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I PONTI DI MADISON COUNTY- di Robert James Waller - Romanzo completo - Per adulti

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    00 07/04/2008 03:44

    Era ormai mattino quando si sollevò leggermente e le disse, guardandola negli occhi: "Ecco perché sono su questo pianeta, in questo tempo, Francesca. Non per viaggiare o fare fotografie, ma per amarti. Adesso lo so. Per molti più anni di quanti non ne abbia vissuti, ho continuato a precipitare dall'orlo di un luogo immenso e altissimo. E in tutti questi anni, precipitavo verso di te".
    Quando tornarono di sotto, la radio era ancora accesa. Era sorta l'aurora, ma una sottile cortina di nubi nascondeva il sole.
    "Ho un favore da chiederti, Francesca." Le sorrise, mentre la osservava armeggiare con la caffettiera.
    "Sì?" Lo guardò. Dio, lo amo così tanto, pensò incerta, desiderandolo ancora, senza smettere mai.
    "Mettiti i jeans e la maglietta che portavi ieri pomeriggio, e un paio di sandali. Nient'altro. Voglio fotografarti così come sei stamattina. Una fotografia per noi due soltanto."
    Lei risalì al piano di sopra, malferma sulle gambe, con cui lo aveva tenuto avvinto per tutta la notte, si vestì e insieme raggiunsero il pascolo. Ecco dove le aveva scattato la foto che anno dopo anno tornava a guardare.





    (continua)

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    auroraageno
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    00 07/04/2008 03:48

    L'autostrada e
    il pellegrino



    Nei giorni successivi Robert Kinkaid trascurò la fotografia. E, fatta eccezione per le poche incombenze necessarie, di cui minimizzava comunque l'entità, Francesca Johnson trascurò la routine della fattoria.
    Trascorrevano tutto il tempo insieme, parlando o facendo l'amore. Due volte, dietro richiesta di lei, lui suonò la chitarra e cantò con voce fra il discreto e il buono, era un po' a disagio e le rivelò di non avere mai cantato in pubblico. Lei sorrise e lo baciò, poi si lasciò trasportare dalle sensazioni, mentre lo ascoltava cantare di baleniere e venti del deserto.
    Lo accompagnò a Des Moines, dove Robert spedì le pellicole a New York. Quando era possibile, si faceva sempre precedere dai primi rullini, in modo che i redattori potessero farsi un'idea del lavoro e i tecnici assicurarsi che l'apparecchiatura funzionasse a dovere.
    Dopo, lui la portò a colazione in un grazioso ristorante e le tenne le mani sul tavolo, sorridendole in quel suo modo intenso. E il cameriere sorrise a sua volta guardandoli, e si augurò di provare anche lui qualcosa del genere, un giorno o l'altro.
    Lei si meravigliava della sicurezza con cui Robert Kinkaid presentiva la sua prossima fine, e della facilità con cui l'accettava. Robert scorgeva con chiarezza l'imminenza della morte dei cowboy e di altri come loro, compreso lui stesso. E Francesca cominciò a capire che cosa intendesse quando sosteneva di essere l'ultimo prodotto di un ramo dell'evoluzione condannato a estinguersi. Una volta, parlando di quelle che lui definiva le "ultime cose", le sussurrò: " 'Mai più', gridò il Signore dell'Alto Deserto. 'Mai, mai, mai più' ". Dopo di sé, lungo quella direzione non vedeva più nulla. Apparteneva a una specie in estinzione.
    Il giovedì pomeriggio, dopo aver fatto l'amore, parlarono. Entrambi riconoscevano l'inevitabilità di quella conversazione. Entrambi avevano preferito evitarla fino a quel momento.
    "Che cosa faremo?" chiese lui.
    Lei rimase in silenzio, lacerata. Poi: "Non lo so", disse piano.
    "Senti, resterò qui, se vuoi. Oppure in città. Quando la tua famiglia tornerà, parlerò con tuo marito e gli spiegherò la situazione. Non sarà facile, ma dev'essere fatto."
    Lei scosse la testa. "Richard non capirebbe mai; lui non ragiona in questi termini. Non capisce la magia, la passione e tutte le altre cose di cui noi parliamo e che viviamo, non lo farà mai. Questo non lo rende necessariamente un individuo inferiore. Ma è troppo lontano da quello che ha sempre provato e pensato. Non ha gli strumenti necessari."
    "Dobbiamo rinunciare a tutto, dunque?" Era serio, non sorrideva.
    "Non so neppure questo. Robert, in un certo senso, io ti appartengo. Non volevo che accadesse, non ne sentivo la necessità, e so che questo vale anche per te, ma è andata così. In realtà non sono seduta qui sull'erba, accanto a te. Mi hai dentro di te, come una prigioniera volontaria."
    "Non sono sicuro di averti dentro di me, né di essere dentro di te, e neppure di possederti", replicò lui. "E in ogni caso, non è al possesso che aspiro. Credo invece che siamo entrambi dentro un altro essere che abbiamo creato, e che si chiama 'noi'.
    "No, neppure: non siamo realmente dentro a questo essere, lo siamo. Abbiamo perduto noi stessi e creato qualcos'altro, qualcosa che esiste solo in quanto ci unisce. Cristo, ci amiamo. Con tutta la profondità, l'intensità con cui è possibile amarsi.
    "Vieni in viaggio con me, Francesca. Non ci sono difficoltà. Faremo l'amore sulla sabbia del deserto e berremo brandy sulle terrazze di Mombasa, guardando i dhows arabi prendere il largo con il primo vento del mattino. Ti mostrerò il paese dei leoni e una vecchia cittadina francese nella Baia del Bengala dove c'è un magnifico ristorante sul tetto, e treni che si inerpicano tra passi di montagna e piccole locande gestite da baschi, nei Pirenei. In una riserva di tigri dell'India meridionale c'è un posto speciale su un'isola che sta in mezzo a un enorme lago. Se viaggiare, non ti piace, ci stabiliremo da qualche parte e per mantenerci aprirò un negozio, facendo ritratti e matrimoni, qualsiasi cosa."
    "Robert, mentre facevamo l'amore, stanotte, hai detto qualcosa che non ho dimenticato. Continuavo a sussurrarti del tuo potere... e, mio Dio, ce l'hai davvero. Hai detto: 'Io sono l'autostrada e il pellegrino e tutte le vele che hanno mai solcato i mari'. Avevi ragione. Questo è il tuo modo di sentire la vita, hai la strada dentro di te. Di più: non so bene come spiegarmi, ma in un certo senso tu sei la strada. Nel punto in cui realtà e illusione si incontrano, ecco dove sei, là fuori sulla strada, e tu sei la strada.
    "Sei vecchi zaini e un furgone che si chiama Harry e jet in volo verso l'Asia. Ed è questo che voglio che tu sia. Se, come dici, il ramo dell'evoluzione a cui appartieni è morto, allora voglio che tu corra verso quella morte a tutta velocità. E non sono certa che ci riusciresti con me accanto. Vedi, ti amo così tanto che non posso pensare di limitarti, neppure per un istante. Sarebbe come uccidere il magnifico, selvaggio animale che sei, e il suo potere morirebbe con lui."
    Lui fece per parlare, ma Francesca lo interruppe.
    "Non ho ancora finito. Se tu ora mi prendessi tra le braccia e mi trasportassi sul furgone, costringendomi a seguirti, non esprimerei la minima protesta. Potresti riuscire nello stesso intento anche semplicemente parlandomi. Ma non credo che lo farai. Sei troppo sensibile, troppo attento ai miei sentimenti. E io sento di avere delle responsabilità, qui
    "Sì, per certi versi è noiosa. La mia vita, intendo. Manca di romanticismo, di erotismo, di balli in cucina a lume di candela, e della meravigliosa presenza di un uomo che sa come amare una donna. Soprattutto, manchi tu. Ma c'è questo mio maledetto senso di responsabilità. Verso Richard, verso i ragazzi. Se me ne andassi, se privassi Richard della mia presenza fisica, per lui sarebbe già un colpo durissimo. Basterebbe questo a distruggerlo.
    "Ma più grave e ancora più doloroso sarebbe per lui il dover sopportare per il resto della sua vita i mormorii della gente di qui: 'Quello è Richard Johnson. La sua focosa mogliettina italiana lo ha piantato qualche anno fa per andarsene con un fotografo capellone'. Richard ne soffrirebbe e i ragazzi diventerebberto l'oggetto degli scherni di tutta Winterset. Anche loro soffrirebbero. E mi odierebbero per quello che ho fatto.
    "Per quanto ti voglia e per quanto desideri starti vicino, diventare parte di te, non posso sottrarmi alla realtà delle mie responsabilità. Se tu mi costringessi, fisicamente o con le parole, verrei con te, come ti ho detto, non mi opporrei. Non ne avrei la forza, perché ti amo. A dispetto di quanto ho detto sulla mia riluttanza ad allontanarti dalla strada, ti seguirei perché è quello che egoisticamente desidero.
    "Ma ti prego, non farlo. Non forzarmi a dimenticare tutto questo, le mie responsabilità. Non ci riuscirei mai del tutto e vivrei per tutta la vita nel rimorso. Se ora venissi via con te, questa consapevolezza mi trasformerebbe in qualcosa di diverso dalla donna che hai imparato ad amare."
    Robert Kinkaid non parlò. Capiva quello che lei diceva a proposito della strada e delle responsabilità, e di come il senso di colpa avrebbe finito con il cambiarla. Sapeva che, per un verso, aveva ragione. Mentre guardava fuori, combatté con se stesso, sforzandosi di rendere totale quella comprensione. Lei scoppiò a piangere.
    Rimasero a lungo abbracciati. Lui le bisbigliò: "Ho solo una cosa da dire, una cosa soltanto; non la ripeterò mai più a nessuno e ti chiedo di ricordarla: in un universo di ambiguità, questo genere di certezza viene una volta e una soltanto, per quante vite si possano vivere".


