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LE CONFESSIONI - S. AGOSTINO (a puntate)

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    SAN AGOSTINO – LE CONFESSIONI

    Introduzione e traduzione di Aldo Landi – Edizioni Paoline


    INTRODUZIONE




    PREFAZIONE


    Da 16 secoli le Confessioni di Agostino costituiscono lo scritto autobiografico più letto e più commentato; da esso hanno preso ispirazione innumerevoli altre “confessioni”. Quella dell’Ipponese, però, è una “confessione” nel duplice senso della parola latina, secondo quanto spiega egli stesso: “La confessione è propria di chi loda e di chi si pente”.
    Non soltanto, infatti, egli “confessa” le sue colpe, ma “confessa” anche la grandezza della misericordia di Dio, così che l’opera che nella prima parte è prevalentemente autobiografica, si sviluppa alla fine in tutta una calda e talora laboriosa riflessione sull’amore di Dio verso l’uomo creato e redento.

    Si tratta di un libro che è l’espressione più alta del dualismo cristiano, e che ha accompagnato tutta la contemplazione mistica cattolica del Medioevo; ad essa hanno attinto schiere di maestri dello spirito, che hanno insegnato la necessità ineluttabile di combattere ed eliminare in se stessi ogni legame col mondo dei sensi per poter acquietare lo spirito in Dio, fonte unica di verità e di gioia. Questa è fondamentalmente la pedagogia agostiniana. Tale concezione del rapporto che l’uomo deve instaurare con se stesso e con Dio, è l’oggetto costante del pensiero di Agostino mistico, teologo, filosofo, letterato. Im “mistero” dell’uomo, cioè, è la questione centrale del libro delle “Confessioni”, ma – si può ben dirlo – anche di tutta la vita dell’Ipponese. Ancora nel De Civitate Dei egli dichiarerà con forza, polemizzando contro i culti pagani: “ Non si può pensare di compiacere la divina Maestà con atti che ledono l’umana dignità. Gli atti di culto che si rendono nella società pagana non possono piacere a Dio, proprio perché ledono la dignità dell’uomo. Dove, quello che era un discorso dualistico, d’impronta manichea, si trasfigura in un discorso che è notoriamente l’essenza del messaggio cristiano: al centro delle attenzioni di Dio c’è la salvezza integrale dell’uomo in tutta la sua dignità.

    […..]


    Il traduttore





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    INTRODUZIONE


    LA VITA


    Aurelio Agostino nacque a Tagaste, grosso borgo della Numidia (oggi Souk-Ahras), il 13 novembre 354. Suo padre si chiamava Patrizio ed era un africano romanizzato, piccolo proprietario, decurione del municipio natale; pagano, si fece battezzare in punto di morte. Sua madre Monica era una donna cristiana e pia, che educò il figlio cristianamente fin dalla puerizia e che mostrava attitudine al filosofare. Agostino ereditò dal padre temperamento sensuale e impetuoso, dalla madre tenerezza e tendenza alla contemplazione mistica. Ci sono noti una sorella e un fratello di nome Naviglio.

    Agostino impara i primi rudimenti alla scuola del paese; la disciplina è dura, ed egli è insofferente. Non viene battezzato perché è tale l’uso di quel tempo. Si voleva far godere più appieno del beneficio di una purificazione tardiva, che avrebbe cancellato tutte le colpe, anche successive.
    Patrizio vorrebbe fare del figlio un rètore, ossia un maestro di lettere e di eloquenza: era questa la strada normale per raggiungere i posti più onorevoli e lucrosi nella vita.
    Lo manda così nella vicina Madaura, città più importante di Tagaste, Là Agostino si dà con ardore allo studio dei classici latini; meno entusiasta è dello studio del greco, che infatti non riuscì mai a dominare.

    Nell’estate 369, ristrettezze familiari lo costringono a tornare a Tagaste, dove rimane per un anno in ozio e si dà alla ricerca di piaceri volgari. Grazie all’aiuto del ricco concittadino Romanzano, può riprendere gli studi e si reca a Cartagine, capitale dell’Africa romana, che aveva conservato molto del passato splendore. Là studia quanto si insegnava allora nelle accademie: retorica, dialettica, geometria, musica, matematica; al tempo stesso è preso da quello che era un centro di “vita” per giovani ardenti e passionali come lui. Lo avvincono il teatro e gli amori. Inizia la convivenza con una donna, che amerà con costanza, e dalla quale nel 372 ha un figlio che si chiama Adeodato. Questo amore durerà più di dieci anni, però Agostino non la sposerà mai, forse per pregiudizi familiari di casta.

    La madre lo iscrive ai catecumeni della Chiesa cattolica, ma Agostino trova la dottrina irragionevole. Nel 373, a 19 anni, legge l’Hortensius di Cicerone, dialogo a noi non pervenuto, contenente l’elogio della filosofia come culto della sapienza. E’ attratto dalla “verità”, ma è altrettanto deciso a non farsi influenzare da nessuno. Per curiosità legge la Bibbia, ma le brutte traduzioni nelle quali si imbatte gliela fanno apprezzare assai poco: non la capisce. Ventenne, si aggrega alla setta dei manichei, affascinato soprattutto dal loro atteggiamento razionalizzante e dalla loro comoda morale. In realtà il miscuglio di credenze che quelli professavano comincia ben presto a convincerlo poco; comunque, li segue per nove anni e la madre ne è profondamente amareggiata. In questo periodo anche l’astrologia fa la sua breve comparsa nell’ambito degl’interesse del giovane africano.

    La morte del padre determina condizioni difficili in famiglia: Agostino si dà all’insegnamento della grammatica a Tagaste. Fra gli alunni c’è Alipio, che diventerà suo grande amico. Esercita però la professione di insegnante al suo paese soltanto per un anno; in questo tempo la madre Monica arriva al punto di cacciare di casa il figlio, colpevole di eresia e di scostumatezza. Riappare in scena il ricco Romanzano, che lo aiuta a tornare a Cartagine; là Agostino apre una scuola di retorica. Le soddisfazioni non gli mancano: molti alunni lo seguono e gli resteranno legati a lungo; viene incoronato in un certame poetico; pubblica il suo primo libro: Del bello e del conveniente. Comincia a trovare assurde le dottrine manichee, specialmente dopo l’incontro deludente con il vescovo Fausto, da molti ritenuto un oracolo, con il quale egli ha voluto un colloquio personale. Per rispetto, però, agli amici e anche per calcolo, non intende troncare subito i rapporti con l’ambiente manicheo. Questo, infatti, gli serve a risolvere quanto di ancora insoddisfacente l’inquieto rètore trova nella scuola di Cartagine: gli alunni sono indisciplinati e la paga è modesta.

    Dopo 8 anni, nel 383, di nascosto dalla madre, una notte d’estate, s’imbarca per Roma. Qui gli amici manichei lo ospitano e ben presto gli ottengono, tramite correligionari residenti a Milano, una cattedra in quella città. Vi insegna dal 384 al 386; in questo periodo attraversa una crisi di scetticismo: la verità gli appare inafferrabile. E’ attratto dal neoplatonismo, di cui apprezza specialmente la spiritualità fondata sul disprezzo delle passioni. Ha, infatti, ormai la profonda esigenza di liberarsi dalla schiavitù dei sensi. Un valido aiuto gli viene dalla predicazione del vescovo Ambrogio, che ha cominciato a frequentare; oltre tutto, questi interpreta la sacra Scrittura in modo tale da rendere accettabile alla mente dell’Ipponese anche quei passi rimastigli fino allora incomprensibili.
    La crisi definitiva lo travaglia nel luglio 386: Agostino ha trentadue anni, ed è ospite di un collega d’insegnamento. La decisione di tornare alla fede materna è ormai irrinunciabile. Durante la veglia pasquale del 387 – la notte tra il 24 e il 25 aprile – il vescovo Ambrogio gli amministra il battesimo e con lui battezza l’amico Alipio e il figlio quindicenne, Adeodato. Tutti insieme trascorrono un periodo di circa sette mesi in ritiro a Cassiciaco (forse l’attuale Cassago, in provincia di Como, a 35 km da Milano; o forse Casciago, a 4 km da Varese).

    Infine Agostino lascia Milano e ritorna in Africa con il proposito di fondare una specie di comunità religiosa a Tagaste. A Ostia, però, prima d’imbarcarsi, muore sua madre Monica. Egli ha immortalato gli ultimi momenti di lei descrivendo, al capitolo X del libro IX delle Confessioni, l’ora di contemplazione trascorsa insieme: è certo una delle pagine più vibranti del volume.

    Nell’autunno del 388 Agostino lascia Roma. A Tagaste realizza il suo sogno di fondare una comunità di preghiera e di contemplazione. L’anno seguente muore, giovanissimo, il figlio Adeodato.

    A Ippona il vescovo Valerio, vecchio, ha bisogno di un prete che lo aiuti nel ministero della predicazione; il popolo acclama Agostino: siamo nel 391. Quattro anni dopo egli è consacrato vescovo e nel 396 succede a Valerio sulla cattedra Ipponese. Lo stile di vita di Agostino non subisce mutamenti: continua infatti la vita di comunità come a Tagaste; molti sono i discepoli che lo imitano, e per essi il vescovo scrive una “Regula ad servos Dei”.

    Gli anni passano in una instancabile attività di ministero e di composizione di scritti dogmatici, morali, esegetici, pastorali, ecc.

    Il 28 agosto 430, settantaseienne, muore: è il terzo mese che Genserico, con i suoi Vandali, sta ponendo l’assedio alla città.

    Questi, in sintesi, i dati fondamentali della vita di Agostino. Presentare la sua ricchissima personalità in poche righe è veramente impossibile; accenneremo ad alcuni aspetti. Sappiamo che la sua salute sempre precaria non gl’impedì di svolgere la mole di lavoro che svolse; anzi, proprio l’insonnia gli consentì di scrivere molto. Ricco d’umanità e innamorato della vita, amò soprattutto la verità, nella cui ricerca spese tutte le sue energie migliori. Questa ricerca appassionata della verità lo fece passare attraverso molte esperienze diverse: quella del manicheismo, particolarmente importante, perché lo accompagnò per molti anni della sua formazione decisiva e gli darà poi occasione di studiare a fondo l’assillante problema: come mai il male? La soluzione gli verrà dal platonismo: il male è privazione di essere, è limite, carenza. Alla filosofia platonica attinse per un’altra idea di fondo: si può giungere alla conoscenza di Dio solo attraverso una purificazione che liberi da tutto ciò che appartiene al mondo sensibile.
    Lo scisma donatista fu l’occasione che gli si presentò per affrontare a fondo il problema della vita della Chiesa e dei suoi rapporti con i pubblici poteri; la polemica con gli scismatici ebbe inizio nel 393 e durò più di vent’anni. Nel 411 si tenne a Cartagine una grande pubblica conferenza di vescovi (279 donatisti e 286 cattolici) nella quale Agostino svolse una parte di primo piano, conclusasi col successo dei vescovi romani. Non era ancora terminata questa polemica, che ne iniziava un’altra: quella antipelagiana, ancor più importante per il contributo e l’impostazione datale dall’Ipponese. Egli, infatti, partendo dalla sua esperienza personale, affermò con forza la centralità e drammaticità del problema della grazia, polemizzando contro ogni moralismo naturalistico con quella sfiducia nelle capacità dell’uomo che caratterizzerà sempre il pessimismo agostiniano. L’influenza di questo, e in genere della dottrina di Agostino, su tutto il pensiero medievale, è ben nota. Si può dire di lui che ebbe meno senso critico, per esempio, di Girolamo: non gli fu sempre chiara la distinzione fra verità rivelate e verità razionali, fra il campo della natura e quello della grazia. Scrisse sempre spinto da circostanze ben precise; ancora negli ultimi anni della sua vita si dedicò a confutare l’arianesimo perché l’invasione dei Vandali aveva determinato una nuova diffusione di quell’eresia.
    […..]







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    INTRODUZIONE


    LE CONFESSIONI


    Furono scritte probabilmente fra il 397 e il 398. Contengono una parte autobiografica che non è soltanto una confessione di colpe, ma è anche un ringraziamento a Dio per la misericordia che ha voluto usare verso di lui fin dalla sua infanzia.
    Nel libro X, l’Ipponese analizza con acutezza psicologica la sua posizione etico-religiosa del momento in cui scrive. La terza parte ( i libri XI-XIII)contiene un commento dei primi versetti del libro della Genesi; si potrebbe dire meglio che quei versetti sono l’occasione per fare, attraverso una serie di interpretazioni allegoriche, profonde considerazioni su Dio e il mondo, sul tempo e l’eternità, per tessere ancora le lodi della grandezza e della bontà del Creatore. Se l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, l’uomo può – dice Agostino – trovare in se stesso la presenza di Dio, la sua verità, facendo leva su quanto di più elevato trova nella propria anima: è chiaro che Dio non è dove è il peccato e quindi l’angoscia; è, invece, dove si cerca con sincerità la salvezza propria e degli altri, cioè dove si vive nella sua grazia. Conoscere, quindi, veramente se stessi per arrivare a colui che è “più intimo a noi di noi stessi” (Confessioni. III,6).
    Tale va considerato il tema centrale di questo scritto agostiniano; egli stesso ce lo dice quando, ormai più che settantenne, compie un riesame di tutti i suoi scritti, nelle Rectratationes (II,6): “I tredici libri delle mie Confessioni lodano Dio giusto e buono per i miei mali e per i miei beni, e sollevano verso di lui la mente e il cuore degli uomini; quando le componevo io ho sentito questo effetto, e lo risento ogni volta che le rileggo”. E’ un libro, dunque, di altissima mistica, e come tale è stato letto per secoli: prima dell’Imitazione di Cristo era il più diffuso testo di spiritualità. E’, però, anche un libro in cui si ritrovano sparsi un po’ tutti i temi della speculazione agostiniana; così li sintetizza il Carena nel suo commento (Roma, 1965).
    Anzitutto il problema dell’esistenza e della natura di Dio, verità che trascende la natura dell’uomo ed è costitutiva delle verità che l’uomo conosce; poi il problema dell’anima e dell’uomo, l’una elemento dell’altro, quella principio vitale di questo, ma da lui distinto in quanto ricca di verità e immortale, parte migliore dell’uomo, la dignità del quale risiede nel libero arbitrio. Il male morale non è che un atto insufficiente della volontà, una scelta corrotta: per non cadervi, e quindi per usare bene del libero arbitrio, è indispensabile l’intervento divino. Raggiungere Dio, cioè conoscere e amare la Verità, è l’unica felicità che può appagare lo spirito umano; ogni compiacimento nei beni terrestri, imperfetti e caduchi, è destinato a deludere amaramente l’aspirazione innata nell’uomo.
    Questi sono alcuni dei motivi filosofici principali presenti nei primi dieci libri delle Confessioni. Il X presenta una lunga riflessione sulla memoria, intesa in senso più ampio, quasi di coscienza: con essa l’uomo cammina verso Dio, in quanto se noi non possiamo cercare che ciò che conosciamo e ciò che conosciamo sta nella nostra memoria e cerchiamo la felicità, ossia Dio, vuol dire che Dio è nella nostra memoria, anche se non immediatamente avvertito. Nei tre ultimi libri dell’opera, la speculazione è addirittura la parte preponderante, frammista all’esegesi della Genesi. Basta ricordare la lunga analisi che l’autore fa del concetto di tempo paragonato con il concetto di eternità.

    Opera, dunque, di altissima mistica, e al tempo stesso di profonda speculazione, le Confessioni sono anche un’opera di alto valore letterario. Sotto questo aspetto, la sua originalità sta nella “capacità di intuito e di universale risonanza” (Paratore) con la quale Agostino sente ed esprime il dramma di un’anima che si redime: vi si ritrova l’insegnante di retorica che ama le ampollosità e le ricercatezze stilistiche: “maestro di virtuosismo”, l’ha chiamato l’Auerbach, aggiungendo però che “la massima artisticità può benissimo servire alla più autentica e profonda interiorità”. E artisticità nel senso più puro del termine troviamo in brevi e concise riflessioni, come in intere pagine di un lirismo che non ha nulla da invidiare agli autori latini più celebrati.
    Certo, Agostino non cercava il bello per se stesso; anzi, disdegnava una ricerca del genere. Il suo scopo è confessare se stesso peccatore e Dio sovrana misericordia. La sua grandezza non sta nell’essere filosofo o letterato, ma nell’avere scritto, da filosofo e letterato indubbiamente grande, le sue “confessioni”: “l’uomo non è mai tanto in alto come quando recita, con cuore contrito e umiliato, il suo “confiteor” “, diceva Mazzolari, perché l’uomo che demolisce l’idolo del proprio io fin’allora adorato, e rovescia i giudizi di valore secondo le esigenze del Sermone della Montagna, “tocca il fastigio dell’umano, là dove l’uomo s’incontra con Dio”. L’incontro fra la grandezza di Dio e quella dell’uomo si realizza proprio nel perdono dato e ottenuto: “Dio, che dimostri la tua potenza soprattutto nel perdonare e nell’usare misericordia…”, dice l’antica liturgia cristiana. E l’uomo che riconosce di avere sbagliato e ne ringrazia Dio come di un dono, non rifiuta quanto altro in sé riconosce di dono divino: “Agostino cristiano è sempre Agostino. Convertirsi vuol dire nascere di nuovo, non snaturarsi né diminuirsi. “Spezza ciò che adoravi, adora ciò che spezzavi”, non è ben detto per nessun convertito… Nella Chiesa non si entra passando sotto le forche caudine (l’umiltà è ben altra cosa), ma a bandiere spiegate, ponte levatoio abbassato, con l’onore delle armi. Agostino vi entra col suo intelletto pieno di audacia. Non è un’intelligenza mortificata l’intelligenza di Agostino, il convertito… Vi entra con il suo cuore sensibilissimo, delicatissimo, vibrante. In questa capacità di simpatia e di trascinamento cordiale è il segreto della sua enorme e perenne influenza” (Mazzolari).





    (segue)

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    LE CONFESSIONI

    LIBRO PRIMO

    Dalla nascita ai quindici anni






    I.

    CONOSCERE DIO PER INVOCARLO
    O INVOCARLO PER CONOSCERLO?



