Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!

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LE CONFESSIONI - S. AGOSTINO (a puntate)

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    00 09/06/2011 18:12

    XIII

    AGOSTINO
    AUTORE DI UN TRATTATO SULLA BELLEZZA



    Io allora non capivo queste cose; amavo invece le cose belle di quaggiù e camminavo così verso l’abisso, dicendo ai miei amici: “Amiamo forse ciò che non è bello? E che cos’è il bello, che cos’è la bellezza? Che cos’è che ci attrae e ci concilia con le cose che amiamo? Se non ci fosse in esse armonia e bellezza, non ne saremmo attratti”. Notavo, dunque, e vedevo che in un corpo una cosa è il suo insieme che è la bellezza, e un’altra cosa è la sua consonanza con altri corpi che è l’armonia; tale è la parte nei riguardi del tutto, la calzatura nei riguardi del piede, ecc.
    Questa considerazione scaturì in me dall’intimo dell’anima, e scrissi perciò alcuni libri, non so se due o tre, intorno alla bellezza e all’armonia; lo sai tu, mio Dio, perché io li ho dimenticati e non li ho più; li ho perduti, non so neppure in che modo.




    XIV

    L’ORATORE GERIO;
    PERCHE’ SI AMMIRA UN UOMO



    Che cosa fu, Signore Dio mio, che mi spinse a dedicare quei libri all’oratore romano Gerio? Personalmente non lo conoscevo, ma mi piaceva perché famoso per la sua cultura e perché avevo sentito alcune sue parole che mi avevano colpito. Soprattutto mi piaceva perché piaceva agli altri, dai quali era molto esaltato; si stupivano che da un Siriano, conoscitore dell’eloquenza greca, fosse venuto fuori anche un ottimo parlatore della lingua latina e un profondo conoscitore di filosofia. Dunque si elogia un uomo e lo si ama anche da lontano; ma forse che questo amore si trasmette nell’animo di chi ascolta provenendo dalla bocca di chi elogia? No davvero, è piuttosto per il fatto che uno ama che l’altro si accenda d’amore. Si ama infatti la persona elogiata quando si è convinti che l’elogio non nasce da adulazione, ma dall’amore di chi elogia.
    In questo modo io allora amavo gli uomini, seguendo il criterio di giudizio degli uomini, non il tuo, o mio Dio, con il quale nessuno rimane ingannato. Come mai, però, non elogiavo Gerio come si fa per un famoso auriga o per un celebre cacciatore, beniamino delle folle, ma in modo molto diverso, cioè con serietà e così come avrei voluto essere elogiato io? Io non avrei certo voluto essere lodato e amato come lo sono gli attori, quantunque anch’io li lodassi e li amassi; avrei preferito essere un personaggio oscuro che essere noto in quel modo, essere odiato che essere oggetto di un amore di quel genere.
    Ma come si distribuiscono in una medesima anima questi vari amori col loro diverso peso? Come avviene che si ama in un altro ciò che invece si detesta e non si vuole per se stessi? Eppure siamo uomini entrambi. Un buon cavallo lo si ama pur non volendo essere uguale a lui, anche se si potesse; ma la stessa cosa non si può dire di un attore, il quale partecipa della nostra natura. Amo, dunque, nell’uomo ciò che detesto di essere pur essendo anch’io uomo? E’ davvero un grande mistero l’uomo; ma tu, Signore, conosci persino il numero dei suoi capelli e non te ne sfugge uno! E già i capelli sono molto più facilmente conoscibili che non gli affetti e i sentimenti di un cuore.
    Quell’oratore, dunque, apparteneva a quel genere di uomini che io amavo a tal punto da desiderare di somigliargli. Andavo errando gonfio d’orgoglio ed ero sbattuto qua e là da ogni soffio di vento, mentre tu nascostamente mi stavi guidando. Come faccio a sapere che amavo quell’uomo più per l’amore di chi lo elogiava che per i motivi stessi per i quali veniva elogiato? Da dove ricavo tale certezza per cui posso affermare ciò? Se non lo avessero elogiato, ma biasimato, e avessero raccontato di lui le stesse cose ma con disprezzo, non mi sarei acceso di entusiasmo per lui; eppure i fatti non sarebbero certo stati diversi, né egli sarebbe stato un altro: sarebbe stato diverso solo il sentimento di chi raccontava.
    Ecco la condizione di un’anima debole, non ancora saldamente attaccata alla verità. A seconda di come soffia il vento delle parole di chi esprime un parere, essa si lascia trasportare, girare e rigirare, così che le viene a mancare la luce e non vede più la verità; eppure la verità è lì, davanti a lui.
    Se poi quel personaggio fosse venuto a conoscenza della mia loquela e dei miei studi, sarebbe stata per me una gran cosa; se li avesse approvati, ne avrei ricevuto una spinta per il mio entusiasmo; se li avesse criticati, il mio cuore vuoto e instabile ne avrebbe ricevuto una profonda ferita. E intanto contemplavo con intima soddisfazione quell’opera sulla bellezza e l’armonia che avevo dedicato a lui, e l’ammiravo anche se nessun altro l’ammirava con me.