    (continua)

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    00 09/04/2008 02:16

    Fecero l'amore di nuovo quella notte, giovedì notte, e restarono sdraiati vicini fino all'alba e molto oltre, sfiorandosi e bisbigliando. Francesca dormì un poco, e quando si svegliò il sole era già alto e rovente. Nel sentire il cigolio di una delle portiere di Harry che si apriva, si buttò in fretta qualcosa addosso e scese di sotto.
    Lui aveva preparato il caffè e sedeva fumando al tavolo di cucina. Le sorrise. Lei attraversò la stanza e andò a seppellire il viso sulla sua spalla, le mani affondate nei suoi capelli e le sue braccia intorno alla vita. Lui la fece girare e la prese in braccio, accarezzandola.
    Infine si alzò, portava i suoi vecchi jeans, con le bretelle arancioni su una camicia kaki pulita, gli stivali Red Wing allacciati stretti, il coltello fissato alla cintura. Da una tasca del gilè, appeso a una sedia, sporgeva il flessibile dello scatto. Il cowboy era di nuovo in sella.
    "E' meglio che vada."
    Lei annuì e cominciò a piangere. Vide le lacrime anche nei suoi occhi, ma lui non aveva smesso di sorriderle in quel suo modo timido.
    "Potrò scriverti qualche volta? Vorrei almeno mandarti una foto o due."
    "Certo." Francesca si asciugò gli occhi con lo strofinaccio appeso allo sportello della credenza. "Inventerò qualcosa che spieghi perché ricevo posta da un fotografo hippie, a condizione che non capiti troppo spesso."
    "Hai il mio indirizzo e il numero di telefono di Bellingham, vero?" Lei annuì di nuovo. "Se non mi trovi lì, prova alla redazione del National Geographic. Ecco, ti scrivo il numero." Lo annotò sul taccuino posato accanto al telefono, strappò il foglietto e glielo porse.
    "Se anche dovessi perderlo, potrai sempre trovarlo su un numero qualsiasi della rivista. Chiedi degli uffici editoriali. Sanno quasi sempre dove trovarmi.
    "Non esitare a chiamarmi se avrai voglia di vedermi, o anche soltanto per parlare. In qualunque parte del mondo mi trovi, prenota la chiamata a mio carico. In questo modo non comparirà sulla vostra bolletta. Io resterò nei paraggi ancora per qualche giorno. Rifletti su quello che ti ho detto. Posso rimanere qui e sistemare tutto in fretta. E dopo andremo a nord-ovest insieme."
    Francesca non disse niente. Non dubitava che lui avrebbe saputo sistemare tutto in un batter d'occhio. Richard era di cinque anni più giovane, ma non reggeva il confronto con Robert Kinkaid, né fisicamente né intellettualmente.
    Lo guardò infilarsi il gilè. Aveva la mente vuota e vorticante. "Non andartene, Robert Kinkaid", si sentì supplicare, e fu come se quel grido scaturisse da una parte ignota della sua anima.
    Lui la prese per mano, la guidò oltre la porta e verso il furgone. Aprì la portiera dalla parte del guidatore, posò un piede sul predellino, quindi tornò ad appoggiarlo per terra e la strinse a sé per parecchi minuti. Nessuno dei due parlò, rimasero così, a trasmettere e a ricevere sensazioni, imprimendosi reciprocamente addosso la realtà dell'altro. Riaffermando l'esistenza di quell'essere speciale di cui lui aveva parlato.
    Per l'ultima volta, lui la lasciò andare e salì sul furgone, ma senza chiudere la portiera. Le lacrime gli rigavano le guance. Le lacrime rigavano le guance di lei. Lentamente chiuse la portiera, che cigolò. Come sempre, Harry era riluttante a mettersi in moto, ma lei sentì lo stivale di lui premere sull'acceleratore finché il motore si avviò.
    Lui ingranò la retromarcia, indugiò ancora con la mano sul cambio. Serio prima, poi con un sorriso ammiccante, indicò il viale. "La strada, sai com'è. Il mese prossimo sarò nell'India sudorientale. Vuoi che ti mandi una cartolina?"
    Lei non poteva parlare, ma fece un cenno di diniego con la testa. Sarebbe stato troppo per Richard, se l'avesse trovata nella cassetta delle lettere. Lo vide annuire e fu certa che avesse capito.
    In retromarcia, con le ruote che scricchiolavano sulla ghiaia, il furgone attraversò il cortile. Spaventate, le galline si diedero precipitosamente alla fuga; Jack ne inseguì una fino al capannone abbaiando.
    Robert Kinkaid la salutò agitando la mano fuori dal finestrino dalla parte del passeggero. Il sole si rifletteva balenando sul braccialetto d'argento. I primi due bottoni della camicia erano slacciati.
    Imboccò il vialetto. Francesca continuava ad asciugarsi gli occhi, cercando di vedere la luce del sole che creava prismi bizzarri tra le sue lacrime. Come aveva fatto la sera del loro primo incontro, si affrettò lungo il sentiero per seguire con lo sguardo il vecchio furgone che si allontanava sobbalzando. Arrivato in fondo, Harry si fermò, la portiera si aprì di scatto e lui comparve sul predellino. Poteva vederla, un centinaio di metri più indietro, rimpicciolita dalla distanza.
    Rimase lì, accanto ad Harry che ronzava impaziente nel caldo, a guardare. Nessuno dei due si mosse; si erano già detti addio. Si guardarono in silenzio... la moglie di un agricoltore dello Iowa, la creatura che concludeva un ramo dell'evoluzione, uno degli ultimi cowboy. Per trenta secondi lui restò lì, e i suoi occhi da fotografo registrarono ogni particolare, per creare un'immagine che non avrebbe mai più dimenticato.
    Infine richiuse la portiera, ingranò la marcia ed ecco che piangeva di nuovo mentre girava a sinistra sulla provinciale, in direzione di Winterset. Tornò a voltarsi un istante prima che un folto d'alberi sul lato nordoccidentale della fattoria gli ostruisse la visuale, e la vide: seduta per terra a gambe incrociate nel punto d'accesso al vialetto, la testa fra le mani.


    (continua)

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    00 10/04/2008 01:23


    Richard e i ragazzi arrivarono nelle prime ore della serata, pieni di aneddoti da raccontare e inalberando il nastro che il manzo aveva vinto prima di essere venduto perché fosse macellato. Carolyn si attaccò immediatamente al telefono. Era venerdì, e Michael andò in città col furgone per fare le cose che di solito fanno i diciassettenni il venedì sera... più che altro gironzolare per la piazza e gridare dietro alle ragazze che passavano in macchina. Richard sedette davanti al televisore, e intanto diceva a Francesca com'era buono il pane di granturco che stava mangiando con burro e sciroppo d'acero.
    Lei andò a sedersi nella veranda sul retro, sulla sedia a dondolo. Richard la raggiunse al termine del programma che aveva seguito, alle dieci passate. "E' proprio bello essere di nuovo a casa", brontolò, stirandosi. Poi la guardò. "Stai bene, Frannie? Sembri un po' stanca, distratta o che so io."
    "Sto bene. Sono contenta che siate qui sani e salvi."
    "Be', me ne vado a letto. E' stata una settimana lunga e sono a pezzi. Vieni anche tu, Frannie?"
    "Non subito. Si sta bene qua fuori, credo che resterò un altro po'." Era stanca, ma aveva paura che Richard volesse fare l'amore e quella sera non avrebbe potuto sopportarlo. Lo sentì muoversi in camera da letto, mentre si dondolava sulla sedia, a piedi nudi a contatto del pavimento. Arrivava fino a lei il suono della radio di Carolyn.
    Nei giorni successivi evitò di andare in città, neppure per un istante le riusciva di dimenticare che Robert Kinkaid era a pochi chilometri di distanza. Non credeva che avrebbe potuto trattenersi se lo avesse rivisto. Probabilmente gli sarebbe corsa incontro gridando: "Subito! Dobbiamo andarcene subito!" Aveva accettato il rischio andando a incontrarlo al Cedar Bridge, rivederlo ora sarebbe stato un pericolo troppo grande.
    Il martedì rimasero a corto di provviste e Richard aveva bisogno di un pezzo di ricambio per la trebbiatrice che stava riparando. Era una giornata deprimente, piovosa, nebbiosa, fredda per essere agosto.
    Richard si procurò il pezzo di ricambio e si fermò al caffè mentre lei faceva la spesa. Sapeva quanto ci impiegava abitualmente, e quando uscì dal Super Value, Francesca lo trovò ad aspettarla. Con il suo berretto Allis-Chalmers, lui saltò giù dal furgone, la aiutò a caricare i sacchetti, sistemandoli sul sedile e intorno alle gambe di lei. Francesca pensò a cavalletti e zaini.
    "Devo tornare alla concessionaria. Ho dimenticato un altro pezzo."
    Puntarono a nord lungo la statale 169, la strada principale di Winterset. A un isolato a sud della Texaco lei vide Harry che usciva dalla stazione di servizio, i tergicristalli in funzione. Si immise nella strada davanti a loro.
    La velocità li portò proprio dietro al vecchio furgone. Francesca scorse un'incerata nera tesa sul vano posteriore; sotto di essa si intravedevano i contorni di una valigia e di una custodia per chitarra, incuneate accanto alla ruota di scorta. Sebbene la pioggia avesse imbrattato il lunotto posteriore, la testa di lui era parzialmente visibile. Lo vide chinarsi in avanti, come per prendere qualcosa dal cassetto dei guanti; otto giorni prima aveva fatto lo stesso, e la sua mano le aveva sfiorato la gamba. Una settimana prima lei era a Des Moines a comperare un abito rosa.
    "Quel furgone è parecchio lontano da casa", osservò Richard. "Stato di Washington. Si direbbe che alla guida ci sia una donna. O comunque, qualcuno con i capelli lunghi, Ripensandoci, potrebbe essere il fotografo di cui parlavano al caffè."
    Seguirono Robert Kinkaid per qualche isolato ancora, fino al punto in cui la 169 incrociava la 92, che si stendeva a est e a ovest. Era un crocevia a quattro strade e il traffico, sempre intenso, quel giorno era appesantito dalla pioggia e dalla foschia.
    Rimasero fermi all'incrocio per qualche secondo. Lui era davanti a loro, a non più di dieci metri di distanza. Poteva ancora farcela. Scendi e corri ad aprire la portiera di Harry, arrampicati tra gli zaini e i cavalletti.
    Robert Kinkaid l'aveva salutata il venerdì precedente, e da allora lei si era resa conto che, pur sapendo di amarlo infinitamente, aveva nondimeno sottovalutato i propri sentimenti. Sembrava impossibile, ma era proprio così. Aveva cominciato a capire quello che lui aveva già compreso.
    Ma non si mosse, immobilizzata dalle sue responsabilità, guardando il lunotto posteriore con un'intensità che fino ad allora non aveva mai dedicato a nessuna cosa. Vide lampeggiare la freccia di sinistra, ancora un istante e sarebbe scomparso. Richard stava armeggiando con le manopole della radio.
    Per uno strano scherzo della mente, lei cominciò a vedere tutto come al rallentatore. Ecco... si preparava a partire... lentamente... portò Harry al centro dell'incrocio... le sembrava di vedere le sue lunghe gambe muoversi sulla frizione e l'acceleratore, e i muscoli del braccio guizzare mentre manovrava il cambio... girò a sinistra sulla 92, in direzione di Council Bluffs, delle Black Hills e del nord-ovest... lentamente... lentamente, oh, quanto lentamente! Il malconcio furgone oltrepassò l'incrocio, il muso rivolto a occidente.
    Strizzando gli occhi per disperdere le lacrime, la pioggia e la nebbia, riuscì a distinguere a stento la sbiadita scritta rossa sulla fiancata: "Kinkaid Fotografia - Bellingham, Washington".
    Lui aveva abbassato il finestrino per vedere meglio durante la manovra. Quando svoltò e accelerò lungo la statale 92, lei scorse i suoi capelli svolazzare al vento. Poi il finestrino venne richiuso.
    "Oh, Cristo... oh, Gesù Onnipotente... no!" Le parole si affollavano dentro di lei. "Mi sbagliavo, Robert, sbagliavo a voler restare... ma non posso venire... lascia che ti spieghi di nuovo... perché non posso venire... ripetimi ancora perché dovrei seguirti."
    E poi sentì la sua voce scendere lungo la superstrada verso di lei. "In un universo di ambiguità, questo genere di certezza viene una volta e una soltanto, per quante vite si possano vivere."
    Richard attraversò l'incrocio in direzione nord. Per un istante lei guardò oltre il suo viso, verso i fanalini di coda di Harry che sparivano tra la pioggia. Il vecchio pickup sembrava piccolissimo, affiancato da un enorme semirimorchio che entrava ruggendo in Winterset, schizzando acqua sporca sull'ultimo cowboy.
    "Addio, Robert Kinkaid", bisbigliò, e cominciò a piangere senza più nascondersi.
    Richard si voltò a guardarla. "Cosa c'è che non va, Frannie? Vuoi per piacere dirmi cosa non va in te?"
    "Solo un momento, Richard. Lasciami in pace. Fra poco starò bene."
    Lui si sintonizzò sulla stazione radio che trasmetteva il notiziario degli agricoltori, la guardò di nuovo e scosse la testa.






