Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!

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D'Annunzio, Gabriele - ALCYONE

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    00 12/07/2008 21:11

    IL PEPLO RUPESTRE



    Mutila dea, tronca le braccia e il collo,
    la cima dell'Altissimo t'è ligia.
    E' tua la rupe onde alla notte stigia
    discese il bianco aruspice d'Apollo.

    La cruda rupe che non dà mai crollo,
    o Nike, il tuo ventoso peplo effigia!
    La violenza delle tue vestigia
    eternalmente anima il sasso brollo.

    Quando sul mar di Luni arde la pompa
    del vespro e la Ceràgiola è cruenta
    sotto il monte maggior che la soggióga,

    sembra che dispetrata a volo irrompa
    tu negli ardori e sul mio capo io senta
    crosciar la gioia dell'immensa foga.





    ( Data di composizione sconosciuta )



    _________Aurora Ageno___________
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    00 12/07/2008 21:19

    IL VULTURE DEL SOLE



    S'io pensi o sogni, se tal volta io veda
    quasi vampa tremar l'aria salina,
    se nel silenzio oda piombar la pina
    sorda, strider la ragia nella teda,

    sonar sul loto la palustre auleda,
    istrepire il falasco e la saggina,
    subitamente del mio cor rapina
    tu fai, di me che palpito fai preda,

    o Gloria, o Gloria, vulture del Sole,
    che su me ti precipiti e m'artigli
    sin nel focace lito ove m'ascondo!

    Levo la faccia, mentre il cor mi duole,
    e pel rossore dè miei chiusi cigli
    veggo del sangue mio splendere il mondo.





    ( Data di composizione sconosciuta )



    _________Aurora Ageno___________
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    00 19/07/2008 05:01

    L'ALA SUL MARE



    Ardi, un'ala sul mare è solitaria.
    Ondeggia come pallido rottame.
    E le sue penne, senza più legame,
    sparse tremano ad ogni soffio d'aria.

    Ardi, veggo la cera! E' l'ala icaria,
    quella che il fabro della vacca infame
    foggiò quando fu servo nel reame
    del re gnòssio per l'opera nefaria.

    Chi la raccoglierà? Chi con più forte
    lega saprà rigiugnere le penne
    sparse per ritentare il folle volo?

    Oh del figlio di Dedalo alta sorte!
    Lungi dal medio limite si tenne
    il prode, e ruinò nei gorghi solo.





    ( Data di composizione sconosciuta )




    _________Aurora Ageno___________
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    00 19/07/2008 05:03

    ALTIUS EGIT ITER



    L'ombra d'Icaro ancor pè caldi seni
    del Mar Mediterraneo si spazia.
    Segue di nave solco che più ferva.
    Ogni rapidità di vènti agguaglia.
    Voce d'uom che comandi ama nel turbine.
    Ode clamor di nàufraghi iterato
    e n'ha disdegno, ché silenzioso
    fu quel rimoto suo precipitare.

    Io la vidi laggiù, verso l'occaso.
    Era nel palischermo io cò miei due
    remi. A prora il mio Dèspota seduto
    era, e guatava fiso la mia cura.
    Tra quegli e me subitamente vidi
    ignuda l'ombra d'Icaro apparire.
    Quasi il color marino aveano assunto
    le sue membra, ma gli occhi eran solari.

    Sul petto giovenile intraversate
    ancor gli stavan le due rosse zone,
    già per gli òmeri vincoli dell'ale,
    simili a inermi bàltei di porpora.
    "O Dèspota, costui" disse "è l'antico
    fratel mio. Le sue prove amo innovare
    io nell'ignoto. Indulgi, o Invitto, a questa
    mia d'altezze e d'abissi avidita!".





    ( Data di composizione sconosciuta )




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    00 19/07/2008 05:06

    DITIRAMBO IV




    Icaro disse: "La figlia del Sole
    a me poggiata come ad un virgulto
    sul limite dei paschi
    guatava il candido armento dei buoi
    pascere lungo il Cèrato rupestro.
    Mi si piegava il destro
    òmero sotto la mano regale
    umida di sudor gelido; e, dentro
    me, tremavano tutte le midolle,
    negli orecchi fragore
    sonavami sì forte ch'io temeva
    udir dal sacro Dicte i Coribanti
    atroci e il rombo del bronzo percosso.
    E la città di Cnosso
    splendea di mura còttili e di blocchi
    oltre l'irto canneto atto a far dardi.
    "O Pasife, che guardi?"
    chiese il Re sopraggiunto. Ed anelava
    nella sua barba violetta come
    l'uva cidònia; ché membruto egli era
    e gravato di giallo adipe il fianco.
    "Io guardo il toro bianco,
    quello che tu non désti a Posidone"
    la figlia di Perseide rispose.
    E le vette nevose
    dell'Ida biancheggiavan men del toro
    niveo diniegato al dio profondo.
    "Perché sì tremebondo
    sei tu, figlio di Dedalo?" il Re chiese.
    E allor Pasife: "Questo ateniese
    giovinetto somiglia ad Androgèo
    che non torna d'Atene;
    e per ciò mi sostiene,
    il cor triste mi folce;
    per ciò tanto m'è dolce
    le dita porre nel suo crin prolisso".
    Io rividi l'Ilisso,
    i platani gli allori gli oleandri
    che l'adombrano, e il bosco degli ulivi
    presso Colono caro all'usignuolo.
    Rividi il patrio suolo
    entro l'anima mia subitamente,
    come colui ch'è presso alla sua fine;
    perocché nel mio crine
    ponea le dita la donna solare,
    e l'ossa mie flagrare
    parean nel suo sorriso accosto accosto
    siccome rami cui fiamma s'appicchi
    quando i legni sien ricchi
    d'aroma e inariditi dall'Estate.
    E le navi lunate
    coi rematori seduti agli scalmi
    in fila a battere il flutto diviso,
    e l'Eracleo, l'Amniso,
    i due porti ricurvi, e il fiume, e i monti
    e tutta quanta l'isola selvosa
    con le vigne col díttamo e col miele
    ardere in quel sorriso
    vidi per mezzo ai cigli miei morenti.
    E il sire degli armenti
    udii mugghiare in quel foco sonoro,
    mugghiare il bianco toro
    diniegato al gran Padre enosigèo".

    Icaro disse: "Poi che l'ombra cadde
    (il vertive dell'Ida solitario
    nell'etra rosseggiava
    come il fiore del díttamo crinito)
    nascostamente ritornai sù paschi,
    gonfio d'odio il cuor tacito; e scagliai
    contra il toro le selci acuminate
    dell'àlveo del Cèrato divulse
    e imposse alla mia frombola cretese.
    Il boaro m'intese
    e mi rincorse ratto su per l'erbe
    con la verga di còrilo a minaccia.
    Ma perse la mia traccia
    nell'ombra che cadea; nè mi conobbe,
    nè l'erbe verdi tenner le vestigia.
    L'infanda cupidigia
    per ovunque era sparsa! Palpitare
    parea pur anco nelle stelle vaghe!
    Il vento perea piaghe
    súbite aprire nel mio corpo nudo
    acerbe sì che non saríami valso
    a medicarle il díttamo dell'Ida.
    E piena era di grida
    compresse la mia gola nell'arsura,
    quando giunsi elle mura
    del Labirinto ove il mio padre aveva
    ambage innumerevole di vie
    riempiuta d'error laborioso.
    Quivi ristetti ascoso
    perocché vidi il duro fabro alzato
    su la soglia difficile in silenzio
    e la figlia del Sole in gran segreto
    favellare con lui senza sorriso,
    marmorea nel viso,
    come chi chieda all'arte del mortale
    una cosa tremenda e non ne tremi".

    Icaro disse: "L'officina arcana
    era in un orto a vista del recurvo
    porto Eracleo frequente
    di ben costrutte navi dalla prora
    dipinta; e gli utensíli erano acuti,
    e la fronte del fabbro era contratta.
    Sorgea la forma esatta
    della falsa giovenca nella luce
    del dí, quasi che sazia di pastura
    spirasse dalle froge il fiato olente
    di cítiso, tranquilla sù piè fessi.
    Con tale arte commessi
    eran gli sculti legni e ricoperti
    di fresca pelle, che parean felici
    d'ubertà non fallibile i bei fianchi
    e le mamme in sul punto di gonfiarsi
    all'affluir d'un latte repentino.
    Furtiva nel giardino
    vénia Pasife senza le sue donne
    a rimirar l'opera fabrile
    ch'ella infiammava della sua lussuria
    impaziente; e seco avea l'irsuto
    boaro come giudice perfetto.
    Costui rise: il difetto
    scorse nella giogaia. Il grande artiere
    fu docile al consiglio dell'uom rude.
    Pasife con le nude
    braccia premette gli òmeri miei nudi,
    s'abbandonò su me come su fulcro
    insensibile, assorta nel suo sogno
    inumano, perduta nel portento.
    Saliva un violento
    foco dal suolo ov'eran le radici
    della mia forza, e tutto m'avvolgea,
    e tutto come arbusto resinoso
    parea vi crepitassi e vi splendessi.
    Oh giardino di spessi
    aromi, carco di cera e di miele,
    carco di gomma e d'ambra,
    ove s'udia scoppiar la melagrana
    come un riso che scrosci e qiasi mosto
    si liquefaccia in una bocca d'oro!
    Recava l'Austro il coro
    delle femmine ancelle dal palagio
    remoto, che sedevano ai telai
    o tingevan di porpora le lane
    o i semplici isceglieano al beveraggio
    o di carni ammannivan la vivanda
    per la figlia del Sole,
    ignare ch'ella fosse innanzi al Sole
    preda schiumosa d'Afrodite infanda".