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    00 28/06/2011 21:24

    XV

    COMPIACIUTE ELUCUBRAZIONI DI AGOSTINO:
    MA DIO RESISTE AI SUPERBI



    Il fulcro però di una realtà così grande non lo vedevo ancora nella tua arte, o Onnipotente, o unico operatore di cose meravigliose! Il mio spirito passava in mezzo alle varie forme corporee e definivo bello ciò che è di per se stesso ben fatto e armonioso, ciò che lo è in relazione ad altro; e facevo questa distinzione in base ad esempi concreti. Mi volsi anche a meditare sulla natura dell’anima, ma la falsa opinione che avevo delle cose spirituali non mi permetteva di vedere la verità. La forza stessa della verità mi balzava agli occhi, eppure io distoglievo la mia mente tutta in agitazione dalla realtà incorporea per fissarla sulle linee, sui colori, sulle grandi masse; e, poiché non riuscivo a vedere queste cose nell’anima, ritenevo impossibile cogliere la realtà stessa dell’anima. Siccome poi della virtù mi piaceva la serenità e del vizio detestavo i tormenti, notavo nella virtù l’unità, nel vizio una certa divisione, e mi sembrava che in quella unità ci fosse l’essenza dell’anima razionale nonché della verità e del sommo bene; in quella divisione, invece, vedevo una certa quale sostanza irrazionale e l’essenza del sommo male, e la ritenevo – povero me! – non solo sostanza, ma vita: eppure essa non deriva da te, o mio Dio, dal quale deriva ogni cosa. Quella la chiamavo monade, quasi intelligenza senza sesso, questa invece diade, in quanto collera nel delitto e piacere nel vizio: non sapevo che cosa dicevo! Non sapevo, infatti, non avevo imparato che il male non è sostanza e neppure che la nostra intelligenza è un bene supremo e immutabile.
    Come il delitto avviene quando l’impulso dell’anima è vizioso e si manifesta nell’orgoglio più torbido; come si ha il vizio quando non si controllano quegli affetti dell’anima ai quali attinge il piacere sensibile, così gli errori e le opinioni false contaminano l’esistenza se è viziata la stessa anima razionale. E viziata era allora in me l’anima, non sapendo io che avrebbe dovuto essere illuminata da un’altra luce se voleva essere fatta partecipe della verità; non è essa infatti la verità, ma sarai tu, Signore, ad illuminare la mia lucerna, tu, o Dio mio, illuminerai le mie tenebre, perché dalla tua pienezza tutti noi abbiamo sempre attinto. Tu sei la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, poiché in te non c’è mutazione alcuna, né alcun avvicendamento di cose.
    Ma io mi sforzavo di raggiungerti, senonché eri tu a respingermi, affinché io assaporassi la morte, poiché tu resisti ai superbi. E che cosa c’è di più superbo che asserire, come facevo io con non comune pazzia, la mia connaturalità con te? Siccome io ero mutevole, e ciò mi appariva chiaro poiché proprio per questo volevo diventare sapiente per essere sempre migliore, mi piaceva pensare mutevole anche te, piuttosto che pensare me diverso da come sei tu.
    E così tu mi respingevi e resistevi alla mia testa dura e vuota! Lavoravo di fantasia intorno a forme corporee; ero carne e accusavo la carne; ero un soffio che passa e non mi decidevo a ritornare a te, e andavo vagando tra cose che non esistono né in te né in me, né in alcun corpo materiale, e che non erano creature tue, ma frutto della mia vuotaggine che le immaginava corporee. Dicevo agli umili tuoi fedeli, miei compatrioti dai quali però ero inconsciamente lontano come in esilio, dicevo con sciocca petulanza: “Perché dovrebbe sbagliare l’anima che Dio ha creato?”. E non volevo che mi si ribattesse: “E perché allora dovrebbe sbagliare Dio?”, preferendo sostenere che la tua immutabile natura è costretta a sbagliare, piuttosto che riconoscere che era la mia, mutabile, ad avere deviato dalla strada giusta e a continuare ad errare per punizione. Avevo circa ventisei o ventisette anni quando scrissi quei libri, elaborando dentro di me immagini materiali che tempestavano l’orecchio del mio cuore, quell’orecchio che andavo tendendo, o dolce verità, alla tua melodia interiore nella meditazione della bellezza e dell’armonia, nonché nel desiderio di potermi fermare dinanzi a te a gioire nell’ascolto della voce dello sposo; ma ciò non mi era possibile poiché ero trascinato via dalla tempesta del mio errore e cadevo sempre più in basso sotto il peso della mia superbia. Tu non davi gioia, non davi letizia alle mie orecchie, né le mie ossa potevano esultare, perché non si erano ancora umiliate.




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    00 04/07/2011 16:47

    XVI

    INUTILITA’ DELLA CULTURA;
    UTILITA’ DI LIBERARSI PRIMA DALLE PASSIONI



    Che cosa poteva servirmi l’aver letto e capito da solo, a circa vent’anni, uno scritto di Aristotele intitolato “Le dieci categorie”, capitatomi fra le mani? Quando il mio maestro cartaginese di retorica e altre persone reputate dotte citavano quel nome riempiendosene la bocca, io restavo attonito e ansioso come davanti a chissà quale realtà grandiosa, divina.
    Ne volli trattare con alcuni i quali dicevano di averlo compreso a fatica pur da maestri coltissimi, e non solo dalle loro parole, ma anche attraverso molte illustrazioni fatte col gesso; eppure non seppero dirmi nulla di più di quanto avevo capito da solo leggendomelo. Mi sembrava che esso fosse sufficientemente chiaro nel parlare di sostanze come quella dell’uomo e delle proprietà che sono in esse, come la figura esterna, di quanti piedi è la sua statura, che parentela ha, di chi è fratello, dove sta, quando è nato, se è in piedi o seduto, se è calzato, se è armato, se fa qualcosa o se la subisce, e di qualsiasi altra proprietà compresa nella sostanza stessa o in queste nove categorie di cui ho riferito alcuni esempi.
    A che cosa mi serviva tutto ciò? Piuttosto mi noceva, poiché, ritenendo ogni cosa compresa in quei dieci attributi, tentavo di comprendervi anche te, mio Dio, che sei mirabilmente semplice e immutabile, quasi che anche tu fossi subordinato alla tua grandezza e bellezza, ed esse aderissero a te come a un soggetto corporeo; la tua grandezza e la tua bellezza invece sono te stesso, e i corpi non sono grandi e belli per il solo fatto di essere corpi, poiché tali continuerebbero ad essere anche se fossero meno grandi e meno belli. Falso era ciò che pensavo di te, non vero, invenzione della mia povertà; non era la vera realtà della tua beatitudine. Avevi ordinato che la terra producesse per me spine e triboli, e che arrivassi a ottenere il mio pane con fatica, e così appunto mi accadeva.
    Ma che cosa mi serviva, essendo perfido schiavo delle peggiori passioni, l’aver letto, sulle arti cosiddette liberali, tutti i libri che potevo e averli capiti da solo? Mi piacevano e non mi rendevo conto donde provenisse quel poco che vi era di vero e di certo. Volgevo infatti le spalle alla fonte della luce e il volto agli oggetti illuminati; e così il mio volto vedeva cose illuminate, ma lui non era illuminato.
    Tutto ciò che dell’arte dell’eloquenza e della dialettica, della geometria, della musica e dell’aritmetica io imparai senza grande difficoltà e senza alcun maestro, tu lo sai Signore Dio mio, poiché la prontezza dell’intelligenza e l’acume critico sono dono tuo. Eppure non è che io te l’offrissi; e perciò tutte quelle cose mi erano piuttosto di danno che di utilità. Infatti, mi detti da fare per entrare in possesso di buona parte delle mie sostanze, e non volli conservare le mie forze presso di te, ma partii da te verso una regione lontana per dissipare tutto nelle passioni lussuriose.
    A che mi poteva servire una cosa buona se non la usavo bene? Non mi accorgevo che quelle dottrine erano difficilmente comprensibili se non quando cercavo di esporle ad uomini di genio e di studio; e solo i migliori riuscivano a seguirmi abbastanza bene nella mia esposizione.
    Ma che cosa mi serviva ciò, se ritenevo che tu, Signore Dio di verità, fossi un corpo luminoso e immenso, ed io una briciola di quel corpo? Che grosso travisamento della verità! Ma io ero così, e ora non mi vergogno, Dio mio, di professare le misericordie da te operate in me e di invocarti, come non mi vergognai allora di professare davanti agli uomini le mie bestialità e di latrare contro di te.
    Che cosa mi serviva allora il mio duttile ingegno che percorreva quei trattati e che scioglieva i tanti intricati nodi di quei libri senza l’aiuto di maestri , se poi nella dottrina religiosa sbagliavo in modo così mostruoso e sacrilego? E quale svantaggio veniva ai tuoi umili dall’avere un’intelligenza molto più lenta, se poi non si allontanavano da te, ma mettevano sicuri le loro penne nel nido della tua chiesa e nutrivano le ali della carità col cibo di una fede sana?
    O Signore Dio nostro, fa’ che noi siamo pieni di speranza all’ombra delle tue ali, proteggici e sorreggici. Tu ci sorreggerai, ci sorreggerai da piccoli e ancora fino alla vecchiaia, poiché la nostra presunta stabilità è davvero stabilità quando ci sei tu, ma quando è solo nostra, allora è instabilità.
    Il nostro bene è sempre vivo vicino a te, e diventiamo perversi nel momento in cui ci allontaniamo da te. Fa’ dunque che torniamo sui nostri passi, o Signore, affinché non veniamo sconvolti; è infatti vicino a te che il nostro bene è vivo e non viene mai meno, poiché tu stesso sei il bene; e noi non avremo paura di non trovare più il luogo da cui siamo caduti. Anche se noi ce ne allontaniamo, infatti, la casa, che è la tua eternità preparata per noi, non ci viene a mancare.





