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D'Annunzio, Gabriele - ALCYONE

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    D'Annunzio, Gabriele - ALCYONE


    A L C Y O N E


    Uno dei momenti più alti della produzione poetica dannunziana. E' una raccolta di 88 liriche di metro vario e costituisce la III parte delle "Laudi del Cielo, della Terra e degli Eroi", del 1904.

    Il superomismo, il panismo, il sensualismo vengono mirabilmente fusi dal particolare tono musicale, riconoscibile nella congerie di forme e temi.


    (dal Web)



    _________Aurora Ageno___________
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    ALCYONE - Sezione 1


    LA TREGUA


    Dèspota, andammo e combattemmo, sempre
    fedeli al tuo comandamento. Vedi
    che l'armi e i polsi eran di buone tempre.

    O magnanimo Dèspota, concedi
    al buon combattitor l'ombra del lauro,
    ch'ei senta l'erba sotto i nudi piedi,

    ch'ei consacri il suo bel cavallo sauro
    alla forza dei Fiumi e in su l'aurora
    ei conosca la gioia del Centauro.

    O Dèspota, ei sarà giovine ancóra!
    Dàgli le rive i boschi i prati i monti
    i cieli, ed ei sarà giovine ancóra

    Deterso d'ogni umano lezzo in fonti
    gelidi, ei chiederà per la sua festa
    sol l'anello degli ultimi orizzonti

    I vènti e i raggi tesseran la vesta
    nova, e la carne scevra d'ogni male
    éntrovi balzerà leggera e presta.

    Tu 'l sai: per t'obbedire, o Trionfale,
    sí lungamente fummo a oste, franchi
    e duri; né il cor disse mai "Che vale?"

    disperato di vincere; né stanchi
    mai apparimmo, né mai tristi o incerti,
    ché il tuo volere ci fasciava i fianchi.

    O Maestro, tu 'l sai: fu per piacerti.
    Ma greve era l'umano lezzo ed era
    vile talor come di mandre inerti;

    e la turba faceva una Chimera
    opaca e obesa che putiva forte
    sí che stretta era all'afa la gorgiera.

    Gli aspetti della Vita e della Morte
    invano balenavan sul carname
    folto, e gli enimmi dell'oscura sorte.

    Non era pane a quella bassa fame
    la bellezza terribile; onde il tardo
    bruto mugghiava irato sul suo strame.

    Pur, lieta maraviglia, se alcun dardo
    tutt'oro gli giungea diritto insino
    ai precordii, oh il suo fremito gagliardo!

    E tu dicevi in noi: "Quel ch'è divino
    si sveglierà nel faticoso mostro.
    Bàttigli in fronte il novo suo destino".

    E noi perseverammo, col cuor nostro
    ardente, per piacerti, o Imperatore;
    e su noi non potè ugna nè rostro.

    Ma ne sorse per mezzo al chiuso ardore
    la vena inestinguibile e gioconda
    del riso, che sonò come clangore.

    E ad ogni ingiuria della bestia immonda
    scaturiva più vivido e più schietto
    tal cristallo dall'anima profonda.

    Erma allegrezza! Fin lo schiavo abietto,
    sfumato con le miche del convito,
    lungi rauco latrava il suo dispetto;

    e l'obliqio lenone, imputridito
    nel vizio suo, dal lubrico angiporto
    con abominio ci segnava a dito.

    O Dèspota, tu dài questo conforto
    al cuor possente, cui l'oltraggio èlode
    e assillo di virtù ricever torto.

    Ei nella solitudine si gode
    sentendo sé come inesausto fonte
    Dedica l'opre al Tempo; e ciò non ode.

    Ammonisti l'alunno: "Se hai man pronte,
    non iscegliere i vermini nel fimo
    ma strozza i serpi di Laocoonte".

    Ed ei seguì l'ammonimento primo;
    restò fedele ai tuoi comandamenti;
    fiso fu ne' tuoi segni a sommo e ad imo.

    Dèspota, or tu concedigli che allenti
    il nervo ed abbandoni gli ebri spirti
    alle voraci melodíe dei vènti!

    Assai si travagliò per obbedirti.
    Scorse gli Eroi su i prati d'asfodelo.
    Or ode i Fauni ridere tra i mirti.

    l'Estate ignuda ardendo a mezzo il cielo.


    (Romena, 10 luglio 1902)




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    IL FANCIULLO


    I.

    Figlio della Cicala e dell'Olivo,
    nell'orto di quel Fauno
    tu cogliesti la canna pel tuo flauto,
    pel tuo sufolo doppio a sette fóri?

    In quel che ha il nume agresto entro un'antica
    villa di Camerata
    deserta per la morte di Pampínea?
    O forse lungo l'Affrico che riga
    la pallida contrada
    ove i campi il cipresso han per confine?
    Più presso, nella Mensola che ride
    sotto il ponte selvaggia?
    Più lungi, ove l'Ombron segue la traccia
    d'Ambra e Lorenzo canta i vani ardori?

    Ma il mio pensier mi finge che tu colta
    l'abbia tra quelle mura
    che Arno parte, negli Orti Oricellari,
    ove dalla barbarie fu sepolta
    ahi sì trista, la Musa
    Fiorenza che cantò ne' dì lontani
    ai lauri insigni, ai chiari
    fonti, all'eco dell'inclite caverne,
    quando di Grecia le Sirene eterne
    venner con Plato alla Città dei Fiori.

    Te certo vide Luca della Robbia,
    ti mirò Donatello,
    operando le belle cantoríe.
    Tutte le frutta della Cornucopia
    per forza di scalpello
    fecero onuste le ghirlande pie.
    E tu danzavi le tue melodie,
    nudo fanciul pagano,
    àlacre nel divin marmo apuano
    come nell'aria, conducendo i cori.

    Figlio della Cicala e dell'Olivo,
    or col tuo sufoletto
    incanti la lucertola verdognola
    a cui sopra la selce il fianco vivo
    palpita pel diletto
    in misura seguendo il dolce suono.
    Non tu conosci il sogno
    forse della silente creatura?
    Ver lei ti pieghi: in lei non è paura:
    tu moduli secondo i suoi colori.

    Tu moduli secondo l'aura e l'ombra
    e l'acqua e il ramoscello
    e la spica e la man dell'uom che falcia,
    secondo il bianco vol della colomba,
    la grazia del torello
    che di repente pavido s'inarca,
    la nuvola che varca
    il colle qual pensier che seren volto
    muti, l'amore della vite all'olmo
    l'arte dell'ape, il flutto degli odori.

    Ogni voce in tuo suono si ritrova
    e in ogni voce sei
    sparso, quando apri e chiudi i fóri alterni.
    Par quasi che tu sol le cose muova
    mentre solo ti bei
    nell'obbedire ai movimenti eterni.
    Tutto ignori, e discerni
    tutte le verità che l'ombra asconde.
    Se interroghi la terra, il ciel risponde;
    se favelli con l'acque, odono i fiori.

    O fiore innumerevole di tutta
    la vita bella, umano
    fiore della divina arte innocente,
    preghiamo che la nostra anima nuda
    si miri in te, preghiamo
    che assempri te maravigliosamente!
    L'immensa plenitudine vivente
    trema nel lieve suono
    creato dal virgineo tuo soffio,
    e l'uom cò suoi fervori e i suoi dolori.

    II.

    Or la tua melodia
    tutta la valle come un bel pensiere
    di pace crea, le due canne leggiere
    versando una la luce ed una l'ombra.

    La spiga che s'inclina
    per offerirsi all'uomo
    e il monte che gli dà pietre del grembo,
    se ben l'una vicina
    e l'altro sia rimoto
    e l'una esigua e l'altro ingente, sembra
    si giungano per l'aere sereno
    come i tuoi labbri e le tue dolci canne,
    come su letto d'erbe amato e amante,
    come i tuoi diti snelli e i sette fóri,

    come il mare e le foci,
    come nell'ala chiare e negre penne,
    come il fior del leandro e le tue tempie,
    come il pampino e l'uva,
    come la fonte e l'urna,
    come la gronda e il nido della rondine,
    come l'argilla e il pollice,
    come ne' fiari tuoi la cera e il miele,
    come il fuoco e la stipula stridente,
    come il sentier e l'orma,
    come la luce ovunque tocca l'ombra.

    III.

    Sopor mi colse presso la fontana.
    Lo sciame era discorde:
    avea due re; pendea come due poppe
    fulve. E il rame s'udia come campana.

    Ti vidi nel mio sogno, o lene aulente.
    Lottato avevi ignudo
    contro il torrente folle di rapina.
    Raccolto avevi piuma di sparviere
    che a sommo del ciel muto
    in sue rote feria l'aer di strida.
    Ahi, lungi dalle tue musiche dita
    gittato avevi i calami forati.
    Chino con sopraccigli corrugati
    eri, fanciul pugnace,
    intento a farti archi da saettare
    col legno della flèssile avellana.

    IV.

    Eleggere sapesti il re splendente
    nello sciame diviso,
    ridere d'un tuo bel selvaggio riso
    spegnendo il fuco sterile e sonoro.

    Con la man tinta in mele di sosillo
    traesti fuor la troppa
    signoria. Cauto e fermo le calcavi.
    Sporgeva a modo d'uvero di poppa
    il buon sire tranquillo
    che fu re delle artefici soavi.
    Poi franco te n'andavi
    sonando per le prata di trifoglio,
    incoronato d'ellera e d'orgoglio,
    entro la nube delle pecchie d'oro.