    Icaro disse: "La figlia del Sole
    amai, che per libidine soggiacque
    alla bestia di nerbo più potente.
    Splendea divinamente
    la sua carne quand'ella penetrava
    nel simulacro per imbestiarsi.
    Io chiuso in me riarsi.
    Io, quando vidi il callido boaro
    la prima volta addurre
    alla falsa giovenca il toro bianco
    che si battea il fianco
    sonoro con la fersa della coda
    adorno i corni brevi d'una lista
    di porpora, balzai gridando: "O Sole,
    a te consacrerò, sopra la rupe
    inconcussa, oggi un'aquila sublime!"
    E andai verso le cime
    con la bipenne l'arco e le saette,
    ben coturnato, a far le mie vendette".

    Disse: "Da prima vidi l'ombra vasta
    palpitar su la torrida petraia.
    Fulvo il macigno, cerula era l'ombra.
    E dopo udii la romba
    delle penne per l'aer verberato.
    Gridò verso il suo fato
    ella repente, ferma su le penne;
    la corda mia nel tendersi stridette;
    il grido parve lacerare il cielo
    e lo stridor fu lieve qual garrito
    di rondine ma il tèlo
    che si partì fu forte e fu cruento.
    Sentii sul viso il vento
    del volo che fece impeto a salire,
    poi si fiaccò, girò come in un turbo,
    piombò verso lo scrímolo del monte.
    Mi cadde su la fronte
    una goccia di sangue larga e calda
    come goccia di nuvolo d'agosto
    quando lampeggia e tuona.
    L'aquila s'abbattè sul sasso prona
    il petto, aperta l'ali
    crude che strepitarono sul sasso,
    erta súbito il rostro alla difesa.
    La roccia discoscesa
    ardeva nel meriggio come il ferro
    nella fucina, sotto i miei coturni.
    La fronda dei viburni
    era come la scoria dei metalli
    liquefatti, e la fronda degli avorni.
    S'udiano i capricorni
    belare in mezzo al díttamo crinito,
    e l'odore dell'erba vulneraria
    mescevasi nell'aria
    tremula con l'odor dell'aquilino
    sangue che d'ogni sangue è più vermiglio.
    Col rostro e con l'artiglio
    fu pronta la satellite di Giove
    a combattere contra il feditore
    su la rupe inconcussa.
    Allora io dissi: "Augusta,
    se tu sei senza volo, io sia senz'armi".
    E disdegnai ritrarmi
    qual uomo a saettarla di lontano.
    Ma gittai l'arco; e mi fasciai la mano
    con il corame della mia faretra,
    mi fascia la man destra
    a difesa degli occhi minacciati
    dal becco adunco. Feci impeto, entrai
    in un selvaggio fremito di penne;
    in un orrendo strepito di penne
    come in un nembo fulvo preso fui
    dalla possa grifagna;
    sentii fuggirmi sotto le calcagna
    la rupe e gridai forte.
    Combattemmo nel rombo della morte.
    Io con la destra le afferrai la strozza
    robusta come tronco di serpente,
    e strinsi e strinsi; e con la manca trassi
    dalla ferita fresca il dardo primo,
    più volte e più nell'imo
    fegato lo confissi.
    Combattemmo sul ciglio degli abissi,
    in cospetto del Sole, a mezzo il giorno.
    Gloria d'Icaro! Intorno
    alla zuffa ogni bàttito di penne
    sprizzava mille stille
    di sangue come porpora in faville
    accesa ed isvolata via per festa.
    A gloria la mia testa
    pareva di faville incoronarsi.
    E le piume dei tarsi
    e del petto e del collo e delle ascelle
    isvolavan su l'Ostro.
    E un rivolo purpureo dal rostro
    colava sul mio braccio imporporato
    fino al cúbito. E làcera dai colpi
    delle rampe la destra coscia m'era
    sí che la messaggera
    Nike, se mai sostò sul solitario
    vertice andando verso Atene mia
    a recar le corone
    dell'oleastro, fece il paragone
    tra l'aquilino sangue e il sangue icario.
    Ah, non temetti il suo giudicio, o Sole.
    Parvemi, quando apersi il pugno ostile
    e la nemica ricoprì la rupe
    alfine spenta, parvemi che tutta
    la sua virtute aligera mi fosse
    nelle braccia e negli òmeri trasfusa
    e m'agitasse i fragili precordii
    una immortale avidità di volo.
    L'alto vertice solo
    e l'esanime preda eran con meco,
    e il dio della lucifera quadriga.
    Pregai: "Divino auriga,
    questa vittima t'offro in olocausto
    perché tu mi sii fausto
    se dato mi sarà tentar le vie
    dove agiti le tue criniere bianche.
    Il torace le viscere le branche
    e il gran capo rostrato
    in un fuoco di sterpi e d'erbe io t'ardo
    e la canna del dardo.
    Concedi, o dio magnifico, se m'odi,
    concedimi che immuni dalla brace
    io dell'aquila serbi l'ali forti
    e con meco le porti
    perché le veda entrambe il padre mio
    Dedalo d'Eupalàmo
    ateniese, artefice sagace,
    perché due me ne foggi a simiglianza
    l'uomo di molti ingegni, ma più forti,
    ma con più grande numero di penne".
    E tolsi la bipenne
    che al cinto appesa avea dietro le reni:
    con ella diedi nelle congiunture,
    di muscoli e di tendini gagliarde
    così che che resisteano al doppio taglio.
    "Ahi che l'incudine e il maglio
    e l'industria paterna non varranno
    a radicarmi la virtù dell'ala
    nella scapula somma" io mi pensai
    considerando, come il citarista
    inchino su le corde,
    la tenacia del nesso tendinoso
    che biancheggiava di color di perla
    nel cruore. E la mente ne fu trista.
    E trista fu la mozza ala, a vederla.
    E, nel fuoco di sterpi fumigando
    la residua carne offerta al Sole,
    io mi pensai: "Si duole
    il dio solingo sul suo carro ardente
    e non cura l'insolito libame.
    La figlia sua nel simulacro infame
    ei vide, onniveggente;
    e dell'arte di Dedalo si cruccia
    e mi scopre nel cor la piaga acerba,
    nel cor che non si lagna,
    cui díttamo nè stebe non mi vale".
    Mi gravai d'ambo l'ale
    congiunte con la stringa del mio cinto;
    e l'alta volontà fu la compagna
    della doglia fatale
    quando, scorto dal dio, di sangue tinto,
    scesi dal monte verso il Labirinto".

    Icaro disse: "L'officina arcana
    era in una caverna del dirupo,
    dietro il porto d'Amniso
    a levante di Cnosso, erma sul mare.
    S'udiva starnazzare
    e stridere d'uccelli senza tregua,
    pè fóri dello scoglio ferrugigno.
    Il suolo di macigno
    consparso era d'antichi dolii rotti
    e di fimo biancastro.
    Rimbombavano al Giàpice salmastro
    le concave pareti
    come le curve targhe dei Cureti
    all'urto delle picche furibonde.
    Sotto, il fragor dell'onde
    avea lunga eco per ambagi ignote
    quando l'Apeliote
    enfiava i verdazzurri otri del sale.
    Quivi all'innaturale
    opera intento era il mio padre, quivi
    i congegni del volo
    oprava senza incude e senza maglio.
    Ben gli diedi travaglio
    e affanno, ché pareami troppo tarda
    la sua fatica per il mio desío
    e sempre poche mi parean le penne
    adunate dinanzi a lui che oprava.
    Per lui la cera flava,
    stretta in pani, col pollice e col fiato
    ammollii; dispennai la copiosa
    cacciagione; sollecito le penne
    separai dalle piume.
    Il sangue onde imperlavasi l'acume
    d'ogni fusto divulso
    vertudioso parvemi; e mi piacque
    a stilla a stilla suggerlo, accosciato
    presso il fabro mirabile che oprava
    seduto su la pietra.
    Quante volte votai la mia faretra,
    infaticato sagittario errante
    per le rupi lontane!
    I falchi gli sparvieri e le poiane
    caddero, e gli avvoltoi
    calvi gravati di carni lugúbri,
    e gli astori cò resti dei colúbri,
    ancor ne' becchi adunchi, e i gru strimonii
    gambuti dai lunghi ossi
    accòmodi al tibícine, ogni specie
    pennipotente altivolante cadde
    per la forza degli archi miei cidonii
    e dè miei dardi gnossi.
    E mi tornava io carico di preda
    celeste alla caverna;
    e pur sempre pareva al mio desío
    che fosse tarda l'opera paterna.
    Era quivi l'odore della cera
    e della ragia, ché l'operatore
    mescolava le lacrime del pino
    chiare al dono trattabile dell'ape,
    acciocché questo fosse più tegnente.
    Escluso avea dall'opera i metalli
    come gravi ch'ei sono; e l'armatura
    composto avea con le vergelle ferme
    del còrilo e pieghevoli, congiunte
    da bene intorto stame in ciechi nodi,
    e sópravi disteso avea l'omento,
    la grassa rete che le interiora
    degli animali include, ben dissecco.
    E sul congegno solido e leggero
    ei disponea per ordine le penne,
    dalla più breve alla più lunga elette
    acutamente, come nella fistola
    di Pan le avene díspari disgradano
    per la natura dei diversi numeri.
    E lino e cera usava a collegarle,
    cera immista di ragia, come dissi.
    E le sapeva inflettere con tanta
    arte, per imitar la curvatura
    della vita, che l'ala su la pietra
    inerte parea trepida e tepente
    e penetrata d'aere, ventosa
    come fosse per rompere dal nido
    o per posarsi dopo lungo volo".