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    00 20/07/2011 19:03

    LIBRO QUINTO

    Dall’Africa all’Italia



    I

    LODE
    AL DIO DELLE MISERICORDIE



    Accetta l’offerta di queste mie confessioni dalle mani della lingua che tu mi hai dato e che hai sollecitato a celebrare il tuo nome; risana le mie ossa, e fa’ che dicano: “Chi è simile a te, Signore?”.
    Chi si confessa a te non può certo informarti su quanto gli succede nell’animo, poiché neanche il cuore più chiuso in se stesso può sottrarsi al tuo sguardo, né la durezza degli uomini può allontanare la tua mano: tu la sciogli come vuoi, o perdonando o punendo. Nessuno si sottrae al tuo calore.
    Ti lodi la mia anima e manifesti così il suo amore; celebri le tue misericordie e manifesti così la tua grandezza. Tutto ciò che hai creato non cessa mai di manifestarla: né gli esseri spirituali, che guardano a te, né gli altri esseri, animati o inanimati, attraverso chi li contempla. Così la nostra anima, appoggiandosi alle creature, si solleva dalla sua debolezza, e grazie ad esse giunge a te, loro mirabile creatore. E in te trova ristoro e vera forza.



    II

    DIO CONSOLATORE
    VICINO ANCHE A CHI SI ALLONTANA DA LUI



    Vadano via, fuggano da te gl’inquieti e i malvagi. Tu li vedi, ne distingui le ombre: l’insieme delle cose è bello anche con loro che pure sono tanto brutti in se stessi! Ma che male ti hanno potuto fare? In che cosa hanno potuto disonorare il tuo regno, che è santo e puro tutto, dal più alto dei cieli agli infimi suoi elementi? Dove poterono mai fuggire quando fuggirono dalla tua presenza? Qual è il luogo dove tu non puoi rintracciarli? Il fatto è che essi fuggirono per non vedere te che li guardavi, salvo poi, resi ciechi, incontrare proprio te che non abbandoni nulla di ciò che hai creato, incontrare te ed essere giustamente puniti; volevano sottrarsi alla tua bontà e si sono imbattuti così nella tua giustizia, sono caduti nella tua severità. Evidentemente non sanno che tu sei dovunque, e che nessun luogo ti racchiude, che tu solo sei presente anche a chi se ne va lontano da te. Si voltino indietro, allora, e ti cerchino, poiché tu non abbandoni le tue creature, come esse invece abbandonano il loro Creatore; si voltino indietro: ecco che tu sei lì, nel loro cuore, nel cuore di chi ti professa e di chi si abbandona a te piangendo sul tuo seno dopo un lungo, difficile cammino. Tu sei pronto ad asciugare le loro lacrime, e allora essi piangono ancora di più e con più serenità perché sei tu, Signore, non un qualsiasi uomo di carne e sangue, tu, Signore, che li hai fatti, a ristorarli e a consolarli. Ma io dov’ero quando pur ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato anche da me e non ritrovavo neppure me stesso; tanto meno potevo ritrovare te.






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    00 21/07/2011 10:29

    III

    INCONTRO CON FAUSTO, VESCOVO MANICHEO



    Descriverò alla presenza del mio Dio gli avvenimenti di quel mio ventinovesimo anno d’età.
    Era venuto a Cartagine un vescovo manicheo di nome Fausto, gran laccio del diavolo, nel quale molti restavano impigliati per il fascino del suo parlare suadente. Io, quantunque apprezzassi tale loquela, la distinguevo bene dalla verità che voleva esprimere e che io ero desiderosissimo di apprendere; non guardavo infatti tanto al vassoio su cui quel tale Fausto, così famoso tra loro, mi ammanniva il discorso, quanto al tipo di scienza che mi dava per nutrimento. Lo aveva preceduto la fama di uomo competentissimo in tutte le scienze più nobili e in particolare di erudito nelle lettere. E siccome avevo letto molte opere di filosofi e le ricordavo bene, ne paragonavo alcune alle fantasiose lungaggini dei racconti manichei: il risultato era che cominciavano a sembrarmi più probabili le cose dette da quei filosofi che ebbero tanta saggezza da valutare giustamente l’universo, anche se non seppero scoprirne il Padrone. Tu infatti sei grande, Signore, e posi il tuo sguardo sugli umili, mentre quelli che si esaltano li osservi da lontano; ti avvicini solo a chi ha il cuore contrito, e non ti riveli ai superbi neanche se con la loro curiosità e perizia riescono a contare le stelle del cielo e l’arena del mare, nonché a misurare gli spazi siderei e ad esplorare le vie degli astri. Essi indagano su tutto questo con l’intelligenza e con l’acume che tu hai dato loro. Di fatto hanno scoperto molte cose e hanno predetto eclissi di sole e di luna molti anni prima che avvenissero precisandone l’ora e l’entità senza sbagliarne i calcoli: e tutto è accaduto secondo quanto avevano predetto. Dalle loro scoperte hanno ricavato le leggi che si studiano ancor oggi e mediante le quali si suole preannunciare in che anno, in che mese, in che giorno e perfino in che ora la luna o il sole mancheranno di dare la loro luce totalmente o in parte; e avverrà secondo queste predizioni. La gente è ammirata, gl’ignoranti restano stupefatti, i sapienti gioiscono e se ne vantano, e nella loro empia superbia s’allontanano e s’eclissano dalla tua luce precedendo tanto tempo prima l’oscurarsi futuro del sole mentre non vedono il proprio; non si domandano, infatti, con spirito religioso da chi hanno ricevuto l’intelligenza con cui fanno tali ricerche. E se anche scoprono d’essere stati fatti da te, non sono poi capaci di offrirsi a te perché tu possa conservare ciò che in essi hai fatto. Come se si fossero creati da soli, non si offrono in sacrificio a te: non uccidono le proprie ambizioni come si abbattono gli uccelli che volano; non soffocano le proprie curiosità, con le quali scrutano i segreti degli abissi, come si pescano i pesci del mare; non danno la caccia alle proprie impurità, come si fa con le bestie del campo. Solo così, tu, Dio, che sei fuoco divoratore, potresti ricrearli immortali consumando i loro mortali desideri.
    Essi non conoscono invece la via che è la tua Parola, per mezzo della quale hai creato sia le realtà di cui essi studiano le misure, sia coloro stessi che le misurano, sia l’intelligenza che consente loro di misurarle; eppure la tua sapienza è smisurata! L’Unigenito stesso si è fatto per noi sapienza, giustizia e santificazione, fu uno di noi e pagò il tributo a Cesare. Essi non conoscono dunque la via per scendere a lui dalla loro alterigia e, per mezzo di lui, salire a lui. Non conoscono questa via e ritengono di essere come fra gli astri, alti e luminosi, mentre sono precipitati a terra e il loro cuore è nelle tenebre dell’ignoranza. Affermano molte cose vere circa il creato, e poi non si interessano di cercare religiosamente la Verità che ne è l’autrice: così non la trovano, o, se la trovano, pur venendo a conoscere Dio, non lo onorano come tale né lo ringraziano, ma si perdono in riflessioni vane. Si dicono sapienti attribuendo a sé cose che sono tue e si affannano, ciechi e perversi, ad attribuire a te cose che invece sono loro: trasferiscono in te, che sei la Verità, le loro false invenzioni, e così scambiano la gloria del Dio senza corruzione con l’immagine dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di serpenti; trasformano la tua verità in menzogna e rendono culto e servizio alla creatura anziché al creatore. Io, tuttavia, facevo tesoro di molte verità che essi traevano dall’osservazione del creato e me ne rendevo ragione attraverso i calcoli, il susseguirsi delle stagioni e le prove visibili degli astri; confrontavo quelle ragioni con le dottrine di Mani: egli ha scritto molte cose intorno a quei problemi, ma senza fondamento, di modo che non trovavo lì la ragione né dei solstizi e degli equinozi, né delle eclissi degli astri, né di altre cose simili che avevo appreso sui libri dei sapienti di questo mondo. Tuttavia mi si imponeva di credergli, quantunque la sua dottrina non combaciasse con i risultati raggiunti dai miei calcoli e dai miei esperimenti, ma ne risultasse anzi molto distante.





