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D'Annunzio, Gabriele - ALCYONE

Ultimo Aggiornamento: 17/04/2010 14:55
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ALBASIA



O mattin nuziale
tra il Mar pisano
e l'Alpe lunense!
O nozze immense
e brevi!
La nube formosa
disposa
il monte che a lei sale,
l'ombra d'entrambi il piano,
la dolce acqua il sale,
la canna il tralcio,
il salcio
la florida stiancia,
l'argano la bilancia
su la foce pescosa,
la mia rima il mio giòlito,
l'algosa
arena i tuoi piè lievi,
o Ermione.

E il cielo è nivale
come su la tua guancia
ondata il velo
insolito.
Il mare è d'opale
con vene di crisòlito,
come i mari dell'Asia,
immoto albore
di gemme fuse.
Brillano le meduse
a fiore
dell'immerso banco.
E tutto è bianco,
presso e lontano.
E' grande albàsia
da lido a lido,
come allor che fa il nido
sul Mar sicano
la sposa Alcyone.





(Composta tra la metà di luglio e la metà di agosto 1902)



_________Aurora Ageno___________
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L'ALPE SUBLIME



Svégliati, Ermione,
sorgi dal tuo letto d'ulva,
o donna di liti.
Mira spettacolo novo,
gli Iddii appariti
su l'Alpe di Luni
sublime!
Occidue nubi, corone
caduche su cime
eterne.
Ma par che s'aduni
concilio di numi
grande e solenne
tra il Sagro e il Giovo,
tra la Pania e la Tambura,
e che l'aquila fulva
del Tonante
su le sante
sedi apra tutte le penne.
Oh silenzii tirrenii
nel destero Gombo!
Solitudine pura,
senz'orme!
Candore dei marmi lontani,
statua non nata,
la più bella!
Dormono i Monti Pisani,
grevi, di cerulo piombo,
su la pianura
che dorme.
Altra stirpe di monti.
Non han numi, non genii,
non aruspici in lor caverne,
non impeti d'ardore
verso i tramonti,
non insania, non dolore;
ma dormono su la pianura
che dorme.
Oh Alpe di Luni,
davanti alla faccia del Mare
la più bella,
rupe che s'infutura,
oh Segno che l'anima cerne,
grande anelito terrestro
verso il Maestro
che crea,
materia prometèa,
altitudine insonne,
alata,
Inno senza favella,
carne delle statue chiare,
gloria dei templi immuni,
forza delle colonne
alzata,
sostanza delle forme
eterne!





(Composizione collocabile nella terza decade di giugno 1902)


_________Aurora Ageno___________
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IL GOMBO



L'immensità del duolo,
del lutto immedicabile senza
fine, terrestre fatta
qual Niobe nell'umida rupe,
quivi abitava sembra
nel lito deserto, nell'alpe
ardua, nella selva
che piange il suo pianto aromale.

Tutto è quivi alto e puro
e funebre come le plaghe
ove duran nel Tempo
i grandi castighi che inflisse
il rifor degli iddii
agli uomini obliosi del sacro
limite imposto all'ansia
del lor desiderio immortale.

Tre disse quivi immense
parole il Mistero del Mondo,
pel Mare pel Lito per l'Alpe,
visibile enigma divino
che inebria di spavento
e d'estasi l'anima umana
cui travagliano il peso
del corpo e lo sforzo dell'ale.

Poi che non val la possa
della Vita a comprendere tanta
bellezza, ecco la Morte
che braccia più vaste possiede
e silenzii più intenti
e rapidità più sicura;
ecco la Morte, e l'Arte
che è la sua sorella eternale:

quella che anco rapisce
la Vita e la toglie per sempre
all'inganno del Tempo
e nuda s'inalza tra l'Ombra
e la Luce, e le dona
col ritmo il novello respiro:
ecco la Morte e l'Arte
apparsemi nel cerchio fatale.

O Niobe, l'antico
tuo grido odo alzarsi repente
al cospetto del Mare,
e il tuo disperato dolore
chiamar le figlie e i figli
per l'inesorabile chiostra,
e stridere odo l'arco
forte e sibilare lo strale.

"Tera, Ftia, Cleodossa,
Astíoche, Pelòpia, Fedímo!"
Tu chiami; e i dolci nomi,
i nomi che furono il miele
della tua bocca, o Madre,
si frangon nell'ululo crudo
come pel míssile oro
l'incolpevole fior filiale.

Procombono sul petto
sul fianco, procombono i corpi
floridi, i giovinetti
venusti, le vergini leni;
copron la sabbia amara,
mescono le chiome alle spume
non il sangue: incruenta
è la piaga dell'oro letale.

Procombono, stanno
ai tuoi piedi,o Madre demente!
Poi tutto è marmo, immota
bellezza, effigiato silenzio.
L'immensità del duolo
è fatta terrestre e marina.
Il Mare il Lito l'Alpe
sono il tuo simulacro ferale.

O Tantalide audace,
io veggio il tuo bellissimo volto
impietrato e il tuo pianto
nella solitudine esangue,
e il sacrilego orgoglio
che feceti chiedere altari
per la generatirce
virtù del tuo grembo mortale.

Tutto è quivi alto e puro
e funebre e ai cieli superbo,
memore dell'umane
grandezze e dei castighi divini.
Ed in nessuna plaga
con più guerra, ahi, l'anima audace
travagliarono il peso
del corpo e lo sforzo dell'ale.





(Romena, 13 agosto 1902)




_________Aurora Ageno___________
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ANNIVERSARIO ORFICO
P.B.S. VIII Luglio MDCCCXXII





Udimmo in sogno sul deserto Gombo
sonar la vasta búccina tritonia
e da Luni diffondersi il rimbombo
a Populonia.

Dalle schiume canute ai gorghi intorti
fremere udimmo tutto il Mare nostro
come quando lo vèrberan le forti
ale dell'Ostro.

E trasalendo "Odi, sorella" io dissi
"odi l'annuncio dell'enfiata conca?
Forse per noi risale dagli abissi
la testa tronca,

la testa esangue del treicio Orfeo
che, rapita dal freddo Ebro alla furia
bassàrica, sen venne dell'Egeo
al mar d'Etruria".

Quasi fucina il vespro ardea di cupi
fuochi; gridavan l'aquile nell'alto
cielo, brillando il crine delle rupi
qual roggio smalto.

Come profusi fuor dell'urne infrante
parean ruggir nell'affocato cerchio
i fiumi, l'Arno del selvaggio Dante,
la Magra, il Serchio.

Ed ella disse: "Non l'Orfeo treicio,
non su la lira la divina testa,
ma colui che si diede in sacrificio
alla Tempesta.

Oggi è il suo giorno. Il nàufrago risale,
che venne a noi dagli Angli fuggitivo,
colui che amava Antigone immortale
e il nostro ulivo".

Dissi: "O veggente, che faremo noi
per celebrar l'approdo spaventoso?
Invocheremo il coro degli Eroi?
Tremo, non oso.

Questo naufrago ha forse gli occhi aperti
e negli occhi l'imagine d'un mondo
ineffabile. Ei vide negli incerti
gorghi profondo.

E tolto avea Prometèo dal rostro
del vúlture, nel sen della Cagione
svegliato avea l'originario mostro
Demogorgóne!"

Disse ella: "Gli versavan le melodi
i Vénti dai lor carri di cristallo,
il silenzio gli Spiriti custodi
bui del metallo,

il miel solare nella boccha schiusa
le musiche api che nudrito aveano
Sofocle, il gelo gli occhi d'Aretusa
fiore d'Oceano".

Dissi: "Ei ghermì la nuvola negli atrii
di Giove, su l'acroceraunio giogo
la folgore. Non odi i boschi patrii
offrirgli il rogo?

Mira funebre letto che s'appresta,
estrutto rogo senza la bipenne!
Vengono i rami e i tronchi alla congesta
ara solenne.

E caduto dal ciel l'arde il divino
fuoco. Scrosciano e colano le gomme.
Spazia l'odor del limite marino
all'Alpi somme".

Ella disse: "A noi vien per aver pace
il nàufrago che il Mar di gorgo in gorgo
travolse. Altra nel cielo che si tace
anima scorgo.

Placa te stesso e l'ospite! Il mortale,
ch'evocò la gran Niobe di pietra
su dal silenzio e trarre udì lo strale
dalla faretra,

èvochi presso il naufrago silente
la lacrimata figlia di Giocasta,
la regia virgo nelle pieghe lente
del peplo casta,

Antigone dall'anima di luce,
Antigone dagli occhi di viola,
l'Ombra che solo nell'esilio truce
egli amò sola.

Ecco il giglio per quelle morte chiome,
il fiore inespugnabile del nudo
Gombo, il tirreno fior che ha il greco nome
del doppio ludo,

ecco il pancrazio". Io dissi: "No, 'l corremo.
intatto sia tra l'uno e l'altro il fiore.
Vegli con noi quest'Ombre ed il supremo
lor sacro amore".





(Romena, giorno di ferragosto del 1902)



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25/06/2008 22:35



TERRA, VALE!




Tutto il Cielo precipita nel Mare.
S'intenebrano i liti e si fan cavi,
talami dell'Eumenidi avernali.
Nubi opache sul limite marino
alzano in contro mura di basalte.
Solo tra le due notti il Mar risplende.
presa e constretta negli intorti gorghi,
come una preda pallida, è la luce.

La tempesta ha divelto con furore
i pascoli nettunii dalle salse
valli ove agguatano i ritrosi mostri.
Alghe livide, fuchi ferrugigni,
nere ulve di radici multiformi
fanno grande alla morta foce ingombro,
natante prato cui nessuna greggia
morderà, calcherà nessun pastore.

Virtù si cela forse nelle fibre
sterili, che trasmuta il petto umano?
O mito del mortale fatto nume
cerulo, rinnovèllati nel mio
desiderio del flutto infaticato!
Tutto il Cielo precipita nel Mare.
Preda è la luce dei viventi gorghi,
forse immolata per l'eternità.