    Sei grande , Signore, e meriti ogni lode; grande è la tua potenza e la tua sapienza non ha limiti. E vuol celebrare le tue lodi quella piccola parte della tua opera creatrice che è l’uomo, l’uomo che si porta dietro la sua precarietà, la testimonianza del suo peccato e della tua volontà di resistere ai superbi, e che tuttavia, piccola parte della tua grande opera creatrice, vuol celebrare le tue lodi. Sei tu che susciti in lui questo desiderio, perché tu ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te. Dammi, o Signore, di conoscere e capire se si debba prima invocarti o celebrarti, prima conoscerti o invocarti. Ma chi potrebbe invocarti senza prima conoscerti? Chi non ti conosce può essere indotto a invocare altri. O forse, per conoscerti, bisogna invocarti? Ma come invocheranno colui nel quale non avranno creduto? E come credere se qualcuno prima non annuncia? Celebreranno il Signore coloro che lo cercano, perché chi lo cerca lo trova e chi l’ha trovato non può non celebrarne le lodi. Che io ti cerchi, o Signore, invocandoti, e ti invochi credendo in te, perché ormai ci sei stato annunciato. Ti invoca, Signore, la mia fede: quella che mi hai dato tu, che mi hai ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera di lui che ti ha annunciato a noi.



    II.

    COME E PERCHE’ INVOCARE DIO?



    E come invocherò il mio Dio, Dio e Signore mio? Invocarlo significa invitarlo ad entrare in me: ma esiste in me un posto dove possa entrare il mio Dio, venire in me Dio, che ha fatto il cielo e la terra? C’è dunque in me qualcosa, o Signore Dio mio, che ti possa contenere? Ti possono forse contenere il cielo e la terra che tu hai fatto e nei quali hai fatto anche me? Senza di te non esisterebbe nulla di tutto ciò che esiste: vuol dire, forse, che tutto ciò che esiste ti contiene? E anch’io esisto; perché allora chiederti di venire in me, io che non esisterei se tu non fossi già in me? Io non sono ancora nell’altra vita, ma tu sei anche là; davvero, anche quando discenderò agli inferi, tu sei là!. Non esisterei, dunque, Dio mio, non esisterei affatto, se tu non fossi in me; o forse non esisterei se non fossi in te? Sta scritto infatti: ogni cosa esiste da lui, per lui, in lui. Sì, Signore, è così, proprio così! E allora, dove ti invito a venire, se io sono in te? E da dove dovresti venire per entrare in me? Bisognerebbe che mi ritirassi fuori del cielo e della terra, perché possa venire in me il mio Dio che ha detto: Io riempio il cielo e la terra.



    III.

    DIO E’ DOVUNQUE E NULLA LO CONTIENE


    Dunque, cielo e terra ti racchiudono poiché tu li riempi? O piuttosto tu li riempi e ne avanza, poiché essi non riescono a racchiuderti? E allora, dove riversi quello che di te, riempiti cielo e terra, sopravvanza? O forse non hai bisogno di essere contenuto da qualcuno, tu che contieni tutto, poiché ciò che riempi lo riempi proprio contenendolo? Non sono certo i vasi ripieni di te a renderti stabile, perché se anche essi si spezzano, tu non ti spandi; del resto, quando tu spandi su di noi, non sei tu ad abbassarti, ma siamo noi elevati a te; non disperdi qualcosa di te, ma, anzi, raccogli quanto c’è in noi.
    Ma tu, riempiendo ogni cosa, la riempi con tutto il tuo essere? O forse, poiché l’universo intero non può contenere tutto il tuo essere, ne conterrà solo una parte? E tutti gli esseri conterranno insieme una medesima parte, oppure ciascun essere ne conterrà una, gli esseri maggiori la parte maggiore, i minori la minore? Ma esistono in te parti maggiori e parti minori? Non è, invece, che tu sei dappertutto e nulla esiste che ti possa contenere interamente?



    IV.

    DIO E’ INESPRIMIBILE


    Che cosa sei, dunque, Dio mio? Dimmi, che cosa sei, se non il Signore Dio? Chi è infatti signore all’infuori del Signore, chi Dio all’infuori del nostro Dio? O altissimo, incommensurabilmente buono, potentissimo, anzi, onnipotente, misericordiosissimo e insieme giustissimo, a tutti nascosto eppure a tutti presente, tutto bellezza e tutto forza, sempre uguale a te stesso ma incomprensibile, immutabile che muti ogni cosa, mai nuovo e mai vecchio, innovatore di tutto, che rendi antiquati i superbi ed essi neanche se ne accorgono; sempre in attività e sempre nella quiete; raccogli e non ne hai bisogno; sorreggi, ricolmi e proteggi; crei, conservi e porti a perfezione; cerchi, benché non ti manchi nulla. Ami senza farti bruciare di passione, sei geloso e pur tranquillo; ti penti, ma senza soffrire; vai in collera e sei calmo; cambi le cose senza cambiare il tuo piano; ricuperi quello che trovi e che mai avevi perduto; non manchi mai di nulla, eppure gioisci nell’acquistare; mai avaro, eppure esigi gli interessi; ti si presta qualcosa, al fine di averti come debitore… per quanto, chi mai possiede qualcosa che non sia già tuo? Paghi ciò che devi, tu che non devi nulla a nessuno: non esigi tutto ciò che ti sarebbe dovuto, e non ci perdi nulla!
    Ma che cosa stiamo dicendo, Dio mio, vita mia, divina dolcezza? Che cosa mai riesce a dire chi vuol parlare di te? Eppure, guai a chi non vuol parlare di te, perché farebbe chiacchiere inutili.




    V.

    DESIDERIO DI DIO


    Chi mi darà la possibilità di riposare in te, di riceverti nel mio cuore perché tu lo inebrii, e io dimentichi la mia malvagità e abbracci te, unico mio bene? Che cosa sei per me? Aiutami, e potrò parlare. Che cosa sono io per te, perché tu voglia essere amato da me al punto che t’inquieti se non lo faccio, e mi minacci severamente? Come se non fosse già una grossa sventura il non amarti! Oh, dimmi, ti prego, Signore Dio mio misericordioso, che cosa sei per me! Dì alla mia anima: io sono la tua salvezza. Dillo, che io lo senta. Le orecchie del mio cuore, Signore, sono davanti a te; aprile e dì alla mia anima: io sono la tua salvezza. Rincorrerò questa voce e così ti raggiungerò; tu non nascondermi il tuo volto: che io muoia, per non morire e per contemplarlo.
    La casa della mia anima è troppo angusta perché tu possa entrarvi: dilatala tu; è in rovina: restaurala tu; contiene cose che ti ripugnano: lo so e non lo nego, ma chi può purificarla? E a chi se non a te griderò: Purificami, Signore, dalle mie colpe nascoste, e risparmia al tuo servo le colpe altrui. Credo, ed è per questo che parlo, Signore: tu lo sai. Non ti ho forse parlato contro di me delle mie colpe, Dio mio, e tu hai perdonato la malizia del mio cuore? Non discuto con te, che sei la verità, e non voglio ingannare me stesso: la mia malvagità può ben ingannarsi. Dunque non discuto con te, perché se esamini le colpe, Signore, chi potrà sostenere il tuo sguardo?.





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    VI.

    MISTERO DELLA NATURA UMANA E SUA FINITEZZA
    - DIO E’ ETERNO



    Eppure lascia che io parli davanti alla tua misericordia; sono terra e cenere, ma tu lasciami parlare, perché è alla tua misericordia, non ad un uomo pronto a deridermi, che io parlo. Forse anche tu riderai di me, ma poi mi guarderai e avrai misericordia. Cos’è infatti che voglio dire, Signore, se non che non so da dove son venuto qui, in questa vita mortale, o, magari, morte vitale? Non lo so. Ma sono stato accolto dal conforto delle tue misericordie: così mi hanno detto i miei genitori, colui dal quale mi hai tratto e colei nella quale mi hai formato nel tempo; io, infatti, non me ne ricordo. Mi hanno accolto, dunque, i conforti del latte materno; e non era mia madre né erano le mie nutrirci a riempirsi i seni, ma eri tu, Signore, che mi davi per mezzo loro l’alimento dell’infanzia, secondo il piano con cui hai disposto tu tutte le cose, fino alle minime. Facevi anche sì che io non desiderassi più di quanto mi davi, e che coloro che mi nutrivano mi dessero ciò che tu davi a loro; esse infatti mi davano volentieri, con affetto, di cui sovrabbondavano per grazia tua, e il bene che mi veniva da loro era un bene anche per loro: non da loro, in realtà, mi veniva, ma per loro tramite, perché ogni bene deriva da te, o Dio; dal mio Dio ogni salvezza! Di questo mi sono reso conto più tardi, quando me lo hai come gridato proprio attraverso i tuoi doni sia esteriori che interiori: allora ero capace soltanto di succhiare, di godere delle cose piacevoli e di piangere di quelle spiacevoli, nient’altro.
    Cominciai poi anche a ridere, prima nel sonno e poi da sveglio: queste cose mi sono state riferite, e vi ho creduto perché vediamo far così anche gli altri bambini: io certo non me lo ricordo. Ed ecco che a poco a poco cominciavo ad aver coscienza del luogo ove mi trovavo, e avevo voglia di manifestare i miei desideri a chi avrebbe potuto soddisfarli, ma non mi riusciva perché i desideri erano dentro di me, le persone invece erano al di fuori di me, e in nessun modo esse avrebbero potuto penetrare nel mio animo. E così mi dimenavo e strillavo, indicando in qualche modo quei miei desideri, così come potevo, cioè in maniera inadeguata. Se poi non ero ascoltato, o perché non mi si capiva o perché ciò che chiedevo mi sarebbe stato di danno, mi sdegnavo con i più grandi di me che non mi obbedivano e non mi servivano, e mi vendicavo piangendo. Così sono i bambini, e l’ho imparato conoscendoli: che così fui anch’io, infatti, me l’hanno insegnato meglio loro, inconsciamente, che non i miei consapevoli educatori.
    Ed ecco che la mia infanzia è morta da tempo, ed io vivo. Tu invece, Signore, sei sempre vivo e nulla di te muore, poiché prima che iniziassero i secoli ed ogni cosa, prima ancora che si potesse dire “prima”, tu sei, e sei il Dio e Signore di tutte le cose che da te sono state create; in te permangono stabili le cause di tutte le cose, permangono immutabili i principi di tutte le realtà mutevoli, permangono eterne le ragioni di tutto l’irrazionale e il temporale. Dimmi, dunque, ti supplico, o Dio, tu che hai misericordia della mia miseria, dimmi, la mia infanzia fu forse il seguito di un’altra mia età, allora già morta? Seguiva a quella esistenza trascorsa nelle viscere di mia madre, lo so: di ciò qualcosa m’è stato detto, e, del resto, io stesso ho visto donne gravide. Ma prima ancora di questa, o dolce mio Dio, esistetti da qualche parte, fui qualcuno? Non ho nessuno che mi sappia rispondere a queste domande; non me l’hanno saputo dire né mio padre né mia madre, né qualcuno che ne abbia fatto l’esperienza, né la mia memoria.
    Ma forse tu ridi di me che sto a chiedermi queste cose e forse mi chiedi di professare di te quello che so e di lodarti per questo! Ti rendo lode, Signore del cielo e della terra, ti rendo lode per la mia nascita e per la mia infanzia, di cui non ricordo nulla; tu hai dato all’uomo la possibilità di ricostruire queste cose osservando il comportamento altrui, e di crederne molte anche per la testimonianza di modeste donnette. Esistevo, ero vivo già allora, e già sul finire dell’infanzia cercavo i modi di manifestare agli altri i miei sentimenti. Un essere vivente fatto così, da dove può venire se non da te, Signore? Forse c’è qualcuno capace di farsi da solo? O c’è una qualche sorgente da cui sgorga a noi l’essere e la vita, che ha origine altrove e non in te che ci crei, Signore? Per te esistere e vivere non sono due realtà distinte, poiché sei insieme il sommo essere e la somma vita. Tu sei l’essere sommo e non muti; in te l’oggi non passa… eppure passa anche per te; perché anche tutta la realtà di questo mondo è in te: non avrebbe, infatti, dove passare se tu non la contenessi. E poiché i tuoi anni non vengono meno, essi sono l’oggi: quanti giorni nostri e dei nostri padri sono già passati attraverso il tuo oggi e da esso hanno ricevuto il loro modo d’esistere, e quanti ancora ne passeranno e riceveranno la loro esistenza! Tu invece sei sempre il medesimo, e tutte le cose di domani e di dopodomani e tutte le cose di ieri e dell’altro ieri, tu le farai oggi, le hai fatte oggi!
    Che cosa posso farci se qualcuno non capisce? Cerchi di rallegrarsi anch’egli mentre si chiede: che significa ciò?; si rallegri anche così, senza sapere di averti già trovato, anziché credendo di averti trovato, mentre non ti ha trovato affatto.






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    00 15/01/2011 11:25

    VII.

    AGOSTINO RICORDA I PECCATI
    DELLA SUA INFANZIA



    Ascolta, o Dio: guai ai peccati degli uomini! E dice questo un uomo di cui tu hai misericordia, perché hai creato lui, non il suo peccato. Chi mi ricorderà i peccati commessi nell’infanzia? Nessuno, infatti, dinanzi a te è immune da peccato, nemmeno il piccolo che ha appena un giorno di vita sulla terra!. Chi me li ricorderà, se non un qualsiasi piccino, nel quale vedo ciò che non ricordo di me? In che modo peccavo, dunque, allora? Forse perché cercavo avidamente i seni materni strillando? Se lo facessi oggi, buttandomi con altrettanta avidità non, naturalmente, sui seni materni, ma sugli alimenti adatti alla mia età, sarei giustamente deriso e rimproverato. Dunque commettevo già azioni riprovevoli, ma, poiché non avrei potuto capire chi mi rimproverava, non si usava rimproverarmi; ed era, del resto, cosa ragionevole. Infatti, questi difetti, si tende ad estirparli e ad eliminarli con il crescere dell’età, e non ho visto mai nessuno che, volendo far pulizia, gettasse via deliberatamente cose buone! O forse, tenuto conto dell’età, saranno da considerare buone anche le azioni di chiedere, strillando, cose di per sé dannose, di adirarsi con gli adulti non disposti a cedere e di rivoltarsi con tutta la violenza possibile contro i genitori o le altre persone adulte che non accettano di soddisfare certi desideri perché sanno che ciò sarebbe nocivo? Dunque i bambini non sono innocenti nell’anima; lo sono, semmai, in quanto sono ancora in formazione. Ho visto e osservato bene un bambino che soffriva di gelosia: non parlava ancora, e già guardava, pallido e accigliato, un suo coetaneo. Chi non sa queste cose? Le mamme e le nutrici dicono di saper eliminare questi difetti con non so quali rimedi; certo non è innocenza, trovandosi di fronte alla fonte generosa e abbondante del latte, non sopportare di condividerlo con un altro, pur bisognosissimo di quell’unico alimento per rimanere in vita. Eppure queste cose si tollerano con indulgenza, non perché si considerino di nessuna o di poca importanza, ma perché si pensa che spariranno con l’avanzare degli anni; tanto è vero che non si tollerano più quando le stesse cose sono fatte da una persona più avanzata in età.
    Tu, dunque, Signore Dio mio, che hai dato al bambino la vita e un corpo dotato, come ben si vede, di sensi, di membra, di armonia, e della capacità di difendere la propria incolumità, vuoi che ti lodi in tutto ciò e che celebri e canti il tuo nome, o Altissimo, perché sei Dio onnipotente e buono, anche se avessi fatto solo queste cose. Nessun altro, infatti, le può fare all’infuori di te, che sei l’unico da cui promana ogni norma, e il perfettissimo da cui ogni cosa riceve forma secondo leggi ben precise.
    Questa età, dunque, o Signore, che non ricordo di aver vissuto, intorno alla quale credo quello che mi dicono gli altri, e che ho ricostruito da quello che vedo negli altri bambini, quantunque queste supposizioni siano molto ben fondate, mi torna spiacevole considerarla parte integrante di questa mia vita che sto vivendo. In effetti, per il modo in cui l’ho completamente dimenticata, essa è sullo stesso piano di quella vissuta nell’utero di mia madre. Che se, per di più, sono stato concepito nel peccato e nel peccato mia madre mi ha allevato nel suo utero, dove mai, mio Dio, dove mai, e quando, Signore, io tuo servo sono stato innocente? Ma lasciamo da parte quell’età, dal momento che, non ricordando nulla, non ho ormai nulla in comune con essa!





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    00 17/01/2011 16:50

    VIII.

    COME COMINCIA A PARLARE




    Dall’infanzia, venendo avanti, giunsi alla fanciullezza, o meglio, la fanciullezza arrivò in me succedendo all’infanzia. Non è che quest’ultima se ne fosse andata: e dove poteva andare? E’ vero però che non c’era più. Non ero più, infatti, un bimbo senza capacità di parlare, ma un fanciullo chiacchierino: questo lo ricordo. Come abbia fatto a imparare a parlare, l’ho capito più tardi: non erano gli adulti che mi istruivano insegnandomi le parole secondo un metodo preciso, come fecero dopo qualche tempo per insegnarmi a leggere e scrivere; ma ero io stesso, con l’intelligenza che tu, o mio Dio, mi avevi data, che con piagnucolii, strilli e gesti vari cercavo di manifestare i sentimenti del mio cuore perché così si facesse quello che io volevo. Senonché non riuscivo a farmi intendere in tutto e da tutti. Cercavo di ricordare: quando gli altri chiamavano una cosa con un nome e poi si movevano verso la cosa che evidentemente essi avevano inteso designare, osservavo e m’imprimevo nella memoria che quella determinata cosa era da loro chiamata in un determinato modo quando volevano designarla. Che intendessero quella cosa risultava dai movimenti del corpo, linguaggio per così dire naturale, comune a tutti i popoli e che si manifesta con l’espressione del volto, con i movimenti degli occhi, con i gesti delle altre membra, e con i suoni di voce indicanti i moti di un animo che chiede quella data cosa, oppure già la possiede, oppure la rifiuta e la sfugge. Così pian piano riuscivo a mettere in rapporto quelle parole, udite frequentemente e sempre allo stesso posto nella varietà delle frasi, con le cose che designavano, e già cominciavo ad adattare la bocca a quei suoni, così da esprimere anch’io i miei desideri. Presi dunque a comunicare con chi mi stava intorno i segni che esprimevano i vari desideri: e avanzavo così nella vita addentrandomi nel turbine delle relazioni sociali, sotto l’autorità dei genitori e dei più grandi di me.




    IX.