    (continua)

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    Ceneri


    La notte era scesa sulla Madison County. Era il 1987, il giorno del suo sessantasettesimo compleanno. Francesca era a letto da due ore. Ventidue anni erano trascorsi, e lei vedeva, toccava e udiva ancora tutto quello che era accaduto allora.
    Aveva ricordato, e poi ricordato di nuovo. L'immagine dei fanalini rossi che si perdevano tra la pioggia e la foschia lungo la statale 92 l'aveva ossessionata per più di due decenni. Si sfiorò i seni e le parve di sentire il suo torace sopra di lei. Dio, come lo amava. Lo aveva amato allora, più di quanto avesse mai creduto possibile, e lo amava ora perfino di più.
    Scese di sotto e andò a sedersi al vecchio tavolo con il piano di formica gialla. Quando, tempo addietro, Richard aveva insistito per acquistarne uno nuovo, lei aveva chiesto che quello vecchio venisse conservato nel capannone, e prima che lo portassero via lo aveva avvolto con cura in un telo di plastica.
    "Non capisco perché sei tanto attaccata a quel vecchio tavolo", aveva borbottato lui mentre la aiutava. Dopo la morte di Richard, dietro richiesta di lei, Michael lo aveva riportato in casa; non le aveva chiesto perché lo preferisse al nuovo, limitandosi a guardarla con aria interrogativa, ma Francesca non aveva dato spiegazioni.
    Ora sedette al tavolo, ma si rialzò quasi subito e dalla credenza prese due candele bianche infilate in piccoli candelieri d'ottone. Le accese e accese anche la radio, girando la manopola finché non si imbatté in una stazione che trasmetteva musica lenta.
    Rimase a lungo in piedi vicino al lavello, la testa appena inclinata, guardando il viso di lui, e bisbigliò:
    "Non ti ho dimenticato, Robert Kinkaid. Forse il Signore dell'Alto Deserto aveva ragione. Forse tu eri l'ultimo. Forse i cowboy sono ormai tutti vicini a morire".
    Prima della morte di Richard non aveva mai tentato di mettersi in contatto con Kinkaid, sebbene per anni ogni giorno fosse stata sul punto di farlo. Se gli avesse parlato di nuovo anche solo una volta, sarebbe andata da lui. E sapeva che se gli avesse scritto, sarebbe stato lui a raggiungerla. Neppure Robert si era fatto più vivo, dopo averle mandato le fotografie e il dattiloscritto. Francesca sapeva che lui comprendeva il suo stato d'animo e non ignorava le complicazioni che avrebbe potuto causarle.
    Nel settembre del 1965 si abbonò al National Geographic. Il servizio sui ponti coperti venne pubblicato l'anno successivo; c'era il Roseman Bridge ripreso nella calda luce del primo mattino, il mattino in cui lui aveva trovato il suo biglietto. In copertina campeggiava la foto di un carro trainato da due cavalli in direzione dell'Hogback Bridge. Kinkaid era autore anche del testo.
    In ultima pagina erano riportati i nomi degli autori e dei fotografi che avevano collaborato ai vari numeri, occasionalmente accompagnati da una foto. A volte c'era anche la sua. Gli stessi lunghi capelli argentei, il braccialetto, jeans o pantaloni color kaki, le macchine fotografiche buttate a tracolla, le vene marcate delle braccia. Nel Kalahari, sulle mura di Jaipur, in India, su una canoa nel Guatemala, o nel Canada settentrionale. La strada e il cowboy.
    Lei ritagliava le foto e le conservava nella busta di carta di Manila in cui aveva riposto il servizio sui ponti coperti, il dattiloscritto, le due fotografie e la sua lettera. Teneva la busta in un sacchetto, nascosta sotto la sua biancheria, dove sapeva che Richard non sarebbe mai andato a guardare. E, come un osservatore che ne seguisse la vita nel corso degli anni, osservò Robert Kinkaid invecchiare.
    Il sorriso era quello di sempre, e così il lungo corpo snello e muscoloso. Ma lei lo capiva dalle rughe intorno alla bocca, dal leggero curvarsi delle spalle, dal progressivo cedimento dei contorni del viso. Aveva studiato il corpo di lui con un'attenzione che non aveva dedicato a nessun'altra cosa, neppure a se stessa. E, se possibile, il vederlo invecchiare accresceva il desiderio che aveva di lui. Sospettava... no, ne era certa... che lui fosse solo. E così era.
    Al lume di candela, passò in rassegna i ritagli. Lui la guardava da luoghi infinitamente lontani. Arrivò alla foto che considerava speciale, pubblicata su un numero del 1967. Lui stava accovacciato sulla riva di un fiume dell'Africa settentrionale, con la macchina fotografica incollata agli occhi, in procinto di scattare.
    La prima volta che l'aveva vista, anni prima, Francesca si era accorta che dalla catena d'argento pendeva una medaglietta. Michael era via, all'università, e quando Richard e Carolyn si furono coricati, lei tirò fuori la potente lente d'ingrandimento che da ragazzino il figlio utilizzava per la collezione di francobolli ed esaminò la fotografia.
    "Mio Dio", alitò. Perché sulla medaglietta era inciso il nome Francesca. Era stata l'unica, piccola indiscrezione di lui, e lei lo perdonò con un sorriso. Nelle foto successive, la medaglietta era sempre stata presente.


    (continua)