(Composta tra la metà di luglio e la metà di agosto 1902)




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25/06/2008 22:37



DITIRAMBO II




Io fui Glauco, fui Glauco, quel d'Antèdone.
Trepidar ne' precordii
sentii la deità, sentii nell'intime
midolla il freddo fremito
della potenza equorea trascorrere
di repente, io terrígena,
io mortal nato di sostanza efimera,
io prole della polvere!
Memore sono della metamorfosi.
L'anima si fa pelago
nel rimembrare, s'inazzurra ed èstua,
e le foci vi sboccano
dei mille fiumi che mi confluirono
sul capo: nel rigúrgito
immenso novamente par dissolversi
quest'ossea compagine.
O Iddii profondi, richiamate l'esule,
però ch'ei sia miserrimo
nella sua carne d'acro sangue irrigua,
lasso ne' suoi piè debili
che per lotosi tramiti s'attardano,
dopo ch'ei fu l'indomita
forza del flutto convertita in muscoli
tòrtili per attorcere,
dopo che le correnti dell'Oceano
gli furon giogo a tessere
le divine di sé vicissitudini
come su trama vitrea.
O Iddii profondi, richiamate l'esule
triste, puruficatelo
sotto i fiumi lustrali ínferi e súperi,
la deità rendetegli!

Memore sono. Era già fatto il vespero
su l'acque; ma i cieli ultimi
ardevano d'un foco inestinguibile,
e i golfi e i promontorii
e l'isole di contro negreggiavano
come are senza vittime
già notturni, allorché sostai nel pascolo
nettunio, presso il limite
marino. Onusto di gran preda, súbito
votai su l'erbe i nèssili
miei lini a noverar la mia dovizia.
Poi del confuso cumulo
feci schiere ordinate. E in cor godevami
tante squame rilucere
veggendo per quel bruno intrico; "I nèssili
miei lini e i piombi e i sugheri
t'appenderò nel tempio, o dio propizio"
in cor disse il grato animo.
E allor vidi i pesci più risplendere,
vidi le pinne battere
e le branchie alitare e per le scaglie
lampi di forza correre.
E, come quando il nume di Diòniso
invade le Bassaridi
e si disfrena giù pè monti il Tíaso,
la muta gente parvemi
infuriare, cedere a un'incognita
virtù, di sacra fervere
insania. "Qual prodigio è questo? Ahi misero
mè!" gridai per grandissimo
spavento; ché la preda mia fuggivasi
a gara con viperèa
rapidità, balzando e dileguandosi.
"Mè misero! Un dio fecemi
questo? e nell'erba è la possanza?" Attonito
mi rimasi. Il silenzio
era divino nella solitudine.
Era già fatto il vespero,
ma lungamente i cieli ultimi ardevano.
Udir parvemi búccina
cupa sonar lungh'essi i promontorii
selvosi; udire parvemi
canti fatali spandersi dall'isole.
E quasi inconsapevole
la man correami per quell'erba strania,
meditando io nell'animo
il prodigio. Divelsi dalle radiche
gli steli foschi; e, simile
a capra di virgulti avida, mordere
incominciai, discerpere
e mordere. Rigavami le fauci
il suco, ne' precordii
scendeami, tutto il petto conturbandomi.
"O terra!" gridai. Fumida
era la terra intorno come nuvola
che fosse per dissolversi
nè cieli, sotto i piedi miei fuggevole.
E un amore terribile
sorgeva in me, dell'infinito pelago,
dell'amara salsedine,
degli abissi, dei vortici e dei turbini.
La mia carne era libera
della gravezza terrestre. Nascevami
dall'imo cor l'imagine
d'un'onda ismisurata e per le palpebre
mi si svelava il cerulo
splendor del sangue novo, e il collo e gli òmeri
dilatarsi parevano
e le ginocchia giugnersi, le scaglie
su per la pelle crescere,
gelidi guizzi correre pei muscoli.
"Terra, vale!" Precipite
caddi nel gorgo, mi sommersi, l'infima
toccai valle oceanica,
uomo non più, non anco dio, ma immemore
della terra e degli uomini.

Fiumi correnti, odo il sublime sònito
di voi sempre nell'anima,
fiumi sgorganti d'ogni scaturigine,
leni di pace o rauchi
di violenza, caldi come l'aure
nove che v'arrecarono
l'alluvione copiosa o frigidi
come i nivali vertici
onde scendeste inviolati, d'auree
sabbie flavi o sanguinei
d'argille, pingui di limo o più limpidi
che l'etere sidereo!
Cento e cento passarono passarono
sul mio capo. La fluida
vita dell'orbe mi fluì su gli òmeri
proni, con ineffabile
melodía. L'Acheronte, il gran tartareo
pianto, anche sentii volvere
su me nel cieco suo pallore i petali
rapiti al prato asfòdelo.
Tutte l'acque rombarono crosciarono
su me sommerso, tolsero
ogni terrestrità dal corpo immemore
della sua dura nascita.
E mi risollevai dio verso l'etere
santo; spirai grande alito
che una nave d'eroi sospinse. Io auspice
apparvi agli Argonauti!
Di su la prora chino il cantor tracio
raccolse il vaticinio.
E presso lui, d'oro chiomato, florido
della prima lanugine,
(sentendo l'immortalità, saltavagli
il cuore sotto il bàlteo
splendido) presso Orfeo figlio d'Apolline
era il fratello d'Elena.

O Iddii profondi, richiamate l'esule,
la deità rendetegli!
Io fui Glauco, fui Glauco, quel d'Antèdone.
La terra m'è supplizio.
Ecco, tutta la luce è nel Mare Infero,
e per ovunque è tenebra.
O nunzia di prodigi Alba oceanica!
Nel gorgo mi precipito.





( Data di composizione ignota - anno 1902 )



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25/06/2008 22:40

ALCYONE - Sezione 3


L'OLEANDRO



I.

Erigone, Aretusa, Berenice,
quale di voi accompagnò la notte
d'estate con più dolce melodia
tra gli oleandri lungo il bianco mare?
Sedean con noi le donne presso il mare
e avea ciascuna la sua melodia
entro il suo cuore per l'amica notte;
e ciascuna di lor parea contenta.

E sedevamo su la riva, esciti
dalle chiare acque, con beato il sangue
del fresco sale; e gli oleandri ambigui
intrecciavan le rose al regio alloro
su 'l nostro capo; e il giorno di sì grandi
beni ci avea ricolmi che noi paghi
sorridevamo di riconoscenza
indicibile al suo divin morire.

"Il giorno" disse pianamente Erigone
verso la luce "non potrà morire.
Mai la sua faccia parve tanto pura,
non ebbe mai tanta soavità".
Era la sua parola come il vento
d'estate quando ci disseta a sorsi
e nella pausa noi pensiamo i fonti
dei remoti giardini ov'egli errò.

L'udii come s'io fossi ancor sommerso
e la sua voce avesse umido velo.
Ma reclinai la gota, e d'improvviso
tiepida come sangue dalla conca
dell'udito sgorgò l'acqua marina.
Pur, profondando nella sabbia i nudi
piedi, io sentia partirsi lentamente
il buon calor del tramontato sole.

E chi recise all'oleandro un ramo?
Io non mi volsi, ma l'amarulenta
fragranza della linfa della fresca
piaga mi giunse alle narici, vinse
l'odor muschiato dei vermigli fiori.
"O Glauco" disse Berenice "ho sete".
Ed Aretusa disse: "O Derbe, quando
fiorì di rose il lauro trionfale?"

Ella ben sapea quando, ma non Derbe
inesperto in foggiar lucidi miti.
Ed il cuore profondo mi tremò,
tremò della divina poesia.
Ond'io pregava: "O desiderii miei,
stirpe vorace e vigile, dormite!
E voi lasciate che nel vostro sonno
io mi cinga del lauro trionfale!"

Tutto allora fu grande, anche il mio cuore.
Oh poesia, divina libertà!
Ergevasi con mille cime l'Alpe
grande, quasi con volo di mille aquile,
per il salir d'impetuosa forza
dalle sue dure viscere di marmo
onde l'uom che non volle umana prole
trasse i suoi muti figli imperituri.

E le curve propaggini dell'Alpe
si protendeano ad abbracciare il mare;
ed il mare splendeva di candore
meraviglioso nel lunato golfo
con la bellezza delle donne nostre.
E quella luce un rinascente mito
fece di voi sull'irraggiato mondo,
Erigone, Aretusa, Berenice!

Così ci parve riudire il canto
delle Sirene, dalla nave concava
di prora azzurra, fornita di ponti,
veloce, in un doloroso ritorno
spinta dal vento al frangente del mare,
nè ci difese Odisseo dal periglio
con la sua cera; ma il cuore, non più
libero, novellamente anelava.

II.