    NON E’ INTERESSATO ALLO STUDIO,
    GLI EDUCATORI LO PERCUOTONO
    E LO DERIDONO



    Dio, Dio mio, quali sofferenze e inganni ho subito, allorché mi si proponeva, per essere un ragazzo perbene, di obbedire a chi mi addestrava nell’arte della loquela, necessaria per raggiungere il successo umano e le false ricchezze! Fui mandato a scuola per imparare le lettere; che utilità mi venisse dal farlo, io, poverino, non lo sapevo; ma se mi mostravo pigro, ero punito con la bacchetta. Tale sistema veniva raccomandato dai grandi, e molti che prima di noi avevano subito questa stessa situazione avevano aperto la difficile strada attraverso la quale ora eravamo costretti a passare noi, moltiplicando le fatiche e i dolori dei figli di Adamo. Abbiamo trovato però, o Signore, anche uomini di preghiera e da loro abbiamo capito, per quanto ci riusciva, che tu esisti, che sei un essere grande, capace di ascoltarci e di aiutarci, anche se non sei percepibile dai nostri sensi. Così fin da fanciullo ho cominciato a pregare te, mio soccorso e mio rifugio, e per invocarti andavo sciogliendo la mia lingua: ero piccolo, ma non era piccolo il fervore con cui ti scongiuravo di farmi evitare d’essere picchiato a scuola. E quando non mi esaudivi, il che avveniva per il mio bene, non per tua mancanza di saggezza, gli adulti e persino i miei genitori, che certamente non volevano che mi accadesse alcun male, ridevano delle bacchettate; eppure esse erano allora la mia grande e profonda sofferenza.
    Esiste qualcuno, Signore, di animo così grande, e unito a te da uno straordinario affetto, esiste, dico, qualcuno che, unito a te, sia così rapito nell’estasi (in realtà può essere anche effetto di una certa pazzia) da ritenere un nulla i cavalletti, gli aculei e altre torture simili dalle quali tutti, atterriti, ti scongiurano, di poter essere risparmiati, e che nello stesso tempo voglia bene a coloro che temono così tanto quelle cose? Ebbene, i nostri genitori ridevano tranquillamente dei castighi che ci infliggevano i maestri; eppure noi temevamo quei castighi non meno di quelle torture, né ti pregavamo d’evitarli con minor fervore che se si fosse trattato di quelle. Tant’è, continuavamo a commettere mancanze, scrivendo, leggendo e studiando meno di quanto si esigeva da noi. Non è che ci mancasse la memoria o l’intelligenza, che anzi, Signore, ce ne avevi data a sufficienza per l’età che avevamo. Il fatto è che ci piaceva di più divertirci, e di ciò venivamo puniti da chi poi faceva altrettanto! Ma i passatempi degli adulti vengono chiamati affari, mentre quelli dei fanciulli, quantunque simili, vengono puniti. Eppure nessuno compiange i fanciulli, o gli adulti, o, magari, entrambi. Forse un giudice giusto approverebbe chi mi percuoteva perché da bambino giocavo alla palla, e ciò mi impediva di imparare presto quelle lezioni grazie alle quali, da grande, avrei dovuto divertirmi in modo ben peggiore! Ma chi mi castigava con percosse si comportava forse diversamente? Se fosse stato superato da un collega d’insegnamento in una qualsiasi futile discussione si sarebbe roso dalla bile e dall’invidia più di me quando nella partita a palla subivo una sconfitta da un mio compagno di giochi!




    X.

    PREFERISCE IL GIOCO E IL TEATRO
    ALLO STUDIO




    E tuttavia è vero che io peccavo, Signore Dio mio, ordinatore e creatore di tutte le cose esistenti in natura, ad eccezione dei peccati, dei quali sei solo ordinatore. Peccavo, Signore, Dio mio, agendo contro le disposizioni dei genitori e dei maestri: più tardi, infatti, avrei potuto giovarmi di quelle nozioni che essi volevano che io apprendessi, qualunque sia stato il motivo per cui lo facevano. D’altra parte io disobbedivo non perché volevo fare qualcosa di meglio, ma perché mi piaceva giocare, e nel gioco andavo pazzo per le vittorie, nonché per le fiabe irreali che mi venivano sussurrate all’orecchio e che mi davano un certo gusto. Divenivo poi sempre più curioso nei riguardi degli spettacoli; essi non sono altro che giochi da adulti, e tuttavia danno lustro e onore tale a chi li organizza, da indurre molti a desiderare simili giochi per i loro figli: né si preoccupavano se i figli, distratti dall’attività teatrale, saranno puniti con percosse per aver trascurato lo studio; quello studio mediante il quale essi spererebbero di farne uomini del teatro. Guarda, Signore, a tutte queste cose con misericordia, e liberaci da esse: libera noi che te lo chiediamo, ma libera anche quelli che ancora non lo fanno, affinché lo facciano e siano liberati.





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    00 24/01/2011 17:41

    XI.

    DIFFERIMENTO DEL BATTESIMO


    Ancora fanciullo, avevo sentito parlare della terra promessa a noi grazie all’umiltà del Signore Dio nostro che si è voluto abbassare sino alla nostra superbia. Ero appena uscito dal seno di mia madre, di colei che pose ogni sua speranza in te, e già mi segnavano col segno della sua croce e mi davano il suo sale. Tu hai visto, Signore, quando un giorno, ancora fanciullo, per una disfunzione di stomaco ero febbricitante e sembrava che stessi per morire; ha visto, o Dio che già allora mi custodivi amorosamente, con quale spontaneità e con quale fede io chiedevo alla devota mia madre e alla madre di tutti noi, la tua Chiesa, il Battesimo del tuo Cristo, mio Dio e Signore. La mia madre carnale era sconvolta, e poiché nel suo animo ricco di fede le stava più a cuore partorire la mia eterna salvezza, si dava d’attorno perché io fossi presto iniziato ai Sacramenti che salvano e fossi purificato facendo atto di fede in te, Signore Gesù, per ottenere la remissione dei peccati. Senonché imprevedibilmente mi ristabilii. E allora quella mia purificazione fu rimandata, come se fosse inevitabile che, vivendo, mi dovessi ancora contaminare; certo, dopo quel lavacro, un eventuale peccato sarebbe stato più grave e più pericoloso. Dunque, io già avevo la fede, come del resto mia madre e tutta la mia famiglia, eccettuato mio padre. Questi però non influì su di me più dell’amore materno, e non m’indusse a non credere in Cristo come lui. La mamma, infatti, si adoperava a far sì che mi fossi padre tu, Dio mio, più di lui; e tu la aiutavi a prevalere sullo sposo al quale, benché fosse più virtuosa di lui, ella era devota: in lui ella serviva te, che vuoi così.
    Ti prego, Dio mio, vorrei sapere, se me lo consenti, per quale disegno fu deciso di differire allora il mio Battesimo: fu per il mio bene che a me, peccatore, si lasciarono le briglie sul collo, oppure sarebbe stato meglio il contrario? E’ un fatto che da ogni parte si sente ancora oggi dire di questo e di quello: “Lascia pure che faccia: non è stato ancora battezzato!”. Eppure, per quanto riguarda la salute del corpo, non diciamo: “Lascia che si ferisca ancora; non è ancora guarito!”. Quanto, dunque, sarebbe stato meglio per me guarire subito e adoperarmi, io e i miei, per mettere la mia anima al sicuro nelle tue mani: tu l’avresti ben accolta! Sì, sarebbe stato molto meglio. Ma quante e quanto minacciose ondate di tentazioni si intravedevano già dopo la mia fanciullezza! Quella madre le conosceva, e preferì abbandonare ad esse la creta dalla quale mi sarei poi formato, che non la mia immagine già bell’e compiuta.




    XII.

    DIO RICAVA IL BENE ANCHE DAL MALE


    Ci si preoccupava meno per la mia fanciullezza che non per la mia adolescenza. Eppure, io già allora non amavo lo studio, e detestavo il fatto di esservi costretto; tuttavia vi ero costretto, e per il mio bene. Ma io non ne ricavavo del bene, perché studiavo proprio solo in quanto costretto. Nessuno fa del bene per forza, anche se ciò che fa è una cosa buona. E chi mi costringeva non faceva del bene: il bene mi veniva solo da te, mio Dio. Essi, infatti non vedevano altro fine allo studio che mi costringevano a fare, se non quello di appagare inappagabili desideri di povere ricchezze e di disonoranti onori. Tu, invece, che conosci persino il numero dei nostri capelli, sapevi servirti, a mio vantaggio, anche dell’errore di tutti coloro che insistevano perché studiassi, e ti servivi dell’errore mio, che non ne avevo voglia, per punirmi: non è infatti che io non meritassi castighi, piccino com’ero, eppure così grande peccatore! Dunque, da chi non faceva il bene tu ricavavi del bene per me, e da me che facevo il male traevi motivi per rendermi quel che meritavo. Hai stabilito, infatti, ed effettivamente avviene, che ogni disordine sia pena a se stesso.





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    00 29/01/2011 18:11

    XIII

    UTILITA’ DELLO STUDIO


    Per quale motivo, poi, io odiassi lo studio del greco che mi si voleva insegnare, non lo so bene neanche adesso. Avevo preso invece ad amare il latino, ma non quello che si deve studiare all’inizio, bensì quello che s’impara poi dai cosiddetti grammatici. Le prime lezioni, infatti, in cui s’impara a leggere, scrivere e contare mi erano pesanti e penose non meno di tutto lo studio del greco. Che cosa era dovuto questo se non al peccato e alla vanità della vita che mi rendevano carne e soffio che passa e non ritorna?
    In realtà quei primi studi, grazie ai quali diventavo e sono diventato capace di leggere ciò che trovo scritto, e di scrivere io stesso quello che voglio, erano di molto maggior valore, in quanto più fondati di quelli per i quali dovevo ricordare il vagabondare di un certo qual Enea, dimenticando i vagabondaggi miei, e il piangere di Didone uccisasi per amore lasciandomi morire io stesso a te, o Dio vita mia, senza versare una lacrima, miserabile. Che cosa c’è, infatti, di più misero di un miserabile che non commisera se stesso e che sta a piangere la morte di Didone, che avveniva per amore di Enea, mentre non piange sulla morte propria, che avveniva per mancanza di amore verso di te, Dio luce della mia mente, alimento interiore della mia anima, virtù fecondatrice della mia intelligenza e generatrice del mio pensiero? Non ti amavo e fornicavo lontano da te mentre mi risuonava d’intorno il plauso di tutti; amare, infatti, questo mondo è fornicazione e ad essa si plaude al punto che chi non fa così prova vergogna. Ebbene, io non piangevo queste cose, ma piangevo Didone morta per aver volutamente cercare la fine con l’arma, mentre anch’io perseguivo le infime cose del creato abbandonando te: ero terra che si abbassava verso la terra.
    E se mi si proibiva di leggere quelle cose, soffrivo di non poter leggere cose di cui soffrire! Deliri di questo genere sono ritenuti studi più nobili e più utili di quelli grazie ai quali imparai a leggere e scrivere.
    Gridi, o mio Dio, nella mia anima la tua verità, e mi dica: non è così, non è così! Sono molto più importanti quei primi studi! Ora, infatti, sono molto più disposto a dimenticare le vicende di Enea, e tutte le altre cose di quel genere, che non lo scrivere e il leggere. Pendono alcune tende sulle porte delle scuole di grammatica, ma esse servono più a coprire gli errori che vi si commettono che non a indicare l’importanza del raccoglimento… E nessuno protesti, perché tanto non li temo più! Io ti svelo le intime aspirazioni dell’anima mia, o mio Dio, e provo sollievo nel condannare le mie vie perverse per amare invece le vie tue che sono rette. Non protestino i mercanti di grammatica, perché se domandassi loro se è vero quanto dice il poeta, che cioè Enea venne un giorno a Cartagine, i meno eruditi risponderebbero di non saperlo, i più dotti lo negherebbero semplicemente; ma se domandassi con quali lettere si scrive il nome di Enea, tutti coloro che hanno appreso a scrivere mi risponderebbero il giusto nei modi secondo i quali gli uomini hanno convenuto di fissare tra loro questi segni. Così, se domandassi che cosa è più dannoso dimenticare nella vita, leggere e scrivere o le immaginose composizioni poetiche, chiunque sa che cosa risponderebbe chi non è completamente impazzito. Dunque, io da fanciullo peccavo quando amavo di più quelle cose vacue che non queste realtà pur molto utili, o piuttosto quando semplicemente detestavo queste e amavo quelle. Uno più uno due, due più due quattro… era per me una cantilena odiosa, mentre era uno spettacolo piacevolissimo, anche se vano, il cavallo di legno pieno di armati, l’incendio di Troia e l’ombra di lei, Creusa.




    XIV

    LO STUDIO DELLA LINGUA
    E DELLA LETTERATURA GRECA


    Ma perché detestavo le lettere greche, ove si cantano temi analoghi? Anche Omero, infatti, è abile nel tessere tavolette simili, ed è tanto dolce quanto vacuo: eppure, per me fanciullo, era amaro. Credo sia così anche Virgilio per i fanciulli greci quando sono costretti a impararlo, come era per me Omero. Era proprio la difficoltà di apprendere una lingua straniera che, per così dire, aspergeva di fiele tutte le dolcezze di quelle fantasiose narrazioni greche; non ne conoscevo neanche una parola e mi si sforzava, perché le imparassi, con minacce e castighi paurosi. Da bambino, prima, non conoscevo nulla, neanche di latino; eppure, con un po’ d’attenzione, l’imparai senza l’incubo di punizioni, anzi fra le affettuosità delle nutrici e fra sorrisi e giochi. L’imparai senza il timore di castighi essendo il mio stesso cuore che mi spingeva a esprimere i suoi pensieri; non ci sarei riuscito se non avessi imparato qualche parola, non tanto da chi insegnava quanto da chi semplicemente parlava: nelle sue orecchie io deponevo i miei sentimenti.
    E’ abbastanza chiaro, dunque, che per imparare è un movente più efficace la libera curiosità che non la continua costrizione; e tuttavia questa ha il compito di contenere quella dentro le tue leggi, o Dio. Le tue leggi, dalle verghe dei maestri alle torture dei martiri, sono tali da apprestare sofferenze salutari, richiamandoci a te da quei piaceri velenosi che da te ci avevano allontanato.




    XV

    OFFERTA DI TUTTO A DIO


    Ascolta, Signore, la mia preghiera: che io non ceda sotto il peso della tua legge, né mi stanchi di riconoscere le tue azioni misericordiose, grazie alle quali mi ritraesti dalle mie cattive strade; che io ti trovi più attraente di tutte quelle seduzioni che mi attraevano prima, e ti ami tantissimo, e stringa la tua mano in tutta intimità; liberami da ogni tentazione, sino alla fine.
    Tu, o Signore, sei il mio re e il mio Dio; voglio che tutto ciò di utile che ho imparato da fanciullo sia messo al tuo servizio: la mia capacità di parlare, di scrivere, di leggere, di contare. Mentre, infatti, imparavo cose di per sé vane, tu mi davi una disciplina e mi hai perdonato i piaceri colpevoli che cercavo in quelle cose. E’ vero che in esse ho imparato molti vocaboli utili, ma essi si possono apprendere anche in cose non così vacue: e questa sarebbe la via più sicura in cui far camminare i fanciulli.






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    00 08/02/2011 15:13

    XVI

    LETTERATURA
    E MITOLOGIA CORRUTTRICI



    Ma guai a te, torrente delle mode umane!
    Chi potrà resisterti? Quando finalmente ti prosciugherai? Fino a quando continuerai a trascinare i figli di Eva nel vasto, spaventoso mare che riesce appena a superare chi si trova sul legno?
    Non ho forse letto che fra le tue onde Giove tuonava e commetteva adulteri? Non è possibile che egli facesse insieme queste due cose, eppure gli si fecero fare al fine di avere, col lenocinio di tuoni che erano frutto di fantasia, l’autorizzazione ad imitare un adulterio reale.
    Ma c’è qualche paludato maestro che rimane calmo nell’ascoltare un collega che proclama: Queste cose se le è inventate Omero: egli attribuiva agli dei qualità umane; io però preferirei che avesse trasferito quelle divine in noi? E sarebbe più esatto dire che egli, inventando queste cose, attribuiva qualità divine a uomini viziosi affinché i vizi non fossero considerati tali, e chi commetteva quelle colpe si convincesse di imitare non già uomini corrotti, ma divinità celesti.
    Eppure, o fiume infernale, i figli degli uomini sono gettati fra le tue onde, e per di più si paga perché imparino tutte queste nozioni! La cosa poi diventa importante, quando la si compie in pubblico, nella piazza principale della città, col benestare della legge, che anzi stabilisce compensi e salari. Tu, col rumore delle tue onde che s’infrangono sui sassi, sembri dire: “Qui s’imparano le parole, qui si acquista l’eloquenza indispensabile per persuadere gli altri e per esprimere il proprio pensiero”. E veramente noi non conosceremmo le parole “pioggia aurea”, “grembo”, “trucco”, “templi del cielo”, e le altre che sono scritte là, se Terenzio non avesse messo in scena un giovanetto vizioso che si propone come esempio di stupro il comportamento di Giove, guardandolo dipinto su una parete dove era questo disegno: Giove che, secondo il racconto si trucca da donna per raggiungere Danae e farle cadere in grembo una pioggia aurea. E guarda come egli si eccita dietro l’autorevole esempio celeste: Che Dio! – dice – egli sconquassa i templi del cielo con grande fragore: ed io, semplice mortale, non dovrei fare quelle cose? E invece le ho fatte e sono contento. Non è affatto vero che è attraverso queste volgarità che s’imparano meglio certe parole; semmai, è attraverso quelle parole che si compiono più tranquillamente certe azioni disoneste. Non faccio colpa alle parole, che chiamerei vasi eletti e preziosi, ma al vino dell’errore che ci veniva in esse propinato da maestri ubriachi; e se non lo bevevamo, venivamo picchiati senza poterci appellare a un giudice giusto. Eppure io, o mio Dio dinanzi al quale rievoco ormai serenamente questi ricordi, imparavo volentieri quelle cose e mi piacevano: povero me! Proprio per questo mi si riteneva un ragazzo di belle speranze!