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    00 12/04/2008 05:09


    Dopo il 1975, non aveva più trovato il suo ritratto nella rivista. Neppure la firma compariva più. Lei cercò a lungo ma inutilmente. Quell'anno lui compiva sessantadue anni.
    Richard morì nel 1979. Terminato il funerale, dopo la partenza dei ragazzi, pensò di telefonargli. Lui aveva sessantasei anni, lei cinquantanove. C'era ancora tempo, anche se di anni ne avevano perduti quattordici. Ci pensò per un'intera settimana, poi compose il numero impresso sulla sua carta da lettere.
    Il cuore le si fermò quando il telefono cominciò a squillare. Sentì che la cornetta veniva sollevata e il ricevitore quasi le sfuggì di mano. "McGregor Assicurazioni", disse una voce femminile. Le sembrò di sprofondare, ma si riprese in tempo per chiedere alla donna se aveva fatto il numero giusto. La risposta fu affermativa. Allora ringraziò e riappese.
    Tentò con il servizio informazioni di Bellingham. Il suo nome non figurava. Provò con Seattle. Nulla. Poi con gli uffici della Camera di commercio di entrambe le località. Chiese che controllassero gli elenchi cittadini. Loro la accontentarono, ma il suo nome non c'era. Avrebbe potuto essere ovunque, pensò allora.
    A quel punto si ricordò della rivista; lui le aveva detto di cercarlo lì. La centralinista era gentile, ma lavorava al giornale da poco e dovette girare la sua richiesta a qualcun altro. La telefonata di Francesca fu smistata a tre persone diverse prima che le passassero un redattore che lavorava lì da vent'anni. Lei gli chiese di Robert Kinkaid.
    Naturalmente se lo ricordava. "Sta cercando di rintracciarlo, dice? Era un diavolo di fotografo, se mi perdona l'espressione. Un tipo difficile, non in modo sgradevole, ma tenace. Inseguiva l'arte per l'arte, non esattamente quello che interessa ai nostri lettori. Loro vogliono fotografie ben fatte, abili, ma non troppo fuori dalla norma.
    "Noi dicevamo sempre che Kinkaid era un tipo strano. Lavorava per noi, ma di lui non sapevamo quasi nulla. Era un professionista, però. Potevi mandarlo ovunque, e lui ci andava, anche se non era quasi mai d'accordo con le nostre scelte editoriali. Quanto al recapito attuale, mentre parlavamo ho sfogliato la sua pratica. Ha lasciato la rivista nel 1975. L'indirizzo e il numero telefonico riportati qui sono..." Ma quei dati Francesca li aveva già. Dopo quel giorno non tentò più di rintracciarlo, soprattutto perché aveva paura di quello che avrebbe potuto scoprire.
    Si lasciò andare, indugiando sempre più spesso con il pensiero su Robert Kinkaid. A guidare se la cavava ancora piuttosto bene, e ogni anno si recava parecchie volte a Des Moines, a pranzare nel ristorante in cui era stata con lui. Nel corso di una di queste gite, acquistò un diario rilegato in pelle. E su quelle pagine cominciò a riportare con calligrafia ordinata i particolari della loro storia d'amore e le sue riflessioni al riguardo. Riempì tre diari prima di sentire di aver adempiuto al compito che si era prefissa.
    Winterset stava migliorando. C'era un'attiva associazione artistica, composta perlopiù da donne, e da qualche anno si parlava spesso di ristrutturare i vecchi ponti. Gente giovane e interessante aveva incominciato a costruire la propria casa sulle colline. La mentalità era cambiata, i capelli lunghi non attiravano più gli sguardi, sebbene gli uomini che portavano sandali fossero ancora pochi e i poeti rari.
    E tuttavia, fatta eccezione per poche amiche, lei si autoescluse completamente dalla comunità. Molti se ne accorsero, e notarono la frequenza con cui la si poteva vedere in piedi sul Roseman Bridge, e a volte nei pressi del Cedar Bridge. Capita spesso che i vecchi diventino strani, dicevano, e si accontentavano di questa spiegazione.
    Il 2 febbraio del 1982, nel cortile della fattoria arrivò un furgone dell'United Parcel Service. Francesca non ricordava di aver ordinato alcunché. Perplessa firmò la ricevuta e controllò l'indirizzo riportato sul pacchetto: "Francesca Johnson, RR2, Winterset, Iowa, 50273". Il mittente era uno studio legale di Seattle.
    Il pacchetto era confezionato con cura e dotato di un'assicurazione supplementare. Lei lo posò sul tavolo di cucina, lo aprì con gesti misurati. Conteneva tre scatole impacchettate nel polistirolo. Una piccola busta imbottita era fissata sulla prima con del nastro adesivo, mentre alla seconda era acclusa una busta commerciale con l'intestazione dello studio legale e indirizzata a lei.
    Tremando, staccò la busta commerciale e la aprì.


    (continua)

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    00 13/04/2008 03:51


    25 gennaio 1982

    Signora Francesca Johnson
    RR 2
    Winterset, IA 50273


    Gentile signora Johnson,
    il nostro studio rappresenta il signor Robert L.
    Kinkaid, recentemente deceduto...



    Francesca posò la lettera sul tavolo. Fuori, la neve turbinava sui campi invernali. La osservò rasentare le stoppie, trascinare via le barbe di granturco, ammucchiarle in un angolo sotto il filo spinato. Rilesse ancora una volta quelle prime parole.


    Il nostro studio rappresenta il signor Robert L.
    Kinkaid, recentemente deceduto...



    "Oh, Robert... Robert... no." Mormorò piano il suo nome, la testa china.
    Un'ora dopo riuscì a continuare la lettura. Il brutale linguaggio legale, la precisione della terminologia la irritarono.


    Il nostro studio...


    Un avvocato che espleta le sue mansioni nei confronti di un cliente.
    Ma il potere, il leopardo giunto a cavallo della scia di una cometa, lo sciamano che in una calda giornata d'agosto andava in cerca del Roseman Bridge, l'uomo che in piedi sul predellino di un furgone chiamato Harry si voltava a guardarla morire nella polvere di una fattoria dello Iowa... dov'era lui in quelle parole?
    La lettera avrebbe dovuto essere lunga migliaia di pagine. Avrebbe dovuto parlare della fine di una catena evolutiva e della perdita della libertà di scelta, dei cowboy che lottavano contro il filo spinato, come fanno le barbe di granturco in inverno.


    Il solo testamento lasciato dal nostro cliente è
    datato 8 luglio 1967. Le istruzioni relative alla
    consegna degli oggetti qui acclusi erano esplicite.
    Nel caso non fosse stato possibile recapitarlo a lei,
    il materiale doveva essere bruciato.
    Nella scatola contrassegnata dalla parola
    «Lettera» troverà una missiva a lei indirizzata,
    affidataci dal signor Kinkaid nel 1978. La busta,
    sigillata, non è stata aperta.
    Le spoglie del signor Kinkaid sono state cremate.
    Dietro sua richiesta, non è stata apposta alcuna
    lapide. Sempre dietro sua richiesta, uno studio
    associato al nostro ha provveduto a spargere le
    ceneri in prossimità della sua abitazione. Credo che
    la località in questione sia denominata Roseman
    Bridge.
    La prego di non esitare a contattarci in caso di
    necessità.

    Sinceramente suo.
    Allen B. Quippen, procuratore legale



    Riprese fiato, si asciugò nuovamente gli occhi e continuò a esaminare il contenuto della scatola.
    Sapeva che cosa avrebbe trovato dentro la piccola busta imbottita. Lo sapeva così come sapeva che la primavera sarebbe arrivata anche quell'anno. Estrasse la catena d'argento. La medaglietta era graffiata e portava inciso il nome «Francesca». Sul retro, a lettere minuscole, la scritta: «Si prega inviarla a Francesca Johnson, RR 2, Winterset, Iowa, USA».
    C'era anche il braccialetto, avvolto in carta velina. A esso era accluso un foglietto.


    Se l'attira l'idea di un'altra cena quando
    «volano le falene», venga stasera dopo il lavoro.



    Il biglietto che lei aveva lasciato sul Roseman Bridge. Aveva conservato anche quello.
    Solo allora rammentò che era la sola cosa che avesse di lei, l'unica prova della sua esistenza, oltre a poche immagini elusive, fissate su una pellicola che andava lentamente sbiadendo. Il biglietto del Roseman Bridge. Era macchiato e sgualcito, come se lui lo avesse portato con sé, ripiegato nel portafoglio, per chissà quanto tempo.
    Si chiese quante volte lo avesse riletto nel corso degli anni, tanto lontano dalle colline lungo il Middle River. Se lo immaginò mentre se lo accostava agli occhi, nella luce fioca di una lampada da lettura a bordo di un jet diretto chissà dove, seduto sul pavimento di una capanna di bambù con una torcia elettrica accesa, mentre lo ripiegava e lo riponeva in una notte piovosa a Bellingham, e poi guardava la fotografia di una donna appoggiata al paletto di una staccionata in un mattino d'estate o ripresa nell'atto di emergere da un ponte coperto, al tramonto.


    (continua)

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    00 14/04/2008 00:28

    Ciascuna delle tre scatole conteneva una macchina fotografica munita di obiettivo. Erano vecchie, malconce. Rigirandosene una tra le mani, distinse la scritta "Nikon" sul mirino e, nell'angolo in alto a sinistra dell'etichetta, la lettera F. Era la macchina che lei gli aveva teso, quel giorno al Cedar Bridge.
    Per ultima, aprì la lettera di lui. Scritta a mano su uno dei suoi fogli intestati, portava la data del 16 agosto 1978.