"O Glauco", disse Berenice "ho sete.
Dov'è la fonte? dove sono i frutti?
Dov'è Cyane azzurra come l'aria?
Dove coglierai tu con le tue mani
l'arancia aurata nella cupa fronda?
Come ci dissetammo! E tanto era soave
il dissetarsi che desiderammo
l'ardente sete. Al par di noi chi seppe
distinguere il sapore d'ogni frutto
e la maturità dal suo colore?
distinguere d'ogni acqua la freschezza
e ritrovar la sua più fredda vena?
e regolar le labbra al vario bere
e il sorso modular come una nota?
L'imagine di me nell'acque amavi.
Dell'amore di me arsi inclinata,
si ' bella nel ninfale specchio fui.
Io fui Cyane azzurra come l'aria.
Tu mi ghermisti fra natanti foglie.
L'ombra divina mi trasfigurò.
Un fiore subitaneo s'aperse
tra i miei ginocchi. Vincolata fui
da verdi intrichi, fra radici pallide
come i miei piedi, con segreto gelo.
Il sol divino mi trasfigurò.
Anelli innumerevoli alle dita
furommi i raggi, pettini ai capelli,
monili al collo, e veste tutta d'oro.
O Aretusa, perché non ho il tuo nome?
Nascesti tu nell'isola di Ortigia
come l'amor del violento fiume?
La sirena scagliosa abbeveravi,
già fatto il vespero, al tacer dei flauti.
Diedi io le canne ai flauti dei pastori.
Io fui Cyane azzurra come l'aria.
L'acqua sorgiva mi resto negli occhi;
la lenta correntia mi levigò.
O Glauco, ti sovvien della Sicilia
bella?" Ed io più non vidi la grande Alpe,
il bianco mare. Io dissi: "Andiamo, andiamo!"
"Ti sovvien della bella Doriese
nomata Siracusa nell'effigie
d'oro cò suoi delfini e i suoi cavalli,
serto del mare? Noi scoprimmo un giorno,
stando su l'Acradina, la triere
che recava da Ceo l'Ode novella
di Bacchilide al re vittorioso.
Udivasi nel vento il suon del flauto
che regolava l'impeto dei remi,
or sì or no s'udiva il canto roco
del celeúste; ma silenziosa
l'Ode, foggiata di parole eterne,
più lieve che corona d'oleastro,
onerava di gloria la carena.
Scendemmo al porto. Ti sovvien dell'ora?
Un rogo era l'Acropoli in Ortigia;
ardevano le nubi su 'l Plemmirio
belle come le statue su 'l fronte
dei templi; parea teso dalla forza
di Siracusa il grande arco marino.
E noi gridammo, e un súbito clamore
corse lungo le stoe quando la nave
piena d'eternità giunse all'approdo.
Portatrice di gloria, ella vivea
magnanima, sublime. Giù pè trasti
anelava l'anelito servile;
s'intravedean sù banchi sovrapposti
i remiganti ignudi unti d'oliva:
la lor fatica ansava dai portelli;
il giglione del remo ai raggi obliqui
lucea come la scapula; un ferigno
odore si spandea, quasi di belve.
E non di quell'anelito servile
era viva la nave, non del sangue
e dell'ossa pesanti nè suoi fianchi;
ma sì vivea divinamente d'una
cosa ch'ella recava d'oltremare,
più lieve che corona d'oleastro:
l'Ode, foggiata di parole eterne".
"E' vero, è vero!" io dissi. "Mi sovviene".
Ed il cuore profondo mi tremò,
tremò della divina poesia.
"Mi sovviene. Era l'Ode trionfale:
Canta Demetra che regna i feraci
campi siciliani, e la sua figlia
cinta di violette! Canto, o Clio,
dispensatrice della dolce fama,
la corsa dei cavalli di Ierone!
Nike ed Aglaia eran con essi quando
trasvolavano..." E l'anima invelata
di sogni andava per le lontananze
dei tempi verso i gloriosi approdi
piena d'eternità come la nave
di Ceo. Passammo gli ellesponti, i golfi,
l'isole, gli arcipelaghi, le sirti:
riverimmo le foci dei paterni
fiumi, pregammo i promontorii sacri,
salutammo le bianche cittadelle
custodite da Pallade rupestri;
varcammo l'Istmo pel diolco. Quivi
eroi vedemmo e Pindaro con loro.
Ed obliammo l'usignuol di Ceo
per l'aquila tebana. Era la tua
mitica luce sul Tirreno, o madre
Ellade, ed era bella come i tuoi
monti la nuda Alpe di Luni, o madre
Ellade, come i tuoi monti bellissima
era, onde a te discesero le stirpi
degli Immortali che incedeano al fianco
degli Efimeri sopra il dominato
dolore, e quelli e questi erano eguali,
e tutti erano Ellèni ed una lingua
parlavano divina, uomini e iddii".

In silenzio guardammo i grandi miti
come le nubi sorgere dall'Alpe
ed inclinarsi verso il bianco mare.
Io vidi allora Pègaso pontare
su gli altissimi marmi i piè di vento
e balzar nell'azzurro con aperte
le immense penne, senza cavaliere;
e per il petto e per il ventre vasti
trasparia come fiamma palpitante
la potenza del sangue gorgonèo.
Ardi gridò: "Ecco il teschio d'Orfeo,
che vien dall'Ebro!" Ed il solenne lido
parve attendere il fato dopo il grido.
La sua bellezza s'aggradì d'orrore.
Il flutto nell'insolito splendore
era meravigliosamente puro.
Splendea sul mondo un giorno imperituro.

III.

Ma non sostenne il nostro cuor mortale
quel silenzio sublime. Si piegò
verso il sorriso delle donne nostre.
E Derbe disse ad Aretusa: "Quando
fiorì di rose il lauro trionfale?".
Era la donna giovinetta alzata,
mutevole onda con un viso d'oro,
tra gli oleandri; ed il reciso ramo
per la capellatura umida effusa,
che fingevale intorno al chiaro viso
l'avvolgimento dell'antica fonte,
intrecciava le rose al regio alloro.
Disse Aretusa: "Bene io te 'l dirò"
mutevole onda con un viso d'oro.

Disse: "Inseguiva il re Apollo Dafne
lungh'esso il fiume, come si racconta.
La figlia di Peneo correva ansante
chiamando il padre suo dall'erma sponda.
Correva, e ad ora ad or le snelle gambe
le s'intricavan nella chioma bionda.
Ben così la poledra di Tessaglia
galoppa nella sua criniera falba
che fino a terra la corsa le ingombra.

Rapido il re Apollo più l'incalza,
infiammato desio, per lei predare.
All'alito del dio doventa fiamma
la chioma della ninfa fluvïale.
"O padre, o padre" grida "tu mi scampa!"
Chiama ella il padre suo con grida vane.
"Padre, un veloce fuoco mi ghermisce!"
E corre, ed ansa, e le sue gambe lisce
crescon la furia del desio predace.

"O gran padre Penèo, perduta sono,
che ' mi si rompono i ginocchi. Salva-
mi dalla brama del veloce fuoco
cho ora mi giunge, ecco, ecco, ora m'abbranca!"
Ma il dolce sangue suo in altro suono,
la sua bellezza in altro suono parla.
Balzale il cuor, si piegano i ginocchi.
Ed ecco ella s'arresta, chiude gli occhi
e trema e dice: "Or ecco m'abbandono".

Una gioia s'aggiunge al suo terrore
ignota che il divin periglio affretta.
Tremante e nuda dentro la chioma ode
la vergine il tinnir della faretra,
sente la forza del perseguitore,
vede l'ardor pè chiusi cigli e aspetta
d'essere ghermita, e più non chiama il padre.
Ma il dio la chiama: "Dafne, Dafne, Dafne!"
Ed ella non udì voce più bella.

Il dio la chiama: "Dafne, Dafne!" Ed osa
ella aprir gli occhi: la rutila faccia
vede da presso e la bocca bramosa
mentre il dio con le due braccia l'allaccia.
Rapita dalla forza luminosa
gitta ella un grido che per la selvaggia
sponda ultimo risuona, e l'ode il padre.
Avido il dio districa la soave
nudità dalla chioma che la fascia.

Bianca midolla in cortice lucente,
in folti pampini uva delicata!
Tenera e nuda il dio la piega, e sente
ch'ella resiste come se combatta.
Tenera cede il seno; ma dal ventre
in giuso, quasi fosse radicata,
ella sta rigida ed immota in terra.
Attonito, l'amante la disserra.
"Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei fatta!"

Subitamente Dafne s'impaura:
le copre il volto e il seno un pallor verde.
Ella sembra cader, ma la giuntura
dei ginocchi riman dura ed inerte.
S'agita invano. L'atto della fuga
invan le torce il fianco. Si disperde
il senso di sua vita nella terra.
E l'amante deluso ancor la serra.
"Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?"

Ma non il suo melodioso duolo
giova a trarre colei dalla sua sorte.
Nell'umidore del selvaggio suolo
i piedi farsi radiche contorte
ella sente e da lor sorgere un tronco
che le gambe su fino alle cosce
include e della pelle scorza fa
e dov'è il fiore di verginità
un nodo inviolabile compone.

"O Apollo" geme tal novo dolore
"prendimi! Dov'è dunque il tuo disio?
O Febo, non sei tu figlio di Giove?
Arco-d'-argento, non sei dunque un dio?
Prendimi, strappami alla terra atroce
che mi prende e beve il sangue mio!
Tutto furente m'hai perseguitata
ed or più non mi vuoi? Me sciagurata!
Salva mio grembo per lo tuo desio!

Salvami, Cintio, per la tua pietà!
Se i miei capelli, che m'avvinsero, ami,
dè miei capelli corda all'arco fa!
Prendimi, Apollo! " E tendegli le mani,
che son fogliute; e il verde sale; e già
le braccia sino ai cubiti son rami;
e il verde e il bruno salgon per la pelle;
e su per l'imbelico alle mammelle
già il duro tronco arriva; e i lai son vani.

"Aita, aita! Il cuore mi si serra.
Vedi atra scorza che il petto m'opprime!
O Apollo Febo, strappami da terra!
Tanto furent, non sia più ghermire?
Nuda mi prenderai su la dolce erba,
su la dolce erba e su 'l mio dolce crine.
Ardo di te come tu di me ardi.
O Apollo, o re Apollo, perché tardi?
Già tutta quanta sentomi inverdire".

Il dolce crine è già novella fronda
intorno al viso che si trascolora.
La figlia di Peneo non è più bionda;
non è più ninfa e non è lauro ancora.
Sola è rossa la bocca gemebonda
che del novello aroma s'insapora.
Escon parole e lacrime odorate
dall'ultima doglianza. O fior d'estate,
prima rosa del lauro che s'infiora!

Tutto è gia verde linfa, e sola è sangue
la bocca che querelasi interrotta-
mente. In pallide fibre il cor si sface
ma il suo rossore è in sommo della bocca.
Desioso dolor preme l'amante.
Guarda ei l'arbore sua ma non la tocca;
l'ode implorare ma non ha virtù.
E chiama: "Dafne, Dafne!" Ella non più
implora, non più geme. "Dafne, Dafne!"