    Icaro disse: "Non veduto, vidi.
    Misi gli occhi per entro ad un rosaio,
    ove all'alito mio silentemente
    si sfogliarono due tre rose passe.
    Parve che si sfogliasse
    con elle e si sfacesse il cuor mio caro.
    E senza fine amaro
    mi fu tutto che vidi non veduto,
    in quel giardino muto
    ove non più s'udia la pingue gomma
    gemere nè scoppiar pomo granato
    come riso puníceo che scrosci.
    Fracidi i frutti, flosci
    erano, grinzi come cuoi risecchi
    gli arbori, crudi stecchi;
    le cellette soavi, aride spugne,
    senza la melodia laboriosa.
    Rotta al suolo, corrosa,
    informe fatta come vil carcame
    era la vacca infame
    offerta dalla frode al toro bianco
    perché l'inclito fianco
    alla figlia del Sole
    empiesse di semenza bestiale.
    E la donna regale,
    figlia del Sole e dell'Oceanina,
    Pasife di Perseide, il cui volto
    m'era apparito come il penetrale
    della luce nel tempio dell'iddio
    splendido, la reina
    dell'isola che fu cuna al Croníde
    ricca in díttamo in uve in miele e in dardi,
    l'adultera dei pascoli era quivi
    sola col suo spavento.
    Bocca anelante, nari acri, occhio intento
    avea, pallido volto come l'erbe
    aride, consumato dai sudori
    e dalle schiume della sua lussuria.
    Discita era, e l'incuria
    della sua chioma la facea selvaggia
    qual femmina del Tíaso tebano
    che defessa dall'orgia ansi in un botro
    del Citerone, esangue
    fra il tirso spoglio della fronda e l'otro
    voto del vino, al gelo antelucano.
    Sentiva nel suo ventre, abbrividendo,
    vivere il mostro orrendo,
    fremere il figlio suo bovino e umano".

    Icaro disse: "Era stellato il cielo,
    era pacato il mare,
    nella vigilia mia meravigliosa.
    La roggia stella ascosa
    nel mio cor vigile era la più grande.
    Le cose miserande
    eran lungi da me come da un dio
    beverato di nèttare novello.
    Parea dal corpo snello
    dileguarmisi il triste peso come
    dal cielo eòo si dileguava l'ombra,
    e nella carne sgombra
    un aereo sangue irradiarsi.
    Nel cielo eòo comparsi
    i pallidi crepuscoli, il messaggio
    della Titània fece su per l'acque
    un infinito tremito tremare.
    Subitamente il giubilo del mare
    si converse in desío tumultuoso,
    irto le innumerevoli sue squamme.
    Allor tutte le fiamme
    del giorno dal mio cor parvero nate,
    per sempre tramontate
    dietro di me le stelle della notte,
    l'ali della mia sorte
    già nel periglio glorioso aperte.
    Ahi, su la pietra inerte
    si giacevan gli esànimi congegni,
    e le mie braccia umane erano spoglie
    della virtù pennata
    che la mia scure avea tronca sul monte
    in giorno di vittoria.
    E súbito mi fu nella memoria
    la tenacia del nesso tendinoso
    che biancheggiava di color di perla
    nel cruore vermiglio.
    "Aquila vinta" dissi "Icaro, figlio
    di Dedalo d'Atene,
    ai tuoi mani consacra i ligamenti
    arteficiati e fragili dell'ali
    che sono opera d'uomo;
    perché, come ti vinse combattendo
    lungi e presso, così nel tuo dominio
    vincerti vuole d'impeto e d'ardire".
    E il mio padre destai dal sonno. Dissi:
    "Padre, è l'ora". Non altro dissi. Muto
    stetti mentr'ei m'accomodava l'ali
    agli òmeri, mentr'ei gli ammonimenti
    iterava con voce mal sicura.
    "Giova nel medio limite volare;
    ché, se tu voli basso, l'acqua aggreva
    le penne, se alto voli, te le incende
    il fuoco. Tieni sempre il giusto mezzo.
    Abbimi duce, séguita il mio solco.
    Deh, figliuol mio, non esser tropp'oso.
    Io ti segno la via. Sii buon seguace".
    E le mani perite gli tremavano.
    Il mirabile artiere ebbi in dispregio
    silenziosamente. "Al primo volo
    io con te lotterò, per superarti.
    Fin dal battito primo, io sarò l'emulo
    tuo, la mia forza intenderò per vincerti.
    E la mia via sarà dovunque, ad imo,
    a sommo, in acqua, in fuoco, in gorgo, in nuvola,
    sarà dovunque e non nel medio limite,
    non nel tuo solco, s'io pur debba perdermi"
    risposegli il mio cor silenzioso.
    E gli sovvenne della grande frode
    (difficile all'oblío questo mio cuore
    sì che l'acqua del Lete non ci valse:
    furon pur tre le tazze tracannate)
    e del dolo fabrile gli sovvenne.
    Fra le mani perite che tremavano
    riveder seppe gli utensíli acuti
    intesi a compiacer la trista voglia.
    "Icaro figlio, m'odi? Io m'alzo primo.
    Volerò senza foga, e tu mi segui".
    Ma con l'arte dell'aquila io spiccai
    dal limitar della caverna un volo
    sì veemente che diseparato
    fui súbito. Gli stormi isbigottirono
    su per le rosse rupi, in fuga striduli
    temendo la rapina dileguarono.
    Oh libertà! Pel corpo nudo l'aere
    matutino sentii crosciarmi, gelido
    tutto rigarmi di chiarezza irrigua:
    non i torrenti ove uso fui detergere
    dopo le cacce la sanguigna polvere
    m'avean rigato di sì grande giòlito.
    Oh nel cor mio rapidità del palpito
    ond'era impulso il volo, in egual numero!
    Pareami già gli intaversati bàltei
    esser conversi in vincoli tendínei,
    tutto l'azzurro entrar per gli spiracoli
    del mio pulmone, il firmamento splendere
    sul mio torace come sul terribile
    petto di Pan. Gridava "Icaro! Icaro!"
    il mio padre lontano. "Icaro! Icaro!"
    Nel vento e nella romba or sì or no
    mi giungeva il suo grido, or sì or no
    il mio nome nomato dal timore
    giungeva alla mia gioia impetuosa.
    "Icaro!" E fu più fievole il richiamo.
    "Icaro!" E fu l'estrema volta. Solo
    fui, solo e alato nell'immensità.
    Passai per entro al grembo d'una nuvola:
    un tepore un odore dolce e strano
    eravi, quasi l'alito di Nèfele
    madre d'Elle che diede nome al ponto.
    Il vento del remeggio i veli tenui
    sconvolse, un che di roseo svelò,
    un che di biondo. Odore dolce e strano
    m'illanguidiva, inumidiva l'ali.
    Il vol decadde. Vidi undici navi
    di prora azzurra fornite di tolda,
    che flagellavano il mar con la palma
    dei remi in lunga eguaglianza concordi,
    andando a impresa lontana. Sul ponte
    pelte lunate luceano e di bronzo
    clípei tondi, aste lunghe. Mi giunse
    l'urlo dei nàuti. Veloce volai,
    oltre passai. Qual fu dunque la mente
    dei nàuti rudi mirando il prodigio?
    Come di me favellarono? Dissero
    forse: "In un campo di strage la màscula
    Nike, nell'ombra d'un cumulo grande
    dai carri estrutto riversi e dirotti,
    o a piè d'un grande trofeo d'armi illustri,
    sul suol cruento cedette all'eroe
    che l'afferrò per la chioma; e fu pregna.
    E quei che rema lassù con tant'ala
    è certo il figlio di lei giovinetto".
    Di queste l'alto cor mio si conpiacque
    imaginate parole, ché stirpe
    di Nike avrebbe ei voluto infierire.
    E vidi poi sotto fulgere in Paro
    iscalpellata il candor del Marpesso.
    E vidi poi dall'erratica Delo
    salir vapore di caste ecatombi.
    Poi non vidi altro più, se non il Sole.
    Poi non volli altro più, se non da presso
    mirarlo eretto sul suo carro igníto,
    giugnerlo, farmi ardito
    di prendere pei freni il suo cavallo
    sinistro, Etonte dalle rosse nari.
    Il pètaso e i talari
    d'Erme Cillenio avea conquisi il mio
    sogno meridiano, il mio delirio.
    Congiunto era con Sirio
    altissimo nel medio orbe, nell'arce
    somma dei cieli Elio d'Eurifaessa.
    E l'altezza inaccessa
    e l'ardore terribile agognai
    ed offerirgli l'ali che sul monte
    crètico escluse avea dall'olocausto.
    Mi sembrava inesausto
    il valor mio ché l'animo agitava
    le morte penne, l'animo immortale
    e non il braccio breve.
    Ed ecco, vidi come un'ombra lieve
    sotto di me nella profonda luce
    ove non appariva segno alcuno
    del mare cieco e dell'opaca terra;
    ancóra un'ombra vidi, un'altra ancóra.
    E dissi: "Icaro, è l'ora".
    Ma il cor non mi mancò. Non misi grido
    verso il mio fato, come la devota
    alla saetta aquila moritura;
    nè rimpiansi il paterno ammonimento.
    Guatai senza spavento
    in giuso; e l'ombre lievi eran le penne
    dell'ali, che cadeano tremolando
    dalla cera ammollita.
    Mi sollevai con impeto di vita
    verso il Titano: udii rombar le ruote
    del carro sul mio capo alzato; udii
    lo scàlpito quadruplice; il baleno
    scorsi dell'asse d'oro, il fuoco anelo
    dei cavalli. Piròe dalla criniera
    sublime, Etonte dalle rosse nari.
    E i cavalli solari
    annitrirono. Il ventre di Flegonte
    brillò come crisòlito; la bava
    d'Eòo fu come il velo d'Iri effuso.
    E vidi il pugno chiuso
    che teneva le rèdini, la fersa
    garrir sul fuoco udii. Tesi le braccia.
    "O Titano!" E la faccia
    indicibile, sotto la gran chioma
    ambrosia, verso me si volse china;
    e i raggi le cingean mille corone.
    "Elio d'Iperione,
    t'offre quest'ali d'uomo Icaro, t'offre
    quest'ali d'uomo ignote
    che seppero salire fino a Te!"
    Si disperse nel rombo delle ruote
    la mia voce che non chiedea mercè
    al dio ma lode etarna.
    E roteando per la luce eterna
    precipitai nel mio profondo Mare".