    Cara Francesca,
    spero che questa mia ti trovi bene. Non so
    quando la riceverai. Quando io me ne sarò già
    andato. Ho sessantacinque anni, ormai, e ne sono
    passati esattamente tredici dal nostro primo incontro,
    quando imboccai il vialetto di casa tua in cerca
    di indicazioni sulla strada.
    Spero con tutto me stesso che questo pacchetto
    non sconvolga in alcun modo la tua vita. Il fatto
    è che non sopporto di pensare alle mie macchine
    fotografiche sullo scaffale riservato all'attrezzatura
    di seconda mano di un negozio o nelle mani di
    uno sconosciuto. Saranno in pessime condizioni
    quando le riceverai, ma non ho nessun altro a cui
    lasciarle e mi scuso per il rischio che forse ti
    costringerò a correre mandandotele.
    Dal 1965 al 1975 ho viaggiato quasi ininterrottamente.
    Nell'intento di allontanarmi almeno
    parzialmente dalla tentazione di telefonarti o di
    venire a cercarti, tentazione che da sveglio in
    pratica non mi lascia mai, ho accettato tutti gli
    incarichi oltreoceano che sono riuscito a procurarmi.
    Ci sono stati momenti, molti momenti, in cui mi
    sono detto: "All'inferno, vado a Winterset e, costi
    quel che costi, porto Francesca via con me".
    Ma non ho dimenticato le tue parole, e rispetto
    i tuoi sentimenti. Forse avevi ragione, non lo so. So
    però che uscire dal viale di casa tua, in quella
    arroventata mattina di agosto, è stata la prova più
    ardua che abbia mai affrontato e che mai avrò
    occasione di affrontare. Dubito, in effetti, che molti
    uomini ne abbiano vissute di più dure.
    Ho lasciato il National Geographic nel
    1975 e da allora mi sono dedicato soprattutto a
    fotografare ciò che piaceva a me, prendendo il
    lavoro là dove potevo, servizi locali o regionali che
    non mi impegnavano mai per più di pochi giorni.
    Finanziariamente è stata dura, ma tiro avanti.
    Come ho sempre fatto.
    Buona parte del mio lavoro lo svolgo nella zona
    di Puget Sound. Mi va bene così. Pare che
    invecchiando gli uomini si rivolgano sempre più spesso
    all'acqua.
    Ah, sì, adesso ho un cane, un golden retriever.
    L'ho chiamato Highway, e lo porto quasi sempre
    con me, quando siamo in viaggio, se ne sta con la
    testa fuori dal finestrino, in cerca di posti
    interessanti da fotografare.
    Nel 1972 sono caduto da una rupe nell'Acadia
    National Park, nel Maine, e mi sono fratturato
    una caviglia. Nella caduta ho perso la catena e la
    medaglia, ma fortunatamente non erano finite
    lontano. Le ho recuperate e un gioielliere ha provveduto
    ad aggiustare la catena.
    Vivo con il cuore impolverato. Meglio di così
    non saprei metterla. C'erano state delle donne prima
    di te, qualcuna, ma nessuna dopo. Non mi sono
    votato deliberatamente alla castità: è solo che non
    provo alcun interesse.
    Una volta ho avuto modo di osservare il
    comportamento di un'oca canadese la cui compagna
    era stata uccisa dai cacciatori. Si uniscono per la
    vita, sai. Dopo l'episodio, ha continuato ad aggirarsi
    intorno allo stagno per qualche giorno. L'ultima
    volta che l'ho vista, nuotava tutta sola tra il
    riso selvatico, ancora alla ricerca. Immagino che
    da un punto di vista letterario la mia analogia sia
    un po' troppo scontata, ma è più o meno così che mi
    sento anch'io.
    Con la fantasia, nelle mattine caliginose o nei
    pomeriggi in cui il sole si riflette sull'acqua a nord-
    ovest, cerco di immaginare dove sei e che cosa stai
    facendo. Niente di complicato... ti vedo in giardino,
    seduta sulla veranda, in piedi davanti al lavello
    della cucina. Cose così.
    Ricordo tutto. Il tuo profumo e il tuo sapore, che
    erano come l'estate stessa. La tua pelle contro la
    mia, e il suono dei tuoi bisbigli mentre ti amavo.
    Robert Penn Warren scrisse: "Un mondo che
    sembra abbandonato da Dio". Non male, molto
    vicino a quello che provo certe volte. Ma non posso
    vivere sempre così. Quando la tensione diventa
    eccessiva, carico Harry e, in compagnia di
    Highway, ritorno sulla strada per qualche giorno.
    Commiserarmi non mi piace. Non è nella mia
    natura. E in genere non me la passo poi tanto male.
    Al contrario, sono felice di averti almeno incontrata.
    Avremmo potuto sfiorarci come due frammenti
    di polvere cosmica, senza mai sapere nulla l'uno
    dell'altra.
    Dio o l'universo o qualunque altro nome si
    scelga di dare ai grandi sistemi di ordini ed quilibri,
    non riconosce il tempo terrestre. Per l'universo,
    quattro giorni non sono diversi da quattro miliardi
    di anni luce. Per quanto mi riguarda, cerco di
    tenerlo sempre a mente.
    Ma, dopo tutto, sono un uomo. E tutte le
    considerazioni filosofiche non bastano a impedirmi
    di desiderarti, ogni giorno, ogni momento, con la
    testa piena dello spietato gemito del tempo, del tempo
    che non potrò mai vivere con te.
    Ti amo, di un amore profondo e totale. E così
    sarà sempre.


    L'ultimo cowboy,
    Robert


    P.S. L'estate scorsa ho cambiato il motore a Harry,
    e ora va benissimo.



    Il pacco era arrivato cinque anni prima. E l'esaminarne il contenuto era divenuto parte dell'annuale rito che lei celebrava il giorno del suo compleanno. Macchine fotografiche, braccialetto, catena e medaglietta erano conservati in una cassetta nell'armadio, fabbricata su suo disegno da un falegname del posto. In legno di noce, aveva chiusura a tenuta ermetica per impedire che vi entrasse la polvere, e l'interno suddiviso in scomparti imbottiti. "Un oggettino piuttosto strano, no?" aveva osservato il falegname. Francesca si era limitata a sorridere.
    Il rituale si concludeva con la lettura del dattiloscritto. Lo leggeva sempre a lume di candela, a fine giornata. Andò in soggiorno a prenderlo e lo posò con gesti attenti sul piano di formica gialla, vicino alla candela. Accese l'unica sigaretta che fumava ogni anno, una Camel, bevve un sorso di brandy e cominciò a leggere.




    (continua)

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    Precipitando dalla dimensione Z


    ROBERT KINKAID



    Ci sono antichi venti che ancora non sono giunto a capire, sebbene abbia viaggiato, sembrerebbe all'infinito, sulle increspature dei loro dorsi. Mi muovo nella Dimensione Z; il mondo scorre altrove in un'altra piega della realtà, a me parallela. Come se, con le mani in tasca e leggermente chino in avanti, lo vedessi attraverso la vetrina di un grande magazzino.
    Nella Dimensione Z ci sono momenti strani. Uscendo da una lunga curva bagnata dalla pioggia del nuovo Messico a ovest di Magdalena, l'autostrada si trasforma in un sentiero e quindi in una pista per animali. Ancora una sventagliata del tergicristalli, e la pista diventa una foresta dove nulla è mai penetrato. Il tergicristalli di nuovo in azione, ed ecco qualcosa di ancora più antico. Ghiaccio infinito, questa volta. Avanzo tra l'erba bassa, coperto di pellicce, con i capelli arruffati e una lancia, sottile e duro come il ghiaccio stesso, tutto muscoli e implacabile astuzia. Oltre il ghiaccio, ancora più indietro lungo la misura delle cose, profonda acqua salata in cui nuoto, munito di branchie e scaglie. Non vedo nient'altro, se non che al di là del plancton è l'unità zero.
    Euclide non ebbe sempre ragione. Presupponeva il parallelismo, nella continuità, fino alla fine delle cose; ma anche un'ipotesi non euclidea è possibile, là dove le rette convergono, molto più oltre. Un punto di fuga. L'illusione di convergenza.
    E tuttavia so che è più di un'illusione. A volte un incontro è possibile, il riverberarsi di una realtà in un'altra. Una sorta di soave intreccio. Nessuna calibrata intersezione si profilava in un mondo di precisione, nessuna andata e ritorno. Solo... ebbene... il respiro. Sì, questo è il suo suono, e forse la sensazione che dà al tatto. Respiro.
    E lentamente mi muovo attraverso quest'altra realtà, e accanto a essa, al di sotto e tutt'intorno, sempre con forza, sempre con potere, eppure concedendomi tutto. Ed essa, sprigionando il proprio potere, si dà a sua volta a me.
    Da qualche parte, dentro il respiro, accordi musicali, e poi incomincia la bizzarra danza a spirale, con un metro di misurazione tutto suo che tempera l'uomo del ghiaccio con la lancia e i capelli arruffati. E lentamente - rotolandosi e capitombolando in un adagio, eternamente in un adagio - l'uomo del ghiaccio precipita... dalla Dimensione Z... dentro di lei.





    Alla fine del giorno del suo sessantasettesimo compleanno, quando la pioggia era cessata, Francesca ripose la busta di carta di Manila nell'ultimo cassetto della scrivania con alzata avvolgibile. Dopo la morte di Richard, aveva deciso di conservarla nella sua cassetta di sicurezza presso la banca, ma ogni anno in quel periodo la ritirava per qualche giorno. Il coperchio si richiuse sulle macchine fotografiche, e la cassetta in legno di noce venne ricollocata sullo scaffale dell'armadio, in camera sua.
    Nel primo pomeriggio era andata al Roseman Bridge. Ora uscì sulla veranda, e dopo aver asciugato la sedia a dondolo con uno strofinaccio, vi si sedette. Faceva freddo, ma sarebbe rimasta lì fuori per qualche minuto, come faceva sempre. Si spinse quindi fino al cancello, dove indugiò un istante. Poi in fondo al viale. Dopo ventidue anni, lo vedeva ancora scendere dal furgoncino nella luce del tardo pomeriggio; vedeva Harry allontanarsi sobbalzando verso la provinciale, poi fermarsi, e Robert Kinkaid in piedi sul predellino, che guardava indietro.








    (continua)