Ella non più risponde: è senza voce.
Pur la gola sonora è fatta legno.
Le palpebre son due tremule foglie;
li occhi gocciole son d'umor silvestro;
bruni margini inasprano le gote;
delle tenui nari è appena il segno.
Ma nell'ombra la bocca è ancora sangue,
sola nel lauro la bocca di Dafne
arde e al dio s'offre, virginal mistero.

Curvasi Apollo verso quella ardente,
la bacia con impetuosa brama.
Ne freme tutta l'arbore; s'accende
l'ombra intorno alla fronte sovrana;
ogni ramo in corona si protende,
e la fronte d'Apollo è laureata.
Pean! O gloria! Ma sotto i suoi baci
or più non sente che foglie vivaci,
amare bacche. E Dafne Dafne chiama.

"Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei tutta!
Ahi chi ti fece al mio desio diversa?
In durissimo tronco e in fronda cupa
la dolce carne tua or s'è conversa.
La tua bocca vermiglia s'è distrutta,
che pareva di fiamma ardere eterna.
Come leggieri i piedi tuoi su l'erba,
or radicati nella negra terra!
M'odi tu? M'odi tu? Dafne, sei muta?

Rispondi! " Abbrividiscono le frondi
sino alla vetta. Nel silenzio un breve
murmure spira. "M'odi tu? Rispondi!"
Move la vetta un fremito più lieve.
Poi tutto tace e sta. Sotto i profondi
cieli le rive alto silenzio tiene.
Il bellissimo lauro è senza pianto;
il dolore del dio s'inalza in canto.
Odono i monti e le valli serene.

Odono i monti e le valli e le selve
e i fonti e i fiumi e l'isole del mare.
Spandesi il canto dall'anima ardente
e per tutte le cose generare.
La bellezza di Dafne ecco riveste
la terra; le sue membra delicate
son monti e valli e selve e fiumi e fonti,
il suo sguardo inzaffira gli orizzonti,
la sua chioma fa l'oro dell'estate.

O Dafne, sempre il dio e l'uom cantando
non vorranno altro onor che un ramoscello
di te! Così l'Arco-d'-argento, quando
ha placato il suo cuore nell'immenso
inno, pago si giace sotto il sacro
lauro ad attendere il suo dì novello.
Cade la notte. Sul sonno divino
l'arbore luce d'un baglior sanguigno,
qual bronzo che si vada arroventando.

Scorre la notte. Tra l'Olimpo e l'Ossa
una stella tramonta e l'altra sale.
Misteriosa l'arbore s'arrossa
ma sul suo fuoco piovon le rugiade.
Sogna il Cintio la desiata bocca
di Dafne, e balza il suo cuore immortale.
E' l'alba, è l'alba. Il dio si desta: un grido
di meraviglia irraggia tutti il lido.
Brilla di rose il lauro trionfale!"

IV.

E così della rosa e dell'alloro
parlò quell'Aretusa fiorentina,
mutevole onda con un viso d'oro.

la sua voce era come acqua argentina
che recasse lavandula o pur menta
o salvia o altra fresca erba mattutina.

Tutto rigato dalla schietta vena
"Sol d'oleandro voglio laurearmi"
io dissi. Ed Aretusa era contenta;

e recise per me altri due rami
e fè l'atto di cingermi le tempie
dicendomi: "Pè tuoi novelli carmi!

Che la cerula e fulva Estate sempre
abbia tu nel tuo cuore e in te le rime
nascano come le sue rose scempie!"

E il giorno estivo non potea morire,
ma sorrideva sopra il bianco mare
silenziosamente senza fine;

e la notte, che avea parte ineguale,
spiava il bel nemico dalle chiostre
dei monti azzurra come te, Cyane.

Ebri e tristi d'aver bevuto a troppe
fonti e incantato il cor per tutte guise,
cercammo il grembo delle donne nostre.

Ma la Melancolia venne e s'assise
in mezzo a noi tra gli oleandri, muta
guatando noi con le pupille fise.

Ed Erigone, ch'ebbe conosciuta
la taciturna amica del pensiero,
chinò la fronte come chi saluta.

E poi disse la Notte e il suo mistero.

V.

"Il Giorno" disse "non potrà morire.
Il suo sangue non tinge il bianco mare.
Mai la sua faccia parve tanto pura,
non ebbe mai tanta soavità.
Giace supino sopra il bianco mare,
sorride al cielo ch'ei regnava, attende
ei non sa quale morte o voluttà.
Pur tanto è dolce che la Notte oscura
non già lo spegne ma di lui s'accende,
e lui aurato nelle braccia prende,
lui cela nella sua capellatura,
ma non così che quelle membra d'oro
non veggansi pel fosco trasparire
e illuminare la serenità.
Caldi soffiano i venti al bianco mare,
calde passano e lente le riviere
in cuore alle terribili città,
passano e vanno per ignoti piani,
cingono ignoti boschi: i cervi a bere
scendono ansanti nella gran caldura;
lunghi bràmiti ascoltano lontani;
bevono: in qualche tacita radura
poi fino a morte si combatterà.
O Notte, o Notte, invano tu nascondi
nè tuoi capelli il dolce tuo nemico!
Non sono i tuoi capelli sì profondi
che non veggasi dai nostri occhi umani
fiammeggiarvi per entro il tuo piacere.
La terra oppressa respiro non ha.
Arde l'ombra. La vigna è come il vino:
il grappolo sul tralcio si matura
poi che il raggio nell'uva è prigioniere.
La terra soffre nell'ebrietà.
Arde come una glauca vampa l'ombra.
Aduna e vita e morte il bianco mare,
immensa cuna il mare, immensa tomba.
A lui dal monte la sorgente va.
Impallidisce sotto il pianto il coro
delle Pleiadi e l'una d'elle è occulta,
l'una che seppe la felicità.
Orione si slaccia l'armatura,
e Boote si volge, e Cinosura
vacilla; e l'Orsa anche impallidirà.
Oblia la Notte tutte le sue stelle
e il duolo antico degli amanti umani.
Che con lei piangeremo ella non sa.
O Notte, piangi tutte le tue stelle!
il grido dell'allodola domani
dall'amor nostro ci disgiungerà".

Un'altra era con noi, ma restò muta,
tra gli oleandri lungo il bianco mare.





(Composta nella notte del 2 agosto 1900)




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BOCCA DI SERCHIO



ARDI


Glauco, Glauco, ove sei? Più non ti veggo.
Ho perduto il sentiere, e il mio cavallo
s'arresta. I Pini, i pini d'ogni parte
mi serrano. Agrio affonda nella massa
degli aghi, come nella sabbia, fino
ai garetti. Ove sei, Glauco? Mi vedi?
Ho le gambe che sanguinano. Folli
fummo entrando nel bosco ignudi come
nel mare. I rovi, le schegge, le scaglie
feriscono, e i ginepri aspri. Non sanguini
anche tu? Oh profumo! Sale a un tratto
come una vampa. Il vino dell'Estate!
N'ho bevuto una piena coppa, e un'altra
ne bevo, e un'altra anche più calda, e un'altra
bollente che mi brucia il cuore e fino
alla gola mi sazia, fino agli occhi.
O Glauco, Glauco, il vino dell'Estate
misto di oro di rèsina e di miele!

GLAUCO

Io ti veggo, ti veggo, Ardi. Sei bello
sul tuo cavallo bianco. Tu non puoi
portar clamide, come i cavalieri
d'Atene, ma ti giova essere ignudo.
Su, spingi Agrio! Non v'è sentiere. I fusti
sono fragili come aride canne.
Odi? Folo li rompe col suo petto.
Dunque or teme le scaglie e i rovi il marmo
delle tue gambe? E' splendido il tuo sangue,
Ardi. Poiché ciascuna cosa in torno
le più ricche virtudi e più segrete
esprime per farti ebro, non ti dolga
di sanguinare come il pino stilla,
come il ginepro odora. Avanti, avanti
per la boscaglia che rosseggia e cede!
Vedesti mai più fulva chioma e spessa?
I bei sogni vi restano come api
prese nella criniera d'un leone.

ARDI

Preso per i capegli sono. Ah, il ramo
si rompe e gli aghi piovonmi sul collo,
su gli omeri, già coprono la groppa
d'Agrio. Vedi? A miriadi, a miriadi!
Carichi tutti i rami biforcuti.
In ogni congiuntura accumulati
a fasci gli aghi morti. Morta sembra
tutta la selva, inaridita e cieca.
Rompesi come vetro. Il verde è al sommo,
invisibile, e fa prigione i raggi
nell'intrico; ma l'ombra sua mi cuoce
la fronte e mi dissecca la narice.
Entreremo nel fiume coi cavalli!
Diguazzeremo in mezzo alla corrente!
E ancor lontano il Serchio? Tutta l'ombra
respira aridità. L'acqua è lontana.
E sento che lo zòccolo a traverso
gli aghi morti non trova se non sabbia
torrida. I coni vacui son neri
come carboni spenti, come tizzi
consunti. O Glauco, dove mi conduci?

GLAUCO

Chiudi gli occhi. Odi il vento? Navigare
ti sembra, veleggiar per il deserto
mare. Odi il vento tra le sàrtie? Odi
il gemito degli alberi allo sforzo
delle vele? Si naviga per acque
infide verso l'isola di Circe.
Negli orciuoli d'argilla non rimane
goccia di fonte. Beveremo il sale.
Apri gli occhi! Ecco l'atrio della maga
tutto riscintillante di prodigi.
Larve di stelle adornano la reggia
della donna solare, vedi?, simili
a foglie macerate dagli autunni
che serban lor sottili nervature
con la tenuità dei bissi intesti
d'aria e di lume. Fili palpitanti
le congiungono, l'iride le cangia,
indicibile tremito le muove.
Circe incantò le stelle eccelse, e l'ebbe,
e le votò di lor sostanza igníta;
e qui raduna le lor dolci larve.

ARDI

Opre di ragni, arte divina, tele
stellari! O Glauco, io n'ho già lacerata
una col viso, e un'altra ancóra. Guarda!
Per ovunque tessute son le stelle.
Siam presi in una rete innumerevole.
Férmati! Non distruggere l'incanto.