    XVII

    INTELLIGENZA SPRECATA IN COSE VANE



    Permetti, o mio Dio, che io parli un po’ anche della mia intelligenza, dono tuo che io sprecavo in quali vaneggiamenti! Mi si assegnava come compito, cui ero stimolato da premi allettanti e dal timore di castighi disonoranti e dolorosi, quello di riferire le parole di Giunone stizzita e penata per non poter tenere lontano dall’Italia i re dei Teucri, parole che mai avevo sentito dire da Giunone; ma eravamo costretti a perderci dietro a queste fantasie poetiche, e a riferire con parole nostre le cose che il poeta aveva detto in versi. Ed era elogiato di più chi sapeva mettere in evidenza nel modo più verosimile i sentimenti d’ira e di dolore che si addicevano ai vari personaggi rappresentati e sapeva rivestire le espressioni con le parole più adatte. A che cosa mi servì, o Dio mio, vera vita, che le mie declamazioni venissero applaudite più di quelle di molti miei coetanei e condiscepoli? Non è stato tutto fumo e vento? Non c’erano proprio altri argomenti in cui far esercitare la mia intelligenza e la mia lingua? Le tue lodi, o Signore, le tue lodi che sono nelle tue Scritture, avrebbero ben sorretto il tralcio del mio cuore, così da non farne preda di sconci uccellacci che lo portano via nel vuoto delle cose vane. Ci sono, in effetti, molti modi di offrire sacrifici agli angeli ribelli!




    XVIII

    E’ PIU’ GRAVE UN ERRORE DI GRAMMATICA
    O UNA COLPA CONTRO UN UOMO?



    Ma che cosa c’è di strano se io mi lasciavo trascinare da cose vane e così me ne andavo lontano da te, Dio mio? Mi venivano infatti proposti a modello uomini che, se rimproverati perché nell’esporre temi innocenti avevano pronunciato un barbarismo o un solecismo, rimanevano molto male, ed erano invece molto inorgogliti se elogiati per aver narrato le loro disonestà con eloquio abbondante e forbito, e usando le parole più proprie. Tu vedi queste cose, Signore, e taci, longanime, misericordioso e veritiero. Ma forse che tacerai sempre? E ora tu trai fuori da questo baratro immane l’anima che cerca te ed è assetata delle gioie che vengono da te, e il cui cuore ti dice: Ho cercato il tuo volto, Signore, e sempre lo cercherò; lontano dal tuo volto, infatti, si cade nelle passioni più tenebrose. Non si va lontano da te camminando a piedi o attraversando spazi, né in questo modo a te si ritorna; forse che quel tuo figlio secondogenito cercò cavalli, carri, navi e volò via su penne invisibili? Ma neppure con un reale movimento delle gambe egli intraprese quel viaggio, quando andò in regioni lontane a dissipare prodigalmente ciò che gli avevi dato alla partenza, padre amabile nel momento in cui gli facevi quei doni, più amabile ancora quando egli tornò povero! Basta infatti vivere nelle passioni, cioè nelle tenebre, per essere lontano dal tuo volto.
    Guarda, o Signore Dio, guarda con pazienza come sono diligenti i figli degli uomini nell’osservare le regole della grammatica ereditate da chi ha usato le parole prima di loro, e come sono negligenti nei riguardi del patto eterno di eterna salvezza ricevuto da te! Al punto che se uno di quelli che conoscono e insegnano le antiche convenzioni grammaticali le trasgredisce pronunciando la parola omo senza aspirare la prima sillaba, fa più dispiacere che se non trasgredisce la tua legge odiando gli uomini suoi simili. Come se si avesse da temere di più un nemico che non l’odio stesso che lo fa nemico, oppure si potesse rovinare di più un altro perseguitandolo, che non se stessi coltivando nel cuore l’inimicizia. In realtà non sono impresse più profondamente in noi le regole della grammatica che la legge della coscienza, la quale c’impone di non fare agli altri ciò che non vogliamo subire noi.
    Quanto è grande il tuo mistero! Tu abiti nei silenzi dei cieli più alti, Dio solo grande, che instancabilmente colpisci con la pena della cecità le passioni illecite. Ecco che l’uomo, desideroso della gloria che viene dall’eloquenza, dinanzi al giudice che è un altro uomo, al cospetto di molti altri uomini, perseguendo con odio e accanimento il proprio nemico, evita attentissimamente di commettere un errore di pronuncia badando a non dire inter omines, ma non fa caso se nel suo furore sta eliminando un uomo dal consorzio degli uomini!




    XIX

    PRIMI PECCATI DELLA FANCIULLEZZA



    Mi trovavo, povero ragazzo, alle soglie di una simile impostazione di vita; la mia educazione avveniva in modo tale che temevo più di commettere un barbarismo che non di essere geloso verso chi non ne commetteva. Dico e confesso a te, Dio mio, queste cose, per le quali ero allora lodato da coloro il cui compiacimento era per me il massimo onore. E non vedevo il baratro di vergogna nel quale mi ero gettato lontano dai tuoi occhi; dinanzi a te che cosa c’era ormai di più indegno di me? Facevo ormai dispiacere anche a costoro, per le innumerevoli menzogne con cui cercavo di imbrogliare pedagoghi, maestri e genitori a causa del gioco, della mia passione per gli spettacoli leggeri e della smania d’imitare gli attori. Commettevo anche furti ai danni della dispensa e della tavola dei miei genitori, o per gola o per aver qualcosa onde pagare i compagni di gioco, i quali peraltro si divertivano come me. Spesso nel gioco carpivo vittorie anche con la frode, vinto dalla vana bramosia di eccellere sugli altri. Eppure, se c’era una cosa che non potevo sopportare e che, se scoprivo, rimproveravo aspramente, era proprio che gli altri facessero altrettanto! Se però venivo scoperto e rimproverato io, andavo su tutte le furie piuttosto che riconoscermi colpevole.
    E questa sarebbe l’innocenza dei fanciulli? Non la è, Signore, non la è, Dio mio! Sono infatti queste stesse cose che, da imbroglio ai pedagoghi e ai maestri, da furto di noci, palline e passeri, si trasformano, col passare a età più matura, in imbrogli ai governanti e ai re, in furto di oro, di poderi, di schiavi, così come i castighi con la bacchetta diventano supplizi ben più gravi. Dunque, o nostro re, quando hai detto: di costoro è il regno dei cieli, intendevi esaltare nella fanciullezza soltanto il simbolo dell’umiltà.




    XX

    TUTTO E’ DONO DI DIO



    Tuttavia, o Signore, grazie a te, che sei il supremo e santissimo creatore e governatore di tutto; grazie, anche se mi avessi voluto soltanto fanciullo, perché anche allora già esistevo, vivevo, usavo dei miei sensi, avevo cura della incolumità del mio essere, immagine della misteriosissima tua Unità da cui provenivo; già allora avevo cura di tutti i miei sensi e, con riflessioni modeste su piccole cose, già godevo della verità. Non sopportavo di essere ingannato, avevo una buona memoria, ero loquace, sensibile all’amicizia; rifuggivo dalle sofferenze, dalle umiliazioni, dall’ignoranza. In un essere simile, che cosa mancava di ammirevole e degno di lode? Ma tutte quelle cose sono doni del mio Dio, non me le sono date da me stesso: sono beni, e, tutte insieme, costituiscono il mio io.
    Dunque è buono colui che mi ha fatto, anzi è il mio stesso bene, e io gioisco di tutti i suoi beni dei quali anche da fanciullo era fatta la mia esistenza. In questo io peccavo, nel fatto di cercare non in lui, ma nelle sue creature, e cioè in me stesso e negli altri, i piaceri, gli onori, le verità: e così incappavo in sofferenze, umiliazioni, errori. Ti ringrazio, mia dolcezza, mio vanto, mia fiducia, ti ringrazio, Dio mio, per i tuoi doni; ma tu conservameli. Così conserverai anche me, e le cose che mi hai donato cresceranno e si perfezioneranno, e io stesso vivrò, perché è tuo dono anche la possibilità di esistere.






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    00 14/02/2011 15:31

    LIBRO SECONDO

    A sedici anni



    I

    PERCHE’ AGOSTINO RICORDA LE SUE COLPE



    Voglio ricordare le mie colpe passate, le contaminazioni della mia anima, non perché le amo, ma perché voglio amare te, Dio mio. Lo faccio per amore del tuo amore, rievocando le mie vecchie strade perverse. Il ricordo è amaro, ma spero di sentire la dolcezza tua, dolcezza che non inganna, felice e sicura, e voglio ricompormi in unità dopo le lacerazioni interiori subite quando, allontanatomi da te, che sei l’Uno, mi persi in tante vanità.
    Nell’adolescenza bramavo saziarmi delle cose più vili ed ebbi il coraggio di avvilirmi in diversi, oscuri amori; la mia bellezza si guastò, e ai tuoi occhi ero come in putrefazione, mentre piacevo a me stesso e cercavo di piacere agli occhi degli uomini.





    II

    BISOGNO DI AMORE
    E SURROGATI ILLUSORI DELL’AMORE



    Non c’era altro allora che mi piacesse di più che amare ed essere amato, ma non sapevo stare nella misura, in quei luminosi confini dell’amicizia che legano anima ad anima. Dal fango della concupiscenza carnale e dalla natura stessa della pubertà salivano nebbie che offuscavano il mio cuore, così che non distinguevo più un amore sereno da una oscura passione. Ribolliva tutto confusamente, E quell’età così delicata veniva trascinata per i dirupi delle passioni e sommersa nel gorgo dei vizi.
    La tua collera si era ormai addensata su di me, e io non me ne accorgevo. Era come se le catene che ogni schiavo della morte sembra trascinare in punizione della superbia umana mi assordassero con il loro fragore, così che mi allontanavo sempre più da te; e tu mi lasciavi andare. Io mi agitavo, mi dissipavo, bruciavo tra le passioni della carne; e tu tacevi. O mia Gioia, troppo tardi raggiunta! Allora tu tacevi, e io me ne andavo sempre più distante da te, verso cause di inutile sofferenza sempre maggiori, superbo nell’abiezione e soddisfatto nei tormenti.
    Chi avrebbe potuto lenire i miei affanni, volgere in bene le attrattive fugaci di creature ignobili, dare uno scopo ai piaceri che in esse godevo, così che gli ardori dell’età, se non potevano lasciarmi tranquillo, si sfogassero approdando al matrimonio, e restando entro i limiti della procreazione della prole, come vuole la tua legge, Signore? Tu poni regole anche alla nostra morte, e hai potere di smussare, con un tocco leggero di mano, le punte delle spine riservate all’uomo cacciato dal tuo paradiso. La tua onnipotenza, infatti, non è lontana da noi neanche quando noi siamo lontani da te. Avrei dovuto ascoltare più attentamente la voce delle tue nubi: chi sceglie questo tipo di vita soffrirà le tribolazioni della carne; e io vorrei risparmiarvele; e poi: è bene per l’uomo non aver rapporti con donna; e ancora: chi non è sposato pensa alle cose di Dio, come piacere a lui; chi invece è sposato pensa alle cose del mondo, come piacere alla moglie. Avrei potuto stare attento ad ascoltare queste voci, e, fatto eunuco per il regno dei cieli, attendere più gioiosamente all’unione intima con te.
    E invece ribollivo, miseramente, insegnando l’impeto del mio istinto e, abbandonando te, eccedetti ogni limite imposto dalle tue leggi. Naturalmente non evitai i tuoi castighi: e chi dei mortali lo potrebbe? Tu infatti eri sempre presente con sofferenze, frutto di misericordia, e cospargevi di profonda ripugnanza tutti i miei piaceri illeciti perché mi decidessi a ricercare i modi di gioire senza ripugnanza. Se mi fossi deciso, non avrei trovato che te, Signore, te che crei il dolore e ne fai un educatore, colpisci per sanare e uccidi per non lasciare morire lontano da te.
    Dov’ero, in quale esilio mi trovavo, lontano dai piaceri della tua casa, quando avevo sedici anni? Fui completamente dominato dalla follia della libidine, a cui mi diedi senza riserve; follia lecita per la falsa onorabilità degli uomini, ma illecita per le tue leggi. I miei non si preoccuparono di trattenermi sulla china indirizzandomi al matrimonio; si preoccuparono soltanto che imparassi ad essere bravo nel fare discorsi, ad essere persuasivo con le belle parole.




    III

    L’OZIO
    FAVORISCE LO SCATENARSI DELLE PASSIONI



    In quell’anno, però, i miei studi erano stati interrotti, perché, richiamato dalla vicina città di Madaura dove prima ero stato trasferito per imparare letteratura ed eloquenza, ora ci si preparava a sostenere la spesa di un mio trasferimento più lontano, a Cartagine. Più che i mezzi, era l’ambizione a spingere mio padre, modesto cittadino del municipio di Tagaste, a far questo.
    Ma a chi racconto queste cose? Certo non a te, mio Dio; ma, dinanzi a te, le racconto ai miei simili, al genere umano, anche se ad una minima parte di esso potrà capitare di imbattersi in questi miei scritti. E a che scopo? Allo scopo che io e chiunque leggerà riflettiamo da quale profondo abisso dobbiamo lanciare a te il nostro grido. E che cos’è più vicino alle tue orecchie di un cuore che confessa e di una vita che si è fatta di fede?
    Tutti allora elogiavano molto mio padre, un uomo che spendeva più di quanto non permettesse il patrimonio familiare per non far mancare a suo figlio nulla di quello che è necessario per studiare lontano da casa. Molti altri cittadini ben più ricchi di lui non si preoccupavano così tanto per i loro figli. Ma, d’altra parte, mio padre stesso non si preoccupava poi di sapere come stavo crescendo al tuo cospetto, o Dio, e se ero casto: bastava che possedessi una bella loquela; in realtà ero privo della tua scienza, o Dio che sei l’unico vero e buon padrone del tuo campo, il mio cuore.
    Ma quando, proprio in quel mio sedicesimo anno di età, mi trovai per un certo tempo in vacanza dalla scuola presso i genitori, a causa di problemi economici familiari, i rovi delle passioni crebbero fin oltre il mio capo, e non c’era una mano che cercasse di sradicarli. Anzi, mio padre, quando un giorno mi vide al bagno, nel pieno della mia pubertà, con le caratteristiche dell’erompente adolescenza, forse già pregustando la gioia dei nipoti che gli avrei potuto dare, tutto contento lo riferì a mia madre, contento in quella ebbrezza nella quale questo mondo ha dimenticato te suo creatore per amare al posto tuo la tua creatura, ebbrezza dovuta al vino invisibile di una volontà pervertita, tendente al basso.
    Però nel cuore di mia madre avevi cominciato ad erigere il tuo tempio, a gettare le fondamenta della tua santa dimora. Mio padre, infatti, era ancora soltanto catecumeno, e da poco tempo. Ella dunque trasalì, presa da pia trepidazione e timore, e, sebbene io non fossi ancora battezzato, ebbe paura che io m’incamminassi per vie sbagliate, quelle nelle quali cammina chi volge a te le spalle e non il volto.
    Oh, come posso avere il coraggio di dire che tu tacevi, mio Dio, mentre io mi allontanavo da te? E’ proprio vero che tu allora tacevi con me? E di chi erano, se non tue, quelle parole che mi facevi risuonare alle orecchie per mezzo di mia madre, tua serva fedele? Nessuna di esse, però, mi scese nel cuore così che io la mettessi in pratica. Ella mi chiedeva (e porto dentro di me intatto il ricordo dei suoi ammonimenti colmi di preoccupazione) di evitare la fornicazione, e specialmente l’adulterio con le mogli altrui. Ma a me sembrava trattarsi di predicozzi da connette, e consideravo una debolezza prestarvi ascolto. Essi invece mi giungevano da te, e io non lo sapevo; ero convinto che tu tacessi e a parlare fosse lei, mentre per mezzo di lei tu non tacevi e in lei eri tu a venire da me disprezzato, da me, figlio suo, figlio della tua serva e servo tuo. Io non lo sapevo, e scivolavo sempre più in basso così ciecamente da vergognarmi in mezzo ai miei coetanei per essere meno spudorato di loro: li sentivo tanto più vantarsi delle loro dissolutezze, quanto più gravi erano, e mi piaceva fare altrettanto non solo per la cosa in sé, ma anche per il vanto che avrei potuto menarne.
    Niente è degno di disprezzo quanto il vizio; eppure io, per non essere oggetto di disprezzo, mi c’immergevo sempre più, e quando non potevo vantarmi di aver compiuto una qualche azione che emulasse i miei compagni di perdizione, raccontavo di averla compiuta per non sembrare tanto più spregevole quanto più ero innocente, e per non essere giudicato tanto più debole quanto più ero casto.
    Ecco con quali compagni mi aggiravo per le piazze di Babilonia; mi avvoltolavo nel suo fango come fosse cinnamomo e unguento prezioso, e perché aderissi più pienamente e più tenacemente a lei il nemico invisibile m’incalzava e continuava a sedurmi: ero, infatti, molto sensibile alle seduzioni.
    La mia madre carnale era già fuggita, sì, dal centro di Babilonia; però si attardava ancora nelle sue adiacenze e, se mi raccomandò la pudicizia, non si curò però di incanalare in un affetto coniugale quella mia virilità di cui le aveva parlato suo marito e che non si poteva materialmente eliminare. Ella la sentiva già assai pericolosa e più pericolosa ancora la prevedeva per il futuro; non se ne curò perché temeva che il legame coniugale intralciasse le mie prospettive, non la prospettiva della vita futura, ché questa era da mia madre affidata a te, ma le prospettive degli studi ai quali tanto tenevano entrambi i miei genitori: mio padre, in quanto a te non pensava quasi niente e nei miei riguardi fantasticava cose vacue; mia madre, in quanto riteneva che l’acquisizione della cultura allora in uso non solo non avrebbe danneggiato, ma anzi avrebbe favorito il mio incontro con te. Queste cose le deduco ricostruendo come posso l’atteggiamento dei miei genitori.
    Venivano anche allentate le briglie ai miei divertimenti, senza più quella giusta severità che è normale, cosicché le mie varie passioni avevano libero sfogo. Ne derivava, però, in me come una nebbia che m’impediva, o mio Dio, la vista della tua rasserenante verità, e la mia malvagità germogliava come su terra grassa.