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    00 25/07/2011 21:48

    IV

    SCIENZA UMANA E FEDE DIVINA



    O Signore Dio di verità, è forse sufficiente conoscere queste cose per esserti graditi? Infelice chi le conosce pure tutte e non conosce te; felice invece chi conosce te, anche se ignora quelle. Chi poi conosce sia te sia quelle cose, non è reso più felice da questa conoscenza, ma è felice per te soltanto, se, conoscendoti, ti esalta e ti è riconoscente in quanto sei tu, né va farneticando con le sue vane riflessioni. Infatti chi sa di possedere un albero e ti è grato dell’uso che può farne, anche se non sa quanti cubiti è alto e quanto largo, è migliore di chi lo misura ne conta tutti i rami, ma non ne è il padrone e non conosce né ama chi lo ha fatto: così la persona di fede possiede tutte le ricchezze del mondo e, se anche non ha nulla, è come chi ha tutto perché è unito a te che sei padrone di ogni cosa. Non importa se anche non sa niente sul percorso dell’orsa maggiore! E’ sciocco mettere in dubbio che sia ben migliore questi che non chi misura i cieli, calcola gli astri e pesa gli elementi, però trascura te che sei colui che ha disposto ogni cosa secondo una misura, un numero e un peso.




    V

    MANI SI PRESENTA COME UNA PERSONA DIVINA



    Ma in fondo chi chiedeva a quel tal Mani di scrivere anche su cose la mancata conoscenza delle quali non impedisce di essere religiosi? Tu hai detto all’uomo: “La pietà è sapienza”. Quegli, dunque, poteva benissimo ignorare la pietà pur possedendo quelle cognizioni; ma ecco, invece, che aveva la sfacciataggine di insegnare cognizioni che non possedeva: dunque, ancor meno possedeva la pietà. E’ infatti vanità mettere in mostra la propria conoscenza delle cose del mondo anche quando la si ha davvero; è invece pietà riconoscerla come tuo dono. Mani parlava moltissimo e a sproposito, con la conseguenza che, confutato da chi sapeva davvero, appariva chiaro quanto potesse essere la sua comprensione di altre questioni ancor più difficili. Non volle infatti essere stimato da poco: cercò di far credere che lo Spirito Santo, datore di consolazioni e di doni ai tuoi veri fedeli, era in lui personalmente e con tutta la sua autorità. Quando, dunque, si coglieva la falsità delle cose da lui insegnate intorno al cielo, alle stelle, ai moti del sole e della luna, quantunque siano argomenti non riguardanti la dottrina religiosa, risultava chiara la sua sacrilega temerarietà: insegnava cose non solo da lui ignorate, ma anche false, e con una tracotanza così sciocca da tentar di attribuirsele come a persona divina.
    Quando sento di questo cristiano o di quell’altro, miei fratelli, che non s’intendono di tali questioni e hanno in mente degli errori, guardo a loro con molta pazienza, e non mi sembra che abbiano un gran danno dall’ignorare la posizione e i comportamenti delle creature materiali, purché non abbiano opinioni indegne riguardo a te, Signore, Creatore di tutto. Un danno invece deriva per loro dal ritenere che quelle nozioni appartengano all’essenza della dottrina religiosa e dall’avere il coraggio di fare affermazioni su cose che ignorano. Anche tale debolezza, però, è sostenuta nei primi passi sulla via della fede dalla carità che è madre, finché l’uomo nuovo non raggiunga la piena maturità e non possa più essere spinto da una parte all’altra da ogni vento di dottrina. Ma se quegli ha avuto l’improntitudine di presentarsi come dottore, guida, duce e capo, così da far credere ai suoi discepoli di seguire non un uomo qualsiasi, ma il tuo stesso Spirito Santo, come non condannare e rifiutare una pazzia così grande, una volta accertatane la falsità? Eppure a me non risultava ancora chiaro se era possibile o no spiegare anche con i suoi insegnamenti l’avvicendarsi di giorni e notti di diversa durata, l’eclissi e cose simili che avevo letto in altri libri: se si fosse potuto, io, pur rimanendo incerto, nell’intento di salvare la mia fede, avrei preferito lui per l’autorità che gli veniva dalla fama di santità.