    V.

    L'acqua sorgiva fra i tuoi neri cigli
    fecesi occhio che vede e che sorride;
    fecesi chioma su la tua cervice
    il crespo capelvenere.

    Fatto sei di segreto e di freschezza.
    Fatte son di làtice
    fluido e d'umide fibre le tue membra.
    Il tuo spirto, dal fonte come il salice
    ma senza l'amarezza
    nato, le amiche naiadi rimembra;
    tutte le polle sembra
    trarre per le invisibili sue stirpi.
    E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli,
    ha neri gambi il verde capelvenere.

    Converse le tue canne sono in chiari
    vetri, onde lenti i suoni
    stillano come gocce da clessidre.
    S'appressano i colúbri maculosi,
    gli aspidi i cencri e gli angui
    e le ceraste e le verdissime idre.

    Taciti, senza spire,
    eretti i serpi bevono l'incanto.
    Sol le bífide lingue a quando a quando
    tremano come trema il capelvenere.

    Sino ai ginocchi immerso nella cupa
    linfa, alla venenata
    greggia tu moduli il tuo lento carme.
    Par che da' piedi tuoi torta sia nata
    radice e di natura
    erbida par ti sien fatte le gambe.
    Ma il fior della tua carne
    suso come il nénufaro s'ingiglia.
    E se gli occhi tuoi cesii han nere ciglia,
    neri ha gli steli il verde capelvenere.

    VI.

    Se t'è l'acqua visibile negli occhi
    e se il làtice nudre le tue carni,
    viver puoi anco ne' perfetti marmi
    e la colonna dorica abitare.

    Natura ed Arte sono un dio bifronte
    che conduce il tuo passo armonioso
    per tutti i campi della Terra pura.
    Tu non distingui l'un dall'altro volto
    ma pulsare odi il cuor che si nasconde
    unico nella duplice figura.
    O ignuda creatura,
    teco salir la rupe veneranda
    voglio, teco offerire una ghirlanda
    del nostro ulivo a quell'eterno altare.

    Torna con me nell'Ellade scolpita
    ove la pietra è figlia della luce
    e sostanza dell'aere è il pensiere.
    Navigando nell'alta notte illune,
    noi vedremo rilucere la riva
    del diurno fulgor ch'ella ritiene.
    Stamperai nelle arene
    del Fàlero orme ardenti. Ospiti soli
    presso Colòno udremo gli usignuoli
    di Sofocle ad Antigone cantare.

    Vedremo nei Propílei le porte
    del Giorno aperte, nell'intercolumnio
    tutto il cielo dell'Attica gioire;
    nel tempio d'Erettèo, coro notturno
    dai negricanti pepli le sopposte
    vergini stare come urne votive;
    la potenza sublime
    della Citta, transfusa in ogni vena
    del vital marmo ov'è presente Atena,
    regnar col ritmo il ciel la terra il mare.

    Alcun arbore mai non t'avrà dato
    gioia sì come la colonna intatta
    che serba i raggi ne' suoi solchi eguali.
    All'ora quando l'ombra sua trapassa
    i gradi, tu t'assiderai sul grado
    più alto, cò tuoi calami toscani.
    La Vittoria senz'ali
    forse t'udrà, spoglia d'avorio e d'oro;
    e quella alata che raffrèna il toro;
    e quella che dislaccia il suo calzare.

    Taci! La cima della gioia è attinta.
    Guarda il Parnete al ciel, come leggiero!
    Guarda l'Imetto roscido di miele!
    Flessibile m'appar come l'efebo,
    vestito della clamide succinta,
    che cavalcò nelle Panatenee.
    Sorse dall'acque egee
    il bel monte dell'api e fu vivente.
    Or tuttavia nella sua forma ei sente
    la vita delle belle acque ondeggiare.

    Seno d'Egina! Oh isola nutrice
    di colombe e d'eroi! Pallida via
    d'Eleusi coi vestigi di Demetra!
    Splendore della duplice ferita
    nel fianco del Pentelico! Armonie
    del glauco olivo e della bianca pietra!
    Ogni golfo è una cetra.
    Tu taci, aulete, e ascolti. Per l'Imetto
    l'ombra si spande. Il monte violetto
    mormora e odora come un alveare.

    VII.

    L'odo fuggir tra gli arcipressi foschi,
    e l'ansia il cor mi punge.
    Ei mi chiama di lunge
    solo negli alti boschi, e s'allontana.

    Mutato è il suon delle sue dolci canne.
    Trèmane il cor che l'ode,
    balza se sotto il pièstrida l'arbusto;
    pavido è fatto al rombo del suo sangue,
    ed altro più non ode
    il cor presàgo di remoto lutto.
    Prego: "O fanciul venusto,
    non esser sì veloce
    ch'io non ti giunga!" E' vana la mia voce.
    Melodiosamente ei s'allontana.

    Elci nereggian dopo gli arcipressi,
    antiqui arbori cavi.
    Pascono suso in ciel nuvole bianche.
    A quando a quando tra gli intrichi spessi
    le nuvole soavi
    son come prede tra selvagge branche.
    E sempre odo le canne
    gemere d'ombra in ombra
    roche quasi richiamo di colomba
    che va di ramo in ramo e s'allontana.

    "O fanciullo fuggevole, t'arresta!
    Tu non sai com'io t'ami,
    intimo fiore dell'anima mia.
    Una sol volta almen volgi la testa,
    se te la inghirlandai,
    bel figlio della mia melancolia!
    Con la tua melodia
    fugge quel che divino
    era venuto in me, quasi improvviso
    ritorno dell'infanzia più lontana.

    Fa che l'ultima volta io t'incoroni,
    pur di negro cipresso,
    e teco io sia nella dolente sera!"
    Ei nell'onda volubile dei suoni
    con un gentil suo gesto,
    simile a un spirto della primavera,
    volgesi; alla preghiera
    sorride, e non l'esaude.
    L'ansia mia vana odo sol tra le pause,
    mentre che d'ombra in ombra ei s'alontana.

    Ad un fonte m'abbatto che s'accoglie
    entro conca profonda
    per aver pace, e un elce gli fa notte.
    "O figlio, sosta! Imiterai le foglie
    e l'acque anche una volta
    e i silenzii del dì con le tue note.
    Sediamo in su le prode.
    Fa ch'io veda l'imagine
    puerile di te presso l'imagine
    di me nel cupo speglio!" Ei s'allontana.

    S'allontana melodiosamente
    nè più mi volge il viso,
    emulo di Favonio ei nel suo volo.
    Sol calando, la plaga d'occidente
    s'infiamma; e d'improvviso
    tutta la selva è fatta un vasto rogo.
    Le nuvole di foco
    ardono gli elci forti,
    aerie vergini al disio dei mostri.
    Giunge clangor di buccina lontana.

    E un tempio ecco apparire, alte ruine
    cui scindon le radici
    errabonde. Gli antichi iddii son vinti.
    Giaccion tronche le statue divine
    cadute dai fastigi;
    dormono in bruni pepli di corimbi.
    Lentischi e terebinti
    l'odor dei timiami
    fan loro intorno. "O figlio, se tu m'ami,
    sosta nel luogo santo!" Ei s'allontana.

    "Rialzerò le candide colonne,
    rialzerò l'altare
    e tu l'abiterai unico dio.
    M'odi: te l'ornerò con arti nuove.
    E non avrà l'eguale.
    Maraviglioso artefice son io.
    T'adorerò nel mio
    petto e nel tempio. M'odi,
    figlio! Che immortalmente io t'incoroni!"
    Nel gran fuoco del vespro ei s'allontana.

    Si dilegua ne' fiammei orizzonti
    Forse è fratel degli astri.
    O forse nel mio sogno s'è converso?
    "Ti cercherò, ti cercherò ne' monti,
    ti cercherò per gli aspri
    torrenti dove ti sarai deterso.
    E ti vedrò diverso!
    Gittato avrai le canne,
    intento a farti archi da saettare
    col legno della flèssile avellana".




    (Romena, tra il 13 e il 19 luglio 1902)




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    LUNGO L'AFFRICO



    Grazia del ciel, come soavemente
    ti miri ne la terra abbeverata,
    anima fatta bella dal suo pianto!
    O in mille e mille specchi sorridente
    grazia, che da nuvola sei nata
    come la voluttà nasce dal pianto,
    musica nel mio canto
    ota t'effondi, che non è fugace,
    per me trasfigurata in alta pace
    a chi l'ascolti.

    Nascente Luna, in cielo esigua come
    il sopracciglio de la giovinetta
    e la midolla de la nova canna,
    sì che il più lieve ramo ti nasconde
    e l'occhio mio, se ti smarrisce, a pena
    ti ritrova, pel sogno che l'appanna,
    Luna, il rio che s'avvalla
    senza parola erboso anche ti vide;
    e per ogni fil d'erba ti sorride,
    solo a te sola.

    O nere e bianche rondini, tra notte
    e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere
    ospiti lungo l'Affrico notturno!
    Volan elle sì basso che la molle
    erba sfioran coi petti, e dal piacere
    il loro volo sembra fatto azzurro.
    Sopra non ha sussurro
    l'arbore grande, se ben trema sempre.
    Non tesse il volo intorno a le mie tempie
    fresche ghirlande?