GLAUCO

La radura è vicina. Il sole pènetra
fra i rami. Tutto tremola e scintilla.
La rèsina sul tronco è come l'ambra.
Di polito metallo è il mirto chiuso.
La tamerice sembra quasi azzurra
tra i rossi pini. E il tuo volto s'imperla.

ARDI

Oh com'è bello Folo che dall'ombra
trapassa, maculato di sudore,
nella banda del sole! Anche tu sànguini.
Non vedesti le vipere fuggire?
Qual nome hanno quei lunghi fili d'erba
che portano una spiga nera in cima?

GLAUCO

Il nome che le labbra ti diletta.
Abbandona le redini sul collo
d'Agrio. Ascolta il cavallo nel silenzio
sbuffare. Vola la sua bava e imbianca
il mentastro. Perché, Ardi, sol questo
empie il mio petto di felicità?

ARDI

Forse già fummo i figli della Nuvola.
Già l'erba calpestammo con gli zòccoli,
cogliemmo il fiore con le dita umane.
Un dì, volgendo indietro il torso ignudo,
con la concava scorza detergemmo
dal pelo della groppa calorosa
il sudore che in rivoli colava.
Lo spazio immenso era la nostra ebrezza.
Senz'ansia il nostro fianco infaticato
vinse in numero i palpiti del vento.
Tanto di terra in un sol dì varcammo
quanto varcava Pègaso di cielo.

GLAUCO

Rapidità, Rapidità, gioiosa
vittoria sopra il triste peso, aerea
febbre, sete di vento e di splendore,
moltiplicato spirito nell'òssea
mole, Rapidità, la prima nata
dall'arco teso che si chiama Vita!
Vivere noi vogliamo, Ardi, correndo:
passare tutti i fiumi, discoprirli
dalle fonti alle foci, lungo i lidi
marini l'orma imprimere nel segno
sinuoso, nell'argentina traccia
che di sé lascia il flutto più recente.

ARDI

Dato ci fosse correre senz'ansia
l'Universo! Ma troppo il nostro petto
è angusto pel respiro della nostra
anima. O Glauco, a chi t'ascolta, sei
come l'estro implacabile che incíta
i tori. E l'orizzonte è come anello
vitreo che tu spezzi per disdegno.

GLAUCO

Taci, Beviamo il vino dell'Estate,
sol dediti all'amore del bel fiume.
Verso tutte le selve della Terra
sospiro; ma, se in una solitario
vivere dovessi, in questa, Ardi, vorrei
vivere, in questa calda selva australe,
in quest'aridità d'ombre estuose.

ARDI

E' come un rogo pronto a conflagrare.
La potenza del fuoco in lei si chiude.
Soavemente mormora nell'aura,
ma la sua voce vera in lei si tace.
Parlerà con le lingue dell'incendio
quando la nube nata dal Tirreno
le scaglierà la folgore notturna.

GLAUCO

Il respiro non passa per le fauci
ma per tutte le membra, fino al pollice
del piede scalzo; e passano gli aromi
per tutti i pori. E sento respirare
il mio cavallo, e sento la ferina
sua allegrezza, come se nel duplice
corpo fervesse l'unico mio cuore.

ARDI

Ecco l'erba, ecco il verde, ecco una canna.
Ecco un sentiere erboso. Guarda, al fondo,
guarda i monti Pisani corrucciati
sotto le vaste nuvole di nembo.

GLAUCO

Ardi, non odi gracidío di corvi
là verso il mare? Scendono alla foce
del Serchio a branchi, e tesa v'è la rete,
dissemi il cacciatore di Vecchiano.

ARDI

Il Serchio è presso? Volgiti all'indizio.
Ecco la sabbia tra i ginepri rari,
vergine d'orme come nei deserti.
Si nasconde la foce intra i canneti?
La scopriremo forse all'improvviso?
Ci parrà bella? No, non t'affrettare!
Lascia il cavallo al passo. E' dolce l'ansia,
e viene a noi dal più remoto oblio,
vien dall'antica santità dell'acque.
Liberi siamo nella selva, ignudi
su i corsieri pieghevoli, in attesa
che il dio ci sveli una bellezza eterna.
Non t'affrettare, poi che il cuore e ' colmo.

GLAUCO

Bocche delle fiumane venerande!
Lungo le pietre d'Ostia è più divino
il Tevere. Soave è nei miei modi
l'Arno. Il natale Aterno, imporporato
di vele, splende come sangue ostile.
E l'Erídano vidi, e l'Achelòo,
e il gran Delta, e le foci senza nome
ove attardarsi volle invano il sogno
del pellegrino. Ma che questa, o Ardi,
sia la più bella mi conceda il dio;
perché non mai fu tanto armonioso
il mio petto, nè mai tanto fu degno
di rispecchiare una bellezza eterna.

ARDI

Oh, mistero! La verde chiostra accoglie
i vóti, qual vestibolo di tempio
silvano. I pini alzan colonne d'ombra
intorno al sacro stagno liminare
che ha per suo letto un prato di smeraldi.
Nel silenzio l'imagine del cielo
si profonda: non ride nè sorride,
ma dal profondo intentamente guarda.

GLAUCO

Odi la melodia del Mar Tirreno?
Tra le voci dei più lontani mari,
nell'estrema vecchiezza, nell'orrore
del gelo, il sangue mio l'imiterà.
E la cerula e fulva Estate sempre
io m'avrò nel mio cuore. Odi sommesso
carme che ci accompagna per l'esiguo
istmo sembiante al giogo d'una lira.

ARDI

Tutto è divina musica e strumento
docile all'infinito soffio. Guarda
per la sabbia le rotte canne, guarda
le radici divelte, ancor frementi
di labbra curve e di leggiere dita!
I musici fuggevoli con elle
modulavano il carme fluviale.

GLAUCO

Scendi dal tuo cavallo, Ardi. Ecco il fiume,
ecco il nato dei monti. Oh meraviglia!
Ei porta in bocca l'adunata sabbia
fatta come la foglia dell'alloro.
T'offriamo questi giovani cavalli,
o Serchio, anche t'offriamo i nostri corpi
ov'è chiuso il calor meridiano.

ARDI

Anelammo d'amore per trovarti!
Sgorgar parea che tu dovessi, o fiume,
dal nostro petto come un súbito inno.

GLAUCO

Dio tu sei, dio tu sei; noi siam mortali.
Ma fenderemo la tua forza pura.
La più gran gioia è sempre all'altra riva.





(Composta presumibilmente netta terza decade di giugno 1902)




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IL CERVO



Non odi cupi bràmiti interrotti
di là del Serchio? Il cervo d'unghia nera
si sépara dal branco delle femmine
e si rinselva. Dormirà fra breve
nel letto verde, entro la macchia folta,
soffiando dalle crespe froge il fiato
violento che di mentastro odora.
Le vestigia ch'ei lascia hanno la forma,
sai tu?, del cor purpureo balzante.
Ei di tal forma stampa il terren grasso;
e la stampata zolla, ch'ei solleva
con ciascun piede, lascia poi cadere.
Ben questa chiama "gran sigillo" il cauto
cacciatore che lèggevi per entro
i segni; e mai giudizio non gli falla,
oh beato che capo di gran sangue
persegue al tramontare delle stelle,
e l'uccide in sul nascere del sole,
e vede palpitare il vasto corpo
azzannato dai cani e gli alti palchi
della fronte agitar l'estrema lite!

Ma invano invano udiamo i cupi bràmiti
noi tra le canne fluviali assisi.
Tu non ti scaglierai nel Serchio a nuoto
per seguitar la pesta, o Derbe; e il freddo
fiume non solcherà suplice solco
del tuo braccio e del tuo predace riso,
fieri guizzando i muscoli nel gelo.
Inermi siamo e sazii di bellezza,
chini a spiare il cuor nostro ove rugge,
più lontano che il bràmito del cervo,
l'antico desiderio delle prede.
Or lascia quello il branco e si rinselva.
Forse è d'insigni lombi, e assai ramoso.
Ei più non vessa col nascente corno
le scorze. Già la sua corona è dura;
e il suo collo s'infosca e mette barba,
e fra breve sarà gonfio del molto
bramire. Udremo a notte le sue lunghe
muglia, udremo la voce sua di toro;
sorgere il grido della sua lussuria
udremo nei silenzii della Luna.





(Romena, 20 agosto 1902)



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L'IPPOCAMPO



Vimine svelto,
pieghevole Musa
furtivamente
fuggita del Coro
lasciando l'alloro
pel leandro crinale,
mutevole Aretusa
dal viso d'oro,
offri in ristoro
il tuo sal lucente
al mio cavallo Folo
dagli occhi d'elettro,
dal ventre di veltro,
ch'è solo l'eguale
del sangue di Medusa
ahi, ma senz'ale!
Offrigli il sale,
sonoro al dente,
o Aretusa,
nella palma dischiusa
e nuda, senza spavento
ché, per prendere il dono,
ha labbra più leggiere
delle sue gambe
di vento.
Appena ti lambe,
come per bere!
Del suo piacere
ti bagna; e la tua palma
appena sente, dietro
le labbra, il fresco
suo dente di puledro,
che brucar l'erba calma
può sì dolcemente
e rodere il ferro
difficile quando serro
la rapidità focace
pè solitarii
lidi io senza pace.
Come per te, furace
fauna dei pomarii,
un bugno
di miel rodolente
non vale
simiana acerba,
così per lui biada opima
non vale un pugno
di sale mordace.
Troppo gli piace,
Aretusa. Ingordo
n'è come capra sima.
Forse ha un ricordo
marino il sangue di Folo.
Egli è forse figliuolo
degli Ippocampi
dalla coda di squamme.
Ora è fiamme e lampi,
ma prima
era forse argentino
o cerulo o verdastro
come il flutto, gagliardo
come il flutto decumano.
E nel vespero tardo,
all'apparir dell'astro
che cresce,
al levar della brezza,
tutto acquoso e salmastro
venuto in su la proda,
mansuefatto,
battendo con la coda
di pesce l'arena
per la dolcezza,
sogguardando in atto
d'amore, gocciando bava,
prono la schiena,
mangiava piano
l'aliga nella mano
cava della Sirena.