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    00 15/02/2011 17:05

    IV

    MALVAGITA’ FINE A SE STESSA



    La tua legge, Signore, punisce certamente il furto, e così anche la legge scritta nei cuori degli uomini, che nessuna malizia riesce a cancellare: neppure il ladro, infatti, accetta di essere derubato, neanche se egli è ricco e l’altro costretto a rubare dalla miseria. Eppure io volli commettere un furto, e lo feci non spinto dal bisogno, ma forse per mancanza di senso di giustizia e per disprezzo verso di essa, forse perché troppo ricco di malvagità. Rubai infatti cose che io avevo in abbondanza e molto migliori; non è che desiderassi godere della cosa rubata, ma del fatto di rubare, del peccato in se stesso. C’er un albero di pere nelle vicinanze della nostra vigna, carico di frutta non allettante né per l’aspetto né per il sapore. Dopo aver protratto esageratamente i nostri giochi sulle piazze secondo i nostri usi, nel cuore della notte ce ne andammo (veramente cattivi) a scuotere quell’albero e spogliarlo della frutta. Ne portammo via un carico notevole, e non già per mangiarla noi: la gettammo addirittura ai maiali. Se ne assaggiammo una parte, lo facemmo solo per gustare una cosa proibita.
    Ecco com’è fatto il mio cuore, o Dio, ecco il mio cuore di cui hai avuto pietà, così ridotto in fondo all’abisso. Ora il mio cuore ti spieghi che cosa cercava in quel baratro, tanto da voler essere cattivo senza una ragione: la ragione di quella cattiveria era la cattiveria stessa! Se c’era un’indegnità, io l’amavo. Amavo rovinarmi, amavo annientarmi, ma non amavo tanto le cose per le quali mi abbassavo verso il nulla, bensì l’annientamento in sé stesso! Povera anima abbruttita, che si staccava dal tuo saldo appoggio per autodistruggersi nella ricerca non di qualcosa di disonesto, ma della disonestà!




    V

    NEL PECCATO, IN GENERE,
    SI CERCA IL GODIMENTO DI UN BENE



    In un corpo bello, nell’oro, nell’argento e i ogni altra cosa simile c’è un’attrattiva; nel senso del tatto conta moltissimo essere in sintonia, e così ogni altro senso riceve dal proprio oggetto uno stimolo adeguato. Anche gli onori mondani, anche il potere di dominare gli altri hanno una loro dignità, benché da essa derivino anche i desideri di vendetta. Tuttavia, per conseguirle, non c’è bisogno di allontanarsi da te, Signore, né di deviare dalla tua legge. La stessa vita che viviamo quaggiù ha un suo fascino, dovuto ad una certa bellezza sua propria nonché ai legami con tutte le piccole cose belle.
    Pure l’amicizia fra gli uomini è cosa dolce, con quel suo piacevole vincolo che lega molti animi facendone un essere solo. Si commette peccato quando, anelando smoderatamente a queste cose o ad altre simili che sono beni di un valore minimo, si trascurano quelli di valore maggiore, anzi massimo: te, Signore nostro Dio, la tua verità e la tua legge. Anche quei poveri beni danno soddisfazioni, ma non quanto il mio Dio che li ha creati tutti: in lui trova soddisfazione il giusto; egli è la gioia dei retti di cuore.
    Quando s’indaga sulle cause di un delitto, solitamente non ci si accontenta finché non vi si scopre il desiderio di ottenere uno di quei beni che abbiamo definito minimi, o il timore di perderlo; essi sono infatti belli e attraenti, anche se, a paragone dei beni superiori che danno la vera gioia, sono spregevoli e vili.
    E’ stato commesso un omicidio: che cosa può avere spinto l’assassino? Forse amava la moglie dell’ucciso, o ambiva al suo podere, o cercò di rapinarlo per vivere; oppure temeva di essere privato di uno di questi beni o, magari, ardeva dal desiderio di vendicare una privazione subita. Che abbia ucciso senza una ragione, per il solo gusto di uccidere? E’ incredibile! Anche in quell’uomo folle e crudele di cui si dice che per ogni nonnulla soleva manifestarsi malvagio e senza cuore, non mancava un movente, e viene enunciato prima: perché non gli s’intorpidisse la mano o lo spirito nell’ozio! Anche ciò, a quale scopo? Evidentemente perché, una volta sottomessa la città, ormai abituato ai crimini, avrebbe conseguito onori, potere e ricchezze, e non avrebbe più avuto da temere le leggi né le difficoltà della vita, libero da ristrettezze economiche e da rimorsi di coscienza. Quindi anche Catilina non amava il delitto, ma altre cose a motivo delle quali commetteva i delitti.




    VI

    LE PASSIONI DANNO SODDISFAZIONI ILLUSORIE;
    SOLO DIO SAZIA LE ESIGENZE
    DELLO SPIRITO UMANO



    Ma io, miserabile, che cosa ho amato in te, o mio furto, o delitto notturno dei miei sedici anni? Non eri bello, poiché eri un furto. Ma se non sei neppure una cosa cui io possa rivolgere la parola! La frutta che rubammo sì, era bella, perché era tua creatura, o Dio buono, creatore di ogni bellezza, sommo bene e mio autentico bene. Quella frutta era bella, ma io non desideravo la frutta: ne avevo in abbondanza e di migliore. La colsi soltanto per rubare. E infatti, appena colta, la buttai: mi bastava saziarmi della mia cattiveria, di cui ero tutto soddisfatto. Se uno di quei frutti entrò nella mia bocca, c’era la cattiveria a dargli sapore.
    Ora, Signore mio Dio, mi chiedo che cosa mai mi piacesse nel furto: non c’è certamente bellezza, e non parlo della bellezza che è nella giustizia o nella saggezza né di quella dell’intelligenza umana, della memoria, dei sensi e di tutta la vita vegetativa né della bellezza delle stelle nell’armonia del firmamento, o di quella della terra e del mare pieni di vite che si succedono dalla nascita alla morte. Nemmeno parlo della bellezza limitata e illusoria dei vizi seduttori. Infatti la superbia vuole emulare la grandezza, mentre tu solo sei il Dio altissimo al di sopra di tutte le cose.
    L’ambizione che cosa cerca se non gli onori e la gloria, mentre tu solo sei degno di onore e gloria in eterno?
    La crudeltà dei dominatori tende a essere temuta; ma chi deve essere temuto se non il Dio solo, al cui dominio nulla può sottrarsi in nessun momento, in nessun luogo, in nessun modo e nonostante l’aiuto di chiunque?
    Le seduzioni delle persone sensuali mirano a suscitare amore, ma nulla è più seducente della tua carità, nulla è amato più vantaggiosamente della tua verità, più bella e più splendente di ogni cosa.
    La curiosità vuole apparire interesse per la scienza, mentre tu solo possiedi la conoscenza perfetta di tutte le cose.
    La stessa ignoranza e insipienza si ammantano di semplicità e innocenza, perché anche tu sei semplice, anzi nulla è più semplice di te; né c’è qualcosa che sia più innocente di te, se le azioni malvage sono nocive a quelli stessi che le compiono.
    La pigrizia sembra voglia solo conseguire la tranquillità, ma quale vera tranquillità c’è senza il Signore?
    La lussuria si dà il nome di soddisfazione e pienezza, ma sei tu la pienezza, sei tu la dolcezza sovrabbondante, inesauribile e incorruttibile.
    La prodigalità si copre all’ombra della liberalità, ma il più generoso donatore di beni sei tu.
    L’avarizia aspira a possedere molto, ma tu possiedi ogni cosa.
    L’invidia suscita dispute per primeggiare, ma chi è primo davanti a te?
    L’ira cerca vendetta, ma c’è una vendetta più giusta di quella che operi tu?
    La paura aborre gli eventi insoliti e inattesi, in quanto pericolosi per le cose che si amano, e cerca sicurezza; ma per te che cosa c’è di insolito o di inatteso? Chi ti separa da ciò che ami? Dove si trova sicurezza se non vicini a te?
    L’amarezza si rode per le cose perdute, perché la cupidigia trovava piacere in esse, e vorrebbe che non le si potesse mai togliere nulla come non lo si può a te.
    Così l’anima commette peccato quando ti volge le spalle e cerca fuori di te quella purezza e limpidezza che non può trovare se non ritorna a te.
    Tutti coloro, dunque, che si allontanano da te e si ribellano contro di te, ti imitano per contrario; ma anche imitandoti così, mostrano che tu sei il creatore dell’universo e che perciò non c’è luogo alcuno dove ci si possa in qualche modo sottrarre a te.
    Ma allora in quel furto io che cosa ho amato, e in che cosa ho imitato il mio Signore, sia pure male e al contrario? Forse ho trovato gusto nel poter agire contro la legge almeno con il sotterfugio, non potendolo fare con la potenza; avevo l’illusione, io schiavo, di raggiungere una libertà, in realtà solo apparente, e di imitare alla rovescia l’onnipotente nel fare ciò che non era lecito. Eccomi qui, schiavo che fugge dal suo padrone e che si ritrova nelle tenebre. Vita marcia e mostruosa, che è abisso di morte! Come poté piacermi l’illecito solo perché illecito?







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    00 21/02/2011 00:32

    VII

    LA BONTA’ DI DIO CI PRESERVA DALLE COLPE
    E CI PERDONA QUELLE COMMESSE



    Come ringrazierò il Signore per il fatto che la mia memoria può riandare a questi ricordi senza che la mia anima ne sia turbata? Ti amerò, Signore, ti ringrazierò, ti esalterò, perché mi hai perdonato malefatte così grandi. So che è per tua grazia e misericordia che i miei peccati si sono sciolti come ghiaccio al sole; so che è grazia tua anche tutto il male che non ho commesso. Che cosa infatti non sarei potuto arrivare a fare, io che amai il peccato per se stesso, senza ragione? E lo proclamo: mi sono state perdonate tutte le colpe, sia quelle che commisi volutamente, sia quelle che non commisi grazie alle tue cure.
    Chi mai, conscio della propria debolezza, ha il coraggio di attribuire alle proprie forze il merito della castità e dell’innocenza, così da amarti di meno, come se gli fosse meno necessaria la tua misericordia con la quale tu condoni le colpe a chi pentito si rivolge a te?
    Chi ha seguito il tuo richiamo evitando così di cadere nelle colpe che qui mi vede ricordare e confessare, non rida di me: forse quel Medico che ha curato me ha preservato lui dalle mie stesse colpe, anzi da colpe ancora maggiori. Tuttavia non rida per questo di me: pensi piuttosto ad amarti quanto me, anzi più di me, per aver avuto da colui dal quale vede me ora sanato da tutte quelle debolezze, la grazia di non trovarvisi invischiato anch’egli.




    VIII

    VANITA’
    DELL’ATTRATTIVA DEL PECCATO



    Che vantaggi ricavai, miserabile, da quelle cosche allora commisi e che ora rievoco con vergogna, e specialmente da quel furto nel quale mi compiacqui del furto in se stesso e di null’altro? Anch’esso, del mresto, era un nulla, e proprio perciò io fui ancora più miserabile!
    Tuttavia non lo avrei fatto se fossi stato solo; credo di ricordare il mio stato d’animo: da solo non l’avrei fatto assolutamente. Dunque in quell’azione mi compiacqui anche della compagnia di coloro insieme ai quali la commisi; non è vero, perciò, che non amai null’altro che il furto in se stesso. O meglio, è vero, perché anche quella compagnia è nulla. Che cos’è, infatti?
    Chi mi può rispondere se non colui che illumina il mio cuore e ne dissipa le tenebre? E come mai mi è venuto in mente di andare a indagare, a soppesare, ad analizzare il fatto che se allora avessi desiderato proprio quella frutta che rubai e avessi voluto gustarla, avrei potuto commettere anche da solo, avendone la capacità, quel furto che me ne rendeva padrone, e non avrei avuto bisogno di essere istigato dai compagni perché me ne venisse voglia?
    Il fatto è che non era in quella frutta che io trovavo l’attrattiva, ma nella cattiva azione che commettevo insieme con amici con me corresponsabili.




    IX

    LE COMPAGNIE CATTIVE
    TRASCINANO



    Quale sentimento, dunque, provavo allora? Certo un sentimento molto malvagio; me disgraziato che lo custodivo nel cuore! Ma di che si trattava?
    E chi può capire che cos’è il peccato? C’era la voglia di ridere al pensiero del tiro che stavamo per giocare a chi non se l’aspettava affatto e ne sarebbe rimasto molto male. Perché, dunque, mi divertivo di più a farlo non da solo? Forse perché si ride meno volentieri da soli? Sì, è più difficile; tuttavia succede talvolta che anche da soli, senza nessuno presente, ci prenda il riso, se capita di vedere o di ricordare qualcosa di molto buffo. Io però quell’impresa non l’avrei compiuta da solo, assolutamente no.
    Ecco, è dinanzi a te, Dio mio, il ricordo vivo della mia anima. Io non avrei commesso da solo quel furto nel quale mi attraeva non la merce da rubare, ma il rubare in sé: non mi avrebbe attratto, quindi, l’idea di rubare da solo, e non avrei rubato.
    O amicizia tutt’altro che amica, misteriosa seduzione dell’anima, voglia di nuocere nata dal gioco e dallo scherzo, piacere di danneggiare gli altri senza ricerca di un proprio vantaggio né sete di vendetta; basta che uno dica “Andiamo! Facciamo! “ e ci si vergogna di provar vergogna!




    X

    ASPIRAZIONE
    ALLA PACE INTERIORE



    Chi districherà questa intricatissima matassa? E’ tutta una storia indegna; non voglio più pensarci, non voglio più soffermarmi ad analizzarla. Te voglio, o giustizia, o innocenza, o bellezza che attrai gli sguardi dei virtuosi e li sazia insaziabilmente. Presso di te c’è pace profonda e vita senza turbamenti. Chi entra in te entra nel gaudio del suo Signore, non avrà di che temere e si troverà benissimo nel Bene sommo.
    Mi sono perso lontano da te, mio Dio, e ho vagabondato troppo nella mia adolescenza lontano dalla sicurezza che viene da te, diventando così luogo di miseria a me stesso.









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    00 27/02/2011 17:54

    LIBRO TERZO

    Giovane studente


    I

    RICERCA DI AMORI SENSUALI



    Andai a Cartagine, e subito prese a rumoreggiarmi intorno da ogni parte la sarabanda degli amori illeciti. Non amavo ancora, ma amavo di essere amato, ed ero tanto povero interiormente da detestarmi per non esserlo abbastanza!
    Desideroso di amare, cercavo qualcosa su cui riversare il mio amore, mentre rifuggivo dalle situazioni tranquille e prive di sorprese. Non provavo dentro di me fame di cibo interiore, cioè di te, mio Dio; tale fame non mi toccava. Ero senza alcun desiderio di alimenti incorruttibili, non già perché ne fossi sazio, ma anzi, quanto più ne ero digiuno tanto più ne sentivo la nausea.
    L’anima mia era dunque malata, si manifestava coperta di piaghe, avida di avvilenti contatti con corpi materiali che pure nessuno amerebbe se non avessero un’anima.
    Trovavo molto più dolce amare ed essere amato se potevo godere anche del corpo della persona amata. Così inquinavo le sorgenti dell’amicizia nella sordidezza della concupiscenza e ne offuscavo la luminosità con infernali libidini; ero dunque laido e volgare, e tuttavia mi atteggiavo dignitosamente a persona elegante e raffinata. Mi buttai fra le braccia dell’amore dal quale desideravo essere carpito.
    Dio mio, mia misericordia, quanto sei stato buono nel cospargere di abbondante fiele quei miei piaceri! Fui amato e arrivai, per vie tortuose, a godere, tutto soddisfatto, delle catene che mi avvincevano con legami tormentosi, per essere poi sferzato dai colpi infuocati della gelosia, del sospetto, del timore, della collera, delle contese.




    II

    IL TEATRO
    ALIMENTA LA SETE DI SENSAZIONI



    Ero estasiato dagli spettacoli teatrali, pieni di raffigurazioni delle mie miserie e di esche per il mio fuoco.
    Come mai a teatro l’uomo cerca la sofferenza assistendo a eventi luttuosi e tragici, che non vorrebbe certo subire nella vita reale? Eppure come spettatore cerca proprio di soffrire quelle situazioni, e il piacere sta in quella sofferenza.
    Non è forse una povera pazzia?
    Ci si commuove tanto maggiormente quanto meno si è liberi delle passioni portate sulla scena, sebbene si dia generalmente il nome di miseria alle sofferenze proprie, di misericordia al compatimento per gli altri. Ma quale misericordia, quale pietà può essere, trattandosi di finzioni sceniche? Lo spettatore non è sollecitato a porgere aiuto, è soltanto stimolato al dolore; e l’attore tanto più piace quanto più fa soffrire. Cosicché se quelle disgrazie, siano pure remote nel tempo o inventate, vengono rappresentate in modo da non suscitare dolore, lo spettatore se ne esce infastidito e in collera; se invece fanno soffrire, rimane attento e piange con piacere!
    Dunque, si amano le lacrime e la sofferenza.
    Certo, tutti amano la gioia, e a nessuno piace essere un pover’uomo; tuttavia piace essere pietosi. Forse perché non si può esserlo senza che ci sia sofferenza, per questo soltanto si ama soffrire?
    Anche questo proviene da quella sorgente che è l’amicizia. Ma dove è diretta? Verso dove scorre? Perché sfocia in un torrente di pece bollente, in un fuoco immane di passioni tenebrose nel quale muta, si trasforma di sua iniziativa, deturpandosi e deviando dalla sua serenità primordiale? E allora, si dovrà forse ripudiare la pietà? No davvero.
    Si amino pure, talora, le sofferenze, ma, o anima mia, guardati dall’impurità e tieniti sotto la protezione del mio Dio, Dio dei nostri padri degno di ogni lode e di ogni ammirazione in eterno; guardati dall’impurità!
    Non è che ora io non provi pietà; il fatto è che allora, a teatro, ero partecipe del piacere che provavano gli amanti peccatori nel godersi a vicenda, quantunque si comportassero così solo per finzione scenica; quando poi si lasciavano, mi rattristavo con loro in una specie di pietà. In entrambi i casi, comunque, la cosa mi era piacevole. Ora, invece, provo maggior compassione per chi gode nel peccato che non per chi soffre la perdita di un piacere dannoso e di una illusoria felicità.
    Questa è davvero pietà, e in essa non c’è sofferenza piacevole! Anche se si usa lodare chi caritatevolmente partecipa al dolore di un altro, la pietà genuina preferisce che non esistano motivi di sofferenza. Solo se esistesse una benevolenza malvagia, il che è impossibile, colui che prova vera e sincera pietà potrebbe desiderare l’esistenza di disgraziati per averne compassione! Ci può essere talora da approvare una sofferenza, mai però la si può amare. Di essa tu, Signore Dio, che ami le anime, hai compassione in modo molto più profondo e più puro, poiché non sei soggetto ad alcun dolore.
    Ma chi è capace di tanto?
    Io allora, misero, amavo soffrire e andavo in cerca di motivi di sofferenza; nella sofferenza altrui, fittizia, spettacolare, i gesti dell’istrione mi piacevano e tanto più mi divertivano quanto più mi facevano piangere. Che cosa c’è dunque di strano se, povera pecorella vagante lontano dal tuo gregge e insofferente del tuo ovile, ero come colpito da una scabbia ributtante? Da lì proveniva il mio amore per la sofferenza: non è che ne fossi penetrato molto profondamente, perché non mi sarebbe piaciuto affatto dover subire le cose cui assistevo; era solo un farsi sfiorare in superficie dalle finzioni che vedevo. Ne seguivano però un gonfiore bruciante, infezione e piaghe purulente, come ad essere stati graffiati con unghiate.
    Tale era la mia vita: ma era forse vita, mio Dio?