    Icaro, Icaro, anch'io nel profondo
    Mare precipitai, anch'io v'inabissi
    la mia virtù, ma in eterno in eterno
    il nome mio resti al Mare profondo!






    ( Composta a Nettuno del Lazio il 13 ottobre 1903 )




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    ALCYONE - Sezione V


    TRISTEZZA




    Tristezza, tu discendi oggi dal Sole.
    La tua specie mutevole è la nube
    del cielo, e son le spume
    del mare gli orli del tuo lino lungo.

    Sembri Ermione, sola come lei
    che pel silenzio vienti incontro sola
    traendo in guisa d'ala il bianco lembo.
    Sì le somigli, ch'io m'ingannerei
    se non vedessi ciocca di viola
    su la sua gota umida ancor del nembo.
    Ha tante rose in grembo
    che la spina dell'ultima le punge
    il mento e glie l'ingemma d'un granato.
    Come fauno barbato
    accosto accosto mòrdica le rose
    il capricorno sordido e bisulco.






    ( Data di composizione sconosciuta )




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    LE ORE MARINE




    Quale delle Ore
    che mi conducesti
    viventi e furon larve
    cinerine
    quando il sole disparve
    nella triste sera,
    o Ermione,
    quale delle Ore marine
    ch'ebbero il tuo volto
    e le tue mani e le tue vesti
    e la tua movenza leggiera
    e ciascuno dè tuoi gesti
    e ogni grazia che tu avesti,
    o Ermione,
    quale delle vergini Ore
    che mansuefecero col solo
    silenzio il mar selvaggio
    quasi che accolto
    se l'avessero in grembo
    come un fanciullo torvo
    per blandire il suo duolo
    sorridendo,
    o Ermione,
    quale delle Ore divine,
    con gli occulti beni
    che tu le désti,
    t'accompagna nel viaggio
    di là dai fiumi sereni,
    di là dalle verdi colline,
    di là dai monti cilestri?

    Quella che raccoglie
    su la sterile sabbia
    le negre foglie
    della querce sacra,
    o Ermione,
    creature dei monti
    macere dal sale amaro,
    cui rapì dalla balza
    il vento e diede al flutto amaro
    che le travaglia
    e le rifiuta?
    Quella che guarda il faro
    lontano su la rupe nuda
    ove il flutto si frange,
    o Ermione,
    l'insonne occhio ardente
    che già volge i suoi fochi
    per il deserto specchio
    infaticabilmente?
    Quella che inclina
    pensosa l'orecchio
    su la conca marina
    e ascolta la romba
    della voluta
    e odevi la tromba
    del Tritone che chiama
    la Sirena perduta,
    o Ermione,
    e odevi il mar che piange
    la sua Sirena perduta?

    Quale delle Ore,
    quale delle Ore marine,
    con gli occulti beni
    che tu le désti,
    col segreto linguaggio
    che le apprendesti,
    o Ermione,
    t'accompagna nel viaggio
    di là dai fiumi sereni,
    di là dalle verdi colline,
    di la dai monti cilestri,
    o Ermione,
    di là dalle chiare cascine,
    di là dai boschi di querci,
    di là dà bei monti cilestri?






    (Composta il 15 agosto 1900)




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    LITOREA DEA




    Estate, bella quando primamente
    nella tua bocca il mite oro portavi
    come l'Arno i silenzii soavi
    porta seco alla foce sua silente!

    Ma più bella oggi mentre sei morente
    e abbandonata ne' tuoi cieli blavi,
    che col cúbito languido t'aggravi
    su la nuvola incesa all'occidente.

    T'arda Ermione sul tuo letto roggio
    gli àcini d'ambra dove si sublima
    il pianto delle tue pinete australi.

    Io della tua bellezza ultima foggio
    una divinità che su la cima
    del cuore mi danza: Undulna dai piè d'ali.






    ( Data di composizione sconosciuta )





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    UNDULNA




    Ai piedi ho quattro ali d'alcèdine,
    ne ho due per mallèolo, azzurre
    e verdi, che per la salsèdine
    curvi sanno errori dedurre.

    Pellúcide son le mie gambe
    come la medusa errabonda,
    che il puro pancrazio e la crambe
    difforme sorvolano e l'onda.

    Io l'onda in misura conduco
    perché su la riva si spanda
    con l'alga con l'ulva e col fuco
    che fànnole amara ghirlanda.

    Io règolo il segno lucente
    che lascian le spume degli orli:
    l'antico il men novo e il recente
    io so con bell'arte comporli.

    I musici umani hanno modi
    lor varii, dal dorico al frigio:
    divine infinite melodi
    io creo nell'esiguo vestigio.

    Le tempre dell'onda trascrivo
    su l'umida sabbia correndo;
    nel tràmite mio fuggitivo
    gli accordi e le pause avvincendo.

    O sabbia mia melodiosa,
    non un tuo granello di sílice
    darei per la pómice ascosa
    della fonte all'ombra dell'ílice.

    Brilli innumerevole e immensa
    alla mia lunata scrittura;
    e l'acqua che bevi t'addensa,
    lo sterile sale t'indura.

    Il rilievo t'è tanto sottile,
    dedotto con arte sì parca,
    che men gracile in puerile
    fronte sopracciglio s'inarca.

    A quando a quando orma trisulca
    il lineamento intercide;
    pesta umana, se ti conculca,
    s'impregna di luce e sorride.

    Figure di nèumi elle sono
    in questa concordia discorde.
    O cètera curva ch'io suono,
    nè dito nè plettro ti morde.

    Io trascorro; e il grande concento
    in me taciturna s'adempie,
    dall'unghie dè miei piè d'argento
    alle vene delle mie tempie.

    Scerno con orecchia tranquilla
    i toni dell'onda che viene,
    indago con chiara pupilla
    più oltre ogni segno più lene;

    così che la musica traccia
    m'è suono, e ne' righi leggeri,
    mentre oggi odo ansar la bonaccia,
    leggo la tempesta di ieri.

    Che è questo insolito albore
    che per le piagge si spande?
    Teti offre alla madre di Core
    dogliosa le salse ghirlande?

    L'albàsia dè giorni alcionii
    anzi il verno giunge precoce
    e dagli arcipelaghi ionii
    attinge del Serchio la foce?

    Il molle Settembre, il tibícine
    dei pomarii, che ha violetti
    gli occhi come il fiore del glícine
    tra i riccioli suoi giovinetti,

    fa tanta chiaría con due ossi
    di gru modulando un partènio
    mentre sotto l'ombra dei rossi
    corbézzoli indulge al suo genio.

    Respira securo il mar dolce
    qual pargolo in grembo materno.
    La pace alcionia lo molce
    quasi aureo latte, anzi il verno.

    Onda non si leva; non s'ode
    risucchio, non s'ode sciacquío.
    Di luce beata si gode
    la riva su mare d'oblío.

    La sabbia scintilla infinita,
    quasi in ogni granello gioisca.
    Lúccica la valva polita,
    la morta medusa, la lisca.

    In ogni sostanza si tace
    la luce e il silenzio risplende.
    La Pania di marmi ferace
    alza in gloria le arci stupende.

    Tra il Serchio e la Magra, su l'ozio
    del mare deserto di vele,
    sospeso è l'incanto. Equinozio
    d'autunno, già sento il tuo miele.

    Già sento l'odore del mosto
    fumar dalla vigna arenosa.
    All'alba la luna d'agosto
    era come una falce corrosa.

    Di Vergine valica in Libra
    l'amico dell'opere, il Sole;
    e già le quadrella ch'ei vibra
    han meno pennute asticciuole.

    Silenzio di morte divina
    per le chiarità solitarie!
    Trapassa l'Estate, supina
    nel grande oro della cesarie.

    Mi soffermo, intenta al trapasso.
    Onda non si leva. L'albèdine
    è immota. Odo fremere in basso,
    à miei piedi, l'ali d'alcèdine.

    Bianche si dilungan le rive,
    tra l'acque e le sabbie dilegua
    la zona che l'arte mia scrive
    fugace. Sorrido alla tregua.

    A' miei piedi il segno d'un'onda
    gravato di nero tritume
    s'incurva, una màcera fronda
    di rovere sta tra due piume,

    un'arida pigna dischiusa
    che pesò nel pino sonoro
    sta tra l'orbe d'una medusa
    dispersa e una bacca d'alloro.

    Vengono farfalle di neve
    tremolando a coppie ed a sciami:
    nella luce assemprano lieve
    spuma fatta alata che ami.

    Azzurre son l'ombre sul mare
    come sparti fiori d'acònito.
    Il lor tremolío fa tremare
    l'Infinito al mio sguardo attonito.






    (Composta alla Capponcina di Settignao il 4 novembre 1903)





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    IL TESSALO




    Tra i fusti ove le radiche fan groppo
    e già si gonfia venenato il fungo,
    odo incognito piede solidungo
    come bronzo sonar contra l'intoppo.

    Caval brado non è; però che troppo
    forte suoni lo scàlpito ed a lungo
    per la selva selvaggia ove no l'giungo
    duri l'irrefrenabile galoppo.

    Certo è l'ugna del Tessalo bimembre
    contra i rigidi coni e l'aspre stirpi
    sonante, l'ugna del Centauro illeso.