(Romena, 21 agosto 1902)




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L'ONDA



Nella cala tranquilla
scintilla,
intesto di scaglia
come l'antica
lorica
del catafratto,
il Mare.
Sembra trascolorare.
S'argenta? s'oscura?
A un tratto
come colpo dismaglia
l'arme, la forza
del vento l'intacca.
Non dura.
Nasce l'onda fiacca,
súbito s'ammorza.
Il vento rinforza.
Altra onda nasce,
si perde,
come agnello che pasce
pel verde:
un fiocco di spuma
che balza!
Ma il vento riviene,
rincalza, ridonda.
Altra onda s'alza,
nel suo nascimento
più lene
che ventre virginale!
Palpita, sale,
si gonfia, s'incurva,
s'alluma, propende.
Il dorso ampio splende
come cristallo;
la cima leggiera
s'aruffa
come criniera
nivea di cavallo.
Il vento la scavezza.
L'onda si spezza,
precipita nel cavo
del solco sonora;
spumeggia, biancheggia,
s'infiora, odora,
travolge la cuora,
trae l'alga e l'ulva;
s'allunga,
rotola, galoppa;
intoppa
in altra cui 'l vento
diè tempra diversa;
l'avversa,
l'assalta, la sormonta,
vi si mesce, s'accresce.
Di spruzzi, di sprazzi,
di fiocchi, d'iridi
ferve nella risacca;
par che di crisopazzi
scintilli
e di berilli
viridi a sacca.
O sua favella!
Sciacqua, sciaborda,
scroscia, schiocca, schianta,
romba, ride, canta,
accorda, discorda,
tutte accoglie e fonde
le dissonanze acute
nelle sue volute
profonde,
libera e bella,
numerosa e folle,
possente e molle,
creatura viva
che gode
del suo mistero
fugace.
E per la riva l'ode
la sua sorella scalza
dal passo leggero
e dalle gambe lisce,
Aretusa rapace
che rapisce le frutta
ond'ha colmo suo grembo.
Súbito le balza
il cor, le raggia
il viso d'oro.
Lascia ella il lembo,
s'inclina
al richiamo canoro;
e la selvaggia
rapina,
l'acerbo suo tesoro
oblía nella melode.
E anch'ella si gode
come l'onda, l'asciutta
fura, quasi che tutta
la freschezza marina
a nembo
entro le giunga!

Musa, cantai la lode
della mia Strofe Lunga.





(Romena, 22 agosto 1902)




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LA CORONA DI CLAUCO


MELITTA


Fulge, dai maculosi leopardi
vigilata, una rupe bianca e sola
onde il miele silentemente cola
quasi fontana pingue che s'attardi.

Quivi in segreto sono i miei lavacri
dove il mio corpo ignudo s'insapora
e di rosarii e di pomarii odora
e si colora come i marmi sacri.

Io son flava, dal pollice del piede
alla cervice. Inganno l'ape artefice.
Porto negli occhi mie le arene lidie.

Per entro i variati ori la lieve
anima mia sta come un fiore semplice.
Melitta è il nome della mia flavizie.

L'ACERBA

Non io del grasso fiale mi nutrico.
Lascio la cera e il miele nel lor bugno.
Ma spicco la susina afra dal prugno
semiano, e mi piace l'orichico.

E il latte agresto piacemi del fico
primaticcio che nérica nel giugno.
Ti do due labbra fresche per un pugno
di verdi fave, e il picciol cuore amico!

Vieni, monta pè rami. Eccoti il braccio.
Odoro come il cedro bergamotto
se tu mi strizzi un poco la cintura.

Quanto soffii! Tropp'alto? Non ti piaccio?
Ah, ah, mi sembri quel volpone ghiotto
che disse all'uva: Tu non sei matura.

NICO

I tuoi piè bianchi sono i miei trastulli
nella gracile sabbia ove t'accosci,
bianchi e piccoli come gli aliossi
levigati dal gioco dei fanciulli.

- Ahi, ahi, misera Nico, i miei piè brulli!
Su la sabbia di foco i piè mi cossi.
Tu ridi, costassù, tu ridi a scrosci!
Ma, s'io ti giungo, vedi come frulli.

- Ingrata, ingrata, con che arte il foco
ti rilieva le vene in pelle in pelle
e il pollice t'imporpora e il tallone!

- Bada; Non aliossi pel tuo gioco
ma ho in serbo per te, schiavo ribelle,
una sferza di cuoio paflagone.

NICARETE

Glauco di Serchio, m'odi. Io, Nicarete
le canne con le lenze e gli ami sgombri
che non preser già mai barbi nè scombri
t'appendo alla tua candida parete.

E t'appendo le nasse anco, e la rete
fallace con suoi sugheri e suoi piombi
che non pescò già mai mulli nè rombi
ma qualche fuco e l'alghe consuete.

Amaro e avaro è il sale. O Glauco, m'odi.
Prendimi teco; Evvi una bocca, parmi,
sinuosa nell'ombra dè miei búccoli.

Teco andare vorrei tra lenti biodi
e coglier teco per incoronarmi
l'ibisco che fiorisce a Massaciúccoli

A NICARETE

Nicarete dal monte di Quiesa
a Montramito i colli sono lenti
come i tuoi biodi, all'aria obbedienti,
fatti anch'elli d'un oro che non pesa.

E quella lor soavità, sospesa
tra i chiari cieli e l'acque trasparenti,
tu non la vedi quasi mai la senti
come una gioia che non si palesa.

Sorge, splendore del silenzio, il disco
lunare. O Nicarete, ecco, e s'adempie
mentre nel lago la ninfea si chiude.

Prima è rosato come il fior d'ibisco
che t'inghirlanda le tue dolci tempie
ma dopo assempra le tue spalle ignude.

GORGO

Ospite sempre memore, io son Gorgo
e l'odor delle Cicladi vien meco.
Tutte l'uve e le spezie, ecco, ti reco
in questo lino aereo d'Amorgo.

Glauco, e ti reco il vin di Chio nell'otro,
quel che bevesti un dì sul tuo fasèlo,
quel che in argilla si facea di gelo
pendula a soffio di ponente o d'ostro.

E una corona d'ellera e di gàttice
ti reco, per un'ode che mi piacque
di te, che canta l'isola di Progne.

Io voglio, nuda nell'odor del màstice,
danzar per te sul limite dell'acque
l'ode fiumale al suon delle sampogne.

A GORGO

Gorgo, più nuda sei nel lin seguace.
La tua veste ti segue e non ti chiude.
Fra l'ombelico e il depilato pube
il ventre appare quasi onda che nasce.

Ombra non è su le tue membra caste:
dall'ínguine all'ascella albeggi immune.
Polita come il ciòttolo del fiume
sei, snella come l'ode che ti piacque.

Danzami la tua molle danza ionia
mentre che l'Apuana Alpe s'inostra
e il Mar Tirreno palpita e corusca.

L'Ellade sta fra Luni e Populonia!
E il cor mi gode come se tu m'offra
il vin tuo greco in una tazza etrusca.

L'AULETRIDE

Io rinvenni la pelle dell'incauto
Frigio nomato Marsia appesa a un pino,
sul suol roggio il coltello del divino
castigatore e, presso, il doppio flauto.

Questo raccolsi trepidando, o Glauco.
E, immemore del flebile destino,
io son osa talor nel mio giardino
chiuso carmi dedurre sotto il lauro.

Rivolgomi sovente e guardo s'Egli
non apparisca a un tratto, l'Immortale.
Ma non mi trema il mio labbro fasciato.

Vivon nell'orror sacro i miei capegli
ma per l'angustia del mio petto sale
il superbo di Marsia antico afflato.

BACCHIA

Ah, chi mi chiama? Ah, chi m'afferra? Un tirso
io sono, un tirso crinito di fronda,
squassato da una forza furibonda.
Mi scapiglio, mi scalzo, mi discingo.

Trascinami alla nube o nell'abisso!
Sii tu dio, sii tu mostro, eccomi pronta.
Centauro, son la tua cavalla bionda.
Fammi pregna di te. Schiumo, nitrisco.

Tritone, son la tua femmina azzurra:
salsa com'alga è la mia lingua; entrambe
le gambe squamma sonora mi serra.

Chi mi chiama? La búccina notturna?
il nitrito del Tessalo? il tonante
Pan? Son nuda. Ardo, gelo. Ah, chi m'afferra?






(Composti presumibilmente nel settembre 1903)





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STABAT NUDA ÆSTAS



Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l'aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la rèsina gemette giù pè fusti.
Riconobbi il colúbro dal sentore.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorse l'ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell'argento pallàdio trasvolare
senza suono. Più lungi, nella stoppia,
l'allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch'io per nome la chiamai.

Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l'acque.
Il ponente schiumò ne' suoi capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.






(Data di composizione ignota)




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DITIRAMBO III



O grande Estate, delizia grande tra l'alpe e il mare,
tra così candidi marmi ed acque così soavi
nuda le aeree membra che riga il tuo sangue d'oro
odorate di aliga di rèsina e di alloro,
laudata sii,
o voluttà grande nel cielo nella terra e nel mare
e nei fianchi del fauno, o Estate, e nel mio cantare,
laudata sii
tu che colmasti dè tuoi più ricchi doni il nostro giorno
e prolunghi su gli oleandri la luce del tramonto
a miracol mostrare!