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    00 16/04/2008 03:05


    Una lettera
    di Francesca



    Francesca Johnson morì nel gennaio del 1989. Aveva sessantanove anni. Se fosse vissuto, Robert Kinkaid ne avrebbe avuti settantasei. Le cause della morte furono definite "naturali". "Si è semplicemente spenta", riferì il medico a Michael e a Carolyn. "Anche se, in effetti, siamo un po' perplessi. Non è stato possibile individuare alcuna causa specifica. Una vicina l'ha trovata accasciata sul tavolo di cucina."
    In una lettera scritta nel 1982 al suo legale, Francesca aveva chiesto che i suoi resti fossero cremati e le ceneri sparse nei pressi del Roseman Bridge. La cremazione non era diffusa nella Madison County, considerata com'era una pratica vagamente radicale, e il suo desiderio suscitò innumerevoli discussioni alla stazione di servizio Texaco e presso la rivendita di attrezzi agricoli. Le modalità concernenti la dispersione delle ceneri non vennero invece rese note.
    Dopo il servizio funebre, Michael e Carolyn si spinsero in auto fino al Roseman Bridge, per eseguire la volontà di Francesca. Sebbene fosse vicino alla loro casa, il ponte non aveva mai rivestito alcun particolare significato per la famiglia, e non potevano fare a meno di chiedersi perché la madre, una donna dotata di buon senso, avesse fatto quell'enigmatica scelta, invece di chiedere di essere sepolta accanto al marito, come voleva la consuetudine.
    Espletata l'incombenza, Michael e Carolyn si dedicarono al compito di vagliare il contenuto della casa, e dopo che il procuratore legale ne ebbe preso visione, ritirarono gli incartamenti conservati nella cassetta di sicurezza.
    Si divisero il materiale e cominciarono a esaminarlo. La busta di carta di Manila era nella pila di Carolyn, abbastanza sul fondo. Lei rimase piuttosto sconcertata quando l'aprì e ne estrasse il contenuto. Lesse la lettera che Robert Kinkaid aveva scritto a Francesca nel 1965, poi quella datata 1978 e infine la comunicazione dello studio legale di Seattle. In ultimo scorse i ritagli di giornale.
    "Michael."
    Lui percepì la sorpresa e la pensosità nella sua voce e alzò subito la testa. "Che cosa c'è?"
    Carolyn aveva gli occhi pieni di lacrime. Parlò con voce incerta. "La mamma era innamorata di un uomo che si chiamava Robert Kinkaid. Era un fotografo. Ricordi quel numero del National Geographic con il servizio sui ponti coperti? era stato lui a fotografare quelli della nostra contea. E rammenti come tutti i ragazzi parlavano di un tipo strano che andava in giro carico di macchine fotografiche? Era lui."
    Michael sedette di fronte alla sorella, la cravatta allentata, il colletto della camicia sbottonato. "Ripeti tutto da capo, lentamente. Non posso credere di aver capito bene."
    Dopo aver letto a sua volta le lettere, Michael frugò nell'armadio al piano terra, poi salì in camera di Francesca. Prima di allora non aveva mai notato la cassetta di legno di noce e si affrettò ad aprirla. La portò di sotto, la posò sul tavolo di cucina. "Ecco le macchine fotografiche."
    Ripiegata a un'estremità della cassetta c'era una busta sigillata su cui Francesca aveva scritto: "Per Carolyn e Michael", e infilati tra gli apparecchi c'erano tre diari rilegati in pelle.
    "Non sono sicuro di potercela fare", sospirò Michael. "Leggi tu ad alta voce, se te la senti."
    La sorella aprì la busta e lesse forte:



    (continua)

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    00 17/04/2008 09:18


    7 gennaio 1987

    Carissimi Carolyn e Michael,
    per quanto mi senta in buona salute, credo che
    sia arrivato per me il momento di mettere ordine nei
    miei affari (come si dice). C'è qualcosa, qualcosa di
    molto importante, che dovete sapere. Ecco perché vi
    scrivo questa lettera. Dopo che avrete esaminato il
    contenuto della cassetta di sicurezza e trovato la
    busta di carta di Manila a me indirizzata con il
    timbro postale del 1965, sono certa che non
    impiegherete molto a trovare anche questa lettera. Se
    possibile, leggetela seduti al vecchio tavolo di cucina.
    Fra poco capirete il motivo di questa mia richiesta.
    E' difficile per me parlare di queste cose con i miei
    figli, ma devo farlo. C'è qualcosa che è troppo
    intenso e troppo bello per lasciare che muoia con me.
    E se volete sapere com'era vostra madre nel bene e nel
    male, è giusto che veniate a conoscenza di quanto
    sto per dirvi. Tenetevi forte.
    Come avrete già scoperto, il suo nome era Robert
    Kinkaid. Il suo secondo nome cominciava per L. ma
    non ho mai saputo quale fosse. Era un fotografo, e
    venne qui nel 1965 per fotografare i ponti coperti.
    Ricordate l'eccitazione in città, quando il servizio
    comparve sul National Geographic? Forse
    ricorderete anche che più o meno a quell'epoca io mi
    abbonai alla rivista. Ora conoscete anche la
    ragione del mio improvviso interesse per il National.
    A proposito, ero con lui (e portavo uno dei suoi
    zaini con le macchine fotografiche) quando scattò
    la foto del Cedar Bridge.
    Cercate di capire: ho amato vostro padre, l'ho
    amato di un amore tranquillo. Lo sapevo allora e lo
    so adesso. Era buono con me e mi ha dato voi due,
    che amo infinitamente. Non dimenticatelo.
    Ma Robert Kinkaid era diverso, diverso da
    chiunque abbia conosciuto o di cui abbia sentito
    parlare in tutta la mia vita. E' impossibile riuscire
    a farvi comprendere appieno la sua natura. Tanto
    per cominciare, voi non siete me. Secondo, avreste
    dovuto stare con lui, guardarlo muoversi, ascoltarlo
    parlare mentre spiegava di far parte di un ramo
    dell'evoluzione ormai estinto. Forse i diari e i ritagli
    vi saranno di aiuto, ma certo non saranno sufficienti.
    Per un certo verso, non era di questa terra. Non
    saprei esprimermi diversamente. Ho sempre pensato
    a lui come a una creatura simile al leopardo, che
    cavalcava la coda di una cometa. Era così che si
    muoveva, e così era il suo corpo. In lui, un'intensità
    stupefacente si mescolava al calore e alla gentilezza,
    ed egli emanava un indefinito senso di tragedia.
    Sentiva di stare diventando sempre più obsoleto in
    un mondo di computer e di robot, governato
    dall'organizzazione. Si considerava l'ultimo cowboy,
    sono parole sue, e si definiva antiquato.
    La prima volta che lo vidi fu quando si fermò nel
    nostro cortile a chiedermi la strada per il Roseman
    Bridge. Voi tre eravate nell'Illinois, alla fiera. Vi
    assicuro, non ero in cerca di avventure. Quello era
    il mio ultimo pensiero. Ma mi bastò guardarlo per
    pochi secondi per capire che lo volevo, anche se non
    ancora con l'intensità con cui alla fine giunsi a
    desiderarlo.
    Vi prego, non pensate a lui come a una specie di
    Casanova che vagabondava per la campagna in
    cerca di ragazze ingenue da sedurre. Non era
    affatto così. Anzi, era un po' timido, e io non sono
    meno responsabile di lui per quello che accadde.
    Forse lo sono in misura maggiore. Il biglietto che
    troverete insieme con il suo braccialetto è quello che
    gli lasciai al Roseman Bridge, in modo che lui lo
    trovasse il mattino successivo al nostro primo
    incontro. Oltre alle fotografie che mi ha scattato,
    è questa l'unica prova che ha mai avuto della mia
    esistenza, del fatto che non ero stata solo un sogno.
    So che i figli tendono a pensare ai propri genitori
    come a individui asessuati, e spero che quanto sto
    per dirvi non sia uno choc per voi, e che non
    modifichi il ricordo che avete di me.



    (continua)

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    00 18/04/2008 03:33

    Robert e io trascorremmo molte ore nella nostra
    vecchia cucina. Parlammo e ballammo a lume di
    candela. E sì, facemmo l'amore, lì e in camera e
    sull'erba del pascolo, e più o meno in qualunque
    altro posto a cui possiate pensare. Era un amore
    incredibile, intensissimo, trascendente, e si protrasse
    per giorni, quasi ininterrottamente. Pensando a lui,
    una delle parole che ho usato più di frequente è
    "potente". Perché così era giunto a essere quando
    ci incontrammo.
    La sua intensità era acuta come una freccia. Io
    ero del tutto inerme quando faceva l'amore con me.
    Non debole, no. Soltanto... sopraffatta dalla sua
    potenza emotiva e fisica. Una volta glielo dissi e lui
    rispose semplicemente: "Io sono l'autostrada e un
    pellegrino e tutte le vele che hanno mai solcato
    il mare".
    Più tardi controllai sul dizionario. Di solito, il
    termine "pellegrino" evoca l'immagine di "falco".
    Ma esistono altri significati e certo lui li conosceva.
    Uno di questi è "straniero, forestiero". Un altro
    "chi vagabonda o compie un pellegrinaggio".
    Deriva dal latino peregrinus, che significa straniero.
    Lui era tutte queste cose... uno straniero nel senso
    più ampio del termine, un errante e, ora che ci penso,
    era anche simile a un falco.
    Figlioli, sforzatevi di capire che sto cercando di
    esprimere ciò che non può essere formulato in parole.
    Vorrei soltanto che un giorno anche voi provaste
    quello che io ho provato... anche se comincio a
    dubitare che sia possibile. Sebbene forse possa
    apparire un po' antiquato dire certe cose nella
    nostra epoca illuminata, non credo che sia possibile
    trovare in un uomo il particolare potere di cui
    Robert Kinkaid era dotato. Questo ti mette fuori
    gioco, Michael. Quanto a Carolyn, temo che la
    brutta notizia sia che come lui ce n'era uno e uno
    soltanto.
    Se non fosse stato per vostro padre, e per voi due,
    lo avrei seguito ovunque, senza esitazioni. Mi
    chiese di farlo, mi supplicò di seguirlo. Ma io non
    volli, e lui era una persona troppo sensibile e attenta
    per interferire nelle nostre vite.
    Ma ecco l'aspetto paradossale: se non fosse
    stato per Robert Kinkaid, non credo che sarei
    rimasta alla fattoria per tutti questi anni. In quattro
    giorni, mi regalò una vita intera, un universo,
    e ricompose i frammenti del mio essere in un tutto.
    Non ho mai smesso di pensare a lui, neppure per un
    istante. Anche se non lo ricordavo consciamente, lo
    sentivo vicino a me, c'era sempre.
    Ma tutto questo non ha mai sminuito l'affetto
    che provavo per voi e per vostro padre. Pensando
    solo a me stessa, non sono sicura di avere preso la
    decisione giusta. Ma se prendo in considerazione la
    famiglia, allora ne ho la certezza.
    Devo tuttavia essere sincera e dirvi che fin
    dall'inizio Robert comprese meglio di me la realtà
    che insieme avevamo creato. Da parte mia, credo di
    averla compresa appieno solo gradatamente, con il
    passare degli anni. Perché se l'avessi capita allora,
    quando lui mi stava davanti e mi chiedeva di
    seguirlo, probabilmente lo avrei fatto.
    Robert era dell'avviso che il mondo fosse divenuto
    troppo razionale, che avesse cessato di confidare
    nella magia, come invece sarebbe giusto. Mi
    sono chiesta spesso se anche la mia scelta non fu
    troppo razionale.
    Sono certa che le mie disposizioni riguardo alla
    sepoltura vi saranno apparse incomprensibili, e che
    le avrete forse attribuite alla mente confusa di una
    vecchia. Ma dopo aver letta la lettera che l'avvocato
    di Seattle mi scrisse nel 1982, forse tutto vi
    sarà più chiaro. Alla famiglia ho dato la mia vita,
    Robert Kinkaid avrà ciò che resta di me.
    Credo che Richard intuisse che in me c'era
    qualcosa a cui non poteva arrivare, e a volte mi
    chiedo se non abbia trovato la busta, all'epoca in
    cui la conservavo a casa, nel cassettone. Poco
    prima di morire, mentre sedevo al suo capezzale
    all'ospedale di Des Moines, mi disse: "Francesca,
    so che anche tu hai avuto i tuoi sogni. Mi dispiace
    di non essere stato io a esaudirli". E' stato il
    momento più toccante della nostra vita in comune.