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    00 29/07/2011 00:16

    VI

    PERSONALITA’ DI FAUSTO



    Così per circa nove anni, quanti ne trascorsi pellegrino dello spirito alla sequela dei manichei, fui tutto preso dall’attesa di questo Fausto che doveva arrivare. Tutti gli altri manichei, infatti, con cui avevo avuto occasionalmente a che fare, non reggevano alle obiezioni che ponevo loro, e si limitavano a promettermi che sarebbe venuto lui: parlando con lui, si sarebbero sciolte con estrema facilità tutte quelle questioni ed anche altre eventualmente più gravi. Dunque venne; e io feci l’esperienza di un uomo piacevole nel modo di fare e di parlare, abile nel dire in modo molto più simpatico le stesse cose che solevano dire gli altri. Ma per la sete che avevo, cosa importava che il coppiere fosse compitissimo e servisse in calici preziosi? Ormai le mie orecchie erano sazie di discorsi di quel genere, né mi sembravano migliori perché fatti in modo più forbito, o più veri perché eloquenti; come non giudicavo saggio un uomo, per il solo fatto che aveva un atteggiamento simpatico e un parlare elegante. Lo giudicavano invece così coloro che mi avevano promesso tutto da lui, e che dimostravano dunque di non saper valutare giustamente la realtà.
    D’altronde ho conosciuto anche un altro tipo di persone, cui diventa sospetta una verità e non rimangono soddisfatti se essa vien loro presentata con forbita eloquenza. Io comunque in modo misterioso e straordinario avevo già ricevuto dal mio Dio i suoi ammaestramenti, e sono convinto che sei stato tu a darmeli perché essi sono verità, e nessuno all’infuori di te è maestro di verità, per quanto sia largamente famoso. Dunque io avevo già appreso da te che una cosa non deve sembrare vera per il solo fatto che è affermata con un bello stile, e che non deve sembrare falsa perché le parole escono dalle labbra in modo confuso; al contrario, non deve apparire vera perché espressa senza cura, o falsa perché detta con eleganza. Per la saggezza e l’insipienza avviene, infatti, un po’ come per i cibi utili e dannosi: quelle possono essere presentate con parole forbite o disadorne, come questi possono essere serviti su mense cittadine o campagnole.
    Il grande desiderio con cui per così lungo tempo avevo atteso quell’uomo, veniva ora soddisfatto da conversazioni che mi facevano vibrare nel profondo, e da quelle sue parole così ben scelte ed espressive. Ero soddisfatto, e, come facevano molti, anzi più ancora, lo lodavo ed esaltavo. Tuttavia m’infastidiva il fatto di non riuscire, in mezzo alla massa degli ascoltatori, a sottoporgli le questioni che mi angustiavano, a farne parte con lui parlandogliene confidenzialmente e ricevendone risposta. Quando poi, finalmente, mi fu possibile con alcuni amici farmi ascoltare da lui in un momento non inopportuno, gli sottoposi alcune questioni che mi turbavano: scoprii allora anzitutto che era digiuno di letteratura: non di grammatica, nella quale però non era però niente di eccezionale. Ma aveva letto alcune orazioni ciceroniane, pochissime opere di Seneca, alcune di poeti e quelle poche di correligionari scritte in un latino non disadorno; ed era inoltre allenato a predicare quotidianamente: per questi motivi aveva l’eloquio facile e reso ancor più gradito e più affascinante dall’uso intelligente di quelle sue doti e da un’arguzia naturale.
    Era proprio così, come sto ricordando, o Signore mio Dio, arbitro della mia coscienza? Metto il mio cuore e la mia memoria dinanzi a te, che allora mi guidavi per le segrete vie della tua provvidenza e già mi mettevi davanti ai miei gravi errori affinché li vedessi e li detestassi.





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    00 01/08/2011 22:01

    VII

    IL MANICHEISMO COMINCIA A DELUDERLO



    Dopo che mi apparve abbastanza chiaro che quell’uomo era incompetente in quelle scienze nelle quali invece io avevo ritenuto che fosse competentissimo, cominciai a disperare di poter avere da lui la spiegazione e la soluzione dei problemi che mi angustiavano. Egli avrebbe anche potuto essere all’oscuro di quei problemi e possedere invece la verità della fede se non fosse stato manicheo. I loro libri, infatti, sono pieni di interminabili fantasie riguardanti il cielo, gli astri, il sole e la luna; veramente io ormai non speravo più che egli potesse dimostrarmi in modo soddisfacente ciò che soprattutto desideravo: di sapere cioè se quelle questioni venivano risolte meglio nei libri manichei oppure in quegli altrui dove io avevo trovato calcoli che mi soddisfacevano, o quanto meno se le due soluzioni si equivalevano. Tuttavia proposi ugualmente alla sua considerazione il problema e trovai ch’egli modestamente non ebbe il coraggio d’accollarsi il peso d’una dimostrazione: sapeva di non sapere e non si vergognò di riconoscerlo. Non era dunque egli di quei tali di cui avevo dovuto subire le molte chiacchiere e gli sforzi per istruirmi senza dir nulla. Quegli aveva un cuore che, se non era retto verso di te, era per lo meno abbastanza prudente verso se stesso. Non era del tutto ignaro della propria ignoranza, e perciò non volle rischiare con una disputa di andarsi a chiudere in un vicolo cieco dal quale gli sarebbe stato difficile uscire. Anche per questo egli mi fu più simpatico: è infatti più bello avere un animo sincero che non sapere le cose che desideravo sapere io. E trovai quel tale sempre così, dinanzi a tutte le questioni più difficili e sottili.
    Finiva dunque in me l’entusiasmo per gli scritti dei manichei, perché se quegli, pur così famoso tra loro, mi si era rivelato così inetto nelle molte questioni che mi angosciavano, tanto meno potevo sperare negli altri loro maestri. Instaurai tuttavia con lui un certo rapporto basato sul comune grande interesse per quella letteratura che io allora come rétore insegnavo ai giovanetti di Cartagine. E con lui presi a leggere quelle cose che lui desiderava ascoltare, per quel che ne aveva sentito dire, o che io ritenevo congeniali a un’intelligenza come quella. Del resto, conosciuto quell’uomo, ogni mio sforzo, ogni mio proposito di proseguire in quella setta cadde completamente; non però al punto da separarmi del tutto da essa, ma in quanto, non trovando per così dire niente di meglio, avevo nel frattempo deciso di rimanere soddisfatto del punto cui ero in qualche modo arrivato, fino a quando non si fosse manifestato, per caso, qualcosa di più chiaro che meritasse di essere abbracciato. Così quel Fausto, che costituì per molti un’insidia mortale, aveva già cominciato, non volendo e senza accorgersene, a sciogliere il laccio nel quale ero caduto io.
    Erano le tue mani, o Dio mio, che nel segreto della tua provvidenza non abbandonavano la mia anima, mentre ti era offerto notte e giorno un sacrificio dal cuore straziato di mia madre in pianto.
    Ti sei comportato con me in modo meraviglioso, Dio mio. E’ il Signore infatti che dirige i passi dell’uomo e che stabilirà la strada per lui. Come procurarsi la salvezza, se non fra le tue mani che rinnovano ciò che una volta crearono?