    E non promette ogni lor breve grido
    un ben che forse il cuore ignora e forse
    indovina se udendo ne trasale?
    S'attardan quasi immemori del nido,
    e sul margine dove son trascorse
    par si prolunghi il fremito dell'ale.
    Tutta la terra pare
    argilla offerta all'opera d'amore,
    un nunzio il grido, e il vespero che muore
    un'alba certa.




    (Settignano, fine giugno 1902)




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    LA SERA FIESOLANA



    Fresche le mie parole ne la sera
    ti sien come il fruscío che fan le foglie
    del gelso ne la man di chi le coglie
    silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta
    su l'alta scala che s'annera
    contro il fusto che s'inargenta
    con le sue rame spoglie
    mentre la Luna è prossima a le soglie
    cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
    ove il nostro sogno si giace
    e par che la campagna già si senta
    da lei sommersa nel notturno gelo
    e da lei beva la sperata pace
    senza vederla.

    Laudata sii pel tuo viso di perla,
    o Sera, e pè tuoi grandi umidi occhi ove si tace
    l'acqua del cielo!

    Dolci le mie parole ne la sera
    ti sien come la pioggia che bruiva
    tepida e fuggitiva,
    commiato lacrimoso de la primavera,
    su i gelsi e su gli olmi e su le viti
    e su i pini dai novelli rosei diti
    che giocano con l'aura che si perde,
    e su 'l grano che non è biondo ancóra
    e non è verde,
    e su 'l fieno che già patì la falce
    e trascolora,
    e su gli olivi, su i fratelli olivi
    che fan di santità pallidi i clivi
    e sorridenti.

    Laudata sii per le tue vesti aulenti,
    o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
    il fien che odora!

    Io ti dirò verso quali reami
    d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti
    eterne e l'ombra de gli antichi rami
    parlano nel mistero sacro dei monti;
    e ti dirò per qual segreto
    le colline su i limpidi orizzonti
    s'incúrvino come labbra che un divieto
    chiuda, e perché la volontà di dire
    le faccia belle
    oltre ogni uman desire
    e nel silenzio lor sempre novelle
    consolatrici, sì che pare
    che ogni sera l'anima le possa amare
    d'amor più forte.

    Laudata sii per la tua pura morte
    o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare
    le prime stelle!




    (Capponcina di Settignano, 17 giugno 1899)



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    L'ULIVO



    Laudato sia l'ulivo nel mattino!
    Una ghirlanda semplice, una bianca
    tunica, una preghiera armoniosa
    a noi son festa.

    Chiaro leggero è l'arbore nell'aria
    E perché l'imo cor la sua bellezza
    ci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo,
    non sa l'ulivo.

    Esili foglie, magri rami, cavo
    tronco, distorte barbe, piccol frutto,
    ecco, e un nume ineffabile risplende
    nel suo pallore!

    O sorella, comandano gli Ellèni
    quando piantar vuolsi l'ulivo, o côrre,
    che 'l facciano i fanciulli della terra
    vergini e mondi,

    imperocché la castitate sia
    prelata di quell'arbore palladio
    e assai gli noccia mano impura e tristo
    alito il perda.

    Tu nel tuo sonno hai valicato l'acque
    lustrali, inceduto hai su l'asfodelo
    senza piegarlo; e degna al casto ulivo
    ora t'appressi.

    Biancovestita come la Vittoria,
    alto raccolta intorno al capo il crine,
    premendo con piede àlacre la gleba,
    a lui t'appressi.

    L'aura move la tunica fluente
    che numerosa ferve, come schiume
    su la marina cui l'ulivo arride
    senza vederla.

    Nuda le braccia come la Vittoria,
    sul flessibile sandalo ti levi
    a giugnere il men folto ramoscello
    per la ghirlanda.

    Tenue serto a noi,di poca fronda,
    è bastevole: tal che d'alcun peso
    non gravi i bei pensieri mattutini
    e d'alcuna ombra.

    O dolce Luce, gioventù dell'aria,
    giustizia incorruttibile, divina
    nudità delle cose, o Animatrice,
    in noi discendi!

    Tocca l'anima nostra come tocchi
    il casto ulivo in tutte le sue foglie;
    e non sia parte in lei che tu non veda,
    Onniveggente!




    (Romena, 20 luglio 1902)




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    LA SPICA



    Laudata sia la spica nel meriggio!
    Ella s'inclina al Sole che la cuoce,
    verso la terra onde umida erba nacque;
    s'inclina e più s'inclinerà domane
    verso la terra ove sarà colcata
    col gioglio ch'è il malvagio suo fratello,
    con la vena selvaggia
    col cíano cilestro
    col papavero ardente
    cui l'uom non seminò, in un mannello.

    E' di tal purità che pare immune,
    sol nata perché l'occhio uman la miri;
    di sì bella ordinanza che par forte.
    Le sue granella sono ripartite
    con la bella ordinanza che c'insegna
    il velo della nostra madre Vesta.
    Tre son per banda alterne;
    minore è il granel medio;
    ciascuno ha la sua pula;
    d'una squammetta nasce la sua resta.

    Matura anco non è. Verde è la resta
    dove ha il suo nascimento dalla squamma,
    però tutt'oro ha la pungente cima.
    E verdi lembi ha la già secca spoglia
    ove il granello a poco a poco indura
    ed assume il color della focaia.
    E verdeggia il fistuco
    di pallido verdore
    ma la stípula è bionda.
    S'odon le bestie rassodare l'aia.

    Dice il veglio: "Nè luoghi maremmani
    già gli uomini cominciano segare.
    E in alcuna contrada hanno abbicato.
    Tu non comincerai, se tu non veda
    tutto il popolo eguale della mèsse
    egualmente risplender di rossore".
    E la spica s'arrossa.
    Brilla il fil della falce,
    negreggia il rimanente,
    di stoppia incenerita è il suo colore.

    E prima la sudata mano e poi
    il ferro sentirànel suo fistuco
    la spica; e in lei saran le sue granella,
    in lei saràla candida farina
    che la pasta farà molto tegnente
    e farà pane che molto ricresce.
    Ma la vena selvaggia
    ma il cíano cilestro
    ma il papavero ardente
    con lei cadranno, ahi, vani su le secce.

    E la vena pilosa, or quasi bianca,
    è tutta lume e levità di grazia;
    e il cíano rassembra santamente
    gli occhi cesii di Palla madre nostra;
    e il papavero è come il giovenile
    sangue che per ispada spiccia forte;
    e tutti sono belli
    belli sono e felici
    e nel giorno innocenti;
    e l'uom non si dorrà di loro sorte.

    E saranno calpesti e della dolce
    suora, che tanto amarono vicina,
    che sonar per le reste quasi esigua
    cítara al vento udirono, disgiunti;
    e sparsi moriran senza compianto
    perché non danno il pane che nutrica.
    Ma la vena selvaggia
    e il cíano cilestro
    e il papavero ardente
    laudati sien da noi come la spica!




    (Romena, 25 luglio 1902)




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    L'OPERE E I GIORNI



    O sposo della Terra venerando,
    è bello a sera noverare l'opre
    della dimane e misurar nel cuore
    meditabondo la durabil forza.
    Veglio, la tua parola su me piove
    candida come il fior del melo allora
    che già comincia ad allegare il frutto.
    Parlami, e dimmi quali sieno l'opre.
    "Di questo mese m'apparecchio l'aia.
    La mondo e sarchiellata lievemente
    la concio con la pula e con la morchia
    sicché difenda la biada da topi
    e da formiche e d'altra gente infesta.
    E poi la piano con la pietra tonda,
    o con legno; o pur suvvi spargo l'acqua
    e suvvi metto le mie bestie, e bene
    cò piedi lor la faccio rassodare;
    e poi si secca al sole" il veglio dice.
    E sta su la sua soglia rinnovata
    di quella pietra ch'è detta serena
    (nasce del Monte Céceri in gran copia)
    schietta pietra, pendente nell'azzurro
    alquanto, di color d'acqua piovana
    ove cotta la foglia sia del glastro.
    E dietro la sua faccia, che la grande
    etade arò con invisibil vomere
    sì che raggia di curvi e retti solchi
    qual iugero già pronto alla sementa,
    sale su per lo stipite di pietra
    il bianco gelsomin grato alle pecchie,
    eguale di candore al crin canuto.
    "Di questo mese nel solstizio, quando
    il Sol non puote più salire, semino
    le brasche; le quà poi di mezzo agosto
    trapiantar mi bisogna in luogo irriguo.
    E la bietola e l'appio e il coriandro
    e la lattuga semino, ed innacquo.
    Colgo la veccia, e sego per pastura
    il fien greco. La fava anzi la luce
    vello, scemante la luna; la fava,
    anzi che compia lo scemar la luna,
    batto; e refrigerata la ripongo.
    Di questo mese inocchio il pesco, impiastro
    il fico, vòto l'arnia, il condottiero
    eleggo nel gomitolo dell'api.
    E prossima si fa la mietitura
    dell'orzo, la qual compiere mi giova
    anzi che mi comincino a cascare
    le spighe, imperocché non son vestite
    sue granella di foglie, come il grano.
    Da giovine sei moggia il dì potei
    segarne!" sorridendo il veglio dice.
    Ancora armata è la gengiva, salda
    nel suo sorriso e nella sua favella.
    E non pur gli vacillano i ginocchi,
    se ben la falce nell'oprare gli abbia
    a simiglianza sel suo ferro istesso
    curve le gambe. E sopra il santo petto
    il lin rude, che l'indaco fè quasi
    celeste, crea misteriosamente
    l'imagine di Pan duce degli astri,
    cui nel torace si rispecchia il Cielo.