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    III

    AGOSTINO
    NON SI SENTE DI SEGUIRE I SUOI COMPAGNI
    IN TUTTI I LORO ECCESSI



    La tua misericordia, però, da lontano mi circuiva costantemente. In quanta malizia mi avvoltolai! Ho seguito sacrileghe curiosità fino a spingermi così lontano da te nell’abisso della confusione da rendere culti illusori ai demoni, ai quali offrivo in sacrificio i miei peccati!
    Ma tu continuavi ad amareggiarmi tutte le esperienze!
    Ho avuto persino il coraggio di coltivare desideri impuri durante le celebrazioni dei tuoi riti, fra le pareti della tua chiesa, e ivi fare piani per soddisfarli e procurarmi frutti di morte!
    Per questo tu mi colpisti con gravi castighi; ma essi erano niente in confronto alle mie colpe, o immensa misericordia, Dio mio, che sei il mio rifugio contro quegli spaventosi rischi nei quali sono andato presuntuosamente a invischiarmi, allontanandomi da te per aver preferito alle tue strade le mie e una illusoria libertà.
    Anche quegli studi che erano chiamati nobili si risolvevano in una educazione alla litigiosità, al fine di farmi eccellere in quell’arte nella quale si è tanto più elogiati quanto più si è capaci di imbrogliare. Gli uomini sono talmente ciechi da vantarsi anche della loro cecità!
    Ero il primo ormai nella scuola di eloquenza ed ero soddisfatto nel mio orgoglio, gonfio di me; eppure tu sai, Signore, che ero molto più calmo dei “sovversivi” (questo nome sinistro e diabolico è portato come divisa di civiltà!) e del tutto schivo dei disordini che essi provocavano.
    Vivevo in mezzo ad essi, vergognandomi sfacciatamente di non essere simile a loro! Stavo con loro e mi compiacevo di quell’amicizia, eppure mi ritraevo sempre dalle loro imprese, cioè dai disordini nei quali essi deridevano con spavalderia i timidi e gli inesperti provocandoli con beffe e pascendosi di questi crudeli divertimenti. Era il loro un comportamento da demoni, e per questo non potevano ricevere appellativo più adatto di quello di “sovversivi”, poiché essi per primi erano nel disordine interiore e come “sovvertiti” da quegli spiriti occulti che deridono e ingannano coloro che si divertono a deridere e ingannare gli altri.




    IV

    L’”ORTENSIO” DI CICERONE
    LO CONQUISTA ALL’AMORE PER LA SAPIENZA



    In mezzo a compagni di questo genere, in quell’età ancora così fragile, andavo studiando i testi di eloquenza, e mi sforzavo di essere il primo nell’intento deplorevole e sciocco di soddisfare l’umana vanagloria. Seguendo il normale programma di studi, mi imbattei in un libro di Cicerone, la cui eloquenza, anche se non l’animo, è pressoché universalmente apprezzata.
    Quel libro contiene un suo invito alla filosofia ed è intitolato Ortensio; devo dire che esso operò una trasformazione nei miei sentimenti, mi fece cambiare modo di pregarti, Signore, creò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri.
    D’improvviso tutte le mie vacue speranze mi apparvero vili, e presi ad aspirare con tutte le mie forze all’immortalità che viene dalla sapienza. Cominciavo ad alzarmi per ritornare a te. Avevo diciannove anni e mio padre era morto due anni prima.
    Non mi servivo di quel libro per affinare la mia loquela, scopo per il quale ricevevo il denaro da mia madre: esso mi aveva conquistato non per le sue belle espressioni, ma per quello che conteneva.
    Dio mio, come ardevo dal desiderio di riprendere il volo verso di te risalendo dalle cose terrene, anche se non sapevo ancora che cosa tu intendessi compiere in me! La sapienza è presso di te; ma l’amore per la sapienza si chiama, con termine greco, filosofia, e ad essa mi stimolava quella lettura.
    C’è chi mediante la filosofia inganna il prossimo, colorando e mascherando i propri errori con quel nome grande, affascinante, nobile. Ebbene, quasi tutto coloro che così hanno fatto allora e anche nei tempi andati, in quel libro vengono nominati e smascherati. Così in quelle pagine si rivela salutare quell’avvertimento che tu ci hai dato per mezzo del tuo servo fedele: Badate a che nessuno vi inganni per mezzo della filosofia e delle vane seduzioni che sogliono usare gli uomini secondo i princìpi di questo mondo e non secondo Cristo; in lui solo, infatti, è presente tutta la pienezza della divinità. (Col. 2,8-10)
    Tu sai, luce della mia mente, come a quell’epoca, non conoscendo ancora queste parole dell’apostolo, mi attraesse quella esortazione solo per il fatto che non mi incitava ad amare, a cercare, a seguire, ad abbracciare con ardore questa o quella setta, ma semplicemente mi stimolava alla sapienza, ovunque essa fosse. Però c’era una cosa che, in tanto fervore, mi tratteneva: in quel libro non c’era il nome di Cristo; e questo nome, per tua misericordia, Signore, questo nome del mio Salvatore, del tuo Figliolo, il mio cuore aveva succhiato devotamente ancora piccino col latte materno, e lo conservava nell’intimo. Qualunque scritto mancasse di questo nome, anche se letterariamente forbito, anche se veritiero, non riusciva a conquistarmi totalmente.




    V

    IL PRIMO APPROCCIO
    CON LA SACRA SCRITTURA



    Fu così che decisi di rivolgere l’attenzione alla sacra Scrittura per vedere come fosse. Ed ecco che vi trovo un parlare che non è chiaro né ai saccenti né ai bambini; trovo che è accessibile al primo approccio, ma che, andando avanti, si fa più difficile e piena di misteri. Io non ero il tipo da abbassare il capo per passare da quella porta e seguire quel cammino!
    Quello che provai allora, nell’affrontare la Scrittura, fu ben diverso da quello che ora provo e dico: mi parve trattarsi di un’opera indegna d’essere paragonata con la dignità degli scritti ciceroniani. Ero così gonfio di me, da non poter sopportare quella modestia di stile; il mio acume, d’altronde, non riusciva a penetrare quelle profondità. Essa era fatta per accompagnare le anime piccole nella crescita, ma io disdegnavo di farmi piccolo e, nel mio orgoglio, mi sentivo grande.








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    00 14/03/2011 19:24

    VI

    LE FANTASIOSE TEORIE DEI MANICHEI
    NON POSSONO SODDISFARE LA SETE DI VERITA’



    Fu così che mi imbattei in uomini farneticanti nella loro presunzione, carnali e chiacchieroni assai. Il demonio tendeva i suoi lacci mediante le loro chiacchiere, fatte di una confusa mescolanza fra il nome tuo, quello del Signore Gesù Cristo e dello Spirito Santo nostro consolatore. Non tralasciavano di pronunciare questi nomi, ma si trattava solo di suoni e di movimenti di labbra, perché il loro cuore era vuoto di verità. Ripetevano: “Verità, verità” e me ne parlavano molto, ma essa non era mai in loro; anzi insegnavano falsità non solo su di te, che sei la verità, ma anche sulla essenza del mondo, tua creatura. Intorno a queste cose, in grazia del tuo amore, io avrei dovuto essere ben superiore anche a quei filosofi che pur insegnano cose vere, o Padre mio che sei la Bontà e la Bellezza supreme.
    Verità, verità! Come anche allora sospiravo verso di te dall’intimo dell’anima, mentre quelli mi facevano sentire il tuo nome spesso e in vari modi, ma solo a parole e con un gran numero di pesanti volumi! Avevo fame di te, e tale era la mensa su cui mi si apprestava al posto tuo il sole e la luna, tue belle creature, ma pur sempre creature, non te; anzi, non erano neppure le tue creature principali, perché le opere spirituali vengono prima di esse, che, per quanto luminose e celesti, sono corporee. Io comunque ero affamato e assetato non delle tue creature più importanti, ma soltanto di te, o Verità, nella quale non c’è mutamento né ombra di trasformazione.
    Mi si apprestavano fantasie luccicanti; meglio sarebbe stato amare il sole vero, quello che si vede con gli occhi, che non quelle falsità destinate attraverso gli occhi ad ingannare lo spirito! Eppure io me le bevevo perché le credevo te, anche se non con grande avidità, perché non avevano il tuo autentico sapore (non eri tu quelle vacue invenzioni!) né mi saziavano; anzi, ero sempre più affamato. Anche il cibo dei sogni è del tutto simile a quello reale, però chi lo sogna, finché dorme, non se ne nutre. Quei cibi, comunque, non erano neppure simili in qualche modo a te: ora che tu mi hai rivelato te stesso, lo vedo. Essi infatti, erano fantasia, false realtà. Sono certo più reali questi corpi che vediamo con gli occhi di carne, in cielo e in terra, che vediamo come li vedono le bestie e i volatili, e che sono più reali di quando ce li immaginiamo. E, tuttavia, anche nella nostra immaginazione, quei corpi sono più reali che non quando crediamo di dedurre da essi l’esistenza di altri più grandi ed infiniti che invece non esistono affatto: proprio come quelli di cui allora mi alimentavo, o meglio, non mi alimentavo.
    Ma tu, mio amore, nel quale divento debole per essere forte, non sei né quei corpi che scorgiamo pur lassù in cielo né quelli che non riusciamo a scorgervi, perché tutti sono tue creature e non li consideri neppure tra le maggiori di esse. Quanto dunque sei lontano da quelle mie fantasie riguardanti realtà che non sono affatto tali; sono più reali le fantasie intorno ai corpi realmente esistenti, e, di queste, sono ancor più reali i corpi stessi, che pure non sono te! Il fatto è che tu non sei neppure l’anima, vita dei corpi e quindi più nobile e più reale dei corpi stessi; tu sei la vita delle anime, la ragion di vita delle vite, vivente che non muta, vita dell’anima mia.
    Dov’eri dunque allora, e quanto eri lontano da me? Ero io che vagavo lontano da te, privo anche di quelle ghiande di cui pascevo i porci. Quanto sono preferibili le favole dei maestri di scuola e dei poeti che non quelle trappole! Sono certamente più utili i versi, la poesia e Medea che vola, che non i cinque elementi che si trasformano in vari modi nei cinque antri tenebrosi: questi neanche esistono, però fanno morire chi ci crede. I versi e le poesie possono anche essere trasformati in un qualche alimento, e a Medea che vola non ci credevo, anche se la declamavo e la sentivo declamare. A quelli, invece, prestai fede. Povero me! Giù per quei gradini sprofondai nell’inferno, travagliato dall’arsura che mi dava la sete di verità, mentre cercavo te, Dio mio, non con la ragione per la quale mi volesti superiore alle bestie, ma con i sensi carnali. Ora lo riconosco e lo confesso a te che avesti compassione di me quando ancora non ti riconoscevo. Tu infatti eri più intimo a me di me stesso e superiore ad ogni mia superiorità.
    Mi imbattei in quella donna, temeraria e povera di saggezza, che nell’allegoria di Salomone siede sul limitare della porta e dice: Gustate il pane di soppiatto, bevete le dolci bevande furtive. Ella mi sedusse, perché mi trovò già fuori, estraneo al mio intimo, intento a ruminare quelle cose che avevo divorato con lo sguardo.






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    00 17/03/2011 17:50

    VII

    VANEGGIAMENTI DEI MANICHEI
    IL PROBLEMA DELLA MORALITA’



    Non conoscevo l’altra verità, quella che è veramente tale, ed ero portato ad incoraggiare, con parvenza di ragionamenti acuti, sciocchi imbroglioni che mi ponevano la questione dell’origine del male, se Dio è limitato da una qualche forma corporea, se ha i capelli e le unghie, se si deve ritenere persona onesta chi ha più mogli, chi uccide uomini, chi sacrifica animali. Io non ne sapevo niente, e perciò restavo colpito, allontanandomi intanto dalla verità, mentre ero convinto di camminare verso di lei. Non sapevo che il male non è che privazione di bene, una privazione che arriva ad essere un nulla assoluto. Ma come avrei potuto vedere questo, se i miei occhi non vedevano più in là del corpo e se il mio spirito non coglieva nulla al di là delle fantasie? Non sapevo che Dio è spirito e che non ha membra con determinate misure in lunghezza e larghezza, o con una certa mole; le parti di una massa, infatti, sono ciascuna più piccola della totalità, e se anche è infinita, ciascuna parte limitata dallo spazio è minore dell’insieme che è infinito, né una massa è tutta dovunque come è lo spirito, come è Dio. Non sapevo assolutamente cosa ci possa essere in noi che ci fa esistere e che ci fa definire dalla Scrittura immagine di Dio. Non conoscevo neppure la vera giustizia interiore, quella che giudica non dal punto di vista degli usi, ma secondo la sacrosanta legge di Dio sulla quale devono venire plasmati i costumi dei paesi e dei tempi; questi sono diversi a seconda appunto dei vari paesi e dei vari tempi: essa invece è la stessa sempre e dovunque, né muta in luoghi o momenti diversi. In base ad essa furono giusti Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, David e tutti gli altri personaggi lodati da Dio, mentre gl’ignoranti che giudicano secondo il metro umano li considerano disonesti e misurano i costumi di tutti gli uomini di tutti i tempi dal punto di vista della loro particolare mentalità. E’ come se un tale che, non conoscendo le strutture di un’armatura e come ogni pezzo si adatta a ciascun membro, volesse coprirsi il capo con un gambale e una gamba con l’elmo e si lamentasse perché la cosa non gli viene bene; oppure in un giorno dichiarato festivo dal pomeriggio rimanesse male perché non gli è concesso di esporre la merce in vendita, mentre gli era permesso al mattino; oppure vedesse che in una medesima casa lo schiavo può maneggiare oggetti che non si ritiene decente siano maneggiati anche dal coppiere, o che nella stalla si fanno cose che non è permesso fare a mensa, e di tutto ciò si indignasse perché, trattandosi di una stessa casa e di una stessa famiglia, non si lasciano fare le stesse cose ovunque ed a tutti. Così fanno costoro, i quali s’indignano quanto sentono dire che nei secoli passati erano lecite ai giusti certe cose che ai nostri tempi non lo sono più, e che Dio comandò cose diverse a seconda delle circostanze di tempo: e tutti erano al servizio della medesima giustizia; si indignano quando vedono che in un medesimo uomo, in una stessa giornata, nella stessa ca, un’azione ora è consentita ora no, è lecita per gran tempo e a un certo momento non lo è più, in un angolo è permessa o addirittura comandata, nell’angolo accanto è proibita e punita.
    Ma allora la giustizia cambia? No, essa è sempre norma suprema. Sono i tempi che non sono sempre uguali: appunto per questo si chiamano tempi. Gli uomini, la cui vita terrena è breve, poiché non sanno cogliere e ricostruire i moventi delle azioni dei secoli passati o di altri popoli di cui non hanno esperienza, e sanno invece vedere facilmente che cosa in un preciso momento o luogo è consono a quella determinata circostanza di persona o di tempo, nel primo caso rimangono turbati, nel secondo accettano passivamente la realtà.
    Tutte queste cose io allora non le sapevo, non le avvertivo: colpivano da ogni parte i miei occhi, eppure non le vedevo. Se volevo comporre versi, non dovevo comporli in un modo qualsiasi, ma bisognava mettere in ciascun verso il piede adatto al metro, e nel medesimo verso non mettere sempre il medesimo piede. Tuttavia non è che l’arte di verseggiare in se stessa obbedisse ad una norma in un punto e ad un’altra in un altro punto, ma era un tutto unitario. Né capivo che la giustizia cui servivano quegli uomini buoni e santi conteneva un insieme unitario di precetti molto nobili e sublimi, e che essa, pur senza cambiare in nulla, non li assegnava né li imponeva tutti insieme, ma a seconda dei tempi. E nella mia cecità rimproveravo a quei santi padri non solo di essersi comportati al loro tempo secondo quanto Dio comandava e ispirava, ma anche di aver preannunziato il futuro secondo quanto Dio rivelava loro.