    (continua)

    [Modificato da auroraageno 18/04/2008 03:34]

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    00 19/04/2008 02:35

    Non voglio che vi sentiate in colpa o proviate
    pietà per me. Non è questo l'intento della mia lettera.
    Voglio soltanto che sappiate quanto ho amato
    Robert Kinkaid. Giorno dopo giorno, per tutti
    questi anni, ho vissuto nella consapevolezza di
    questo amore. Come ha fatto lui.
    Pur non essendoci mai più parlati, siamo rimasti
    uniti per quanto è possibile esserlo a due esseri
    umani. Non conosco le parole per spiegarvi in
    modo adeguato questo legame. Lui ci riuscì meglio
    quando disse che avevamo smesso di essere due
    persone distinte per diventarne una terza, creata dal
    nostro amore. Nessuno dei due esisteva al di fuori
    di questa entità. Ed essa era stata lasciata libera di
    vagabondare dove volesse.
    Carolyn, ricordi quel terribile litigio che avemmo
    a proposito del mio vestito rosa chiaro? Tu
    l'avevi notato e lo volevi. Dicesti che non ricordavi
    di avermelo mai visto addosso, perché allora non
    poteva essere adattato per te? Quello era il vestito
    che portavo la sera in cui Robert e io facemmo
    l'amore per la prima volta. In tutta la mia vita non
    ero mai stata così bella. L'abito era il piccolo,
    sciocco ricordo rimastomi di quella sera. Ecco
    perché non lo indossai mai più e perché mi rifiutai
    di dartelo.
    Dopo la partenza di Robert, nel 1965, mi resi
    conto che di lui sapevo molto poco. Mi riferisco alla
    sua storia e alla sua famiglia. Anche se sono
    convinta di aver appreso su di lui tutto il resto, tutto
    quello che contava davvero, in quei brevi giorni
    insieme. Era figlio unico, i suoi genitori erano
    morti, ed era nato in una cittadina dell'Ohio.
    Non so neppure se sia stato all'università o al
    liceo, ma aveva un'intelligenza pronta, primitiva,
    immediata, quasi mistica. Ah, sì, era stato fotografo
    di guerra con i marines nel Pacifico meridionale,
    durante la seconda guerra mondiale.
    Era stato sposato, ma aveva divorziato molto
    tempo prima di conoscermi. Non aveva figli. Sua
    moglie era una musicista, una cantante folk, mi
    disse, e le lunghe assenze di Robert si erano rivelate
    fatali per il loro matrimonio. Lui si attribuiva la
    responsabilità del loro fallimento.
    Per quanto ne so, Robert non aveva altri congiunti.
    Vi chiedo di accoglierlo nella nostra famiglia,
    anche se so che in un primo tempo vi risulterà
    arduo. Io almeno ho avuto una famiglia, una vita
    da dividere con altri. Robert era solo. Non era
    giusto e me ne rendevo conto.
    Preferirei, almeno credo, per rispetto verso la
    memoria di Richard e perché alla gente piace
    parlare, che tutto questo rimanesse tra noi. Ma
    lascio a voi decidere.
    In ogni caso, è certo che non mi vergogno affatto
    di quello che Robert Kinkaid e io abbiamo condiviso.
    Al contrario. L'ho amato disperatamente per
    tutti questi anni, anche se, per ragioni mie, solo una
    volta ho cercato di mettermi in contatto con lui. E'
    stato dopo la morte di vostro padre. Il mio tentativo
    fallì e, poiché avevo paura che gli fosse accaduto
    qualcosa, non lo ripetei. Il fatto è che non avevo il
    coraggio di affrontare la realtà. Potete quindi
    immaginare come mi sentii quando, nel 1982,
    arrivò il pacchetto accompagnato dalla lettera
    dell'avvocato.
    Come ho detto, spero che capirete e non penserete
    male di me. Se mi amate, allora dovete amare anche
    ciò che ho fatto.
    Robert Kinkaid mi ha insegnato che cosa significhi
    essere donna, in un modo che poche donne,
    forse nessuna, hanno mai sperimentato. Era gentile
    e infinitamente caro, e senza alcun dubbio merita il
    vostro rispetto e forse anche il vostro amore. Spero
    che glieli concederete entrambi. A modo suo, attraverso
    di me, è stato buono con voi.
    Siate felici, bambini miei.

    La mamma



    (continua)

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    C'era silenzio nella vecchia cucina. Michael tirò un profondo respiro e girò la testa verso la finestra. Carolyn si guardava intorno: guardava il lavello, il pavimento, il tavolo.
    Quando parlò, la sua voce era poco più di un bisbiglio: "Oh, Michael, Michael, tutti quegli anni a desiderarsi così disperatamente. Ha rinunciato a lui per il bene nostro e di papà. E Robert Kinkaid si è tenuto lontano perché rispettava i suoi sentimenti per noi. Quasi non riesco a sopportarlo. Abbiamo un atteggiamento tanto noncurante nei confronti dei nostri matrimoni, ed eravamo parte della ragione per cui un'incredibile storia d'amore è finita com'è finita.
    "Hanno avuto quattro giorni, quattro giorni soltanto. In una vita intera. Fu quando noi andammo a quella ridicola fiera nell'Illinois. Guarda la foto della mamma. Non l'ho mai vista così. E' bellissima, e non grazie alla foto. Era lui a renderla così. Guardala; libera e selvaggia. Con i capelli al vento, il viso pieno di vita. E' magnifica."
    "Gesù", fu tutto quello che Michael riuscì a dire, asciugandosi la fronte con lo strofinaccio e tamponandosi gli occhi quando Carolyn non lo guardava.
    Lei parlò di nuovo. "A quanto pare, in tutti questi anni lui non ha mai tentato di contattarla. E dev'essere morto in solitudine; ecco perché le ha spedito le macchine fotografiche.
    "Ricordo la lite a proposito del vestito rosa. Andò avanti per giorni. Io piangevo e insistevo per sapere perché non voleva darmelo. Poi smisi di rivolgerle la parola. Ma tutto quello che lei disse fu: 'No, Carolyn, quello no'."
    Michael pensava al vecchio tavolo a cui erano seduti. Ora capiva perché Francesca gli aveva chiesto di riportarlo in cucina, dopo la morte del marito.
    Carolyn aprì la piccola busta imbottita. "Ecco il braccialetto, e la catena d'argento con la medaglietta. Ecco il biglietto di cui la mamma parla nella sua lettera, quello che aveva lasciato al Roseman Bridge. E' visibile nella foto del ponte che lui le spedì. Michael, che cosa dobbiamo fare? Pensaci, io torno fra un momento."
    Corse di sopra, per ricomparire quasi subito con l'abito rosa accuratamente avvolto nella plastica. Lo tirò fuori, sollevandolo perché il fratello lo vedesse.
    "Immaginatela con questo addosso mentre balla con lui, qui in cucina. Pensa a tutto il tempo che abbiamo passato in questa stanza e alle immagini che certo le sfilavano davanti agli occhi mentre cucinava e sedeva qui con noi, parlando dei nostri problemi, del college da scegliere, della difficoltà di far funzionare un matrimonio. Dio, paragonati a lei siamo talmente sciocchi e infantili."
    Con un cenno d'assenso, Michael si accostò ai mobiletti montati sopra il lavello. "Credi che la mamma tenesse qualcosa di forte da bere? Dio sa se ne ho bisogno. E per rispondere alla tua domanda, non ho idea di che cosa dobbiamo fare."
    Rovistando negli armadietti, scovò una bottiglia di brandy semivuota. "Ce n'è abbastanza per due, Carolyn. Ne vuoi un goccio?"
    "Sì."
    Michael prese gli unici due bicchieri da brandy e li posò sul ripiano di formica gialla. Vi vuotò l'ultima bottiglia di Francesca, mentre Carolyn attaccava a leggere il primo volume del diario. "Robert Kinkaid arrivò il sedici agosto del 1965, un lunedì. Stava cercando il Roseman Bridge. Era tardo pomeriggio, faceva caldo e lui era al volante di un pickup che chiamava Harry..."











    (continua)

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    00 19/04/2008 19:21


    Poscritto:
    Il Caprimulgo
    di Tacoma





    Mentre scrivevo la storia di Robert Kinkaid e Francesca Johnson, mi scoprii sempre più affascinato dal fotografo di cui si sapeva così poco. Poche settimane prima che il libro venisse dato alle stampe, volai a Seattle in cerca di ulteriori informazioni sul suo conto.
    Dato che amava la musica ed era lui stesso un artista, pensavo che qualche rappresentante della comunità artistica e musicale di Puget Sound potesse averlo conosciuto. Trovai aiuto nel direttore artistico del Seattle Times. Sebbene non avesse conosciuto personalmente Kinkaid, mi consentì l'accesso alle relative rubriche del giornale nell'arco di tempo compreso tra il 1975 e il 1982, ossia il periodo a cui ero particolarmente interessato.
    Esaminando i numeri del 1980, mi imbattei nella foto di un musicista jazz di colore, il sassofonista John «Caprimulgo» Cummings. La foto portava la firma di Robert Kinkaid. Il locale sindacato musicisti mi fornì il recapito di Cummings, informandomi che si era ritirato dalle scene già da qualche anno. L'indirizzo era quello di una strada secondaria nei pressi di un quartiere industriale di Tacoma, non lontano dall'autostrada che scende da Seattle.
    Dovetti tornare all'appartamento di Cummings parecchie volte prima di trovarlo a casa. In un primo tempo l'ex sassofonista si mostrò diffidente, ma quando lo ebbi convinto del mio genuino e benevolo interesse nei confronti di Kinkaid, divenne molto più cordiale e aperto. Quella che segue è la trascrizione, solo leggermente ritoccata, della mia intervista a Cummings, che all'epoca del nostro incontro aveva settant'anni. Io non feci altro che accendere il registratore e ascoltarlo parlare di Robert Kinkaid.