    (Collocabile tra il 10 e il 16 luglio 1902)




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    L'AEDO SENZA LIRA



    Meco ragiona il veglio
    d'una spezie di pomi.
    E dice: "Nasce in arbore
    di mezzana statura, e fior bianchetto.
    La dolcezza del frutto
    è mista con asprezza.
    Non ricusa qualunque terra. I luoghi
    allegri ama bensì,dolce temperie.
    Dilettasi del mare.
    Il vento e il gelo teme.
    Innestar non si puote.
    Piccola etade dura.
    Serbansi i pomi in orci unti di pece.
    Anco serbansi in cave
    dell'oppio arbore; ovver tra la vinaccia
    in pentole, assai bene e lungamente".
    Così ragiona il veglio; ed in sue lente
    parole il cor si spazia
    come in un canto aonio.
    Risplende un'antichissima virtude,
    come nel prisco aedo
    che canta un fato illustre,
    o Terra, nel tuo bianco testimonio.
    Il soffio del suo petto
    paterno è come la bontà dell'aria
    che fa buona ogni cosa.
    La vita fruttuosa
    dell'arbore s'agguaglia
    alle sorti magnifiche dei regni.
    Ei parla, e tra due legni
    tesse la chiara paglia
    come l'aedo tende le sue corde,
    create cò minugi degli agnelli,
    tra i bracci della lira.
    Vento asolando, spira
    odor di meliloto il miel dall'ombra,
    colato nei mondissimi vaselli
    ove la man spremette i fiali pregni.
    Ei ragiona e travaglia;
    e il flavescente culmo non si spezza.
    A quando a quando mira
    come chi attenda segni.
    Ode sciame che romba.
    Ei parla di battaglia
    che han l'api in loro ostelli
    per signorie lor nuove.
    Gli luce nella barba e ne' capelli
    alcun filo di paglia
    che il suo parlar commuove.
    Al sole oro non è che tanto luca.
    Appesa alla sua bocca che s'immézza,
    presso l'aroma della sua saggezza,
    l'anima nostra è come la festuca.




    (Romena, 16 luglio 1902)




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    BEATITUDINE



    "Color di perla quasi informa, quale
    conviene a donna aver, non fuor misura".
    Non è, Dante, tua donna che in figura
    della rorida Sera a noi discende?

    Non è non è dal ciel Betarice
    discesa in terra a noi
    bagnata il viso di pianto d'amore?
    Ella col lacrimar degli occhi suoi
    tocca tutte le spiche
    a una a una e cangia lor colore.
    Stanno come persone
    inginocchiate elle dinanzi a lei,
    a capo chino, umíli; e par si bei
    ciascuna del martiro che l'attende.

    Vince il silenzio i movimenti umani.
    Nell'aerea chiostra
    dei poggi l'Arno pallido s'inciela.
    Ascosa la Città di sé non mostra
    se non due steli alzati,
    torre d'imperio e torre di preghiera,
    a noi dolce com'era
    al cittadin suo prima dell'esiglio
    quand'ei tenendo nella mano un giglio
    chinava il viso tra le rosse bende.

    Color di perla per ovunque spazia
    e il ciel tanto è vicino
    che ogni pensier vi nasce come un'ala.
    La terra sciolta s'è nell'infinito
    sorriso che la sazia,
    e da noi lentamente s'allontana
    mentre l'Angelo chiama
    e dice:"Sire, nel mondo si vede
    meraviglia nell'atto, che procede
    da un'anima, che fin quassù risplende".





    (Romena, 28 luglio 1902)




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    FURIT AESTUS



    Un falco stride nel color di perla:
    tutto il cielo si squarcia come un velo.
    O brivido su i mari taciturni,
    o soffio, indizio del súbito nembo!
    O sangue mio come i mari d'estate!
    La forza annoda tutte le radici:
    sotto la terra sta, nascosta e immensa.
    La pietra brilla più d'ogni altra inerzia.

    La luce copre abissi di silenzio,
    simile ad occhio immobile che celi
    moltitudini folli di desiri.
    L'Ignoto viene a me, l'Ignoto attendo!
    Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano.
    Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento.
    T'amo, o tagliente pietra che su l'erta
    brilli pronta a ferire il nudo piede.

    Mia dira sete, tu mi sei più cara
    che tutte le dolci acque dei ruscelli.
    Abita nella mia selvaggia pace
    la febbre come dentro le paludi.
    Pieno di grida è il riposato petto.
    L'ora è giunta, o mia Mèsse, l'ora è giunta!
    Terribile nel cuore del meriggio
    pesa, o Mèsse, la tua maturità.





    (Circa metà agosto 1902)




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    DITIRAMBO I
    ROMAE FRUGIFERAE DIC.




    Ove sono i cavalli del Sole
    criniti di furia e di fiamma?
    le code prolisse
    annodate con liste
    di porpora, l'ugne
    adorne di lampi
    su l'aride ariste?
    Ove l'aie come circhi
    te trebbie come pugne,
    come atleti la rustica prole?
    Ove sono i cavalli del Sole
    disgiunti dal carro celeste?
    Ove le sferze sonanti,
    le rèdine lunghe sbandite,
    il tinnir dei metalli,
    il brillar delle madide groppe?
    Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?
    Ove la femmina bella
    coperta di loppe e di reste
    come d'ori e di gemme?
    Ove gli scherni, le risse,
    le nude coltella,
    il sangue che fuma e che bolle,
    il giovine ucciso che cade
    nelle sue biade
    asperse del suo ricco sange
    e del vin suo vermiglio?
    Ove il tuo nume, o Dioníso,
    e il tuo riso e il tuo furore
    e il tuo periglio?

    Qui scarsa mèsse
    per piccole vite,
    aia angusta, fatica molle,
    mani prudenti, fievoli gole.
    O Maremme, o Maremme,
    bellezza immite
    nata dalla Febbre e dal Sole,
    o regni diurni di Dite,
    voi l'anima mia sogna!
    O Roma, o Roma, la prima
    davanti alla faccia del Sole,
    incombustibile forza,
    semenza di gloria,
    unica nata dal solco
    del violento
    ardua spica opima,
    te l'anima mia sogna ed agogna
    in un mar di frumento,
    dal Cimino solitario
    ai vitiferi colli dei Volsci,
    fino a Minturno ov'erra
    nel limo l'ombra di Mario,
    fino a Sinuessa
    ebra di Massico forte,
    fino alle auree porte
    della Campania promessa,
    in un mar di frumento
    innumerevole
    come le trionfate stirpi
    dalla tua guerra!

    O arce della Terra,
    nel dipartirmi
    da te, al cospetto dell'Agro
    ebbi presagio cruento
    che m'infiammò d'amore
    più novo e gagliardo
    per tutte le tue are
    e per tutte le tue tombe.
    Vidi campo di rossi
    papaveri vasto al mio sguardo
    come letto di strage,
    come flutto ancor caldo
    sgorgato da una ecatombe.
    Non mai più fervente rossore
    veduto avean gli occhi miei grandi,
    e tutta la mia vita tremava
    dalle radici
    come s'io mi svenassi
    sul sacro tuo suolo
    con vene giganti.
    E l'anima, che si dipartiva,
    impetuosamente
    verso di te si rivolse, incesa
    da dolor rovente
    ch'ella udì stridere come
    tizzo in piaga viva;
    e tutta verso di te protesa
    era, gridando il tuo nome
    al fulgor vermiglio,
    dal carro strepitoso
    che la traeva in esiglio.
    E intollerabile male
    tra tutti i suoi mali
    a lei parve la sua dipartita;
    sentì la sua vita
    spoglia d'ogni forza e senz'ali,
    pallida e senza riposo
    piegata su l'acre ferita,
    ahi, mirò sé stessa lontana.

    O Toscana, o Toscana,
    dolce tu sei ne' tuoi orti
    che lo spino ti chiude
    e il cipresso ti guarda;
    dolce sei nelle tue colline
    che il ruscello ti riga
    e l'ulivo t'inghirlanda.
    E una dura virtude
    certo nelle tue torri commise
    e murò per la guerra civile
    le pietre forti;
    e carca di grandi morti
    tu sei ne' tuoi sculti sepolcri,
    o Fiorenza, o Fiorenza,
    giglio di potenza,
    virgulto primaverile;
    e certo non è grazia alcuna
    che vinca tua grazia d'aprile
    quando la valle è una cuna
    di fiori di sogni e di pace
    ove Simonetta si giace.
    Ma cuna dell'anima mia
    è il solco del carro stridente
    nella pietra dell'Appia via.
    A piè del Celio infrequente,
    sotto la Porta Capena
    gemere udì l'Acqua Marcia
    che abbevera l'Urbe affocata.
    Si mosse di là fra le tombe
    e i lauri, fra la Morte che guata
    e la Gloria che perde le frondi,
    ai colli d'Alba giocondi.
    Lasciò dietro sé le molli ombre;
    più non vide la lunga catena
    rosseggiar degli acquedutti;
    non vide la fresca Preneste;
    sdegnò di Tuscolo i frutti,
    d'Aricia la selva serena;
    s'affrettò alla spiaggia tirrena
    ove dura fervente
    la bava delle tempeste,
    alle reggie di Circe funeste
    ove urtò d'Odisseo la carena.
    Anelante al deserto di luce
    ove fuma vapor che avvelena
    e rapisce gli spirti errabondi,
    scoperse la candida rupe
    onde Anxur pendente
    nella truce canicola incombe
    allo stagno mortifero e al Mare.