    Ei vuole, mentre il giovine Settembre
    circa il fragile vetro intesse scirpi
    bevere il nero vino all'otre obeso.






    ( Data di composizione sconosciuta )





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    L'OTRE



    I.

    Pelle del becco sordido e bisulco
    fui, prima che mi traesser le coltella.
    Deh come olente alla stagion novella
    egli era e tra le capre sue petulco,

    o uom che m'odi, e ben barbato e torvo
    e di téttole dure ornato il gozzo
    e d'aspre corna il fronte invitto al cozzo,
    negli occhi súlfure atro come corvo!

    Sagliente egli era, e mogli in abbondanza
    ebbe, e feroce fu nelle sue pugne;
    ma al suon d'un sufoletto, erto su l'ugne
    fésse, imitava il satiro che danza.

    Occiso penzolò sanguinolente
    dall'uncino; e squarciato fumigava,
    nudi ostentando in sua ventraia cava
    l'argnon focoso e il fegato possente.

    Tratta gli fui di dosso umida e floscia.
    Pelo e carniccio poi tolsemi il ferro.
    Ghianda di gallonèa, scorza di cerro
    fecermi bona concia nella troscia.

    Rasciutta nelle cieche stíe, premuta
    dai macigni, distesa dall'orbello,
    per sorte un dì cucita fui del bello
    con fil d'accia da femmina saputa.

    Otre divenni e principe degli otri
    obeso appresso i pozzi e le cisterne.
    Acqua di cieli, acqua di fonti eterne
    contenni, acqua di rivoli e di botri,

    dolci acque e fresche ma di odor caprigno
    sapide tuttavia, sì che talvolta
    le femmine entro me chiusero molta
    menta e il seme dell'ànace fortigno.

    O uomo, l'otre invidia le tue seti!
    Pianure arsicce, livide petraie,
    pigre maremme fabbricose, ghiaie
    e sabbie in foco per deserti greti,

    Stridor di carri, ànsito di giumenti
    io conobbi, e il guatar del sitibondo.
    Io valsi più che l'universo mondo
    al desiderio delle fauci ardenti!

    O uomo, da benigni iddii tu hai
    le tue seti. Il garòfolo e il papavero
    non così vividi ardere mi parvero
    come la bocca tua che dissetai.

    Non il capro, onde tratta fui sua spoglia,
    mai si precipitò come chi volle
    bere da me. Tutto lo feci molle.
    Oh gaudio della gola che gorgoglia!

    Mani cupide premono i miei fianchi
    turgidi (sembra che gli arsi occhi bevano
    prima che i labbri) mani mi sollevano
    su arsi volti, di polvere bianchi.

    Va da me per le vene al cor profondo
    la mia liquida gioia, al più remoto
    viscere. Oh bene immenso! Eccomi vòto.
    In dieci gole ho dissetato il mondo.


    II.

    E vòto fratel fui della bisaccia
    grinzuta ch'ebbe la cipolla e il tozzo
    in coniugio. E non più rempiuto al pozzo
    fui, non udii crosciar la secchia diaccia,

    ma dalla mamma copiosa udii
    crosciare emunto il latte nel presepio
    occluso. Per indúlgere al mio tedio
    nova sorte mi fecero gli iddii.

    Gonfio di latte, anch'io ubero parvi
    più capace e men roseo. Notturno
    pendevo nel presepio taciturno,
    come gli uberi sotto i materni alvi.

    Ma non mai tanto l'otre ebbesi amica
    la pace come allor che, in su lo scorcio
    dell'autunno, s'apparentò con l'orcio
    per favore di Pallade pudica.

    Pacifera è l'oliva e tarda e pingue.
    da poi che gemuto ha sotto la mola,
    si raddolcisce e più non fa parola;
    mentre la garrula acqua ha mille lingue.

    Or pieno fui di castità palladia
    e di silenzio. Tacito ascoltava
    pulsar la tempia fievole dell'ava
    e il pane lievitare nella madia.

    D'improvviso, una notte, mentre vòto
    giacea sul palco fra i minori otrelli,
    venne un bifolco tutto irto di velli
    e seco trassemi a un officio ignoto.

    Duro il suo pugno parvemi qual sasso
    e l'ugna adunca qual branca di belva.
    Tramontavano l'Orse. Ad una selva
    orrida, in riva al fiume, arrestò il passo.

    Quivi nel sangue prono era disteso
    il suo nimico. Gli troncò la testa
    con una falce; e quella mozza testa
    prese à capegli, e me carcò del peso.

    Subitamente mi rempiei del nero
    sangue. E disse il falcato al teschio: "Avevi
    tu sete? Orbè, se t'arde sete, bevi,
    nell'otro che t'ho acconcio, il vin tuo mero".

    E il teschio e il sangue dentro ei mi serrò.
    Gonfio ero fatto, ed ei mi sollevò.
    Su la riva del fiume ei mi portò.
    In mezzo alla corrente ei mi scagliò.

    Fervido era anco il buon licor doglioso.
    O uom che m'odi, acqua di fonte, bianco
    latte, olio lene, quanto ebbi nel fianco,
    non vale il sangue tuo meraviglioso!

    Entro di me fu breve e immensa guerra,
    ismisurata e rapida tempesta.
    Non parvemi serrar la tronca testa
    ma contener l'orbe della Terra.

    Poi nel gel fluviale in grumo e in sanie
    si converse quel peso; e la corrente
    mi voltò per le ripe, oscuramente
    trassemi verso le contrade estranie.


    III.

    Era l'aurora quando in mezzo ai salici
    mi rinvenne l'Egípane biforme.
    Uom che m'odi, il tuo spirito che dorme
    più non vede gli antichi numi italici!

    Vivon eglino pieni di possanza:
    hanno il fiato dei boschi entro le nari;
    i gioghi venerandi han per altari,
    e di sé fanvi testimonianza.

    Più non li vedi, o uomo. Nel tuo petto
    il cor si sface come frutto putre.
    E la Terra materna invan ti nutre
    dè suoi beni. Tu plori al suo cospetto!

    Mi rinvenne l'Egípane divino.
    Possentemente rise in suo pél falbo;
    poi tolsemi per trarmi di fra gli àlbori
    umidi: mi credea gonfio di vino.

    Dava schiocchi la lingua sua salace
    mentr'ei m'apria. Ma pél non gli tremò
    quando scoperse il teschio e il grumo; "Tò"
    disse "nell'otro il capo del gran Trace!"

    E sopra l'erba mi sgravò del reo
    peso, mi scosse. Poi raccolse il teschio,
    lo rotò, lo scagliò forte nel Serchio
    gridando: "Tu non sei capo d'Orfeo!"

    Tal era il riso dè suoi denti scabri
    quale un rio lapidoso. Allor nell'acque
    chiare mi terse; m'asciugò. Gli piacque
    anco d'enfiarmi cò suoi curvi labri.

    Pieno fui del divino afflato, pieno
    fui del selvaggio spirito terrestro!
    Venne allora il Panisco, che mal destro
    era nel nuoto, al bel fiume sereno.

    E il nume padre a lui mi diede; ed io
    tenerlo a galla seppi, io lo sorressi
    nel nuoto quando i piccoli piè féssi
    troppo agitava celere disio.

    Molto l'amai. Dall'ombelico in giuso
    di pél biondiccio qual cavriuoletto
    era ma liscio il rimanente, eretto
    il codínzolo, un po' lusco e camuso.

    Tenérmigli solea sotto l'ascella
    ove appena fioría qualche peluzzo
    rossigno; e avea del suo cornetto aguzzo
    tema non mi bucasse per rovella,

    sì rapido era il pueril corruccio
    s'ei districava il piè dall'erba acquatica
    o alzar vedeva l'anatra selvatica
    o sentiva guizzar da presso il luccio.

    Viride Serchio in tra due selve basse!
    Mattini estivi, quando il bel Panisco
    biondetto sen venía, cinto d'ibisco
    roseo, con suoi lacci e con sue nasse!

    Troppo, ahimè, destro erasi fatto al nuoto.
    Omai fendeva le più rapide acque;
    sì che più giorni e più l'otre si giacque
    solo nel limo, e alfin rimase vòto.


    IV.

    Ma gli alti iddii anco mi fur benigni.
    Un bel pastore dalla barba d'oro
    mi raccolse. Ed all'ombra d'un alloro
    mi lavorò con suoi sottili ordigni.

    Quattro di bosso ei fecemi cannelle
    ineguali, e assai bene le polì.
    La più corta alla spalla m'inserì
    e strinse con cerate funicelle.

    In bocca tre l'artiere me ne messe,
    l'una più lunga, l'altre due minori;
    nella più lunga numerosi fóri
    praticò, che diverse voci desse.

    Le due brevi, di largo cerchio e stretto,
    aperte in giuso a mò di padiglione,
    servir di grande e piccolo bordone
    dovean come le frondi all'augelletto.

    Oh meraviglia, quando per la corta
    canna eglio enfiò la nova cornamusa!
    Tutta di pia felicità soffusa
    giovine donna venne in su la porta,

    nuda le belle braccia, e disse: "O caro
    marito, o barbadoro, ecco che nasce
    ricchezza ingente nelle nostre case;
    ed i granai si rempiono di grano,

    gli alveari si rempiono di miele,
    d'aurei pomi si rempiono i frutteti,
    di rose citerèe tutti i verzieri,
    e di cervi e di damme le mie selve;

    e avrò tra i muri miei variodipinti
    un talamo con quattro alte colonne
    e vestimenta avrò d'ogni colore
    e per cignermi d'ogni sorta cinti;

    e avrò e avrò nelle mie veglie ancora
    per filar la mia lana mille ancelle
    mariterò le mie dolci sorelle
    ai satrapi dell'Asia spaziosa!"