    VIII

    PARTE PER ROMA



    Dunque, mi convincesti ad andare a Roma per insegnare là ciò che insegnavo a Cartagine. E non tralascerò di dire donde mi venne tale convinzione, perché anche in questo va vista e proclamata la tua grande misericordia a noi misteriosamente sempre presente. Non mi decisi ad andare a Roma perché gli amici che mi sollecitavano a ciò mi promettevano maggior guadagno e maggior prestigio; anche queste cose attraevano allora il mio spirito, però il motivo principale e pressoché unico fu che sentivo dire che là i giovani si dedicavano allo studio più tranquillamente ed erano tenuti calmi da una più ordinata disciplina coercitiva, cosicché non irrompevano abitualmente da maleducati nell’aula di un altro maestro, ma vi erano ammessi solo col suo permesso. A Cartagine, invece, la libertà degli studenti è del tutto sfrenata: fanno irruzione sfacciatamente e quasi come furie turbando l’ordine che ogni maestro cerca di stabilire tra i propri alunni per il loro profitto. Commettono spesso con gran leggerezza azioni provocanti che sarebbero punibili per legge, se la consuetudine non le proteggesse; ciò li rivela ancor più miserabili, in quanto fanno come se fossero lecite cose che secondo la tua eterna legge lecite non saranno mai, e pensano di agire impunemente, mentre sono già puniti nella vacuità stessa del loro modo di fare, e subiscono pertanto un danno molto maggiore di quello che commettono. Così quegli atteggiamenti che da studente non volli mai assumere, da insegnante ero costretto a sopportarli negli altri. Ecco perché mi piaceva l’idea di trasferirmi in un luogo dove, a quanto si diceva, non capitavano cose simili. Ma tu, mia speranza e mia parte di eredità nella terra dei vivi, al fine di indurmi a cambiare ambiente per il bene della mia anima, mi facevi trovare in Cartagine dei motivi per allontanarmene, e a Roma attrattive che mi allettavano in uomini amanti di una vita che è morte, soliti a far pazzie e promesse vane. Per correggere i miei passi ti servivi misteriosamente della malvagità mia e loro. Infatti a turbare la mia tranquillità erano persone scalmanate, e chi mi invitava altrove era gente avida di cose terrene; ed io, se rifiutavo qui una miseria reale, là andavo incontro a una felicità apparente.
    Tuttavia tu, Dio, sapevi il motivo per il quale io partivo di qui per andare a Roma, ma non lo facevi comprendere né a me né a mia madre. Alla mia partenza ella pianse dirottamente seguendomi fino al mare; mi stringeva a sé con forza perché o tornassi indietro o la lasciassi venire con me. Allora io l’ingannai, fingendo di voler stare lì per non lasciare solo un amico ad aspettare che s’alzasse il vento per levare l’àncora. Mentii dunque a mia madre, e ad una madre simile! Eppure, nonostante le mie molte colpe, tu mi hai salvato perché mi hai misericordiosamente perdonato anche questo; mi hai serbato illeso sulle acque del mare fino a farmi giungere all’acqua della tua grazia che mi avrebbe purificato e avrebbe asciugato i fiumi di lacrime che quotidianamente dagli occhi di mia madre rigavano la terra. A fatica riuscii a convincerla che, se non voleva tornare indietro senza di me, si ritirasse almeno a passare la notte in una cappella dedicata al beato Cipriano, vicina al luogo dov’era la nave; in quella notte io partii di nascosto, ed ella rimase a piangere e a pregare. E che cosa ti chiedeva, mio Dio, con così tante lacrime, se non di impedirmi di salpare? Ma tu, nei tuoi misteriosi disegni, volendo esaudire i suoi desideri alla radice, non ti curasti di quanto ella ti chiedeva da sempre.
    Si levò il vento, si spiegarono le nostre vele e si sottrasse al nostro sguardo la riva, sulla quale la mattina dopo ella impazzì di dolore e riempì di lamenti e gemiti le tue orecchie che non se ne curavano. Tu mi portavi via da lei per farmi vincere le mie passioni per mezzo delle mie passioni stesse e per punire in lei con una sofferenza meritata il suo amore troppo morboso per me. Ella desiderava avermi vicino, come succede ad ogni madre, ma molto di più del normale, e non sapeva che tu, nella mia assenza, le stavi preparando gioie molto grandi. Non lo sapeva e per questo piangeva e si lamentava; in quelle sue sofferenze appariva l’eredità di Eva, poiché cercava nel dolore colui che nel dolore aveva partorito. Accusandomi d’averla ingannata crudelmente se ne tornò alla sua vita solita e alle sue preghiere per me. Io stavo viaggiando verso Roma.






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    00 02/08/2011 20:42

    IX

    ARRIVO A ROMA – MONICA PREGA DA LONTANO


    Ecco che a Roma vengo colpito da una malattia, e già stavo per finire all’inferno carico di tutte le colpe commesse contro di te, contro il prossimo e contro me stesso, colpe numerose e gravi oltre a quella originale per la quale tutti siamo morti in Adamo. Nessuna di esse mi era stata perdonata in Cristo: egli non aveva pagato sulla croce i debiti da me contratti con te a causa dei miei peccati; e come avrebbe potuto farlo un fantasma come io allora lo credevo? Quanto mi sembrava apparente la sua morte corporale, tanto era vera quella della mia anima, e così come era vera la morte del suo corpo, altrettanto era apparente la vita della mia anima che non ci credeva. Intanto aumentava la febbre e io me ne stavo andando, e andando in perdizione. Dove sarei finito, infatti, morendo allora, se non nel fuoco e nelle pene che la tua legge stabilisce per un comportamento come il mio? Mia madre non sapeva del mio pericolo, ma continuava a pregare da lontano per me. Tu, che sei ovunque presente, esaudici lei e nel contempo avevi misericordia di me, al punto da restituirmi la salute corporale; la mia anima era però ancora malata di empietà: infatti non desideravo il battesimo neppure in quel grave pericolo. Ero stato dunque migliore da ragazzo, quando avevo chiesto con insistenza all’amore di mia madre di essere battezzato, come già ho detto. Crescendo ero diventato sempre più dannoso a me stesso, ed ero così pazzo da irridere la medicina che mi consigliavi. Ma tu non hai permesso che in quella condizione di peccato io subissi tutt’e due le morti: il cuore di mia madre ne avrebbe ricevuto un colpo tale che non si sarebbe ripreso mai più. Non è facile esprimere quello che ella provava per me: ella soffriva molto più ora per partorirmi nello spirito di quanto non avesse sofferto per partorirmi nel corpo. Credo proprio che la ferita, aperta nel suo cuore pieno d’amore dalla mia morte, in quelle condizioni non si sarebbe rimarginata mai più. E dove sarebbero finite così tante preghiere, fervorose e ininterrotte, se non presso di te? Tu, Dio di misericordia, non puoi disprezzare il cuore contrito e umiliato di una vedova pura e modesta, fedele nel fare elemosine e devota ai tuoi santi, che non tralascia di presentare ogni giorno la sua offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, se ne va in chiesa non per fare chiacchiere inutili come usan fare le vecchiette, ma per ascoltare te nella tua parola e farsi ascoltare da te nelle sue preghiere. Ella era così per grazia tua: potevi tu, dunque, rifiutarti di aiutarla e non curarti di quelle sue lacrime con le quali essa non ti chiedeva oro e argento o altri beni caduchi, ma la salvezza di suo figlio? No certamente, Signore; anzi, tu le eri vicino e l’esaudivi, realizzando il tuo piano prestabilito. Certamente non la ingannavi nelle visioni e nei responsi che le davi, sia quelli che ho già ricordato come gli altri; essa li conservava gelosamente nel cuore e te li presentava in ogni sua preghiera come impegni da te sottoscritti. Infatti la tua misericordia è eterna e attraverso le tue promesse vuoi farti debitore di coloro ai quali condoni ogni debito.






