Lui guadò il ruscello, risalì sull’argine opposto. Lei attraversò il ponte portando con sé lo zaino blu e si fermò alle sue spalle sentendosi felice, inspiegabilmente felice. C’era energia, e una sorta di potenza nel suo modo di lavorare. Non si limitava ad aspettare la natura, ma ne prendeva gentilmente possesso, la conformava ai suoi bisogni, adattandola alle immagini della sua mente.
Imponeva la sua volontà allo scenario, controbattendo ai mutamenti della luce con obiettivi differenti, pellicole diverse, occasionalmente con un filtro. Non si limitava a combattere, bensì esercitava il proprio dominio, usando l’abilità e l’intelletto. Anche gli agricoltori dominavano la terra con i prodotti chimici e i bulldozer. Ma il modo in cui Robert Kinkaid modificava la natura era elastico, e a lavoro ultimato lasciava sempre che le cose riacquistassero la loro forma originaria.
Notò come i suoi jeans si tendevano sulle cosce quando si inginocchiava. Notò la sbiadita camicia di cotone che gli si era incollata alla schiena, i capelli grigi che sfioravano il colletto. Notò la scioltezza con cui si accoccolava sui talloni per regolare qualche pezzo e, per la prima volta dopo un’eternità, si accorse di essersi bagnata semplicemente guardando un uomo. Allora alzò gli occhi verso il cielo della sera e respirò profondamente, ascoltandolo imprecare piano quando un filtro si rifiutò di farsi svitare dall’obiettivo.
Di nuovo lui attraversò il corso d’acqua diretto ai furgoni, sguazzando con i suoi stivaloni di gomma. Francesca entrò sotto il ponte e, quando riemerse dalla parte opposta, lui si era accovacciato e puntava la macchina verso di lei. Scattò, ricaricò, scattò una seconda e una terza volta mentre lei gli andava incontro. Francesca si accorse di sorridere, lievemente imbarazzata.
Sorrise anche lui. “Non si preoccupi. Non userò queste foto senza il suo permesso. Qui ho finito. Credo che mi fermerò al motel a darmi una lavata prima di raggiungerla.”
“Certo, se vuole. Ma posso darle un asciugamano e farle usare la pompa o la doccia, come preferisce”, disse lei, quietamente, seriamente.
“Affare fatto. Mi preceda. Carico l’attrezzatura su Harry, il mio furgone, e la raggiungo.”
A bordo del Ford di Richard, lei uscì in retromarcia dal folto di alberi e imboccò la strada principale, poi girò a destra verso Winterset e infine tagliò a sudovest in direzione di casa sua. C’era troppa polvere per vedere se lui la stava seguendo anche se a un certo punto, uscendo da una curva, le parve di vedere la luce dei suoi fari, circa un chilometro e mezzo più dietro, i fari del rumoroso furgone che lui chiamava Harry.
Doveva essere proprio lui, perché si era appena fermata quando lo sentì risalire il viale. Jack abbaiò un momento, ma tornò subito a sdraiarsi brontolando tra sé: “Lo stesso tizio di ieri sera; tutto okay, immagino”. Kinkaid indugiò un istante a parlare con lui.
“Doccia?” propose Francesca comparendo sulla porta di servizio.
“Sarebbe fantastico. Mi mostri la strada.”
Lo accompagnò di sopra, nel bagno che aveva insistito per far installare quando i figli avevano cominciato a farsi grandi. Era una delle poche richieste su cui aveva tenuto duro. Le piaceva fare lunghi bagni la sera, e non voleva che due adolescenti rumorosi invadessero i suoi spazi privati. Richard utilizzava l’altro bagno; sosteneva di sentirsi a disagio in mezzo a tanti oggetti femminili. “Troppi fronzoli”, era il suo commento.
Il bagno si poteva raggiungere solo attraverso la camera da letto. Lei aprì la porta e dal mobiletto sotto il lavabo estrasse un assortimento di asciugamani e un telo da bagno. “Faccia con comodo.” E sorrise, mordicchiandosi il labbro inferiore.
“Userei volentieri un po’ del suo shampoo, se a lei non dispiace. Il mio è rimasto al motel.”
“Ma certo. Si serva pure.” Posò sul ripiano tre diverse boccette di shampoo, tutte parzialmente usate.
“Grazie.” Quando buttò gli indumenti puliti sul letto, Francesca notò la camicia bianca, i pantaloni kaki e i sandali. Nessuno dei locali portava sandali. Alcuni tra quelli che venivano dalla città avevano cominciato a indossare bermuda per giocare a golf, ma non gli agricoltori. E i sandali… mai più!
Mentre scendeva, sentì scorrere l’acqua della doccia. Ora è nudo, pensò, e fu colta da una strana sensazione al ventre.