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    00 24/03/2011 18:25

    VIII

    FONDAMENTI NATURALI DELLA MORALITA’



    Non esiste un tempo e un luogo nel quale non sia giusto amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, e il prossimo come te stesso. Così i delitti che vanno contro natura, come furono quelli dei Sodomiti, devono essere condannati e puniti ovunque e sempre. Quand’anche li commettessero tutti gli uomini, tutti sarebbero compresi nella medesima condanna divina, perché Dio non ha creato gli uomini perché facessero un tale uso di se stessi. E’ la stessa unione che deve sussistere tra Dio e noi a venire violata quando si profana, con una passione perversa, la natura medesima di cui egli è l’autore. Le azioni colpevoli, poi, che contrastano le usanze degli uomini, vanno evitate uniformandosi appunto a quelle usanze, così che non venga violato per la passione di un singolo, cittadino o straniero, il patto che è stato sancito per consuetudine o per legge fra gli abitanti di una stessa città o nazione.
    Ogni parte, infatti, che non si uniforma al suo tutto, è una stonatura.
    Ma se è Dio che comanda una cosa contraria alle usanze o alle convenzioni di un determinato luogo, bisogna eseguirla anche se non era mai stata fatta; bisogna ripristinarla se era stata tralasciata; instaurarla se non era mai stata stabilita. E’ consentito, infatti, ad un re ordinare nella sua città qualcosa che non è stato mai ordinato prima né da lui stesso né da altri, e obbedire a tale ordine non significa andare contro le convenzioni della città, anzi, lo sarebbe il non obbedire (la convenzione fondamentale di ogni umana società è infatti l’obbedienza al proprio re). Ma allora, quanto più si dovrà obbedire senza esitare agli ordini di Dio che è re di tutto il creato.
    Come fra le autorità umane la maggiore deve essere obbedita dalla minore, così Dio lo deve essere da tutti. Altrettanto si può dire per quanto riguarda le azioni malvagie nelle quali c’è il piacere di nuocere o con offese o con danni o con entrambi, magari per vendicarsi come si fa con il proprio nemico, o magari per portar via beni come fa il rapinatore col viandante, o, ancora, per sfuggire a un danno come si fa con chi si teme, o per invidia da parte di chi è povero verso uno più fortunato, o da chi ha avuto un qualche successo e teme di essere raggiunto, ovvero soffre per esserlo già stato, o, infine, anche soltanto per il gusto del male altrui, come avviene in chi assiste allo spettacolo dei gladiatori e in chi ride e si beffa degli altri.
    Queste sono le radici dell’ingiustizia, che germinano nelle tre passioni del potere, della curiosità e della soddisfazione dei sensi, o in una di esse o in tutte tre insieme; e così si vive trasgredendo sia i primi tre che gli altri sette comandamenti, il salterio a dieci corde, il tuo decalogo, o Dio altissimo e dolcissimo.
    Ma che mancanze possono esserci contro di te, o Dio, che sei l’incorruttibile? Quali delitti contro di te, che non puoi essere danneggiato? Già: tu punisci cose che gli uomini commettono contro se stessi; infatti, anche quando peccano contro di te, fanno del male alla propria anima, e la loro iniquità inganna se stessa rovinando e pervertendo la propria natura che tu hai creato e perfezionato, o usando male di cose lecite o ardendo di desiderio per cose illecite per usarne in modo contrario alla natura. Oppure sono colpevoli nel loro intimo inveendo contro di te e ricalcitrando al tuo pungolo, o gioiscono sfacciatamente per avere spezzato i limiti della convivenza umana e creato associazioni private a delinquere secondo i propri gusti.
    Queste cose avvengono quando ti si abbandona, o fonte della vita, unico e vero reggitore dell’universo; a causa dell’orgoglio personale, si ama solo una parte di te, un’immagine falsa. Allora si ritorna a te con umile pietà, e tu ci purifichi dalle cattive abitudini, sei indulgente verso chi si riconosce peccatore, ascolti il pianto di coloro che hanno l ceppi ai piedi, ci liberi dalle catene con cui ci siamo legati da noi stessi, così che non alziamo più la testa contro di te in atteggiamento di illusoria libertà, bramosi di possedere di più e col rischio di perdere tutto preferendo il nostro bene particolare a te che sei il bene universale.




    IX

    E’ DIFFICILE GIUDICARE GLI UOMINI



    Ma oltre ai vizi, ai delitti e a tante altre iniquità, esistono i peccati di chi pur sta avanzando nel bene. Essi vengono biasimati da coloro i quali giudicano giustamente col metro della perfezione, ma vengono anche apprezzati perché si spera nei frutti futuri, come si spera che dall’erba venga il grano.
    Vi sono poi certe azioni che sono simili a peccati ma non lo sono, perché non arrecano offesa né a te, Signore nostro Dio, né alla società umana. Tale è il caso in cui a tempo opportuno ci si procurano cose utili per vivere, e non è che lo si faccia proprio per il gusto di possedere; o quando si punisce in forza di una legittima autorità col fine di correggere il colpevole, senza il manifesto intento di far soffrire. Dunque molte cose che agli uomini sembrerebbero riprovevoli, in realtà sono da te approvate, e molte cose che gli uomini elogiano, tu le condanni, poiché spesso succede che è diverso l’aspetto con cui un’azione si presenta dall’intenzione di chi la compie e dalle varie circostanze a noi ignote.
    Che se tu all’improvviso ordini qualcosa di insolito e di imprevisto, che magari un’altra volta avevi tu stesso proibito, anche se per il momento tieni nascosta la ragione della tua imposizione e anche se essa contrasta con le convenzioni fissate tra un determinato gruppo di uomini, certamente nessuno dubiterà del dovere di obbedire. Una società è giusta, infatti, nella misura in cui ubbidisce a te; e beato chi capisce che si tratta di un ordine tuo, perché chi ti serve fa ogni cosa o per adempiere ciò che è doveroso sul momento o per preannunciare ciò che accadrà in futuro.





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    X

    CENNI
    SULLE STRANE DOTTRINE DEI MANICHEI



    Io ignoravo queste cose, e così deridevo quei tuoi santi servitori e profeti, ma in realtà ero io ad essere deriso da te, scivolato com’ero pian piano a credere sciocchezze, come per esempio che il fico piange lacrime di latte quando lo si coglie, e così pure la pianta madre. Se però il fico lo mangia un eletto, il quale naturalmente si è conservato immune dal delitto di coglierlo, allora dal fico macerato nelle viscere vengono fuori, attraverso preghiere, gemiti e rutti, alcuni angeli, o meglio, alcune particelle di Dio, del sommo e vero Dio, che sarebbero rimaste prigioniere in quel frutto se non fossero state liberate ad opera dei denti e dello stomaco dell’eletto. E io, poveretto, ho creduto che si dovessero usare più riguardi ai frutti della terra che non agli uomini, mentre, in realtà, quelli nascono per servire a questi. Addirittura, se un affamato che non fosse manicheo chiedesse cibo, l’offrirgli anche un solo boccone sembrerebbe cosa degna di condanna alla pena capitale.




    XI

    MONICA PIANGE
    SULLA PERVERSIONE DEL FIGLIO



    Tu hai steso la tua mano dall’alto e hai tratto la mia anima da queste dense tenebre, poiché mia madre, tua fedele, piangeva su di me più che non piangano le madri la morte fisica dei figli. Ella, infatti, con l’occhio della fede e dello spirito che tu le donavi, vedeva la mia morte; e tu, Signore, l’hai esaudita. L’hai esaudita e non hai trascurato le sue lacrime che, sgorgando, rigavano il suolo ovunque ella si mettesse a pregare. L’hai esaudita. Infatti, da chi le venne se non da te quel sogno che la confortò così da accettare di tornare a vivere con me e a condividere la mia mensa, mentre prima s’era rifiutata di farlo per avversione alla mia eresia? Sognò, dunque, di stare in piedi sopra un regolo di legno, piangente e affranta, e un giovane luminoso e sorridente le andava incontro e le chiedeva perché fosse così triste e piangesse ogni giorno. La domanda era fatta, come spesso succede, non per apprendere qualcosa, ma per insegnare. E infatti, avendo ella risposto che piangeva sulla mia perdizione, questi la confortò proponendole di guardarsi bene attorno: là dov’era lei c’ero anch’io. Ella guardò e mi vide in piedi sullo stesso regolo.
    Che cosa voleva dire questo sogno, se non che le tue orecchie erano attente ad ascoltarla, o Bontà onnipotente, che ti curi di ognuno come se ci fosse lui solo, e di tutti come di ciascuno?
    Non solo, ma quando ella mi ebbe narrato il sogno, io tentavo di dirle che era piuttosto lei a non dover disperare di diventare un giorno come ero io. Ma ella subito, senza alcuna esitazione, mi rispose: “No, non mi è stato detto: “dove è lui, là sarai anche tu”, ma: “dove sei tu, là sarà anche lui”.
    Ti confesso, o Signore, questo mio ricordo; non l’ho mai nascosto. Mi ha turbato più questa risposta tua, data per bocca di mia madre da sveglia, che non il suo sogno. Ella non si è smarrita davanti alla mia interpretazione così verosimile ma falsa, e ha visto subito quello che era da vedere (e che io certamente non avevo visto prima che lei parlasse). In quel sogno, così, a consolazione della pena del momento, veniva predetta molto tempo prima alla pia donna la gioia che avrebbe goduto dopo.
    Seguirono infatti circa nove anni, nei quali mi avvoltolai in quella profonda fanghiglia e in quelle tenebre di errore, cercando spesso di alzarmi, e sprofondandomi invece sempre di più; eppure quella vedova casta, devota, morigerata, di quelle che tu prediligi, fatta ormai più animosa per la speranza, ma non per questo meno facile al pianto, non cessava di piangere dinanzi a te, in tutte le ore di preghiera. Le sue preghiere, così, arrivavano fino a te, ma tu lasciavi che io mi raggirassi ancora in quelle tenebre.




    XII

    NON PUO’ SUCCEDERE CHE IL FIGLIO
    DI COSI’ TANTE LACRIME VADA PERDUTO



    Nel frattempo mi desti un altro responso, che ora qui ricordo. Ne tralascio molti altri perché ho fretta di arrivare a quelli che più mi preme di far conoscere. Molti, d’altronde, non li ricordo più.
    Dunque mi desti un altro responso per mezzo di un tuo sacerdote, un certo vescovo formatosi nella tua chiesa e molto esperto nei tuoi libri. Quella donna lo aveva pregato di voler avere un colloquio con me per confutare i miei errori e insegnarmi la verità. Faceva sempre così quando le sembrava di incontrare persone adatte. Quegli però si rifiutò, e, come capii più tardi, molto saggiamente. Rispose infatti che io ero ancora indocile perché tutto pieno solo della novità di quella eresia e perché, come essa stessa gli aveva riferito, tronfio di aver già messo in crisi, con alcune questioncine, molte persone impreparate. Le disse: “Ma lascialo pure dov’è. Tu prega soltanto il Signore per lui: egli scoprirà da sé, leggendo, quanto sia grave quell’errore e quell’empietà”. Nello stesso tempo le raccontò che anche lui, da ragazzo, era stato affidato da sua madre ai manichei che l’avevano incantata; egli aveva non solo letto, ma anche trascritto quasi tutti i loro libri. Così gli era apparso chiaro, senza che nessuno discutesse con lui per persuaderlo, quanto quella setta fosse da fuggire. E di fatto l’abbandonò. Ella però non se ne stette a quelle parole, ma insisteva ancora più supplicandolo con molte lacrime perché mi incontrasse e mi parlasse; allora il vescovo in tono seccato: “Va’ – le disse – sta’ in pace! Non può succedere che il figlio di così tante lacrime vada perduto!”. Queste parole furono da lei accolte come se fossero venute dal cielo, e spesso me lo ricordava nei nostri colloqui.






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    LIBRO QUARTO

    L’insegnante




    I

    SEDOTTO E SEDUTTORE



    Durante quei nove anni, dai diciannove ai ventotto anni di età, fui tante volte sedotto e seduttore, ingannato e ingannatore, in mezzo alle più diverse passioni, nell’insegnamento pubblico delle discipline cosiddette liberali e nella pratica privata di una religione indegna di tale nome, superbo nell’uno, superstizioso nell’altra, vano in entrambi: nell’uno all’inseguimento di una inutile popolarità e degli applausi teatrali, dei certami poetici, delle gare per una corona di fieno, dei spettacoli leggeri e dei disordini passionali; nell’altra alla ricerca di una purificazione da tutte queste indegnità, mediante l’offerta di alimenti ai cosiddetti eletti o santi, affinché essi, elaborandoli nel loro stomaco, ne ricavassero angeli o divinità per la nostra liberazione.
    Seguivo queste credenze e facevo queste cose insieme con i miei amici, ingannati come me e a causa mia.
    Si prendano pure gioco di me coloro che possono vantarsi di non essere mai stati umiliati e schiacciati per la loro salvezza da te, mio Dio: io non mi tratterrò per questo dal confessarti le mie azioni indegne a tua lode. Ti prego, consentimi di poter ripercorrere con la memoria il cammino dei miei trascorsi errori e di immolarti una vittima di gioia.
    Che cosa sono io senza di te, se non la guida di me stesso verso l’abisso? Che cosa sono, quando sto bene, se non uno che succhia il tuo latte e che si nutre di te, cibo incorruttibile? E che cos’è l’uomo, qualunque uomo, se è solo uomo?
    Si prendano pure gioco di me i forti, i potenti: io, debole e misero, non cesserò di confessarmi a te.




    II

    INSEGNA RETORICA – AMA UNA DONNA



    In quegli anni insegnavo retorica: vendevo cioè chiacchiere per insegnare ad essere vincitore nelle cause, io che ero un vinto dalle passioni. Tuttavia preferivo, tu lo sai, Signore, avere discepoli buoni nel senso vero del termine, ed insegnavo loro, senza ingannarli, quegli inganni con i quali potessero un giorno non già danneggiare un innocente, ma semmai salvare forse un colpevole; e tu, Dio, vedesti di lontano le mie convinzioni ondeggiare su quei sentieri scivolosi e, in mezzo a molto fumo, gettare anche un po’ di luce; io le offrivo ai miei discepoli che, come me, amavano la vanità e cercavano il falso.
    In quegli anni tenevo presso di me una donna che però non mi era unita da matrimonio, come si dice, legittimo; l’avevo presa nel mio vagabondare in mezzo a quelle passioni così prive di saggezza. Tuttavia avevo lei sola, e le fui anche fedele. Sperimentai in quella situazione quanto sia diverso un patto coniugale sancito ai fini della procreazione, e una intesa fondata soltanto sulla passione amorosa, dalla quale possono anche nascere figli forse non direttamente voluti, ma che, una volta nati, si fanno amare.
    Ricordo anche che, avendo voluto partecipare a un concorso di poesia in teatro, un aruspice (non so chi fosse) mi mandò a chiedere cosa fossi stato disposto a dargli come compenso per poter vincere; gli risposi che detestavo e disprezzavo quei suoi luridi riti, e che non avrei lasciato che s’immolasse neppure una mosca per la mia vittoria, anche se la corona fosse stata d’oro incorruttibile. Quegli, infatti, era in procinto di uccidere animali per fare i suoi sacrifici ed evidentemente intendeva, con quegli omaggi, invocare per me l’aiuto dei demoni. Ma se rifiutai anche questo male, non lo feci spinto da purezza di cuore, Dio dell’anima mia, perché non sapevo amarti, non sapendo pensare che a valori materiali. Un’anima che va sospirando dietro a tali falsità non commette forse adulterio contro di te, e non si affida forse a menzogne e nutre aria? Io che non volevo si facessero sacrifici ai demoni per me, offrivo poi me stesso a loro grazie a quelle superstizioni. Che cos’altro significa, infatti, nutrire l’aria se non nutrire i demoni, cioè con i propri errori offrirsi in pasto al loro piacere e alla loro derisione?



    III

    INTERESSE PER L’ASTROLOGIA



    Pertanto non cessavo di consultare quei ciarlatani che chiamano astrologi, perché essi non fanno immolazioni e non rivolgono alcuna preghiera a spiriti per poter esercitare la divinazione. Tutte queste cose, però, sono egualmente rifiutate e condannate dalla vera fede cristiana. E’ cosa buona celebrare te, Signore, e dirti: Abbi pietà di me: guarisci la mia anima, poiché ho peccato contro di te; ed è bene, d’altra parte, non abusare della tua misericordia ritenendosi liberi di peccare, ma ricordarsi delle parole divine: Sei stato guarito: non peccare più, perché non ti abbia a capitare qualcosa di peggio. Tutto questo piano di salvezza quei ciarlatani cercano di distruggerlo dicendo: “E’ inevitabile che tu pecchi: la causa viene dal cielo. E’ opera di Venere, oppure di Saturno, o di Marte”. Purché, insomma, l’uomo risulti senza colpa, lui che è carne e sangue, putredine superba, s’incolpa il creatore e ordinatore del cielo e degli astri: e questi chi è se non tu, nostro Dio soave, fonte della giustizia, che dai a ciascuno secondo il proprio operato, e non disprezzi un cuore pentito e umiliato?
    Viveva in quell’epoca un uomo sagace, bravo medico e famoso come tale, il quale, in sostituzione del console, aveva posto di sua mano, sul mio capo malato la corona agonistica; ma non lo fece come medico. Tu solo, infatti, sei il Medico che guarisce quel genere di malattie, tu che resisti ai superbi e dai la tua grazia agli umili. Ma anche attraverso quel vegliardo tu non mi sei mancato e non hai smesso di curare la mia anima! Ero entrato in confidenza con lui ed ero assiduo e attento ai suoi discorsi, i quali erano privi di ricercatezze verbali, ma piacevoli e profondi insieme per la ricchezza di pensiero. Quando da un nostro colloquio venne a sapere che mi ero dato allo studio del libro degli oroscopi, con paterna bontà mi consigliò di buttarli via e di non sprecare tempo e fatica in cose vane, ma d’impegnarmi in cose utili. Mi disse che anche lui li aveva studiati e che in gioventù aveva pensato di farne la professione di cui vivere, ritenendo che, se era riuscito a capire i testi di Ippocrate, avrebbe potuto capire anche quelli. Più tardi, però, decise di abbandonarli per seguire la medicina, proprio perché li aveva trovati completamente falsi e non voleva, uomo serio quale era, guadagnarsi il pane imbrogliando la gente. E soggiunse: “Ma tu che possiedi l’arte della retorica con la quale vivere, e coltivi queste falsità solo per libera passione e non per necessità economica, devi tanto più credere a me che mi sono dato da fare ad impararle col fine di farne il mio unico sostentamento”. Io gli chiesi qual era la ragione per cui spesso le affermazioni di quei testi si rivelavano vere, ed egli mi rispose come poté che ciò era dovuto al caso, presente ovunque in natura. Se infatti, disse, consultando le pagine di un qualsiasi poeta che canta e pensa una determinata cosa, spesso ne esce un verso straordinariamente adatto a tutt’altra cosa, non c’è da meravigliarsi se dall’anima umana, pur ignara di quanto le sta accadendo, per una qualche ispirazione superiore escano parole che non ad arte ma per caso si adattano bene con la situazione dell’interrogante.




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    Questo avvertimento tu me lo facesti avere da quell’uomo, o forse è meglio dire per mezzo di quell’uomo, e tracciasti così nella mia mente le linee di un pensiero che poi avrei rielaborato da solo. Allora però né lui né il mio carissimo Nebridio, giovane molto buono e retto che soleva ridere di qualsiasi genere di divinazione, riuscirono a convincermi di liberarmene: poteva di più su di me l’autorità di quegli autori, e d’altronde non avevo ancora trovato una argomentazione certa come la volevo io, con la quale mi apparisse chiaro che i responsi di quei tali erano veri soltanto per caso e non per la loro bravura di osservatori degli astri.