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    00 11/08/2011 18:49

    X

    TRA MANICHEISMO E SCETTICISMO ACCADEMICO



    Mi ristabilisti in salute, guarendo nel corpo il figlio della tua serva, per potergli poi dare una salvezza più grande e più sicura. Ma anche a Roma continuavo a stare insieme con quei cosiddetti santi falsi e ingannatori: non solo dunque con gli uditori, alcuni dei quali mi avevano accolto in casa quando ero malato e poi convalescente, ma anche con coloro che vengono appunto chiamati eletti. Avevo ancora l’idea che non fossimo noi a peccare, ma che fosse una qualche altra natura a peccare in noi; faceva piacere al mio orgoglio l’essere senza colpa e, quando avevo commesso il male, non dover confessare d’averlo commesso; così non ti permettevo di guarire la mia anima che aveva peccato contro di te, preferendo discolpare lei e accusare chissà quale altra forza che era in me, ma che non ero io. In realtà io sono un tutto unico: era il mio errore a dividermi da me stesso. Era un peccato ancora più grave non considerarmi peccatore e preferire che fossi tu, Dio onnipotente, ad essere vinto in me a mio danno, anziché io essere vinto da te a mia salvezza! Non avevi ancora posto una sentinella alla mia bocca e un freno alle mie labbra affinché il mio cuore non scendesse a parole malvagie per scusare i peccati insieme con gli uomini che li commettono. Per questo andavo ancora d’accordo con i loro eletti, quantunque disperassi di poter ormai fare progressi in quella falsa dottrina; guardavo anzi con minor convinzione e maggior disinteresse a quelle stesse cose alle quali avevo deciso di attenermi, finché non avessi trovato nulla di meglio. Mi era infatti venuta l’idea che più avveduti degli altri filosofi fossero i cosiddetti Accademici, poiché affermavano che bisogna dubitare di tutte le cose e che l’uomo non può comprendere nulla della verità. Conoscevo il pensiero di costoro da quanto se ne diceva, ma non i loro reali propositi. Così non mi feci scrupolo di ammonire colui che mi ospitava a non dare troppo credito alle favole di cui sono pieni i libri manichei; intanto però coltivavo più l’amicizia con costoro che con gli altri estranei a quell’eresia. Non difendevo più questa con l’entusiasmo di prima, però l’amicizia dei manichei (a Roma se ne nascondono molti) mi rendeva più pigro a cercare altro, tanto più che nella tua Chiesa disperavo di trovare la verità dalla quale essi mi avevano distolto, o Signore del cielo e della terra, creatore di tutte le cose visibili e invisibili. Mi pareva veramente indegno credere che tu hai sembianze umane e sei racchiuso entro i limiti di un corpo. Quando volevo pensare al mio Dio, non sapevo pensare che a una massa corporea ( mi sembrava che non dovesse esistere nulla di incorporeo ) e questa era per me la maggiore e pressoché unica causa di inevitabile errore. Di conseguenza io credevo che anche il male fosse una sostanza di quel genere, un corpo oscuro e deforme, sia denso, ed è chiamato terra, sia sottile, ed è l’aria, che i manichei si raffiguravano come uno spirito maligno strisciante sulla terra. Ma quella certa pietà religiosa che avevo mi costringeva a credere che un dio buono non poteva aver creato una natura cattiva. Perciò pensavo che dovessero esserci due masse contrapposte, ambedue infinite, ma quella cattiva in maniera più limitata, quella buona invece più pienamente: e da questo principio ereticale derivavano tutte le altre mie idee erronee. E se il mio spirito cercava di ritornare alla fede cattolica, io sentivo pur sempre l’impulso a rifuggirne perché quella che io ritenevo tale non era la vera fede cattolica. E mi sembrava di essere più devoto, o Dio che ti manifesti nelle tue misericordie, se credevo che tu fossi infinito da ogni parte, tranne che dove ti si oppone la massa del male, lì dovevo ritenerti finito: mi sembrava, invece, meno degno di te pensarti limitato da ogni parte dalla forma di un corpo umano. Mi sembrava meglio credere che tu non avessi creato alcun male anziché credere che la natura del male quale la pensavo io provenisse da te: nella mia ignoranza lo immaginavo non solo una sostanza, ma una sostanza corporea, perché non sapevo pensare uno spirito se non come un corpo sottile che si diffonde per gli spazi. Lo stesso nostro Salvatore, il tuo unico Figlio, lo pensavo come uscito dalla massa del tuo corpo di luce per venire a salvarci, poiché non potevo credere di lui se non ciò che la mia insipienza mi permetteva di vedere. Ritenevo, quindi, che una natura di tal genere non potesse nascere dalla vergine Maria senza unirsi con la carne, e non riuscivo a vedere come potesse unirsi senza venir contaminato. Ero restio, insomma, ad ammettere la nascita carnale del Salvatore per non essere costretto a crederlo contaminato dalla carne.
    Gli uomini spirituali ora sorrideranno di me con affettuosa indulgenza, se leggeranno queste mie confessioni; eppure io ero così.






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    00 20/09/2011 23:47


    XI

    I MANICHEI E LE SACRE SCRITTURE


    Quanto poi alle critiche che i manichei movevano a certi passi delle tue Scritture, mi sembrava impossibile controbatterle; eppure, a volte, desideravo esaminare alcuni di quei passi insieme con persone competenti e sentire il loro parere. Avevano incominciato a interessarmi le pubbliche conversazioni contro i manichei, tenute presso Cartagine da un certo Elpidio, il quale citava le sacre Scritture in modo tale che non era facile contraddirlo. Quelli, dal canto loro, davano risposte che mi sembravano non reggere (e difficilmente le davano in pubblico). Sostenevano, infatti, che le Scritture del Nuovo Testamento erano state falsate da qualche sconosciuto che aveva voluto innestare la legge giudaica sulla fede cristiana; ma intanto non erano in grado di produrre alcun esemplare integro di quei testi. Io, comunque, capace di immaginare solo esseri corporei, ero come preso e schiacciato da quelle due masse fino a soffocare: sotto di esse aspiravo all'aria pura e limpida della tua verità, ma non potevo raggiungerla.