    Appia via, cammino solare
    incontro all'Austro rapido-ardente,
    Appia via, dalla Porta Capena
    cui la recondita vena
    geme l'assidua stilla,
    ove condurrai tu la mia
    anima inpaziente
    che d'avidità risfavilla?
    Non qui la mia messe è mietuta.
    A mietere l'alta mia mèsse
    mille falci idefesse
    travagliarono solco per solco,
    dall'aurora al tramonto,
    per nove aurore
    e per nove tramonti,
    in terra sconosciuta.
    E s'udiva in ogni meriggio
    venir dagli orizzonti
    infiammati la voce
    e il tuono di Pan sopra a noi.
    E ululava la torma feroce:
    "O Pan, aiuta, aiuta!"
    E per la stoppia i buoi
    candidi, aggiogati ai plaustri
    contra le biche manomesse,
    mugghiavano di spavento.

    O Pan, dammi il mio frumento,
    dammi l'oro della mia mèsse
    australe e la furia degli Austri
    libici e la furia dei cavalli
    dall'ugne adorne di lampi!
    Non qui non qui ebbi i miei campi,
    non qui ebbi i miei plaustri,
    ma nel grande Lazio tirreno,
    fino a Minturno,
    fino a Sinuessa,
    nella terra ebra di Massico
    nella terra ebra di Cècubo,
    a Fondi lacustre,
    ad Amicle marina,
    ad Ardea danaèia
    ov'arde il sangue di Turno,
    e su la curva spiaggia nomata
    dalla nutrice eneia,
    di qua dal rapace Volturno,
    e presso lo stagno taciturno
    pingue di calami e d'ulve
    ove il Latino il lauro vige
    tra le spiche fatte più fulve,
    e ad Anzio amor del pirata
    e della Fortuna crudeli
    e del crudele Imperatore,
    e a Ostia, nella sacra bocca
    del Tevere irta di prore
    gonfia di vele
    ingombra dè lunghi granai.

    Ovunque falciai e trebbiai
    nel grande Lazio tirreno,
    alle porte dell'Urbe e al confine
    estremo, fra il Tevere e il Liri,
    in ogni più fertile plaga.
    Ma a te vanno i miei sospiri,
    a te, ombra del Monte Circèo
    letifera come il veleno
    e il carme dell'avida maga
    che tenne l'insonne
    piloto re d'Itaca Odisseo
    nel letto dall'alte colonne.
    Quivi ancor regna nel Monte
    l'Iddia callida, figlia del Sole;
    e spia dal palagio rupestro,
    tra sue stellate pantere
    e sue tazze attoscate di suchi.
    Gemon prigioni i suoi drudi,
    bestiame del suo piecere,
    cui ella tocca la fronte
    con cerga e susurra parole.
    E i suoi pastori astati, prole
    dell'Evia e del Centauro
    generata nell'ora dell'estro,
    di bronzea pelle, di pel sauro,
    prole furibonda,
    quivi sotto gettano rauco
    ululo su la palude
    e pungono il negro armento
    dalle code nude,
    i bufali, irosi mostri
    profondati nel lutulento
    pascolo che s'inselva di corna.
    E, quando aggiorna,
    tutta la palude ansa e soffia
    per le froge e per le fauci emerse,
    occhiuta di mille occhi torvi;
    e l'acqua putre gorgoglia
    e bulica occlusa dall'erbe
    cui sradica il piè bisulco,
    mentre nube di corvi
    sinistra offusca e assorda l'aria
    ove passa in silenzio mortale
    la Febbre velata di nebbia.

    Quivi io farò la mia trebbia,
    quivi batterò la mia mèsse
    in un'area vasta
    come campo per oste schierata.
    Ove sono i cavalli del Sole
    criniti di furia e di fiamma?
    le code prolisse
    annodate con liste
    di porpora, l'ugne
    adorne di lampi
    su l'aride ariste?
    Ove le sferze sonanti,
    le rédine lunghe sbandite,
    il tinnir dei metalli,
    il brillar delle madide groppe?
    Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?

    Ecco, al tripudio, ecco i cavalli!
    Chi li conduce?
    Ecco le sferze, ecco i crotali,
    i cimbali cavi-sonori
    che vince il rombo dei cuori,
    le femmine scalze-succinte
    ebre di luce,
    i giovini possa-di-tori
    ebri di strepito.
    Ecco il fiore del sangue latino.
    Ecco gli otri gonfi di vino.
    Ecco la sapa dolce a mescere.
    Ecco l'arido pane che asseta.
    Ecco la tazza di creta,
    foggia antica e ne' secoli bella,
    ampia come bucranio,
    rosea come mammella.
    Ecco tutto il tripudio!
    Versate i manipoli
    sul suol vulcanio,
    versate dal plaustro
    accline i manipoli
    come da cornucopia.
    Tutta la terra è roggia
    più che sinopia
    agli occhi torbidi.
    Il vento turbina,
    suscita polvere in vortici.
    Versano i plaustri
    nell'aia l'oro stridulo.
    L'oro s'accumula.
    Dispare il suolo igneo
    sotto la congerie
    innumerevole.
    Sola una bica, solo un aureo
    monte è la grande area.
    Tutto il Lazio è una stoppia
    che arde e solvesi in cenere
    sa Sinuessa massica
    fino a Roma romúlea.
    Sola una bica, solo un aureo
    monte è la grande area;
    e i cavalli l'ascendono.
    Scalpita, scalpita!
    O Roma, questo è il monte di Cerere
    madre di Prosèrpina,
    questo è il monte della Magna Madre
    che navigò pel Tevere.
    I cavalli terribili
    erti su l'unghia solida
    l'ascendono, l'assaltano.
    Scalpita, scalpita!
    Crollano i manipoli
    sotto l'urto, si spezzano
    i culmi, si sgranano
    le spiche, le ariste stridono,
    le loppe volano.
    Scalpita, scalpita!
    Le sferze schioccano,
    per l'aere guizzano
    come le folgori.
    Come le gòmene
    della nave in pericolo
    sotto la ràffica,
    si tendono le rédine.
    Gli umani polsi battono,
    tremano i muscoli,
    si gonfiano le arterie.
    chi osa reggere
    la forza degli Alipedi?
    Balzano, s'impennano
    le fiere, vèrberano
    l'aere, col ferro quadruplice
    i cumuli dirompono.
    Le code intonse inarcansi,
    le criniere svèntolano
    come vessilli vividi,
    le nari spirano
    fiamma, gli occhi si rigano
    di sangue, i fianchi pulsano,
    le vene si palesano,
    per l'ampie groppe rivoli
    di sudore fluiscono,
    nella schiuma dei difficili
    freni brilla l'iride.
    Scalpita, scalpita!
    Tutto il fuoco dell'anima
    ferina esalasi
    nell'impeto e nell'ànsito
    par circonfondere
    gli acri corpi madidi,
    sul sudor fremere
    come un'ala invisibile.
    Svegliasi nei rapidi
    cuori l'anelito di Pègaso
    verso il cammin sidereo?
    Scalpita, scalpita!
    Il vento turbina,
    agita in nugoli
    vani le spoglie spícee.
    Tutto l'aere è volatile
    oro, per ove le candide
    e negre e saure
    e maculate groppe splendono,
    per ove passano
    i gridi rauchi,
    gli schiocchi, i sibili,
    l'urto dei crotali,
    il tintinnío dei cimbali,
    il mugghio delle bufale,
    il riso delle femmine
    umane che Libero èccita.

    Ma il cielo dilatasi
    muto e solenne sul tripudio;
    lungi si tace il Mare Infero
    ove il figlio di Venere
    dall'alta prora iliaca
    gridò: "Italia! Italia!"
    E l'ombra del re d'Itaca,
    l'ombra dell'antico nauta
    esperto degli uomini e dei pelaghi,
    guata dalla magica
    rupe se il Fato ferreo
    lui anco chiami a vincere
    un più grande pericolo.
    O Forza, o Abondanza, o Vittoria,
    voi all'opera terrestre auspici
    siete e testimonii!
    Tutto di voi s'illumina
    il grande Lazio. In purpureo
    lume il giorno cangiasi.
    Il vento chiude i suoi turbini.
    L'aere la terra pènetra.
    Par nelle cose nascere
    una vita indicibile,
    però che i prischi numi italici,
    subitamente reduci
    dall'ombra delle Origini,
    nella gleba rivivano,
    nell'acqua nell'erba nella silice,
    e laggiù, entro la reggia
    del re Latino figlio
    di Marica e di Fauno,
    rinverdiscasi il Lauro
    che fu sacro ad Apolline
    Febo pria che il vedovo
    di Creusa da Ilio
    venisse per congiugnersi
    con Lavinia vergine fertile.
    O prodigio! O metamorfosi!
    Su la grande area,
    quadrata come la saturnia
    Urbe nel nascere,
    la calpesta messe al par d'occidua
    nuvola s'imporpora.
    Scalpita, scalpita!
    E i cavalli son rosei
    spslendenti, come se nell'intimo
    sangue una súbita
    aurora accendasi
    e per i fumidi
    fianchi trasparir veggasi.
    S'ergono e di roseo
    fuoco il petto e il ventre splendono,
    ove s'intrecciano le tumide
    vene come d'edera
    intrichi per iperborei còrtici.
    Fiammei spiriti
    dalle narici esalano.
    Scalpita, scalpita!
    Or senton gli uomini
    che un divin numero
    modera l'impeto
    dei solidunguli.
    O prodigio! O metamorfosi!
    Ecco, le ali titanie,
    le solari penne, le lucifere
    piume, infaticabili
    flagelli dell'Etere
    diurno, atefici
    della rapidità precípite,
    cui le trame dei muscoli
    contro le dure scapule
    parean constringere,
    ecco, ecco, si liberano
    si spiegano s'allargano.
    Nell'oro e nella porpora
    aperte palpitano
    le ali, le ali apollinee.
    Il vento ch'elle muovono
    solleva il cuor degli uomini
    come un peàn che càntino
    per sacri intercolumnii
    cetere a miriadi.
    Io Peàn! Io Peàn! Gloria
    al Maestro dell'Opere,
    allo Specchio degli Uomini,
    al Titan dalla rutila chioma,
    al Re delle alate parole,
    al Duce dei cori eliconii!
    O Forza, Abbondanza, Vittoria,
    e tu, Genio che mai non si doma,
    voi siatemi qui testimonii.
    Calpestano i cavalli del Sole
    il rinato frumento di Roma.