    Questo fecero grande incantamento
    l'otre e il pastore con un poco d'aria,
    o uom che m'odi, con un poco d'aria
    e col nume di Cintio arco-d'-argento;

    però che il faretrato Citaredo,
    il qual pur trasse Marsia di vagina,
    sia largo della sua virtù divina
    all'inculto pastore e al dotto aedo,

    al calamo forato e alla testudine
    tricorde se lui prieghi un puro cuore.
    Noi come greggi i vesperi e l'aurore
    pascemmo nella verde solitudine.

    Il pino irsuto diede il molle fico,
    i narcissi fioriron su i ginepri,
    danzò il veltro armillato con le lepri,
    e l'antico fu novo e il novo antico.

    Oh maraviglia! Come l'elitropio
    al Sol, volgeasi al suono la soave
    donna dalla sua porta. E l'architrave
    parea sculto da Dedalo il Cecropio

    e lo stipite rozzo una colonna
    del Palagio di Pelope l'Eburno,
    quando il pastor dicea: "Come l'alburno,
    intorno al cuore mi biancheggi, o donna!"

    Divenuta più candida nel suono
    ell'era, come il lin nell'acqua infuso.
    Sorridea sempre. E la conocchia e il fuso,
    la spola e i licci erano in abbandono.

    Pè capegli repente l'abbrancò,
    pè suoi capegli come l'uva nera,
    come il folto giacinto a primavera,
    come dell'edera il corimbo forte,

    pè capegli repente l'abbrancò
    la Morte, l'abbattè, pel calle oscuro
    la trascinò: di là dal fiume curvo,
    nel regno buio la portò la Morte.

    E nessuno e nessuno più la scorse.
    Cupo silenzio fu dentro le case.
    L'ombra lunga occupò la soglia, invase
    il talamo. E l'aurora più non sorse.

    Ma pianto non sonò dentro le case:
    erano il cuore e gli occhi opache selci.
    E fuggì la lucertola dall'embrice,
    anche fuggì la rondine, anche l'ape.

    Io pendea tristo, presso il focolare.
    Ed infine il pastore si sovvenne
    dell'otre. Mi guatò gran tratto. Venne,
    mi tolse, muto, senza lacrimare.

    Io mi credeva ancora esser premuto
    contra il fianco dal cubito leggero
    e disciogliere in me, rivolto al nero
    Ade, l'ingombro del dolore muto.

    "Sposa, ch'io venga su le tue vestigia!"
    E da me svelse i calami con cruda
    mano, li infranse. L'anima sua nuda
    e noi profferse alla gran Notte stigia.


    V.

    O uom che m'odi, fu labiorosa
    la mia sorte. Non fecero grandi ozii
    a me gli iddii. Solstizii ed equinozii
    passano; passa il colchico, e la rosa.

    Tutto ritorna; e la saggezza è vana.
    La saggezza non val legno ficulno
    nè zàccaro caprino. Io voglio, alunno
    di Libero, finir di fine insana.

    Se bene obeso, molto vidi e udii
    però che amico fui dè viatori
    insonni, esperto di molti sapori,
    a servigio di efimeri e d'iddii.

    Molto contenni, puro o adulterato.
    Il falso e il vero son le foglie alterne
    d'un ramoscello: il savio non discerne
    l'una dall'altra, l'un dall'altro lato.

    E la virtù si tigne come lana,
    e la felicità come Vertunno
    tramuta la sua specie. Io voglio, alunno
    di Libero, finir di fine insana.

    So nelle loro generazioni
    diverse l'acqua, il latte, l'olio tacito;
    so il sangue umano e so l'afflato pànico
    e so le metamorfosi dei suoni.

    Ma il licor rubicondo che ti rende
    simile ai numi, o uom che m'odi, ignoro:
    quello onde gonfio mi credette il buono
    Egípane, e il gran riso ancor mi splende!

    Tu m'hai raccolto, o uomo nello speco
    ove per ruzzo trassemi il lupatto.
    Che valgo? Vedi tu come son fatto!
    Piacciati dunque d'insanire meco.

    Desio d'altre fortune non mi tocca.
    Più lungamente vivere non posso.
    Ricucimi la spalla ov'ebbi il bosso
    animato e ristringimi la bocca.

    Tu vedi: sono vecchio e non ti giovo.
    Ma è larga alla tua sete e alla tua fame
    la Terra, e tu le devi il tuo libame.
    nell'otre vecchio or poni il vino nuovo!

    Vendemmierai con cantici di gioia.
    Farai del mosto mite il vin possente.
    Della giovine forza, alla nascente
    luna, tu m'empirai queste mie cuoia,

    che me le schianti almen la giovinezza
    terribile! E coronami di fiori
    selvaggi, ed al più folto degli allori
    tuoi sospendimi. Oh ultima bellezza!

    Discisso tonerò nel gran meriggio.
    Lungi s'udrà nell'alta luce il tuono.
    E tu dirai, la pura fronte prono:
    "Bevi l'offerta, o Terra. Io son tuo figlio".






    ( Data di composizione sconosciuta )




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    00 19/07/2008 05:25

    GLI INDIZII




    Ahimè, la vigna è piena di languore
    come una bella donna sul suo letto
    di porpora, che attenda l'amadore.

    Ahimè, di bacche il frútice s'affoca,
    la viorna s'incénera, più lieve
    che la prima lanugine dell'oca.

    Ahimè, già qualche canna ha la pannocchia,
    nella belletta il cípero si schiude,
    fa sue querele antiche la ranocchia.

    Ahimè, fiore travidi gridellino
    che di gruogo salvatico mi parve,
    e tinto di gialliccio il migliarino.

    In uno m'abbattei lungo il canale
    ove tra lente imagini di nubi
    s'infràcida la dolce carne erbale.

    Villoso ergli era. Intento io lo guatai;
    e la morte di quella che mi piacque
    seppi negli occhi suoi distrambi e vai.






    ( Data di composizione sconosciuta )





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    SOGNI DI TERRE LONTANE


    I PASTORI


    Settembre, andiamo. E' tempo di migrare.
    Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
    lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
    scendono all'Adriatico selvaggio
    che verde è come i pascoli dei monti.

    Han bevuto profondamente ai fonti
    alpestri, che sapor d'acqua natía
    rimanga ne' cuori esuli a conforto,
    che lungo illuda la lor sete in via.
    Rinnovato hanno verga d'avellano.

    E vanno pel tratturo antico al piano,
    quasi per un erbal fiume silente,
    su le vestigia degli antichi padri.
    O voce di colui che primamente
    conosce il tremolar della marina!

    Ora lungh'esso il litoral cammina
    la greggia. Senza mutamento è l'aria.
    il sole imbionda sì la viva lana
    che quasi dalla sabbia non divaria.
    Isciacquío, calpestío, dolci romori.

    Ah perché non son io cò miei pastori?



    LE TERME


    Settembre, oggi veder vorrei l'azzurro
    del tuo cielo riempiere la bocca
    rotonda della maschera di pietra
    in cima alla colonna che si sfalda
    nei secoli, convolta dal rosaio
    che si sfoglia nell'ora, entro quel chiostro
    quadrato che di biondo travertino
    chiarisce il cotto delle antiche Terme.

    Forse d'Orfeo ragionerei con Erme
    sul margine del fonte ove i delfini
    reggon la tazza in su le code erette;
    o forse udrei l'ammonimento grave
    dei due neri superstiti cipressi
    ai due lor verdi cipressetti alunni
    che crescono ove caddero i maggiori
    percossi dalla folgore di luglio.

    O forse mi parrebbe, oltre il cespuglio
    soave, udire l'ànsito del servo
    alla stanga appaiato col giumento
    circa la mola cònica di lava;
    e più dè nudi torsi, e più dè busti
    e più dè cippi mi sarebbe cara
    l'ombra delle farfalle su pè dolii
    risarciti con piombo dal colono.

    Settembre, là, sul fianco del bel Trono
    d'Afrodite, l'aulètride dagli occhi
    a mandorla e dal seno di cotogna
    sta, sovrapposta l'una all'altra coscia,
    adagiata sonando le due tibie
    con i frammenti dell'esperte dita;
    e il Re Pastore immoto nel basalte
    figge all'Eternità gli occhi corrosi.

    Ronzano l'api ne' silenziosi
    orti dei bianchi monaci defunti;
    e nelle celle àbitano gli iddii,
    làcerano le Menadi la vittima,
    Anassimandro medita, dal muro
    svégliasi il carme dei fratelli Arvali.
    "Enos Lases iuvate". Un'ape or entra,
    per la chioma di Iulia che l'illude.

    Nell'àlveo d'un ricciolo si chiude.



    LO STORMO E IL GREGGE


    Settembre, teco io sia sul Loricino
    che fece blandi gli ozii del pretore:
    in sabbia quasi rosea fluisce
    scabra di rughe e sparsa di negrore
    come il palato del mio dolce veltro.

    Sorvolano le rondini quel vetro
    lieve cui godon rompere coi bianchi
    petti: una piuma cade e corre al mare.
    E di là dalle verdi canne i monti
    di Cori son cilestri come il mare.

    Forza del Lazio quanto sei soave!
    Obliate città dei re vetusti,
    atrii del Citaredo imperiale,
    un bel fanciullo vien con le sue capre
    e regna i lidi, impube re latino!

    Il suo gregge è di numero divino,
    nero e bianco a sembianza delle frotte
    alate che sorvolano il bel rivo,
    pari olocausto al Giorno ed alla Notte.
    Quasi fiore l'esigua foce s'apre.

    Equa ride alle rondini e alle capre.