Quella mattina stessa, dopo che lui le aveva telefonato, era andata fino a Des Moines, a più di cinquanta chilometri di distanza, al negozio di liquori. Non aveva esperienza in materia e aveva chiesto al commesso di consigliarle un buon vino. Lui non ne sapeva più di lei, ossia praticamente nulla, così Francesca si era guardata in giro finché non aveva notato una bottiglia la cui etichetta diceva: Valpolicella. Si ricordava di quel vino per averlo bevuto tanto tempo prima. Vino rosso italiano, secco. Ne acquistò due bottiglie più una di brandy, sentendosi una donna sensuale e di mondo.
Dopodichè si era spostata in un negozio del centro, alla ricerca di un abito estivo. Ne aveva scelto uno rosa chiaro, con due sottili spalline. Era molto scollato sulla schiena, e sul davanti la scollatura si tuffava profondamente tra i seni, in vita era trattenuto da una fusciacca. Aveva acquistato anche un paio di sandali nuovi, bianchi e costosi, senza tacco, con un delicato lavoro di intarsio sui lacci.
Nel pomeriggio aveva preparato dei peperoni farciti con un ripieno di salsa di pomodoro, riso integrale, formaggio e prezzemolo tritato. Li avrebbe serviti con una semplice insalata di spinaci, pane di granturco, e un soufflé con salsa di mele come dessert. Ora tutto, a parte il soufflé, era in frigorifero.
Preparata la cena, aveva accorciato il vestito nuovo in modo che la gonna le sfiorasse il ginocchio. Qualche tempo prima, sul Register di Des Moines era apparso un articolo che spiegava come quella fosse la moda della stagione. Lei aveva sempre giudicato bizzarri i dettami della moda, che obbligava la gente a comportarsi come pecore, assoggettandosi ai capricci degli stilisti europei, ma quella lunghezza le piaceva e così aveva fatto l’orlo.
Il vino le aveva creato qualche problema. Da quelle parti la gente lo teneva in frigo, sebbene in Italia non lo facesse nessuno. Ma faceva troppo caldo per lasciarlo semplicemente sulla credenza. A quel punto si era ricordata del magazzino costruito sopra la sorgente. In estate lì dentro non c’erano mai più di sedici gradi. Aveva posto le bottiglie per terra, allineate contro il muro.
Il rumore della doccia cessò proprio nel momento in cui il telefono cominciava a squillare. Era Richard dall’Illinois.
“Tutto bene?”
“Sì.”
“Il manzo di Carolyn verrà presentato mercoledì. E il giorno dopo contiamo di vedere qualche altra cosa. Saremo di ritorno venerdì sul tardi.”
“Benissimo. Divertitevi e guida piano.”
“Frannie, sei sicura che sia tutto a posto? Mi sembri un po’ strana.”
“No, sto benissimo. Accaldata, niente di più. Mi sentirò meglio dopo aver fatto il bagno.”
“D’accordo. Saluta Jack da parte mia.”
“Lo farò.” Lei guardò il collie sdraiato sul pavimento della veranda.
Robert Kinkaid comparve sulle scale. Camicia bianca con i primi due bottoni slacciati e le maniche rimboccate fin sotto il gomito, leggeri pantaloni color kaki, braccialetto e catena d’argento. I capelli ancora umidi erano pettinati con cura, divisi nel mezzo. E di nuovo lei si stupì dei sandali.
“Vado a portare la roba sporca sul furgone e a prendere l’attrezzatura, ha bisogno di una pulita.”
“D’accordo. Quanto a me, credo che farò un bagno.”
“Vuole una birra da portarsi di sopra?”
“Se gliene avanza una.”
Per prima cosa lui portò dentro la frigoborsa, ne estrasse una bottiglia e la aprì, mentre lei recuperava due bicchieri alti che potevano passare per boccali. Quando lui uscì di nuovo, lei prese il suo e andò di sopra. Aveva lavato la vasca, notò. Fece scorrere l’acqua calda e lasciò il bicchiere sul pavimento mentre si depilava le gambe e si insaponava. Pensò che lui era stato lì solo pochi minuti prima, che era sdraiata esattamente dove l’acqua era scivolata via dal suo corpo e trovò quella considerazione altamente erotica. Ma ormai quasi tutto quello che concerneva Robert Kinkaid aveva cominciato ad apparirle erotico.
Bastava un semplice bicchiere di birra per rendere elegante anche il momento del bagno. Perché lei e Richard non vivevano in quel modo? In parte, lo sapeva, era a causa dell’inerzia che sempre provocano le abitudini protratte nel tempo. Capitava in tutti i matrimoni, in tutte le relazioni. L’abitudine conduce alla prevedibilità, e la prevedibilità ha i suoi lati positivi; era consapevole anche di questo.