    (Romena, 1 agosto 1902)



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    PACE



    Pace, pace! La bella Simonetta
    adorna del fugace emerocàllide
    vagola senza scorta per le pallide
    ripe cantando nova ballatetta.
    Le colline s'incurvano leggiere
    come le onde del vento nella sabbia
    del mare e non fanno ombra, quasi d'aria.
    L'Arno favella con la bianca ghiaia,
    recando alle Nereidi tirrene
    il vel che vi bagnò forse la Grazia,
    forse il velo onde fascia
    la Grazia questa terra di Toscana
    escita della casalinga lana
    che fu l'arte sua prima.
    Pace, pace! Richiama la tua rima
    nel cor tuo come l'ape nel tuo bugno.
    Odi tenzon che in su l'estremo giugno
    ha la cicala con la lodoletta!





    (Metà luglio-metà agosto 1902)



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    ALCYONE - Sezione 2


    LA TENZONE



    O Marina di Pisa, quando folgora
    il solleone!
    Le lodolette cantan su le pratora
    di San Rossore
    e le cicale cantano su i platani
    d'Arno a tenzone.

    Come l'Estate porta l'oro in bocca,
    l'Arno porta il silenzio alla sua foce.
    Tutto il mattino per la dolce landa
    quinci è un cantare e quindi altro cantare;
    tace l'acqua tra l'una e l'altra voce.
    E l'Estate or si china da una banda
    or dall'altra si piega ad ascoltare.
    E' lento il fiume, il naviglio è veloce.
    La riva è pura come una ghirlanda.
    Tu ridi tuttavia cò raggi in bocca,
    come l'Estate a me, come l'Estate!
    Sopra di noi sono le vele bianche
    sopra di noi le vele immacolate.
    Il vento che le tocca
    tocca anche le tue palpebre un po' stanche,
    tocca anche le tue vene delicate;
    e un divino sopor ti persuade,
    fresco ne' cigli tuoi come rugiade
    in erbe all'albeggiare.
    S'inazzurra il tuo sangue come il mare.
    L'anima tua di pace s'inghirlanda.
    L'Arno porta il silenzio alla sua foce
    come l'Estate porta l'oro in bocca.
    Stormi d'augelli varcano la foce,
    poi tutte l'ali bagnano nel mare!
    Ogni passato mal nell'oblio cade.
    S'estingue ogni desio vano e feroce.
    Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce;
    quello che mi toccò, più non mi tocca.
    E' paga nel mio cuore ogni dimanda,
    come l'acqua tra l'una e l'altra voce.
    Così discendo al mare;
    così veleggio. E per la dolce landa
    quinci è un cantare e quindi altro cantare.

    Le lodolette cantan su le pratora
    di San Rossore
    e le cicale cantano su i platani
    d'Arno a tenzone.





    ( Marina di Pisa, 5 luglio 1899 )




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    BOCCA D'ARNO



    Bocca di donna mai mi fu di tanta
    soavità nell'amorosa via
    (se non la tua, se non la tua, presente)
    come la bocca pallida e silente
    del fiumicel che nasce in Falterona.
    Qual donna s'abbandona
    (se non tu, se non tu) sì dolcemente
    come questa placata correntía?
    Ella non canta,
    e pur fluisce quasi melodia
    all'amarezza.
    Qual sia la sua bellezza
    io non so dire,
    come colui che ode
    suoni dormendo e virtudi ignote
    entran nel suo dormire.

    Le saltano all'incontro i verdi flutti,
    schiumanti di baldanza,
    con la grazia dei giovini animali.
    In catena di putti
    non mise tanta gioia Donatello,
    fervendo il marmo sotto lo scalpello,
    quando ornava le bianche cattedrali.
    Sotto ghirlande di fiori e di frutti
    svolgeasi intorno ai pergami la danza
    infantile, ma non sì fiera danza
    come quest'una.
    V'è creatura alcuna
    che in tanta grazia
    viva ed in sì perfetta
    gioia, se non quella lodoletta
    che in aere si spazia?

    Forse l'anima mia, quando profonda
    sè nel suo canto e vede la sua gloria;
    forse l'anima tua, quando profonda
    sè nell'amore e perde la memoria
    degli inganni fugaci in che s'illuse
    ed anela con me l'alta vittoria.
    Forse conosceremo noi la piena
    felicità dell'onda
    libera e delle forti ali dischiuse
    e dell'inno selvaggio che si frena.
    Adora e attendi!
    Adora, adora, e attendi!
    Vedi? I tuoi piedi
    nudi lascian vestigi
    di luce, ed à tuoi occhi prodigi
    sorgon dall'acque. Vedi?

    Grandi calici sorgono dall'acque,
    di non so qual leggiere oro intessuti.
    Le nubi i monti i boschi i lidi l'acque
    trasparire per le corolle immani
    vedi, lontani e vani
    come in sogno paesi sconosciuti.
    Farfelle d'oro come le tue mani
    volando a coppia scoprono su l'acque
    con meraviglia i fiori grandi e strani,
    mentre tu fiuti
    l'odor salino.
    Fa un suo gioco divino
    l'Ora solare,
    mutevole e gioconda
    come la gola d'una colomba
    alzata per cantare.

    Sono le reti pensili. Talune
    pendon come bilance dalle antenne
    cui sostengono i ponti alti e protesi
    ove l'uom veglia a volgere la fune;
    altre pendono a prua dei palischermi
    trascorrendo il perenne
    specchio che le rifrange; e quando il sole
    batte a poppa i navigli, stando fermi
    i remi, un gran fulgor le trasfigura:
    grandi calici sorgono dall'acque,
    gigli di foco.
    Fa un suo divino gioco
    la giovine Ora
    che è breve come il canto
    della colomba. Godi l'incanto,
    anima nostra, e adora!





    ( Marina di Pisa, 6 luglio 1899 )



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    INTRA DU' ARNI



    Ecco l'isola di Progne
    ove sorridi
    ai gridi
    della rondine trace
    che per le molli crete
    ripete
    le antiche rampogne
    al re fallace,
    e senza pace,
    appena aggiorna,
    va e torna
    vigile all'opra
    nidace,
    nè si posa nè si tace
    se non si copra
    d'ombra la riviera
    a sera
    circa l'isola leggiera
    di canne e di crete,
    che all'aulete
    dà flauti,
    alla migrante nidi
    e, se sorridi, lauti
    giacigli all'amor folle.
    Ecco l'isola molle.
    Ecco l'isola molle
    intra dù Arni,
    cuna di carmi,
    ove cantano l'Estate
    le canne virenti
    ai vènti
    in varii modi,
    non odi?,
    quasi di nodi
    prive e di midolle,
    quasi inspirate
    da volubili bocche
    e tocche
    da dita sapienti,
    quasi con arte elette
    e giunte insieme
    a schiera,
    su l'esempio divino,
    con lino
    attorto e con cera
    sapida di miele,
    a sette a sette,
    quasi perfette
    sampogne.
    Ecco l'isola di Progne.





    ( Data di componimento ignota )


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    LA PIOGGIA NEL PINETO



    Taci. Su le soglie
    del bosco non odo
    parole che dici
    umane; ma odo
    parole più nuove
    che parlano gocciole e foglie
    lontane.
    Ascolta. Piove
    dalle nuvole sparse.
    Piove su le tamerici
    salmastre ed arse,
    piove su i pini
    scagliosi ed irti,
    piove su i mirti
    divini,
    su le ginestre fulgenti
    di fiori accolti,
    su i ginepri folti
    di coccole aulenti,
    piove su i nostri volti
    silvani,
    piove su le nostre mani
    ignude,
    su i nostri vestimenti
    leggieri,
    su i freschi pensieri
    che l'anima schiude
    novella,
    su la favola bella
    che ieri
    t'illuse, che oggi m'illude,
    o Ermione.