    LACUS IUTURNAE


    Settembre, chiare fresche e dolci l'acque
    ove il tuo delicato viso miri;
    e dolce m'è nella memoria il mio
    natale Aterno in letto d'erbe lente,
    e l'Amaseno quando muor domato
    presso l'Appia col fratel suo l'Uffente,
    e la Cyane ascosa tra i papíri,
    e la Vella sì cara alla vitalba.

    E pien di deità dai colli d'Alba
    lo specchio di Diana ancor mi luce.
    Ma un'altr'acqua al mio sogno è più divina.
    Quella m'attingi e ne riempi l'urna.
    Sotto la roggia mole palatina
    presso il Tempio di Castore e Polluce,
    occhio di Roma è il Fonte di Iuturna.
    Deh mio misterioso amor lontano!

    Alte sul Fòro nel meridiano
    silenzio stan le tre colonne parie
    come d'argento cui salsezza infoschi.
    Gli elci neri sul colle imperiale
    sembran ruine dei primevi boschi.
    Di ferrigno basalte arde la Via
    Sacra tra gli oleandri giovinetti
    e i sepolcreti dei Latini prisci.

    Si tace il Fonte ne' suoi marmi lisci
    come quando Tarpeia la Vestale
    vi discendea con l'anfora d'argilla.
    Tremola il capelvenere sul tufo
    e sul mattone, l'acqua è glauca, tinge
    il suo letto lunense; una lucerta
    su l'ara dei Diòscuri tranquilla
    gode in grembo alla dea di lunga face.

    Ombre delle farfalle in quella pace!
    Poc'acqua accolta, santità dell'Urbe!
    Le custodi del Fuoco sempiterno
    scendono alla marmorea piscina?
    o i Tindàridi rossi di latina
    strage, per beverare i due cavalli?
    Deh lauri nuovi! Presso il puteale
    crescono, nel sacrario di Iuturna.

    Li veglia la Speranza taciturna.



    LA LOGGIA


    Settembre, il tuo minor fratello Aprile
    fioriva le vestigia di San Marco
    a Capodistria, quando navigammo
    il patrio mare cui Trieste addenta
    cò i forti moli per tenace amore.

    Capodistria, succiso adriaco fiore!
    Io vidi nella loggia d'un palagio
    nidi di balestrucci appesi a travi
    fosche, tra mazzi penduli di sorbe.
    Cinericcio era il tempo, umido e dolco.

    Or laggiù, pel remaggio senza solco,
    tu certo aduni i neribianchi stormi,
    e quelli di Pirano e di Parenzo,
    che si rincontreranno in alto mare
    con l'altra compagnia che vien di Chioggia.

    E son deserti i nidi nella loggia,
    e dei mazzi di sorbe son rimase
    forse le canne appese pel lor cappio.
    S'ode nell'ombra quella parlatura
    che ricorda Rialto e Cannaregio.

    Una colomba tuba dal bel fregio.



    LA MUTA


    Settembre, ora nel pian di Lombardia
    è già pronta la muta dei segugi,
    dè bei segugi falbi e maculati
    dall'orecchie biondette e molli come
    foglie del fiore di magnolia passe.
    La muta dei segugi a volpe e a damma
    or già tracciando va per scope e sterpi.
    Erta ogni coda in bianca punta splende.

    Presso il gran ponte sta Sesto Calende.
    Corre il Ticino tra selvette rare,
    verso diga di roseo granito
    corre, spumeggia su la china eguale,
    come labile tela su telaio
    cèlere intesta di nevosi fiori.
    Chiudon le grandi conche antichi ingegni,
    opere del divino Leonardo.

    Il sorriso tu sei del pian lombardo,
    o Ticino, il sorriso onde fu pieno
    l'artefice che t'ebbe in signoria;
    e il diè constretto alle sue chiuse donne.
    Oh radure tra l'oro che rosseggia
    dello sterpame, tiepide e soavi
    come grembi di donne desiate,
    si 'che al calcar repugna il cavaliere!

    Vanno i cani tra l'èriche leggiere
    con alzate le code e i musi bassi,
    davanti il capocaccia che gli allena
    per mezz'ottobre ai lunghi inseguimenti.
    S'ode chiaro squittire in què silenzii.
    Il suon del corno chiama chi si sbanda
    e chi s'attarda e trae la lingua ed ansa.
    Già la virtù si mostra del più prode.

    Il buon maestro dell'arte sua si gode:
    talor gli ultimi aneliti esalare
    sembra l'Estate aulenti sotto l'ugne
    del palafren che nel galoppo falca.
    E, fornito il lavoro, ei torna al passo
    per la carraia ingombra di fascine:
    con la sua muta va verso il canile,
    va verso Oleggio ricca di filande.

    Vapora il fiume le sterpose lande.



    LE CARRUBE


    Settembre, son mature le carrube.
    Or tu pel caldo mare di Cilicia
    conduci dalla riva cipriota
    la sàica a scafo tondo e a vele quadre.
    Bonaccia, e nel saffiro non è nube.

    Germa con sue maggiori quattro vele,
    garbo o schirazzo, legni levantini
    carichi di baccelli dolci e bruni
    conduci verso l'isola dei Sardi.
    E vien teco un odor di tetro miele.

    La siliqua, che ingrassa la muletta
    dall'ambio lene e in carestía disfama
    la plebe dalla bianca dentatura,
    lustra come i capelli tuoi castagni
    mentre stai su la coffa alla vedetta.

    Certo, d'olio di sésamo son unte
    quelle tue ciocche in forma di corimbi.
    Certo, ritrovi or tu nel gran dolciore
    del Mar Cilicio l'obliato carme
    che alla Cipride piacque in Amatunte.

    Settembre, teco esser voremmo ovunque!





    ( Date di composizione sconosciute )





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    IL NOVILUNIO



    Novilunio di settembre!
    Nell'aria lontana
    il viso della creatura
    celeste che ha nome
    Luna, trasparente come
    la medusa marina,
    come la brina nell'alba,
    labile come
    la neve su l'acqua,
    la schiuma su la sabbia,
    pallido come
    il piacere
    su l'origliere,
    pallido s'inclina
    e smuore e langue
    con una collana
    sotto il mento sì chiara
    che l'oscura:
    silenzioso viso esangue
    della creatura
    celeste che ha nome Luna,
    cui sotto il mento s'incurva
    una collana
    sì chiara che l'offusca,
    nell'aria lontana
    ov'ebbe nome Diana
    tra le ninfe eterne,
    ov'ebbe nome Selene
    dalle bianche braccia
    quando amava quel pastore
    giovinetto Endimione
    che tra le bianche braccia
    dormiva sempre.
    Novilunio di settembre!
    Sotto l'ambiguo lume,
    tra il giorno senza fiamme
    e la notte senza ombre,
    il mare, più soave
    del cielo nel suo volume
    lento, più molle
    della nube
    lattea che la montagna
    esprime dalle sue mamme
    delicate,
    il mare accompagna
    la melodia
    della terra, la melodia
    che i flauti dei grilli
    fan nei campi tranquilli
    roca assiduamente,
    la melodia
    che le rane
    fan nelle pantane
    morte, nel fiume che stagna
    tra i salci e le canne
    lutulente,
    la melodia
    che fan tra i vinchi
    che fan tra i giunchi
    delle ripe rimote
    uomini solinghi
    tessendo le vermene
    in canestre,
    con sì lunghi
    indugi su quelle parole
    che ritornano sempre.

    Novilunio di settembre!
    Tal chiaritate
    il giorno e la notte commisti
    sul letto del mare
    non lieti non tristi
    effondono ancora,
    che tu vedi ancora
    nella sabbia le onde
    del vento, le orme
    dei fanciulli, le conche
    vacue, le alghe
    argentine,
    gli ossi delle seppie,
    le guaine
    delle carrube,
    e vedi nella siepe
    rosseggiar le nude
    bacche delle rose canine
    e nel campo la pannocchia
    dalla barba d'oro
    lucere, che al plenilunio
    su l'aia il coro
    agreste monderà con canti,
    e nella vigna
    il grappolo d'oro
    che già fu sonoro d'api,
    e nel verziere il fico
    che dall'ombelico stilla
    il suo miele,
    e su la soglia del tugurio
    biancheggiar la conocchia
    dell'antica madre che fila,
    che fila sempre.

    Novilunio di settembre,
    dolce come il viso
    della creatura
    terrestre che ha nome
    Ermione, tiepido come
    le sue chiome,
    umido come il sorriso
    della sua bocca
    umida ancora
    della prima uva matura,
    breve come la sua cintura
    nel cielo verde
    come la sua veste!
    Ha tremato
    nella sua veste
    verde che odora
    ad ogni passo
    come un cespo ad ogni fiato,
    ha tremato
    al primo gelo notturno
    ella che a mezzo il giorno
    dormì con la guancia
    sul braccio curvo
    e si svegliò con le tempie
    madide, con imperlato
    il labbro, nella calura,
    vermiglia come un'aurora
    aspersa di calda rugiada
    e sorridente.
    E io le dico: "O Ermione,
    tu hai tremato.
    Anche agosto, anche agosto
    andato è per sempre!