    Intervista con «Caprimulgo» Cummings

    Ero stato ingaggiato da Shorty, a Seattle, dove abitavo a quel tempo, e mi serviva una foto in bianco e nero per farmi pubblicità. Il bassista mi disse che su una delle isole viveva un fotografo che ci sapeva fare. Dato che non aveva il telefono, gli mandai una cartolina.
    Arrivò. Un tipo strano, abbastanza anziano, in jeans, stivali e bretelle arancioni. Tira fuori certe macchine fotografiche così conciate che si faceva fatica a credere che funzionassero, e io penso: Uh-oh. Mi fa mettere contro una parete dipinta di chiaro con il mio sax e mi dice di suonare. Suono. Per i primi tre minuti lui se ne sta lì a fissarmi, e intendo fissarmi sul serio; aveva gli occhi azzurri più freddi che abbia mai visto.
    Dopo un po' comincia a scattare. Poi mi chiede se conosco Autumn Leaves. Gli dico di sì e attacco il pezzo. Suono per dieci minuti buoni, mentre lui si dà un gran da fare, scattando una foto dopo l'altra. Alla fine dice: "Okay, ho finito. Gliele porto domani".
    Il giorno dopo, quando arriva con le foto, io resto secco. Mi sono fatto fare un sacco di fotografie nella vita, ma quelle erano di gran lunga le migliori. Mi chiese cinquanta dollari, una miseria, mi sembrò. Lui mi ringraziò e prima di andarsene mi chiese dove mi esibivo. "Da Shorty", risposi io.
    Qualche sera dopo, guardo tra il pubblico e lo vedo seduto a un tavolo d'angolo, che ascolta tutto intento. Be', da quel giorno cominciò a venire una volta alla settimana, sempre il martedì, e beveva sempre birra; senza mai esagerare, però.
    A volte, durante una pausa, andavo a scambiare quattro chiacchiere con lui. Era un tipo tranquillo, non parlava molto, ma era gradevole, educato, e tutte le volte mi chiedeva di suonargli Autumn Leaves.
    Con il tempo arrivammo a conoscerci un po' meglio. A me piaceva scendere al porto per guardare il mare e le navi, e saltò fuori che piaceva anche a lui. Così prendemmo a passare interi pomeriggi seduti su una panchina, a parlare. Solo un paio di vecchietti che se la prendono comoda, perché cominciano a sentirsi un po' inutili, un po' sorpassati.
    Portava sempre il suo cane con sé. Un bel cane. Si chiamava Highway.
    Capiva la magia. Anche i musicisti jazz la capiscono. Probabilmente è per questo che andavamo d'accordo. Suoni un brano che in passato hai già suonato mille volte, e di colpo un sacco di idee nuove sgorgano dal tuo strumento, senza che tu te ne renda neppure conto. Lui diceva che era così anche per la fotografia, e per la vita in generale. Un giorno aggiunse: "E quando si fa l'amore con la donna che si ama".
    Stava lavorando a qualcosa in cui cercava di trasformare la musica in immagini. Mi disse: "John, hai presente quel riff che suoni quasi sempre nella quarta battuta di Sophisticated Lady? Be', credo di essere riuscito a riportarlo su pellicola, l'altra mattina. La luce sull'acqua era quella giusta e c'era un airone azzurro che continuava a volteggiare nel mirino. Vedevo il tuo riff mentre lo ascoltavo e premevo il pulsante di scatto".
    Dedicava tutto il suo tempo a questa faccenda della musica tradotta in immagini. Ne era ossessionato. Non so come facesse a mantenersi.
    Non parlava mai molto di se stesso. Sapevo che aveva viaggiato parecchio per lavoro, ma questo fu tutto fino al giorno in cui gli chiesi che cosa fosse la medaglietta che portava al collo. Guardandola da vicino, avevo notato che vi era inciso il nome Francesca. Così gli domandai: "Significa qualcosa di speciale?"
    Lui per un po' non rispose; fissava l'acqua in silenzio. Poi disse: "Quanto tempo hai?"
    Be', era lunedì, la mia serata libera; gli assicurai che ne avevo in abbondanza.
    Cominciò a parlare. Era come se qualcuno avesse improvvisamente aperto un rubinetto. Parlò per tutto il pomeriggio e per buona parte della notte. Ebbi l'impressione che si fosse tenuto tutto dentro per un'infinità di tempo.
    Non pronunciò mai il cognome della donna, e neppure il luogo in cui tutto era successo. Ma, ragazzi, quel Robert Kinkaid diventava poeta quando parlava di lei. Doveva essere stata qualcosa di realmente speciale, una signora fuori del comune. Cominciò citando un racconto che aveva scritto per lei... qualcosa a proposito della Dimensione Z, ricordo. Rammento di aver pensato che assomigliava a una di quelle improvvisazioni di Ornette Coleman.
    E, ragazzi, mentre parlava, piangeva. Grosse lacrime, di quelle che solo un vecchio può versare, di quelle che per metterle in musica ci vuole un sassofono. Fu allora che capii perché mi chiedeva sempre di suonare Autumn Leaves. E incominciai a volergli bene. Chiunque sia capace di provare certe cose per una donna merita di essere amato.
    Così cominciai a pensarci... al potere di questa cosa che lui e la donna condividevano. A quelli che lui chiamava gli «antichi istinti». E mi dissi: "Devo riuscire a mettere in musica questo potere, questa storia d'amore, devo far uscire questi antichi istinti dal mio sax". C'era qualcosa di maledettamente lirico in quello che mi aveva raccontato.
    Fu così che scrissi il brano... ci impiegai tre mesi. Volevo che fosse semplice, elegante. E' facile realizzare le cose complicate. Ma la semplicità è difficile da raggiungere. Ci lavorai ogni giorno finché non sentii di essere sulla strada giusta. Ci detti dentro ancora per un po' e buttai giù una partitura per pianoforte e basso. E una sera lo suonai.
    Lui era tra il pubblico; martedì sera, come al solito. Era una serata fiacca, non più di venti persone in tutto, e nessuno che facesse particolare attenzione all'orchestra.
    Se ne stava seduto lì, tranquillo come sempre, ad ascoltare, e a un certo punto io presi il microfono e dissi: "Ora vi suonerò un pezzo che ho scritto per un mio amico. Si intitola Francesca".
    Mentre parlavo lo tenevo d'occhio. Fissava la bottiglia di birra, ma quando dissi Francesca, alzò lentamente lo sguardo, si ravviò i lunghi capelli grigi con entrambe le mani, accese una Camel e mi puntò addosso quei suoi occhi azzurri.
    Non ho mai più suonato come quella sera, quando feci piangere il mio sax per tutti gli anni e i chilometri che dividevano quei due. Nella prima aria c'era un breve motivo melodico che in qualche modo scandiva il nome di lei... Fran... ce... sca.
    Quando finii, per un istante lui rimase seduto, le spalle ben dritte, poi sorrise annuendo, pagò il conto e se ne andò. Da quella sera, quando c'era lui suonai sempre quella canzone. Per ringraziarmi, fece incorniciare una fotografia che raffigurava un vecchio ponte coperto e me la regalò. E' appesa lì, sulla parete. Non mi rivelò mai dove l'avesse scattata, ma sotto la sua firma c'è scritto «Roseman Bridge».
    Un martedì sera, sette o forse otto anni fa, non venne. E neppure la settimana successiva. Penso, magari è ammalato o qualcosa del genere. Preoccupato, vado al porto, comincio a chiedere in giro. Nessuno ne sa nulla. Alla fine raggiungo in barca l'isola su cui viveva. Stava in un vecchio chalet, una baracca, in effetti, vicino alla riva.
    Mentre mi guardo intorno, arriva un vicino e mi chiede che cosa sto facendo lì. Glielo spiego e quello mi dice che il fotografo è morto dieci giorni prima. Ragazzi, se mi fece male. Fa male ancora adesso. Quel tipo mi piaceva un sacco. C'era qualcosa in lui, qualcosa. Avevo la sensazione che sapesse cose di cui il resto di noi non sa niente.
    Chiedo al vicino notizie del cane. Non ne sa nulla. Dice che non conosceva neppure Kinkaid. Allora chiamo il canile municipale, e sì, mi dicono, il vecchio Highway è da loro. Vado a prenderlo e lo affido a mio nipote. L'ultima volta che l'ho visto, lui e il ragazzino erano proprio innamorati. Mi ha fatto un gran piacere.
    Questo è tutto, direi. Non molto tempo dopo aver saputo della morte di Kinkaid, il braccio sinistro cominciò a darmi delle noie: si intorpidiva ogni volta che suonavo per più di venti minuti di fila. Un problema di vertebre, pare. Così mi sono ritirato.
    Ma, ragazzi, sono ossessionato dalla storia che mi raccontò, la storia sua e della donna. E' per questo che ogni martedì sera tiro fuori il mio sax e suono il pezzo che ho composto per lui. Lo suono qui, tutto solo.
    E mentre suono, guardo la fotografia che lui mi regalò. C'è qualcosa in quella foto, non so che cosa sia, ma quando suono la sua canzone non riesco a smettere di guardarla.
    Me ne sto lì, verso il crepuscolo, e faccio piangere il mio sax e suono per un uomo che si chiamava Robert Kinkaid e una donna a cui lui dava il nome di Francesca.






















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