    XII

    COMPORTAMENTO DEGLI STUDENTI ROMANI



    Cominciavo intanto a fare con zelo ciò per cui ero venuto a Roma, cioè a insegnare retorica; e dapprima radunavo in casa alcuni allievi, cominciando così a farmi una certa notorietà. Ben presto mi accorsi che a Roma succedevano cose che in Africa non avevo dovuto subire. E' vero che non avvenivano i già noti disordini dei giovani scapestrati di Cartagine, però fui avvertito che molti dei giovani romani, per non dover pagare il maestro, usavano mettersi d'accordo e passare improvvisamente a un altro maestro, rivelandosi traditori della fiducia e gente per la quale l'amore del denaro fa disprezzare la giustizia. Il mio cuore odiava così anche costoro. ma non era un odio giusto, poiché era forse provocato dal danno che da loro rischiavo di subire io stesso, più che dall'ingiustizia che essi perpretavano nei confronti di chiunque. E' certo comunque che questi tali sono esseri abbietti che ti tradiscono nel perseguire illusioni effimere e sporchi guadagni che contaminano le mani; attaccati al mondo che passa, dimenticano te che resti e che continui a chiamare l'anima umana traditrice e a perdonarla quando ritorna a te. Anche adesso odio quella gente depravata, però li amo in quanto sono da correggere e da indirizzare a preferire al denaro la dottrina che imparano e alla dottrina te, o Dio che sei la verità, la fonte del bene certo e la pace più pura. Allora, insomma, preferivo evitare i loro danni per amore di me stesso, che non cercare di migliorare quei giovani per amore tuo.




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    00 12/10/2011 20:02

    XIII

    L’INCONTRO
    CON AMBROGIO A MILANO



    Da Milano fu richiesto al prefetto di Roma che quella città venisse provvista di un maestro di retorica, e veniva offerto anche il trasferimento a spese pubbliche. Io, allora, mi detti d’attorno perché il prefetto Simmaco, esaminata la mia competenza in materia, inviasse me, e in questo mi appoggiai proprio ad alcuni di quegli esaltati dalle idee manichee: né io né loro sapevamo che andandomene mi sarei definitivamente staccato da essi.
    Così giunsi a Milano, e là incontrai il vescovo Ambrogio, noto in tutto il mondo come uno dei migliori e tuo servo fedele, le cui parole dispensavano costantemente al tuo popolo il tuo frumento sostanzioso, l’olio della tua letizia e un vino dolcemente inebriante. Eri tu che mi conducevi a lui, ma io non lo sapevo; lui poi mi avrebbe guidato a te, e allora ne sarei stato consapevole. Quell’uomo di Dio mi accolse paternamente e, come si conviene a un vescovo, mostrò di gradire quel mio arrivo. Io mi affezionai a lui, ma, in un primo momento, non in quanto maestro di verità, perché nella tua Chiesa disperavo di trovarla, bensì semplicemente perché benevolo verso di me. Andavo ad ascoltarlo con assiduità mentre conversava in pubblico, ma non con l’intenzione con cui avrei dovuto: vi andavo come per rendermi conto se la sua eloquenza era all’altezza della fama di cui godeva, o se non era ancora maggiore o forse da meno; pendevo dalle sue labbra, non interessato alle cose che diceva, che anzi disprezzavo, ma affascinato dalla dolcezza del suo modo di parlare. La sua eloquenza, tuttavia, era meno arguta e meno dolce di quella di Fausto, ma certo più dotta. Comunque, quanto al contenuto, non era possibile alcun paragone: questo andava perdendosi fra le falsità dei manichei, quello, invece, insegnava nel modo più efficace la via della salvezza. Ma la salvezza è lontana dai peccatori: e io ero uno di questi, anche se pian piano, senza accorgermene, mi stavo avvicinando.




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    00 01/11/2011 04:50

    XIV

    IL DISTACCO DAL MANICHEISMO



    Non mi interessava imparare le cose che egli diceva, ma soltanto ascoltare come le diceva. Ormai, infatti, non speravo più che si potesse dare all'uomo una via per raggiungere te, e pertanto mi era rimasto solo questo futile interesse; tuttavia, insieme con le parole che mi piacevano, arrivavano al mio spirito anche quei contenuti di cui non mi curavo. Non mi era possibile separare le due cose: mentre aprivo il cuore nell'ascolto di ciò che egli diceva con eleganza, entrava anche, sia pure gradatamente, ciò che di vero egli affermava. Cominciò, infatti, a sembrarmi possibile sostenere anche le sue affermazioni e, mentre prima ero convinto che niente si potesse opporre agli attacchi dei manichei, cominciai a ritenere che la fede cattolica non fosse proprio infondata; questo soprattutto perché sentivo risolvere ad una ad una le difficoltà dei vari passi del Vecchio Testamento, che, presi alla lettera, costituivano per me un grosso ostacolo. Sentita, dunque, la spiegazione spirituale di quei brani, già cominciavo a rimproverarmi di aver creduto assolutamente impossibile controbattere chi criticava o irrideva la Legge e i Profeti. Tuttavia, non mi sentivo di dover abbracciare la fede cattolica per il solo fatto che anch'essa aveva dotti difensori capaci di confutare le obiezioni con molti seri ragionamenti; e neanche, d'altra parte, mi pareva di dover condannare le dottrine che seguivo: gli argomenti di difesa delle due parti si equivalevano. La fede cattolica, insomma, non mi sembrava più come del tutto vinta, ma neppure mi sembrava ancora vittoriosa. Allora, però, impegnai a fondo la mia mente per vedere se con qualche argomentazione stringente era possibile convincere i manichei di falso: se fossi stato capace di immaginare una sostanza spirituale, immediatamente tutte le loro macchinose dissertazioni si sarebbero dissolte, e io me ne sarei liberato. Ma non ero capace. Tuttavia, meditando e studiando la sostanza stessa del mondo e tutta la natura che cade sotto i nostri sensi, mi convincevo ogni giorno di più che la maggior parte dei filosofi aveva opinioni molto più accettabili; e così, secondo quanto comunemente si dice che facciano gli accademici, mettendo in dubbio tutto e vagando nell'incertezza, decisi di dover abbandonare il manicheismo. Non ritenevo, infatti, in quel momento di dubbi, di dover rimanere in quella setta, preferendo ormai ad essa molti filosofi. E tuttavia rifiutavo assolutamente di affidare la guarigione della mia anima malata a questi filosofi cui mancava il riferimento al nome di Cristo Salvatore. Decisi, dunque, di rimanere ancora catecumeno nella Chiesa cattolica, secondo quelli che erano stati i desideri dei miei genitori, finché non mi fosse balenata dinanzi una luce sicura verso la quale dirigere il mio cammino.






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