    Odi? La pioggia cade
    su la solitaria
    verdura
    con un crepitío che dura
    e varia nell'aria
    secondo le fronde
    più rade, men rade.
    Ascolta. Risponde
    al pianto il canto
    delle cicale
    che il pianto australe
    non impaura,
    nè il ciel cinerino.
    E il pino
    ha un suono, e il mirto
    altro suono, e il ginepro
    altro ancóra, stromenti
    diversi
    sotto innumerevoli dita.
    E immersi
    noi siam nello spirto
    silvestre,
    d'arborea vita viventi;
    e il tuo volto ebro
    è molle di pioggia
    come una foglia,
    e le tue chiome
    auliscono come
    le chiare ginestre,
    o creatura terrestre
    che hai nome
    Ermione.

    Ascolta, ascolta. L'accordo
    delle aeree cicale
    a poco a poco
    più sordo
    si fa sotto il pianto
    che cresce;
    ma un canto vi si mesce
    più roco
    che di laggiù sale,
    dall'umida ombra remota.
    Più sordo e più fioco
    s'allenta, si spegne.
    Sola una nota
    ancor trema, si spegne,
    risorge, trema, si spegne.
    Non s'ode voce del mare.
    Or s'ode su tutta la fronda
    crosciare
    l'argentea pioggia
    che monda,
    il croscio che varia
    secondo la fronda
    più folta, men folta.
    Ascolta.
    La figlia dell'aria
    è muta; ma la figlia
    del limo lontana,
    la rana,
    canta nell'ombra più fonda,
    chi sa dove, chi sa dove!
    E piove su le tue ciglia,
    Ermione.

    Piove su le tue ciglia nere
    sìche par tu pianga
    ma di piacere; non bianca
    ma quasi fatta virente,
    par da scorza tu esca.
    E tutta la vita è in noi fresca
    aulente,
    il cuor nel petto è come pesca
    intatta,
    tra le pàlpebre gli occhi
    son come polle tra l'erbe,
    i denti negli alvèoli
    con come mandorle acerbe.
    E andiam di fratta in fratta,
    or congiunti or disciolti
    (e il verde vigor rude
    ci allaccia i mallèoli
    c'intrica i ginocchi)
    chi sa dove, chi sa dove!
    E piove su i nostri vólti
    silvani,
    piove su le nostre mani
    ignude,
    su i nostri vestimenti
    leggieri,
    su i freschi pensieri
    che l'anima schiude
    novella,
    su la favola bella
    che ieri
    m'illuse, che oggi t'illude,
    o Ermione.






    ( Data di composizione ignota. Probabile fra la metà di luglio 1902 e la metà dell'agosto dell'anno sucessivo )



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    LE STIRPI CANORE



    I miei carmi son prole
    delle foreste,
    altri dell'onde,
    altri delle arene,
    altri del Sole,
    altri del vento Argeste.
    Le mie parole
    sono profonde
    come la redici
    terrene,
    altre serene
    come i firmamenti,
    fervide come le vene
    degli adolescenti,
    ispide come i dumi,
    confuse come i fumi
    confusi,
    nette come i cristalli
    del monte,
    tremule come le fronde
    del pioppo,
    tumide come la nerici
    dei cavalli
    a galoppo,
    labili come i profumi
    diffusi,
    vergini come i calici
    appena schiusi,
    notturne come le rugiade
    dei cieli,
    funebri come gli asfodeli
    dell'Ade,
    pieghevoli come i salici
    dello stagno,
    tenui come i teli
    che fra due steli
    tesse il ragno.





    (Metà luglio-metà agosto 1902)



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    IL NOME



    Donna, ebbe il tuo nome
    una città murata
    della pulverulenta
    Argolide. E quivi era,
    dicesi, un sentier breve
    per discendere all'Ade
    avaro, alle tenarie
    fauci; sì che i natii
    non ponean nella bocca
    dei loro morti il prezzo
    del tragitto infernale,
    l'obolo tenebroso
    pel nocchier dello Stige.
    Ed ebbe anco il tuo nome
    la figlia della grande
    Elena, il fior di Sparta
    bianco, il sangue di Leda
    splendido come l'oro,
    la nata di colei
    che brillò su la terra
    come un'altra Stagione,
    delizia innumerevole,
    face e specchio di Venere,
    piaga del combattente.
    Ermione, Ermione
    dalla voce sorgevole
    e talora virente
    quasi tra capelvenere
    acqua ombrosa, dagli occhi
    nutriti di bellezza
    e di frescura, nat
    gemelli della Grazia
    e del Sogno, Ermione
    cara all'aedo, esperta
    in tesser la ghirlanda
    e la lode pel fertile
    aedo che ti sazia
    di melodia selvaggia,
    il tuo nome mi piace
    tuttavia come un grappolo,
    come quel flauto roco
    che a sera è nel cespuglio,
    mi piace come un grappolo
    d'uva nera il tuo nome,
    come il fiore del croco
    e la pioggia di luglio.




    ( Data di composizione ignota )



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    INNANZI L'ALBA



    Coglierai sul nudo lito,
    infinito
    di notturna melodia,
    il maritimo narcisso
    per le tue nuove corone,
    tramontando nell'abisso
    le Vergilie,
    le sorelle oceanine
    che ancor piangono per Ia
    lacerato dal leone.

    Andrem pel lito silenti;
    sentiremo la rugiada
    lene e pura
    piovere dagli occhi lenti
    della notte moritura,
    tramontando nel pallore
    le Vergilie,
    le sorelle oceanine
    minacciate dalla spada
    del feroce cacciatore.

    Forse volgerò la faccia
    in dietro talvolta io solo
    per vedere la tua traccia
    luminosa,
    e starem muti in ascolto,
    tramontando in tema e in duolo
    le Vergilie,
    le sorelle oceanine
    a cui l'Alba asciuga il volto
    col suo bianco vel di sposa.





    ( Data di composizione ignota )




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    VERGILIA ANCEPS



    Nella pupilla tua,
    nel disco
    dell'occhio aurino
    la prua,
    l'acuta prua
    del navil prisco,
    come nella medaglia
    della Tessaglia
    risplende,
    come nelle stupende
    monete del potere
    marino,
    come nello statère
    del porto licio
    dal pirata fenicio
    nominato Fasèla.
    Alla vela! alla vela!

    E nell'altra pupilla
    scintilla
    il grano a fiamma
    come nel tetradramma
    di Leontini
    sul fiume Lisso
    ubertà di Sicilia
    dai fromenti divini.
    E, s'io m'affisso
    in te, la duplice arte
    il cor mi parte.
    O duro suol discisso!
    Lungo solco navale!
    E in una e in altra parte
    la mia virtù si esilia,
    o mia Vergilia
    nautica e cereale.





    ( Data di composizione ignota )



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    I TRIBUTARII



    Questa è la bella foce
    che oggi ha il color del miele,
    sì lene che l'Amore
    te l'accosta alle labbra
    come una tazza colma.
    Lodata io l'ho con arte.
    Ma quante acque in quest'acqua,
    ma quante acque correnti,
    quanta forza rapace,
    o Fluviale, in questa tarda pace!

    E non è dato a noi
    votar la colma tazza,
    distinguerne i sapori.
    Chi loderà l'Ombrone
    cui Lorenzo già vide
    rompere dallo speco
    dietro le trecce d'Ambra?
    Ancóra ei grida all'Arno:
    "In te mia speme è sola.
    Soccorri presto, ché la ninfa vola".

    Chi loderà il Bisenzio
    sì caro a quell'antico
    favolatore ornato
    che lodò la bellezza
    della donna perfetta?
    E chi la Pescia e l'Era?
    E chi la Pesa e l'Elsa?
    Chi la Greve e la Sieve?
    e i rivi freddi e molli
    del Casentino giù pè verdi colli?

    Strepiti freschi in sassi
    politi, argille chiare,
    argini d'erba, file
    di pioppi alti, vivai
    di salci giovinetti,
    cupe conche pescose,
    ombre che il quadrel d'oro
    fiede, ambigui meandri,
    or chi di voi si gode
    e tempra nel cor suo la vostra lode?

    Questa è la foce; e quanto
    paese l'acqua corre,
    che non godiamo immoti!
    Le valli sono cave
    come la man che beve,
    i monti gonfii come
    mammella non premuta.
    Il gregge passa il guado.
    Il mulino rintrona.
    Solingo è un fonte nella Falterona.

    Cade la sera.Nasce
    la luna dalla Verna
    cruda, roseo nimbo
    di tal ch'effonde pace
    senza parole dire.
    Pace hanno tutti i gioghi.
    Si fa più dolce il lungo
    dorso del Pratomagno
    come se blandimento
    d'amica man l'induca a sopor lento.

    Su i pianori selvosi
    ardon le carbonaie,
    solenni fuochi in vista.
    L'Arno luce fra i pioppi.
    Stormire grande, ad ogni
    soffio, vince il corale
    ploro dè flauti alati
    che la gramigna asconde.
    E non s'ode altra voce.
    Dai monti l'acqua corre a questa foce.




