00 19/04/2008 19:21


Poscritto:
Il Caprimulgo
di Tacoma





Mentre scrivevo la storia di Robert Kinkaid e Francesca Johnson, mi scoprii sempre più affascinato dal fotografo di cui si sapeva così poco. Poche settimane prima che il libro venisse dato alle stampe, volai a Seattle in cerca di ulteriori informazioni sul suo conto.
Dato che amava la musica ed era lui stesso un artista, pensavo che qualche rappresentante della comunità artistica e musicale di Puget Sound potesse averlo conosciuto. Trovai aiuto nel direttore artistico del Seattle Times. Sebbene non avesse conosciuto personalmente Kinkaid, mi consentì l'accesso alle relative rubriche del giornale nell'arco di tempo compreso tra il 1975 e il 1982, ossia il periodo a cui ero particolarmente interessato.
Esaminando i numeri del 1980, mi imbattei nella foto di un musicista jazz di colore, il sassofonista John «Caprimulgo» Cummings. La foto portava la firma di Robert Kinkaid. Il locale sindacato musicisti mi fornì il recapito di Cummings, informandomi che si era ritirato dalle scene già da qualche anno. L'indirizzo era quello di una strada secondaria nei pressi di un quartiere industriale di Tacoma, non lontano dall'autostrada che scende da Seattle.
Dovetti tornare all'appartamento di Cummings parecchie volte prima di trovarlo a casa. In un primo tempo l'ex sassofonista si mostrò diffidente, ma quando lo ebbi convinto del mio genuino e benevolo interesse nei confronti di Kinkaid, divenne molto più cordiale e aperto. Quella che segue è la trascrizione, solo leggermente ritoccata, della mia intervista a Cummings, che all'epoca del nostro incontro aveva settant'anni. Io non feci altro che accendere il registratore e ascoltarlo parlare di Robert Kinkaid.


