orecchie tese in avanti;
    altri erano in piedi e lo osservavano; altri ancora bevevano nello
    stagno. Un lupo lungo grigio e sottile avanzò con cautela, in modo
    amichevole, e Buck riconobbe il fratello selvaggio con cui aveva
    corso per una notte e un giorno. Guaiva sommesso e, poiché Buck
    guaì a sua volta, si toccarono il naso. Allora un vecchio lupo,
    magro e coperto di cicatrici, si fece avanti. Buck contrasse le
    labbra per ringhiare, ma toccò il naso con lui. E il vecchio lupo
    sedette, puntò il naso alla luna e ruppe nel lungo ululo del lupo.
    Gli altri sedettero e ulularono. E adesso il richiamo veniva a
    Buck in accenti inconfondibili. Si accosciò anche lui e ululò.
    Fatto questo, usci dal suo angolo e il branco lo circondò
    annusandolo in modo tra amichevole e selvaggio. I capi levarono il
    latrato del branco e saltarono via, nei boschi. I lupi li
    seguirono latrando in coro. E Buck corse via con loro, a fianco
    del fratello selvaggio, latrando.
    E qui può finire la storia di Buck. Non erano trascorsi molti anni
    quando gli Yeehats notarono un cambiamento tra i lupi del bosco;
    perché ne furono visti alcuni con chiazze brune sulla testa e sul
    muso e una striscia bianca che scendeva in mezzo al petto. Ma,
    cosa ancor più notevole, gli Yeehats raccontano di un Cane
    Fantasma che corre alla testa del branco. Essi temono questo Cane
    Fantasma, perché è assai più astuto di loro, ruba nei loro
    accampamenti nei crudi inverni, vuota le loro trappole, uccide i
    loro cani, e sfida i loro più bravi cacciatori.
    Anzi, la storia diviene anche più truce. Vi sono cacciatori che
    non tornano più al campo e altri ve ne sono stati, trovati dai
    loro compagni di tribù con la gola squarciata e tracce di lupo
    intorno a loro, nella neve, più grandi di quelle di un lupo
    comune. Ogni autunno, quando gli Yeehats seguono la migrazione
    degli alci, vi è una certa valle nella quale non entrano mai. E vi
    sono donne che si rattristano quando, attorno al fuoco, si
    racconta come lo Spirito Malvagio abbia scelto quella valle come
    sua dimora.
    Nell'estate, tuttavia, vi è in quella valle un visitatore che gli
    Yeehats non conoscono. E' un grande lupo dalla meravigliosa
    pelliccia, simile agli altri lupi, e tuttavia diverso da loro.
    Arriva solitario dal ridente paese dei boschi e scende fino a una
    radura tra gli alberi. Là un rivo biondo fluisce da sacchi marciti
    di pelle d'alce e si disperde a terra; lunghe erbe e muschi lo
    ricoprono e nascondono al sole il suo giallo splendore.
    E là egli rimane per qualche tempo silenzioso, ululando una volta
    sola, a lungo e lugubremente, prima di partire.
    Non sempre è solo. Quando vengono le lunghe notti d'inverno e i
    lupi seguono il loro cibo nelle vallate più basse, lo si può
    vedere correre alla testa del branco nella pallida luce lunare o
    nei chiarori crepuscolari dell'aurora boreale, balzando gigantesco
    sopra i suoi compagni, la vasta gola mugghiante mentre canta il
    canto del più giovane mondo, il canto del branco.



    F I N E






    _________Aurora Ageno___________