    (Romena, 16 agosto 1902)




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    I CAMELLI



    Nostra spiaggia pisana,
    amor di nostro sangue,
    vita di sabbie e d'acque
    silvana e litorana,
    o ferma creatura
    nella qual si compiacque
    un'arte che non langue
    non trema e non s'offusca,
    terra lieve e robusta
    che lineata pare
    dalla mano sicura
    del figulo onde nacque
    il purissimo vaso
    che vale e non corusca
    nè pesa, specie pura,
    l'orgoglio della mensa
    e della tomba etrusca,
    il fiore delle forme
    nel cielo senza occaso,
    or qual mai novo caso
    fece che dall'immensa
    Asia o dall'Africa usta
    sen venisse il deforme
    somiero a stampar l'orme
    su la tua levità
    divina e, come fa
    il giumento crinito
    dal tranquillo occhio amico
    dell'uomo, a someggiare
    con la sua gobba onusta
    le spoglie dell'augusta
    selva tra l'Arno e il Mare?

    Passano per la macchia,
    vanno verso la ripa,
    tra i mucchi di legname,
    tra i cumuli di stipa,
    i camelli gibbuti,
    carichi di fascine
    di ramaglia e di strame,
    sì gravi e tristi e muti!
    Sotto i lor piè distorti
    scricchiolano le pine
    aride, gli aghi morti.
    Ròtea la mulacchia
    nel cielo ingombro d'afa;
    e a quando a quando gracchia.
    Cola e odora la ragia.
    S'odono su le Lame
    di Fuore le cavalle
    nitrire a quando a qiando;
    e più sottil nitrito
    e più tremulo s'ode
    rispondere e più fresco,
    dei puledri novelli.
    Passano per la macchia
    gravi e tristi i camelli.
    Non il lor Barbaresco
    li guida ma il bifolco
    toscano, con l'antica
    voce che i padri suoi
    usarono pel solco
    ad incitare i buoi
    tardi nella fatica.
    Vanno i callosi cuoi.

    Giungono alla radura
    per deporre i lor fasci.
    Ecco, subitamente
    ciascun par che s'accasci
    per esalare il fiato,
    per quivi infracidire.
    Si piegan su i ginocchi
    con un grido sommesso.
    Poi sbadigliano al sole.
    Appar la gialla chiostra
    dei denti aspri, il palato
    violaceo. S'ode
    salire nelle gole
    serpentine e lanose
    un gorgóglio intermesso.
    Treman le labbra molli
    e lacrimano i bruni occhi
    esanimi, gli specchi
    inerti dei deserti
    e dei palmeti. Vecchi
    sembran della vecchiezza
    del Mondo questi grandi
    esuli, oppressi e affranti
    da tutta la stanchezza
    che addolora la carne
    viva sopra la faccia
    della Terra discorde.
    S'alzano senza il peso.
    Lunghe dal fianco spoglio
    trascinano le corde
    giù per la traccia. E s'ode
    quel lor triste gorgóglio.

    Tali forse li vide
    in lor piagge natali,
    e n'ebbe orrore, il buono
    mercatante pisano
    che fu predato e tratto
    prigione dai corsali
    in paese lontano.
    Volle la mala sorte
    ch'egli incappasse in una
    fusta di Barbareschi,
    che armava ventidue
    remi per banda, forte
    e veloce a saetta.
    E per le mani ladre
    perse le robe sue,
    la cocca a vele quadre
    e la mercatanzia.
    E fu messo in ritorte.
    E schiavo in Barberia
    gran tempo si rimase.
    E macinava il grano
    a braccia, tratto tratto
    udendo il grido vano
    del camello percosso,
    triste sino alla morte.
    Poi tornò, per riscatto,
    a Pisa, alle sue case.
    E fecesi un palagio
    novo a specchio dell'Arno.
    Memore del malvagio
    servire, ALLA GIORNATA
    scrisse nell'architrave.

    E l'Arno era soave.





    (Romena, 18 agosto 1902)




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    MERIGGIO



    A mezzo il giorno
    sul Mare etrusco
    pallido verdicante
    come il dissepolto
    bronzo dagli ipogei, grava
    la bonaccia. Non bava
    di vento intorno
    alita. Non trema canna
    su la solitaria
    spiaggia aspra di rusco,
    di ginepri arsi. Non suona
    voce, se acolto.
    Riga di vele in panna
    verso Livorno
    biancica. Pel chiaro
    silenzio il Capo Corvo
    l'isola del Faro
    scorgo; e più lontane,
    forme d'aria nell'aria,
    l'isole del tuo sdegno,
    o padre Dante,
    la Capraia e la Gorgona.
    Marmorea corona
    di minaccevoli punte,
    le grandi Alpi Apuane
    regnano il regno amaro,
    dal loro orgoglio assunte.

    La foce è come salso
    stagno. Del marin colore,
    per mezzo alle capanne,
    per entro alle reti
    che pendono dalla croce
    degli staggi, si tace.
    Come il bronzo sepolcrale
    pallida verdica in pace
    quella che sorridea.
    Quasi letèa,
    obliviosa, eguale,
    segno non mostra
    di corrente, non ruga
    d'aura.La fuga
    delle due rive
    si chiude come in un cerchio
    di canne, che circonscrive
    l'oblío silente; e le canne
    non han susurri. Più foschi
    i boschi di San Rossore
    fan di sé cupa chiostra;
    ma i più lontani,
    verso il Gombo, verso il Serchio,
    son quasi azzurri.
    Dormono i Monti Pisani
    coperti da inerti
    cumuli di vapore.

    Bonaccia, calura,
    per ovunque silenzio.
    L'Estate si matura
    sul mio capo come un pomo
    che promesso mi sia,
    che cogliere io debba
    con la mia mano,
    che suggere io debba
    con le mie labbra solo.
    Perduta è ogni traccia
    dell'uomo. Voce non suona,
    se ascolto. Ogni duolo
    umano m'abbandona.
    Non ho più nome.
    E sento che il mio vólto
    s'indora dell'oro
    meridiano,
    e che la mia bionda
    barba riluce
    come la paglia marina;
    sento che il lido rigato
    con sì delicato
    lavoro dell'onda
    e dal vento è come
    il mio palato, è come
    il cavo della mia mano
    ove il tatto s'affina.

    E la mia forza supina
    si stampa nell'arena,
    diffondesi nel mare;
    e il fiume è la mia vena,
    il monte è la mia fronte,
    la selva è la mia pube,
    la nube è il mio sudore.
    E io sono nel fiore
    della stiancia, nella scaglia
    della pina, nella bacca,
    del ginepro: io son nel fuco,
    nella paglia marina,
    in ogni cosa esigua,
    in ogni cosa immane,
    nella sabbia contigua,
    nelle vette lontane.
    Ardo, riluco.
    E non ho più nome.
    E l'alpi e l'isole e i golfi
    e i capi e i fari e i boschi
    e le foci ch'io nomai
    non han più l'usato nome
    che suona in labbra umane.
    Non ho più nome nè sorte
    tra gli uomini; ma il mio nome
    è Meriggio. In tutto io vivo
    tacito come la Morte.

    E la mia vita è divina.





    (Composta probabilmente tra la metà di luglio e la metà di agosto 1902)



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    LE MADRI



    Su le Lame di Fuore,
    nel salso strame,
    nelle brune giuncaie,
    nell'erbe gialle,
    oziano a branchi
    le saure e baie
    cavalle
    di San Rossore.
    Altre su i banchi
    di sabbia, altre nell'acqua
    immerse fino al ventre,
    s'ammusano; mentre
    le groppe al sole
    rilucono, chiare, scure,
    d'oro, di rame.
    Su le Lame, cui adduce
    anatre il verno,
    oziano nella luce
    pura le feconde,
    coi gravidi fianchi
    immote in una massa
    placida. Sole
    su l'acqua bassa
    le lunghe code
    con moto eterno
    ondeggiano. S'ode
    a quando a quando
    fremito delle froge
    umide, sbuffare
    ansare leggero,
    tremulo nitrito,
    nella foce silente;
    cui dal lito risponde
    fievole risucchio
    del mare. Taluna
    esce del mucchio, annusa
    l'acqua, s'abbevera lenta;
    poi guata verso il monte
    su cui s'aduna
    fumoso il nembo;
    poi si rivolge e ammusa.
    E ondeggiano le code
    lente sul riposo
    della mandra ferace.
    Teco, o Luce pura,
    teco attendono in pace
    la genitura
    le Madri.

    Lunge per l'aria chiara
    appar grande e soave
    cerula e bianca
    l'Alpe di Carrara,
    cerula d'ombre
    bianca di cave.
    Ma ingombre del muto
    nembo che si prepara
    son le cime ov'hanno
    con l'aquile nido
    le folgori corusche.
    Odor di lunge acuto,
    dalle pinete
    verdi e fulve, nelle bave
    rare del vento giunge
    alla quiete.
    Ed ecco una nave,
    ecco le vele etrusche
    partitesi dal lito
    di Luni lunato
    e niveo di marmi.
    Ecco una nave in vista
    tra il Serchio e il Gombo.
    E' carica di marmi,
    è carica di sogni
    dormenti nel profondo
    candore ignoti e soli.
    E il mio spirito evòca
    il tuo folle Evangelista,
    o Buonarroti,
    il figlio della Terra
    e del Genio che l'affoca;
    vede la gran persona
    che si torce nell'angoscia
    del masso che lo serra,
    onde si sprigiona a guerra
    l'aspro ginocchio, e la coscia
    d'osso e di muscoli enorme.
    Nella carena dorme
    l'incarco fecondo
    di forme,
    tratto dall'erme cave,
    rapito al grembo dell'Alpe.
    Nel grembo della nave
    dormono le bianche moli.
    Attendon dai sogni soli
    la genitura
    le Madri.





    (Composta fra il 17 luglio e la metà di agosto 1902)



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