Intervista con «Caprimulgo» Cummings

Ero stato ingaggiato da Shorty, a Seattle, dove abitavo a quel tempo, e mi serviva una foto in bianco e nero per farmi pubblicità. Il bassista mi disse che su una delle isole viveva un fotografo che ci sapeva fare. Dato che non aveva il telefono, gli mandai una cartolina.
Arrivò. Un tipo strano, abbastanza anziano, in jeans, stivali e bretelle arancioni. Tira fuori certe macchine fotografiche così conciate che si faceva fatica a credere che funzionassero, e io penso: Uh-oh. Mi fa mettere contro una parete dipinta di chiaro con il mio sax e mi dice di suonare. Suono. Per i primi tre minuti lui se ne sta lì a fissarmi, e intendo fissarmi sul serio; aveva gli occhi azzurri più freddi che abbia mai visto.
Dopo un po' comincia a scattare. Poi mi chiede se conosco Autumn Leaves. Gli dico di sì e attacco il pezzo. Suono per dieci minuti buoni, mentre lui si dà un gran da fare, scattando una foto dopo l'altra. Alla fine dice: "Okay, ho finito. Gliele porto domani".
Il giorno dopo, quando arriva con le foto, io resto secco. Mi sono fatto fare un sacco di fotografie nella vita, ma quelle erano di gran lunga le migliori. Mi chiese cinquanta dollari, una miseria, mi sembrò. Lui mi ringraziò e prima di andarsene mi chiese dove mi esibivo. "Da Shorty", risposi io.
Qualche sera dopo, guardo tra il pubblico e lo vedo seduto a un tavolo d'angolo, che ascolta tutto intento. Be', da quel giorno cominciò a venire una volta alla settimana, sempre il martedì, e beveva sempre birra; senza mai esagerare, però.
A volte, durante una pausa, andavo a scambiare quattro chiacchiere con lui. Era un tipo tranquillo, non parlava molto, ma era gradevole, educato, e tutte le volte mi chiedeva di suonargli Autumn Leaves.
Con il tempo arrivammo a conoscerci un po' meglio. A me piaceva scendere al porto per guardare il mare e le navi, e saltò fuori che piaceva anche a lui. Così prendemmo a passare interi pomeriggi seduti su una panchina, a parlare. Solo un paio di vecchietti che se la prendono comoda, perché cominciano a sentirsi un po' inutili, un po' sorpassati.
Portava sempre il suo cane con sé. Un bel cane. Si chiamava Highway.
Capiva la magia. Anche i musicisti jazz la capiscono. Probabilmente è per questo che andavamo d'accordo. Suoni un brano che in passato hai già suonato mille volte, e di colpo un sacco di idee nuove sgorgano dal tuo strumento, senza che tu te ne renda neppure conto. Lui diceva che era così anche per la fotografia, e per la vita in generale. Un giorno aggiunse: "E quando si fa l'amore con la donna che si ama".
Stava lavorando a qualcosa in cui cercava di trasformare la musica in immagini. Mi disse: "John, hai presente quel riff che suoni quasi sempre nella quarta battuta di Sophisticated Lady? Be', credo di essere riuscito a riportarlo su pellicola, l'altra mattina. La luce sull'acqua era quella giusta e c'era un airone azzurro che continuava a volteggiare nel mirino. Vedevo il tuo riff mentre lo ascoltavo e premevo il pulsante di scatto".
Dedicava tutto il suo tempo a questa faccenda della musica tradotta in immagini. Ne era ossessionato. Non so come facesse a mantenersi.
Non parlava mai molto di se stesso. Sapevo che aveva viaggiato parecchio per lavoro, ma questo fu tutto fino al giorno in cui gli chiesi che cosa fosse la medaglietta che portava al collo. Guardandola da vicino, avevo notato che vi era inciso il nome Francesca. Così gli domandai: "Significa qualcosa di speciale?"
Lui per un po' non rispose; fissava l'acqua in silenzio. Poi disse: "Quanto tempo hai?"
Be', era lunedì, la mia serata libera; gli assicurai che ne avevo in abbondanza.
Cominciò a parlare. Era come se qualcuno avesse improvvisamente aperto un rubinetto. Parlò per tutto il pomeriggio e per buona parte della notte. Ebbi l'impressione che si fosse tenuto tutto dentro per un'infinità di tempo.
Non pronunciò mai il cognome della donna, e neppure il luogo in cui tutto era successo. Ma, ragazzi, quel Robert Kinkaid diventava poeta quando parlava di lei. Doveva essere stata qualcosa di realmente speciale, una signora fuori del comune. Cominciò citando un racconto che aveva scritto per lei... qualcosa a proposito della Dimensione Z, ricordo. Rammento di aver pensato che assomigliava a una di quelle improvvisazioni di Ornette Coleman.
E, ragazzi, mentre parlava, piangeva. Grosse lacrime, di quelle che solo un vecchio può versare, di quelle che per metterle in musica ci vuole un sassofono. Fu allora che capii perché mi chiedeva sempre di suonare Autumn Leaves. E incominciai a volergli bene. Chiunque sia capace di provare certe cose per una donna merita di essere amato.
Così cominciai a pensarci... al potere di questa cosa che lui e la donna condividevano. A quelli che lui chiamava gli «antichi istinti». E mi dissi: "Devo riuscire a mettere in musica questo potere, questa storia d'amore, devo far uscire questi antichi istinti dal mio sax". C'era qualcosa di maledettamente lirico in quello che mi aveva raccontato.
Fu così che scrissi il brano... ci impiegai tre mesi. Volevo che fosse semplice, elegante. E' facile realizzare le cose complicate. Ma la semplicità è difficile da raggiungere. Ci lavorai ogni giorno finché non sentii di essere sulla strada giusta. Ci detti dentro ancora per un po' e buttai giù una partitura per pianoforte e basso. E una sera lo suonai.
Lui era tra il pubblico; martedì sera, come al solito. Era una serata fiacca, non più di venti persone in tutto, e nessuno che facesse particolare attenzione all'orchestra.
Se ne stava seduto lì, tranquillo come sempre, ad ascoltare, e a un certo punto io presi il microfono e dissi: "Ora vi suonerò un pezzo che ho scritto per un mio amico. Si intitola Francesca".
Mentre parlavo lo tenevo d'occhio. Fissava la bottiglia di birra, ma quando dissi Francesca, alzò lentamente lo sguardo, si ravviò i lunghi capelli grigi con entrambe le mani, accese una Camel e mi puntò addosso quei suoi occhi azzurri.
Non ho mai più suonato come quella sera, quando feci piangere il mio sax per tutti gli anni e i chilometri che dividevano quei due. Nella prima aria c'era un breve motivo melodico che in qualche modo scandiva il nome di lei... Fran... ce... sca.
Quando finii, per un istante lui rimase seduto, le spalle ben dritte, poi sorrise annuendo, pagò il conto e se ne andò. Da quella sera, quando c'era lui suonai sempre quella canzone. Per ringraziarmi, fece incorniciare una fotografia che raffigurava un vecchio ponte coperto e me la regalò. E' appesa lì, sulla parete. Non mi rivelò mai dove l'avesse scattata, ma sotto la sua firma c'è scritto «Roseman Bridge».
Un martedì sera, sette o forse otto anni fa, non venne. E neppure la settimana successiva. Penso, magari è ammalato o qualcosa del genere. Preoccupato, vado al porto, comincio a chiedere in giro. Nessuno ne sa nulla. Alla fine raggiungo in barca l'isola su cui viveva. Stava in un vecchio chalet, una baracca, in effetti, vicino alla riva.
Mentre mi guardo intorno, arriva un vicino e mi chiede che cosa sto facendo lì. Glielo spiego e quello mi dice che il fotografo è morto dieci giorni prima. Ragazzi, se mi fece male. Fa male ancora adesso. Quel tipo mi piaceva un sacco. C'era qualcosa in lui, qualcosa. Avevo la sensazione che sapesse cose di cui il resto di noi non sa niente.
Chiedo al vicino notizie del cane. Non ne sa nulla. Dice che non conosceva neppure Kinkaid. Allora chiamo il canile municipale, e sì, mi dicono, il vecchio Highway è da loro. Vado a prenderlo e lo affido a mio nipote. L'ultima volta che l'ho visto, lui e il ragazzino erano proprio innamorati. Mi ha fatto un gran piacere.
Questo è tutto, direi. Non molto tempo dopo aver saputo della morte di Kinkaid, il braccio sinistro cominciò a darmi delle noie: si intorpidiva ogni volta che suonavo per più di venti minuti di fila. Un problema di vertebre, pare. Così mi sono ritirato.
Ma, ragazzi, sono ossessionato dalla storia che mi raccontò, la storia sua e della donna. E' per questo che ogni martedì sera tiro fuori il mio sax e suono il pezzo che ho composto per lui. Lo suono qui, tutto solo.
E mentre suono, guardo la fotografia che lui mi regalò. C'è qualcosa in quella foto, non so che cosa sia, ma quando suono la sua canzone non riesco a smettere di guardarla.
Me ne sto lì, verso il crepuscolo, e faccio piangere il mio sax e suono per un uomo che si chiamava Robert Kinkaid e una donna a cui lui dava il nome di Francesca.






















_________Aurora Ageno___________