    IV

    LA MORTE DI UN AMICO:
    SCONFORTO DI AGOSTINO



    In quegli anni in cui avevo appena incominciato a insegnare nella città dove sono nato, mi ero fatto un amico che, avendo gli stessi miei interessi di studio, mi era assai caro. Era mio coetaneo e come me nel fiore della giovinezza; eravamo stati ragazzi insieme e compagni di scuola e di giochi, ma solo allora era diventato veramente mio amico, quantunque neanche quella fosse vera amicizia, perché è vera solo quella che unisce persone legate a te dalla carità diffusa nei propri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci è stato donato. Comunque quell’amicizia, maturata al calore dei medesimi interessi, era per me piena di dolcezza. Lo avevo anche sviato dalla fede vera che egli, giovinetto, professava un po’ superficialmente, e lo avevo trascinato in quelle falsità superstiziose e dannose per le quali mia madre piangeva su di me. La sua mente era ormai nell’errore come la mia, ed io non potevo più stare senza di lui. Ma ecco che tu piombasti alle spalle di questi due fuggiaschi, o Dio delle vendette e nello stesso tempo fonte di ogni misericordia, che fai ritornare a te gli uomini nei modi più mirabili: lo togliesti a questa vita; eravamo amici da appena un anno, e quell’amicizia era stata la cosa più dolce di quel periodo della mia vita.
    Chi può enumerare i motivi per elogiare te, anche solo quelli sperimentati personalmente?
    Ebbene, che cosa hai fatto mai, mio Dio? Come è vero che le tue decisioni sono un abisso investigabile! Colpito da febbri, egli stette a lungo in stato di incoscienza, madido di sudore di morte; siccome si disperava di salvarlo, fu battezzato in quello stato. Io non mi curai della cosa, convinto che egli avrebbe conservato impresse nell’animo piuttosto le cose che aveva apprese da me che non quanto veniva fatto sul suo corpo senza che neanche se ne accorgesse. E invece le cose stavano molto diversamente. Si riprese, e, fuori pericolo, appena potemmo conversare (il che avvenne molto presto, cioè appena egli poté parlare, poiché io non mi allontanavo da lui, tanto eravamo legati a vicenda) tentai di mettere in ridicolo ai suoi occhi il battesimo che aveva ricevuto mentre era completamente incosciente, e di cui ormai era stato informato. Ero sicuro che avrebbe riso con me; egli invece si dimostrò disgustato di me come di un nemico, e con straordinaria e veemente franchezza mi avvisò che, se volevo essergli amico, smettessi di parlare in quel modo. Stupito e sconvolto, pensai di non manifestare sul momento quello che provavo; prima si ristabilisse, si rimettesse in forze, e poi avrei potuto trattare l’argomento come volevo.
    Egli però fu sottratto alle mie farneticazioni per essere conservato presso di te a mio conforto: dopo pochi giorni, infatti, mentre io ero assente, fu ripreso dalla febbre e morì.
    La sofferenza immerse il mio spirito nelle tenebre, e dovunque guardavo era morte.
    La mia città mi diventò un tormento, la casa paterna un motivo di infelicità incredibile, e tutte le cose che avevo avuto in comune con lui ora, senza di lui, si trasformavano in sofferenza senza limiti. Lo cercavo con gli occhi dovunque, ma non mi era più dato di incontrarlo; detestavo il mondo intero perché lui non c’era più, e nessuno poteva dirmi: “eccolo, viene”, come quando, da vivo, era stato momentaneamente assente. Ero diventato un grosso problema a me stesso; mi chiedevo perché fossi così triste e così angosciato, e non sapevo darmi una risposta. Se mi dicevo: spera in Dio!, il mio spirito non mi obbediva, e a ragione, perché era più reale e migliore la persona carissima che avevo perduta che non quel fantasma vago in cui avrei dovuto sperare. Soltanto il pianto mi era dolce: e fu la cosa che sostituì il mio amico nel confortare il mio animo.




    V

    PIANTO CONSOLATORE



    Ormai, Signore, quelle cose sono passate, e il tempo ha lenito la ferita. Posso sentirmi spiegare da te, che sei la verità, perché il pianto è dolce agli infelici? Forse che, sebbene onnipresente, hai respinto lontano da te la nostra infelicità per rimanertene chiuso in te stesso mentre noi ci agitiamo nelle nostre esperienze di dolore? Eppure, se non ci fosse dato neppure di piangere al tuo cospetto, non ci resterebbe proprio nulla da sperare. Ma dunque, come può avvenire che si colgano dalle amarezze della vita frutti soavi di gemito, pianto, sospiri e lamenti? O forse di soave c’è il fatto che speriamo di essere ascoltati da te! Ciò è giusto nelle preghiere, perché queste mirano proprio a farsi esaudire; ma in un dolore per la perdita di qualcosa o in un lutto come quello che allora mi opprimeva!... Non aspettavo certo che il mio amico risorgesse, né il mio pianto chiedeva questo: era soltanto pianto di dolore; ero un pover’uomo e avevo perduto la mia felicità.
    Forse che il pianto è una realtà di per sé amara, ma che dà sollievo in quanto distoglie da tutte quelle cose di cui prima invece si gioiva?





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    00 25/04/2011 18:18

    VI

    NOIA DELLA VITA E, INSIEME,
    PAURA DI MORIRE



    Ma perché parlo di queste cose? Non è il momento di farti delle domande, bensì di confessarmi a te. Ero infelice, come lo è ogni animo legato da affetto verso realtà mortali; esso, nel momento in cui le perde, si sente lacerato, e solo allora sente di essere infelice, quantunque già lo fosse prima di perderle. Così io ero in quei momenti, e versavo lacrime piene di amarezza; nell'amarezza trovavo sollievo! Così ero infelice, e quella vita infelice mi era ormai cara più dell'amico perduto. Avrei, sì, voluto cambiarla, però non avrei mai accettato di rinunciarvi per riavere lui; non so se avrei fatto ciò che la tradizione dice di Oreste e Pilade, i quali, se pur non è tutta un'invenzione, avrebbero chiesto di morire almeno insieme, poiché il non vivere insieme era per loro peggio della morte. In me era sorto un sentimento non ben chiaro, ma certo del tutto opposto a questo; si trattava di una profonda noia della vita e insieme di una gran paura di morire. Credo che, quanto più amavo lui, tanto più provassi odio e paura per la morte come per la più feroce avversaria, che me lo aveva portato via e che mi immaginavo in procinto di divorare tutti gli uomini come aveva fatto di lui. Sì, mi ricordo, ero proprio in questo stato d'animo.
    Ecco, Dio mio, il mio cuore, eccolo nel suo intimo; vedilo nei miei ricordi, o mia speranza, che mi purifichi da tali impuri sentimenti dirigendo il mio sguardo a te e liberando dal laccio i miei piedi.
    Mi sembrava strano che continuasse la vita per tutti gli altri mortali, poiché colui che avevo amato come se non avesse dovuto morire mai, era morto; e più ancora mi meravigliavo di essere vivo io, essendo morto lui di cui io ero l'alter ego. Chi definì l'amico metà della propria anima, lo definì molto bene. Avevo infatti la sensazione che le nostre due anime fossero una sola in due corpi, e perciò detestavo la vita poiché non volevo vivere dimezzato, e forse temevo la morte perché non volevo che morisse totalmente colui che avevo molto amato.




    VII

    BISOGNO DI CAMBIARE AMBIENTE:
    AGOSTINO LASCIA TAGASTE



    Che pazzia non saper amare gli uomini così come sono! Sciocco chi non sa sopportare di essere uomo! Ed io allora ero così, e per questo ribollivo, gemevo, piangevo, mi agitavo, senza trovare pace, senza saper che fare. Portavo in me un'anima dilaniata e sanguinante, che sembrava non voler più farsi portare da me; ma io non trovavo dove deporla: non aveva pace né negli ameni boschetti né nei giochi e nei canti né nei giardini profumati né nei conviti ben apparecchiati o nei piaceri dell'alcova, e neppure nei libri e nella poesia. Tutto era insopportabile, persino la luce, e qualunque cosa diversa da ciò che era stato lui era penosa e detestabile; facevano eccezione solo il pianto e le lacrime, perché solo in essi trovavo un po' di pace. Quando mi erano tolti anche quelli, allora la mia anima diventava un enorme peso che mi schiacciava nell'angoscia. A te, Signore, avrei dovuto sollevarla, da te farla curare; lo sapevo, ma non lo volevo né lo potevo, tanto più che allora, quando pensavo a te, tu non mi apparivi come qualcosa di ben definito: non eri tu, ma il mio dio era un fantasma evanescente, era il mio errore. Se provavo a posare lì la mia anima per farla riposare, essa cadeva nel vuoto, e così ripiombava su di me, mentre io mi ritrovavo ad essere un luogo d'infelicità per me stesso, dove non potevo stare e da dove non potevo neppure allontanarmi. Dove mai avrebbe potuto fuggire il mio animo lontano dal mio animo? Come avrei potuto fuggire da me stesso, come non inseguirmi? Tuttavia fuggii dalla patria; i miei occhi avrebbero cercato di meno l'amico in luoghi dove non erano abituati a vederlo, e così da Tagaste andai a Cartagine.





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    00 27/05/2011 21:22

    VIII

    LA VITA RICOMINCIA



    Il tempo non si ferma né passa invano sui nostri sentimenti, anzi agisce straordinariamente sul nostro animo. Arrivava e passava giorno dopo giorno, e, venendo e passando, mi faceva balenare nuove speranze, altri ricordi, e poco alla volta risuscitava in me l’interesse per i precedenti piaceri, che così andavano sostituendosi al dolore. Ma a sostituirvisi, se non erano proprio altri dolori, certo erano motivi di nuovi dolori. Del resto, come mai quella sofferenza era potuta penetrare così facilmente e così profondamente in me, se non perché avevo disperso la mia anima nella sabbia amando un essere mortale come se fosse immortale?
    Soprattutto mi dava conforto e sollievo l’amicizia di altri; insieme con essi ero attratto da ciò che mi attraeva in vece tua, e cioè grosse fandonie e complicate invenzioni, al cui contatto ingannatore si corrompeva la nostra mente, solleticata dal prurito di ascoltare novità. Tutti quegl’inganni per me non morivano, anche se moriva uno degli amici.
    E poi c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti, peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo.




    IX

    BEATO
    CHI AMA DIO E GLI ALTRI IN LUI



    Sono queste le cose che si amano negli amici, e si amano in modo tale che ci si sente colpevoli in coscienza se all’amore non si risponde sempre con l’amore, senza chiedere all’altro nulla all’infuori dell’amore. Di qui il lutto quando muore un amico, le tenebre del dolore, la dolcezza che si trasforma in amarezza, il cuore gonfio di pianto e il senso di morte che coglie i vivi per la perdita della vita di chi muore.
    Beato chi ama te e in te ama l’amico e il nemico nel nome tuo! E’ solo lui, infatti, che non perde mai persona cara perché tutti gli sono cari in colui che non si perde mai, e cioè nel nostro Dio, il Dio che ha creato il cielo e la terra e che li riempie di sé in quanto, appunto, riempiendoli di sé li ha creati. Nessuno può perdere te se non chi ti abbandona; ma, abbandonandoti, dove andrà, dove fuggirà se non lontano dalla tua bontà per correre verso la tua collera? E dovunque egli, nella sua pena, s’imbatterà nella tua legge, la tua legge che è verità; e la verità sei tu.





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    00 03/06/2011 17:23



    X

    LE CREATURE DEVONO SERVIRE
    PER RISALIRE AL CREATORE,
    NON PER ATTACCARVI IL PROPRIO CUORE




    O Dio di virtù, fa che ci volgiamo a te, mostraci il tuo volto e saremo salvi. Dovunque si rivolga fuori di te, l’animo umano è inchiodato al dolore, anche se si attacca a quanto di bello ci può essere fuori di te e di sé. Eppure le cose belle non esisterebbero se non provenissero da te. Nascono e muoiono: nascendo cominciano ad esistere e a crescere per arrivare poi a maturità, ma subito, una volta mature, decadono e muoiono. E anche se non tutte decadono, tutte però muoiono. Nel momento stesso in cui nascono, dunque, e tendono all’esistenza, quanto più rapidamente crescono verso l’essere, tanto più corrono verso il non essere. Questo è il loro limite, e tu l’hai dato loro perché sono parti della realtà, la quale non esiste tutta insieme, ma è fatta appunto di parti che scompaiono, si succedono e che così formano l’insieme del tutto. Anche il nostro parlare si svolge in questo modo, attraverso suoni convenzionali, e il discorso non sarà mai intero se ogni parola non muore dopo aver emesso la sua parte di suono per lasciare posto ad un’altra parola.
    Davanti a quelle cose la mia anima deve tessere le tue lodi, o Dio creatore di tutto, non già attaccarvisi con affetto sensibile. Esse infatti vanno là dove erano dirette, cioè verso il nulla, e lacerano l’anima con passioni malsane, perché l’anima desidera l’esistenza e vuol trovare sollievo nelle cose che ama. Lì però non c’è possibilità di sollievo, perché le cose non sono stabili; sfuggono, e chi mai riesce a inseguirle con i sensi o ad afferrarle, anche se sembrano a portata di mano? I sensi sono tardi appunto perché sono sensi carnali, e questo è il loro limite. Valgono per altri scopi, per i quali sono fatti, ma non per trattenere le cose che velocemente passano dalla nascita alla loro inevitabile fine: dalla tua parola che le crea si sentono dire: “Da qui a qui!”




    XI

    DIO NON PASSA



    Non essere vuota, o anima mia; non assordare l’orecchio del cuore con il tumultuare delle tue vanità. Ascolta anche tu: la Parola stessa ti grida di ritornare. C’è quiete imperturbabile là dove l’amore non è abbandonato, a meno che non abbandoni egli stesso. Qui invece ogni cosa svanisce, altre ne succedono e così via via si forma l’universo delle realtà inferiori.
    Ma il verbo di Dio dice: “Forse che anch’io svanisco?” Poni dunque la tua abitazione in lui, anima mia, a lui affida tutto ciò che da lui ricevi, stanca come sei, ormai, di essere ingannata! Affida alla Verità tutto ciò che ti viene da lei, e non perderai nulla; rifiorirà quanto in te c’è di marcio, guarirà ogni tua malattia e ogni debolezza ti verrà sostenuta, riparata, rinnovata, né più sarai trascinata in basso, ma resti sempre in piedi presso Dio onnipresente e stabile.
    Perché ti lasci pervertire e segui la tua carne? Sia lei, piuttosto, a convertirsi e a seguire te! Tutto ciò che ella ti fa sentire è parziale, e così non puoi conoscere la totalità.
    Eppure quelle parti del tutto ti arrecano piacere! Ma se i sensi della tua carne fossero idonei a comprendere il tutto e non avessero subito in ciò una giusta limitazione come castigo per te, tu vorresti che ogni realtà ora esistente ti passasse davanti per poterne cogliere meglio ogni piacere. Anche ciò che diciamo tu lo cogli attraverso i sensi, e non vuoi certo che le sillabe si fermino, ma vuoi che scorrano perché passino tutte e tu possa in tal modo sentire l’intero discorso. Così accade per tutto ciò che è parziale e concorre a formare un’unica sostanza, le cui parti non esistono tutte simultaneamente: recano più piacere se si possono cogliere tutte, che non ciascuna separatamente.
    Tuttavia molto migliore di ogni cosa è colui che ogni cosa ha creato, il nostro Dio, il quale non passa e da nulla può essere sostituito.






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    XII

    CALOROSO INVITO A CERCARE DIO,
    UNICA FONTE DI FELICITA’



    Se ti piacciono i corpi, ringrazia Dio per essi e volgi il tuo amore a chi li ha creati, perché non ti succeda di dispiacere a lui nel gustare quelli. Se ti piacciono le anime, amale in Dio, poiché anch’esse sono mutevoli, ed è solo in lui che diventano stabili; altrimenti passano e periscono. Dunque amale in lui, e trascinane con te a lui quante puoi, dicendo loro: “Amiamolo, amiamolo!”. E’ lui che ha creato queste realtà, e ora non è lontano da esse, perché non le ha abbandonate dopo averle create; esse provengono da lui e in lui esistono. Dov’è e dove si gusta la verità? E’ nell’intimo del nostro cuore ; è il nostro cuore che si è allontanato da lui.
    Rientrate, dunque, nei vostri cuori, o traviati, e aderite a lui che vi ha creato. Rimanete stabilmente con lui, e sarete saldi, riposate in lui e avrete pace. Dove volete andare, in cerca di sofferenze? Dove volete andare? Il bene che desiderate viene da lui, ma è bene e dolcezza solo in quanto è ordinato a lui; sarà invece giustamente amaro se, abbandonando lui, ingiustamente si ama ciò che da lui deriva. Perché continuare a vagare per strade difficili e faticose? La pace non è dove la cercate voi! Cercatela, poiché la volete, ma essa non è lì dove la cercate. Voi cercate una vita felice in luogo di morte: non ci può essere! Come potrebbe esserci vita felice dove non c’è neppure vita?
    E’ scesa quaggiù la vita nostra, la vera vita; si è caricata della nostra morte per ucciderla con la sovrabbondanza della sua vita, e ha fatto risuonare con forza il suo richiamo perché noi risalissimo da quaggiù a lui, in quel luogo inaccessibile da dove egli venne a noi, entrando prima nell’utero di una vergine per unirsi alla natura umana, alla carne mortale e renderla immortale; poi di là come uno sposo che esce dalla camera nuziale prese a correre la sua strada con un gioioso balzo da gigante. Non si attardò, infatti, ma corse gridando con le parole, con i fatti, con la sua morte, la sua vita, che tornassimo a lui: per questo era sceso, e per questo poi risalì e scomparve agli occhi nostri, perché noi tornassimo all’intimo del nostro cuore dove l’avremmo ritrovato. Se n’è andato, infatti, eppure è qui. Non volle stare troppo tempo con noi, eppure non ci ha lasciati. E’ partito per quel luogo da dove non era mai venuto via, perché per mezzo suo fu fatto il mondo, ed era in questo mondo; è venuto in questo mondo per salvare i peccatori. La mia anima si confessa a lui, ed è lui che la guarisce perché contro di lui essa ha peccato.
    O uomini, fino a quando vorrete avere un peso simile sull’anima? Vorrete forse non risalire alla vita neanche dopo che la vita è scesa a voi? Ma dove salirete se siete già in alto e a parole siete già in cielo? Scendete per poter salire a Dio, perché nel salire contro di lui siete caduti in basso!
    Dì loro queste cose, anima mia, affinché piangano nella valle del pianto, e così trascinale via con te verso Dio: dirai queste cose ripiena dello Spirito di Dio, se le dirai infiammata dal fuoco della carità.




    _________Aurora Ageno___________
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