    Guarda il cielo di settembre.
    Nell'aria lontana
    il viso della creatura
    celeste che ha nome
    Luna, con una collana
    sotto il mento sì chiara
    che l'oscura,
    pallido s'inclina e muore..."
    Ma dice Ermione,
    non lieta non triste:
    "T'inganni. Quella ch'è sì chiara
    è la falce
    dell'Estate, è la falce
    che l'Estate abbandona
    morendo, è la falce
    che falciò le ariste
    e il papapevo e il cíano
    quando fioríano
    per la mia corona
    vincendo in lume il cielo e il sangue;
    ed è la faccia dell'Estate
    quella che langue
    nell'aria lontana, che muore
    nella sua chiaritate
    sopra le acque
    tra il giorno senza fiamme
    e la notte senza ombre,
    dopo che tanto l'amammo,
    dopo che tanto ci piacque;
    e la sua canzone
    di foglie di ali di aure di ombre
    di aromi di silenzii e di acque
    si tace per sempre;

    e la melodia di settembre,
    che fanno i flauti campestri
    ed accompagna il mare
    col suo lento ploro,
    non s'ode lassù nell'aria
    lontana ov'ella spira
    solitaria
    il suo spirto odorato
    di alga di rèsina e di alloro;
    e l'uomo che s'attarda
    in tessere vermene
    già fece del grano mannelle
    ed or fa canestri
    per l'uva, con un canto eguale,
    e tutto è obliato;
    obliato anche agosto
    sarà nell'odor del mosto,
    nel murmure delle api d'oro;
    per tutto sarà l'oblio,
    per tutto sarà l'oblio;
    e niuno più saprà
    quanto sien dolci
    l'ombre dei voli
    su le sabbie saline,
    l'orme degli uccelli
    nell'argilla dei fiumi,
    se non io, se non io,
    se non quella che andrà
    di là dai fiumi sereni,
    di là dalle verdi colline,
    di là dai monti cilestri,
    se non quella che andrà
    che andrà lungi per sempre,

    e non con le tue rondini, o Settembre!"





    (Composta al Secco Motrone la sera del 31 agosto 1900)




    _________Aurora Ageno___________
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    00 28/07/2008 03:10


    IL COMMIATO



    L'Alpe di Mommio un pallido velame
    d'ulivi effonde al cielo di giacinto,
    come un colle dell'isola di Same
    o di Zacinto.

    Il Monte Magno di più cupo argento
    fascia la sua piramide; il Matanna
    è porpora e viola come il lento
    fior della canna.

    O canneti lungh'essi i fiumicelli
    di Camaiore, appreso ho il vostro carme.
    Vedess'io rosseggiare gli albatrelli
    sul Monte Darme!

    Dal Capo Corvo ricco di viburni
    i pini vedess'io della Palmaria
    che col lutto dè marmi suoi notturni
    sta solitaria!

    Potess'io sostenerti nella mano,
    terra di Luni, come un vaso etrusco!
    In te amo il divin marmo apuano,
    l'umile rusco;

    amo la tua materia prometèa,
    la sabbia delle tue selve aromali,
    l'aquila dei tuoi picchi, la ninfea
    dè tuoi canali.

    Potesse l'arte mia, da Val di Serchio
    a Val di Magra e per le Pànie al Vara
    e al Golfo, tutta stringerti in un cerchio
    con l'alpe a gara!

    Troppo è grave al mio cor la dipartenza.
    Come dal corpo, l'anima si esilia
    dal marmo che biancheggia tra l'Avenza
    e la Versilia.

    Tempo è di morte. In qualche acqua torpente
    or perisce la dolce carne erbale.
    Strider non s'ode falce ma si sente
    odor letale.

    Díruta la Ceràgiola rosseggia,
    là dove Serravezza è cò due fiumi,
    quasi che fero sangue in ogni scheggia
    grondi e s'aggrumi.

    Sta nella cruda nudità rupestre
    il Gàbberi irto qual ferrato casco.
    Ecco, e su i carri per le vie maestre
    passa il falasco.

    Metuto fu dalla più grande falce
    nella palude all'ombra del Quiesa,
    ove raggiato di vermène il salce
    par chioma accesa

    tra cannelle di stridulo oro secco,
    tra pigro sparto di pallor bronzino.
    Su l'acqua un lampo di smeraldo, e il becco
    tuffa il piombino.

    Deh foss'io sopra un burchio per la cuora
    navigando, e di tifa e di sparganio
    carico ei fosse, e fossèvi alla prora
    fitto un bucranio

    o un nibbio con aperte ali, e vi fosse
    odore di garofalo nel mucchio
    per qualche cunzia dalle barbe rosse
    onde il suo succhio

    sì caro all'arte dell'aromatario
    stillasse fra l'erbame, e resupino
    vi giacessi io mirando il solitario
    ciel iacintino;

    e scendessi così, tra l'acqua e il cielo
    con l'alzaia la Fossa Burlamacca
    albicando qual prato d'asfodèlo
    la morta lacca;

    e traesse il bardotto la sua fune
    senza canto per l'argine; ed io, corco
    sul mucchio, mi credessi andare immune
    di morte all'Orco!

    Ma cade il vespro, e tempo è d'esulare;
    e di sogni obliosi in van mi pasco.
    Si i gravi carri lungo le vie chiare
    passa il falasco.

    Sono sì vasti i cumuli spioventi
    che il timone soperchiano dinnanzi
    e il giogo cèlano e le corna e i lenti
    corpi dei manzi,

    onde sembran di lungi per sé mossi
    e tra la polve aspetto hanno di strani
    animali dai gran lanosi dossi,
    dai ventri immani.

    In fila vanno verso Pietrasanta,
    strame ai presepi, ai campi aridi ingrasso.
    L'un carrettiere vócia e l'altro canta
    a passo a passo.

    E tutta la Versilia, ecco, s'indora
    d'una soavità che il cor dilania.
    Mai fosti bella, ahimè, come in quest'ora
    ultima, o Pania!

    O Tirreno, Mare Infero, s'accende
    sul tuo specchio l'insonne occhio del Faro;
    ti veglia e guarda con le sue tremende
    navi d'acciaro

    la Città Forte dietro il Caprione
    sacro agli Itali come ai Greci il Sunio;
    t'è scheggia della spada d'Orione
    il novilunio;

    come sia fatta l'ombra, alla tua pace
    verseranno lor lacrime le Atlàntidi,
    ti condurrà l'ignavo Artofilace
    l'Orse erimàntidi;

    s'udrà pè curvi lidi il tuo respiro
    solo nell'ombra senza mutamento;
    solo rispecchierai l'immenso giro
    del firmamento.

    O Mare, o Alpe, ed io sarò lontano
    con nel mio cuor la torbida mia cura!
    Splende la cima del mio cuore umano
    nell'ode pura.

    Ode, innanzi ch'io parta per l'esilio,
    risali il Serchio, ascendi la collina
    ove l'ultimo figlio di Vergilio,
    prole divina,

    quei che intende i linguaggi degli alati,
    strida di falchi, pianti di colombe,
    ch'eguale offre il cor candido ai rinati
    fiori e alle tombe,

    quei che fiso guatare osò nel cèsio
    occhio e nel nero l'aquila di Pella
    e udì nova cantar sul vento etèsio
    Saffo la bella,

    il figlio di Vergilio ad un cipresso
    tacito siede, e non t'aspetta. Vola!
    Te non reca la femmina d'Eresso,
    ma va pur sola;

    ché ben t'accoglierà nella man larga
    ei che forse era intento al suono alterno
    dei licci o all'ape o all'alta ora di Barga
    o al verso eterno.

    Forse il libro del suo divin parente
    sarà con lui, sù suoi ginocchi (ei coglie
    ora il trifoglio aruspice virente
    di quattro foglie

    e ne fa segno del volume intonso,
    dove Títiro canta? o dove Enea
    pè meati del monte ode il responso
    della Cumea?).

    Forse la suora dalle chiome lisce,
    se i ferri ella abbandoni ora ch'è tardi
    e chiuda nel forziere il lin che aulisce
    di spicanardi,

    sarà con lui, trista perché concilio
    vide folto di rondini su gronda.
    E tu gli parla: "Figlio di Vergilio,
    ecco la fronda.

    Ospite immacolato, a te mi manda
    il fratel tuo diletto che si parte.
    Pel tuo nobile capo una ghirlanda
    curvò con arte.

    E chi coronerà oggi l'aedo
    se non l'aedo re di solitudini?
    Il crasso Scita ed il fucato Medo
    la Gloria ha drudi;

    e, se barbarie genera nel vento
    nuovi mostri, non più contra l'orrore
    discende Febo Apollo arco-d'-argento
    castigatore.

    Ma tu custode sei delle più pure
    forme, Ospite. Col polso che non langue
    il prisco vige nelle tue figure
    gentile sangue.

    Gli uomini il tuo pensier nutre ed irradia,
    come l'ulivo placido produce
    agli uomini la sua bacca palladia
    ch'è cibo e luce.

    Per ciò dal fratel tuo questa fraterna
    ghirlanda ch'io ti reco messaggera
    prendi: non pesa: ell'è di fronda eterna
    ma sì leggera.

    Fatta è d'un ramo tenue che crebbe
    tra l'Alpe e il Mare, ov'ebbe il Cuor dè cuori
    selvaggio rogo e il Buonarroti v'ebbe
    i suoi furori.

    L'artefice nel flettere lo stelo
    vedea sul Sagro le ferite antiche
    splendere e su l'Altissimo l'anelo
    peplo di Nike.

    Altro è il Monte invisibile ch'ei sale
    e che tu sali per l'opposta balza.
    Soli e discosti, entrambi una immortale
    ansia v'incalza.

    Or dove i cuori prodi hanno promesso
    di rincontrarsi un dì, se non in cima?
    Quel dì voi canterete un inno istesso
    di su la cima".

    Ode, così gli parla. Ed alla suora,
    che vedrai di dolcezza lacrimare,
    dà l'ultimo ch'io colsi in su l'aurora
    giglio del mare.






    ( Data di composizione sconosciuta )







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    _________Aurora Ageno___________
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    Fata ballerina
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    PdL
    Utente Junior
    00 17/04/2010 14:55
    quanti insegnamenti che esppongono questi tuoi racconti noonnina mia!!!!! [SM=g7423]

    Baci [SM=g28003]

    Noemi [SM=x832007]

    [SM=g8524]
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