Ardevi col tuo piede le silenti erbe marine,
struggevi col tuo respiro le piogge pellegrine,
tra così candidi marmi ed acque così soavi
alzata; e grande eri, e pur delle più tenui vite
gioiva la tua gioia, e tutto vedeva la tua pupilla
grande: le frondi delle selve e i fusti delle navi,
e la ragia colare, maturarsi nelle pine
le chiuse mandorlette e la scaglia che le sigilla
pender nel fulvo, e l'orme degli uccelli nell'argilla
dei fiumi, l'ombre dei voli su le sabbie saline
vedea, le sabbie rigarsi come i palati cavi,
al vento e all'onda farsi dolci come l'inguine e il pube
amorosamente,
imitar l'opre dell'api,
disporsi a mò dei favi
in alveoli senza miele,
e l'osso della seppia tra le brune carrube
biancheggiar sul lido, tra le meduse morte
brillar la lisca nitida, la valva
tra il sughero ed il vimine variar la sua iri,
pallida di desiri la nube
languir di rupe in rupe
lungh'essi gli aspri capi
qual molle donna che si giaccia cò suoi schiavi,
scorrere la gòmena nella rossa
cúbia, sorgere la negossa
viva di palpitanti pinne, curvarsi al peso vivo
la pertica, la possa
dei muscoli, gonfiarsi nelle braccia vellute,
una man rude
tendere la scotta,
al garrir della vela forte
piegarsi il bordo, come la gota del nuotatore,
la scía mutar colore,
tutto il Tirreno in fiore
tremolar come alti paschi al fiato di ponente.

O Estate, Estate ardente,
quanto t'amammo noi per t'assomigliare,
per gioir teco nel cielo nella terra e nel mare,
per teco ardere di gioia su la faccia del mondo,
selvaggia Estate
dal respiro profondo,
figlia di Pan diletta, amor del titan Sole,
armoniosa,
melodiosa,
che accordi il curvo golfo sonoro
come la citareda
accorda la sua cetra,
dolore di Demetra
che di te si duole
nè solstizii sereni
per Proserpina sua perduta primavera!
O fulva fiera,
o infiammata leonessa dell'Etra,
grande Estate selvaggia,
libidinosa,
vertiginosa,
tu che affochi le reni,
che incrudisci la sete,
che infurii gli estri,
Musa, Gorgóne,
tu che sciogli le zone,
che succingi le vesti,
che sfreni le danze,
Grazia, Baccante,
tu ch'esprimi gli aromi,
tu che afforzi i veleni,
tu che aguzzi le spine,
Esperide, Erine,
deità diversa,
innumerevole gioco dei vènti
dei flutti e delle sabbie,
bella nelle tue rabbie
silenziose, acre ne' tuoi torpori,
o tutta bella ed acre in mille nomi,
fatta per me dei sogni che dalla febbre del mondo
trae Pan quando su le canne sacre
delira (delira il sogno umano),
divina nella schiuma del mare e dei cavalli,
nel sudor dei piaceri,
nel pianto aulente delle selve assetate,
o Estate, Estate,
io ti dirò divina in mille nomi,
in mille laudi
ti loderò se m'esaudi,
se soffri che un mortal ti domi,
che in carne io ti veda,
ch'io mortal ti goda sul letto dell'immensa piaggia
tra l'alpe e il mare,
nuda le fervide membra che riga il suo sangue d'oro
odorate di aliga di rèsina e di alloro!





(Composta al Secco Motrone in Versilia il 20 luglio 1900)



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ALCYONE - Sezione 4


VERSILIA



Non temere, o uomo dagli occhi
glauchi! Erompo dalla corteccia
fragile io ninfa boschereccia
Versilia, perché tu mi tocchi.

Tu mondi la persica dolce
e della sua polpa ti godi.
Passò per le scaglie e pè nodi
l'odore che il cuore ti molce.

Mi giunse alle nari; e la mia
lingua come tenera foglia,
bagnata di súbita voglia,
contra i denti forti languía.

Sapevi tu tanto sagaci
nari, o uomo, in legno sì grezzo?
Inconsapevole eri, e del rezzo
gioivi e dè frutti spiccaci

e dell'ombre cui fànnoti gli aghi
del pino, seguendo il piacere
dè vènti, su gli occhi leggiere
come ombre di voli su laghi.

Io ti spiava dal mio fusto
scaglioso; ma tu non sentivi,
o uomo, battere i miei vivi
cigli presso il tuo collo adusto.

Talora la scaglia del pino
è come una palpebra rude
che subitamente si chiude,
nell'ombra, a uno sguardo divino.

Io sono divina; e tu forse
mi piaci. Non piacquemi l'irto
Satiro su 'l letto di mirto,
e il panisco invan mi rincorse.

Ma tu forse mi piaci. Aulisce
d'acqua marina la tua pelle
che il Sol feceti fosca. Snelle
hai gambe come bronzo lisce.

Offrimi il canestro di giunco
ricolmo di persiche bionde!
Poiché non mi giovano monde,
riponi il tuo coltello adunco.

Io so come si morda il pomo
senza perdere stilla di suco.
Poi cò miei labbri umidi induco
il miele nel cuore dell'uomo.

Riponi il ferro acre che attosca
ogni sapore. Tu non pregi
i tuoi frutti. I peschi, i ciriegi,
i peri, i fichi in terra tosca

son di dolcezza carchi, e i meli,
gli albricocchi, i nespoli ancora!
E tu li spogli in su l'aurora
velati dei notturni geli.

Da tempo in cuor mio non è gaudio
di tal copia. Ahimè, sono scarsi
i doni. E tu vedi curvarsi
i rami del susino claudio!

Ma io non ho se non la terra
pigna dal suggellato seme.
E a romper la scaglia che il preme
non giovami pur una pietra.

O uomo occhicèrulo, m'odi!
Lascia che alfine io mi satolli
di queste tue persiche molli
che hai nel cesto intesto di biodi.

Ti priego! La pigna malvagia
mi vale sol per iscagliarla
contro la ghiandaia che ciarla
rauca. Non s'inghiotte la ragia.

Ma se le mastichi negli ozii,
quantunque ha sapore amarogno,
allor che il tuo cuore nel sogno
si bea lungi ai vili negozii,

certo ti piace, o uomo; ed io
te ne darò della più ricca.
Tu la persica che si spicca,
e ne cola il suco giulío,

dammi, ch'io mi muoio di voglia
e da tempo non ebbi a provarne.
Non temere! Io sono di carne,
se ben fresca come una foglia.

Toccami. Non vello, non ugne
ricurve han le tue mani come
quelle ch'io so. Guarda: ho le chiome
violette come le prugne.

Guarda: ho i denti eguali, più bianchi
che appena sbucciati pinocchi.
Non temere, o uomo dagli occhi
glauchi! Rido, se tu m'abbranchi.

Abbrancami come il bicorne
villoso. La frasca ci copra,
i mirti sien letto, di sopra
ci pendano l'albe viorne.

Ma come, Occhiazzurro, sei cauto!
Forse amico sei di Diana?
Ora scende da Pietrapana
il lesto Settembre co 'l flauto,

se cruenta nel corniolo
rosseggi la cornia afra e lazza.
Odo tra il gridío della gazza
il richiamo del cavriuolo.

Sei tu cacciatore? Sei destro
ad arco, esperto a cerbottana?
Ora scende da Pietrapana
Settembre. Tu dammi il canestro.

Eh, veduto n'ho del pel baio
verso il Serchio correre il bosco!
Tu dammi il canestro. Conosco
la pesta se ben non abbaio.

Accomanda il nervo alla cocca.
Ne avrai della preda, s'io t'amo!
Imito qualunque richiamo
con un filo d'erba alla bocca.





(Composta il 2 giugno 1902)



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12/07/2008 20:38


LA MORTE DEL CERVO



Quasi era vespro. Atteso avea soverchio
alla posta del cervo, quatto quatto
fra le canne; e vinceami l'uggia. A un tratto
vidi l'uom che natava in mezzo al Serchio.

Un uomo egli era, e pur sentii la pelle
aggricciarmisi come a odor ferigno.
Di capegli e di barba era rossigno
come saggina, folte avea le ascelle;

ma pél diverso da quel delle gote
sotto il ventre parea che gli cominciasse,
bestial pelo, e che le parti basse
fossero enormi, cosce gambe piote,

come di mostro, tanto era il volume
dell'acqua che movea il natatore
se ben tenesse ambe le braccia fuore
con tutto il busto eretto in su le spume.

Un uom era. A una frotta d'anitroccoli
sbigottita egli rise. Intesi il croscio.
Repente si gittò su per lo scroscio
della ripa, saltò su quattro zoccoli!

Lo conobbi tremando a foglia a foglia.
Ben era il generato dalla Nube
acro e bimembre, uom fin quasi al pube,
stallone il resto dalla grossa coglia.

Il Centauro! Di manto sagginato
era, ma nella groppa rabicano
e nella coda, di due piè balzàno,
l'equine schiene e le virili arcato.

Ritondo il capo avea, tutto di ricci
folto come la vite di racimoli;
e l'inclinava a mordicare i cimoli
dei ramicelli, i teneri viticci

con la gran bocca usa alla vettovaglia
sanguinolenta, a tritar gli ossi, a bere
d'un fiato il vin fumoso nel cratère
ampio, sopra le mense di Tessaglia.

Levava il braccio umano, dal bicipite
guizzante, a côrre il ramicel d'un pioppo.
Repente trasaltò, di gran galoppo
sparì per mezzo agli arbori precipite.

Il cor m'urtava il petto, in ogni nervo
io tremando. Ma, nella mia latèbra
umida verde, l'anima erami erba
d'antiche forze. E udii bramire il cervo!

L'udii bramir di furia e di dolore
come s'ei fosse lacero da zanne
leonine. Balzai di tra le canne,
vincendo a un tratto il corporale orrore,

agile divenuto come un veltro
pè gineprai, per gli sterpeti rossi,
con silenzio veloce, quasi fossi
in sogno, quasi avessi i piè di feltro.

O Derbe, la potenza che desidero
è nei metalli che il gran fuoco ha vinto.
Eternato nel bronzo di Corinto
ti darò quel che i lucidi occhi videro?

Il Centauro afferrato avea pei palchi
delle corna il gran cervo nella zuffa,
come l'uom pè capei di retro acciuffa
il nemico e lo trae, finché lo calchi

a terra per dirompergli la schiena
e la cervice sotto il suo tallone,
o come nella foia lo stallone
la sua giumenta assal per farla piena.