E c’era la fattoria. Come un invalido esigente, richiedeva attenzione costante, sebbene l’aumento delle macchine che si sostituivano al lavoro manuale avesse reso il compito molto meno oneroso che in passato.
Ma lì stava succedendo qualcos’altro. La prevedibilità è un conto, la paura di cambiare un altro. E Richard aveva paura dei cambiamenti, di ogni tipo di cambiamento, nell’ambito del loro matrimonio. Non voleva affrontare l’argomento in generale e, in particolare, non voleva parlare di sesso. L’erotismo era, per certi versi, una faccenda pericolosa, estranea al suo modo di pensare. Non era il solo, naturalmente, e in realtà non era neppure da biasimare. Da dove traeva origine la barriera che era stata eretta contro la libertà? Non solo nella loro fattoria, ma nell’intera cultura rurale. E forse anche in quella urbana. Perché quei muri e quelle recinzioni a impedire relazioni aperte, spontanee, tra uomini e donne? Perché quella mancanza di intimità, quell’assenza di erotismo?
Le riviste femminili ne parlavano. E le donne stavano cominciando a nutrire grandi aspettative nei confronti del ruolo a esse destinato nel grande scenario cosmico, così come di quello di cui erano investite in camera da letto. Gli uomini come Richard – quasi tutti gli uomini, pensava lei – si sentivano minacciati da quelle aspettative. In un certo senso, le donne chiedevano ai loro compagni uomini di essere poeti e nel contempo amanti intensi e appassionati.
Le donne in questo non vedevano alcuna contraddizione. Gli uomini sì. Gli spogliatoi, le feste di soli uomini, le piscine e le ristrette adunate che segnavano la loro esistenza definivano un insieme di caratteristiche maschili in cui non c’era posto per la poesia né per le sfumature del sentimento. Di conseguenza, se l’erotismo era una questione di sfumature, una forma d’arte di per sé, come Francesca sapeva essere, non aveva spazio alcuno nell’ordito delle loro vite. Così continuava la danza fuorviante e convenientemente brillante che li teneva lontani, mentre di notte nella Madison County le donne sospiravano e giravano la faccia verso il muro.
La mente di Robert Kinkaid riusciva a capire tutto questo, implicitamente. Lei ne era sicura.
Mentre si asciugava aggirandosi per la stanza, notò che erano da poco passate le dieci. Faceva ancora caldo, ma il bagno l’aveva rinfrescata. Prese dall’armadio il vestito nuovo.
Si pettinò i capelli all’indietro, legandoli sulla nuca con un fermaglio d’argento. Orecchini d’argento, grandi e a cerchio, e un morbido braccialetto pure d’argento, anche quello comperato quella mattina a Des Moines.
Di nuovo il profumo Wind Song. Un tocco di fard sugli zigomi. Un viso latino, il suo, di una tonalità rosata appena un po’ più chiara di quella dell’abito.
L’abbronzatura che si era procurata lavorando in giardino con addosso solo i pantaloncini e un top faceva risaltare meglio l’insieme. Le gambe snelle evidenziate dalla gonna corta la riempirono di compiacimento.
Davanti allo specchio del comò, si girò prima da una parte, poi dall’altra. E’ il massimo che posso fare, pensò, e poi, soddisfatta, mormorò a mezza voce: “Niente male, però”.
Robert Kinkaid era alla seconda birra e stava mettendo via il suo equipaggiamento. Sollevò la testa nel sentirla entrare.
“Gesù”, alitò. Tutte le emozioni, tutto il suo lavoro di ricerca e di riflessione, una vita di emozioni tornarono ad assalirlo in quel momento. E si innamorò di Francesca Johnson, moglie di un agricoltore della Madison County, Iowa, originaria di Napoli.
“Voglio dire…” la sua voce risuonò un po’ tremula, un po’ rauca… “se non le dispiace che glielo dica, lei è sensazionale. Sensazionale da-fare-il-giro-dell’isolato-urlando. Sul serio. E’ follemente elegante, Francesca, nel senso più puro del termine.”
La sua ammirazione era genuina, lei ne era certa. Vi sprofondò, vi si crogiolò, lasciò che la trasportasse in alto e le penetrasse in ogni poro come olio sgorgato dalle mani di un’ignota divinità che anni prima l’aveva abbandonata per tornare quella sera.
E, nell’esaltazione del momento, s’innamorò di Robert Kinkaid, fotografo-scrittore di Bellingham, Washington, arrivato al volante di un vecchio furgone che si chiamava Harry.
(continua)
_________Aurora Ageno___________