Erto alla presa della cornea chioma,
con le due zampe attanagliava il dorso
cervino, superandolo del torso,
premendolo con tutta la sua soma.

Furente il cervo si divincolava
sotto, gli occhi riverso, il bruno collo
gonfio d'ira e di mugghio, in ogni crollo
crudo spargendo al suol fiocchi di bava.

Era del più vetusto sangue regio,
di quelli che ammansiva il suon del sufolo,
vasto e robusto il corpo come bufolo,
di vénti punte in ogni stanga egregio.

Quanti rivali, oh lune di Settembre,
cacciati avea dà freschi suoi ricoveri
e infissi nella scorza delle roveri,
pria d'abbattersi al Tassalo bimembre!

Si scrollò, si squassò, si svincolò.
E le muglia sonavan d'ogni intorno.
In pugno al mostro un ramo del suo corno
lasciando, corse un tratto; e si voltò.

Si voltò per combattere, le vampe
delle froge soffiando e le vendette.
Il Tassalo gittò la scheggia; e stette
guardingo, fermo su le quattro zampe.

Un fil di sangue gli colava giù
pel viril petto, giù per il pelame
cavallino il sudore. Come rame
gli brillava la groppa or meno or più

al sole obliquo che fería lontano
pè tronchi, variato dalle frondi.
S'era fatto silenzio nei profondi
boschi. Il soffio s'udia ferino e umano.

Gli aghi dei pini ardere come bragia
parean sul campo del combattimento.
E l'aspro lezzo bestial nel vento
si mesceva all'odore della ragia.

Pontata a terra la sua forza avversa,
il cervo, come fa nel cozzo il tauro,
bassò l'arme. La coda del Centauro
tre volte battè l'aria come fersa.

Una rapidità fulva e ramosa
si scagliò con un bràmito di morte.
O Derbe, ancor ne freme per la sorte
del petto umano l'anima ansiosa.

Credetti udire il gemito dell'uomo
su l'impennarsi del caval selvaggio.
Ma il Tessalo con inuman coraggio
il cervo avea pur quella volta dómo!

Preso l'avea di fronte, alle radici
delle corna, e gli avea riverso il muso.
Entrambi inalberati, l'un confuso
con l'altro in un viluppo, i due nemici,

tra luci ed ombre, sotto il muto cielo
saettato da sprazzi porporini,
lottavano; e su i due corpi ferini,
se le zampe le punte il fitto pelo

il crino irsuto il prepotente sesso,
io vedea con angoscia il capo alzarsi
di mia specie, agitare i ricci sparsi
quel vento d'ira sul mio capo istesso.

E, gonfio il cor fraterno, d'un antico
rimorso, tesi l'arco dell'agguato.
Ma l'uom cò pugni avea divaricato
e divelto le corna del nemico.

Udii lo schianto strudulo dell'osso
infranto, aperto sino alla mascella.
Fumide giù dal cranio le cervella
sgorgarono commiste al sangue rosso.

L'erto corpo piombò nel gran riposo
son urto sordo; sanguinò silente;
senza palpito stette; del cocente
flutto bagnò l'arsiccio suol pinoso.

Rise il Centauro come a quella frotta
lieve natante giù pel verde Serchio.
Poi levò, grande nel silvano cerchio,
il duplice trofeo della sua lotta.

Fiutò il vento. Ma prima di partirsi
colse tre rami carichi di pine;
e due n'avvolse attorno alle cervine
corna, e sì n'ebbe due notturni tirsi.

Del terzo incurvo fece un serto sacro
e se ne inghirlandò le tempie umane
ove le vene, enfiate dall'immane
sforzo, ancor cupe ardeangli di sangue acro.

Precinto, armato dei due tirsi foschi,
sollevò la gran bocca a respirare
verso il Cielo. S'udia remoto il Mare
seguir col rombo il murmure dei boschi.

Sola una Nube era nell'alte zone
dell'Etere qual dea scinta che dorma.
Venerava il Nubigena la forma
cui fecondò l'audacia d'Issone.

Bellissimo m'apparve. In ogni muscolo
gli fremeva una vita inimitabile.
repente s'impennò. Sparve Ombra labile
verso il Mito nell'ombre del crepuscolo.





(Composta a Romena il 24 agosto 1902)



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12/07/2008 20:49


L'ASFODELO



GLAUCO

O Derbe, approda un fiore d'asfodelo!
Chi mai lo colse e chi l'offerse al mare?
Vagò sul flutto come un fior salino.

O Derbe, quanti fiori fioriranno
che non vedremo, su pè fulvi monti!
Quanti lungh'essi i curvi fiumi rochi!

Quanti per mille incognite contrade
che pur hanno lor nomi come i fiori,
selvaggi nomi ed aspri e freschi e molli

onde il cuore dell'esule s'appena
poi che il suon noto per rendergli odore
come foglia di salvia a chi la morde!


DERBE

Io so dove fiorisce l'asfodelo.
Là nel chiaro Mugello, presso il Giogo
di Scarperia, lo vidi fiorir bianco.

Anche lo vidi, o Glauco, anche lo colsi
in quell'Alpe che ha nome Catenaia
e all'Uccellina presso l'Alberese

nella Maremma pallida ove forse
ei sorride all'imagine dell'Ade
morendo sotto l'unghia dei cavalli.


GLAUCO

O Derbe, anch'io errando su i vestigi
della donna letèa, vidi fiorire
tra Populonia e l'Argentaro il fiore

della viorna. Tutto le sorelle
bianche il bosco aspro nelle delicate
braccia tenean tacendo, e i negri lecci

e i sóveri nocchiuti al sol di giugno
dormivan come venerandi eroi
entro veli di spose giovinette.


DERBE

In Populonia ricca di sambuchi
io conobbi il marrubbio che rapisce
l'odor muschiato al serpe maculoso

e l'ebbio che colora il vin novello
di sue bacche e lo scirpo che riveste
il gonfio vetro dove il vin matura.


GLAUCO

La madreselva come la viorna
intenerire del suo fiato i tronchi
vidi a Tereglio lungo la Fegana,

e il giunco aggentilir la Marinella
di Luni, e su pè monti della Verna
l'avornio tesser ghirlandette al maggio.


DERBE

I gigli rossi e crocei ne' monti,
alla Frattetta sotto il Sangro, io vidi;
anche alla Cisa in Lunigiana, e all'Alpe

di Mommio dove udii nel ciel remoto
gridar l'aquila. Spiriti immortali
pareano i gigli nell'eterna chiostra.

La bellezza dei luoghi era sì cruda
che come spada mi fendeva il petto.
Con un giglio toccai la grande rupe,

che non s'aperse e non tremò. Mi parve
tuttavia che un prodigio si compiesse,
o Glauco, e andando mi sentii divino.


GLAUCO

Nella Bocca del Serchio, ove la piana
sabbia vergano oscuramente l'orme
dei corvi come segni di sibille,

il narcisso marino io colsi, mentre
l'ostro premea le salse tamerici,
i cipressetti dell'amaro sale.

Lo smílace conobbi attico; e al Gombo
anche conobbi il giglio ch'è nomato
pancrazio, nome caro ai greci efèbi;

e tanto parve ai miei pensieri ardente
di purità, che ai Mani dell'Orfeo
cerulo io lo sacrai, al Cuor dei cuori.


DERBE

O Glauco, noi facemmo della Terra
la nostra donna ed ogni più segreta
grazia n'avemmo per virtù d'amore.

Come il Sole entri nella Libra eguale,
ti condurrò sui monti della Pieve
di Camaiore, e alla Tambura, e ai fonti

del Frigido, e lungh'essa la Freddana
dietro Forci, e nell'Alpe di Soraggio,
ché tu veda fiorir la genziana.


GLAUCO

Bella è la Terra o Derbe, e molto a noi
cara. Ma quanti fiori fioriranno
che non vedremo, nelle salse valli!

Le Oceanine ornavan di ghirlande
i lembi della tunica a Demetra
piangente per il colchico apparito.

Com'entri nello Scòrpio il Sole, o Derbe,
ti condurrò su i pascoli del Giovo
in mezzo ai greggi delle pingui nubi,

perché tu veda il colchico fiorire.





(Composta il 4 giugno 1902)



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MADRIGALI DELL'ESTATE



IMPLORAZIONE

Estate, Estate mia, non declinare!
Fa che prima nel petto il cor mi scoppi
come pomo granato a troppo ardore.

Estate, Estate, indugia a maturare
i grappoli dei tralci su per gli oppi.
Fa che il colchico dia più tardo il fiore

Forte comprimi sul tuo sen rubesto
il fin Settembre, che non sia sì lesto.

Sòffoca, Estate, fra le tue mammelle
il fabro di canestre e di tinelle.


LA SABBIA DEL TEMPO

Come scorrea la calda sabbia lieve
per entro il cavo della mano in ozio
il cor sentì che il giorno era più breve.

E un'ansia repentina il cor m'assale
per l'appressar dell'umido equinozio
che offusca l'oro delle piagge salse.

Alla sabbia del Tempo urna la mano
era, clessidra il cor mio palpitante,
l'ombra crescente di ogni stelo vano
quasi ombra d'ago in tacito quadrante.


L'ORMA

Sol calando, lungh'essa la marina
giunsi alla pigra foce del Motrone
e mi scalzai per trapassare a guado.

Da stuol migrante un suono di chiarina
venía per l'aria, e il mar tenea bordone.
Nitrí di fra lo sparto un caval brado.

Ristetti. Strana era nel limo un'orma.
Però dall'alpe già scendeva l'ombra.


ALL'ALBA

All'alba ritrovai l'orma sul posto,
selvatica qual pesta di cerbiatto;
ma v'era il segno delle cinque dita.

Era il pollice alquanto più discosto
dall'altre dita e il mignolo ritratto
come ugnello di gàzzera marina.

La foce ingombra di tritume negro
odorava di sale e di ginepro.

Seguitai l'orma esigua, come bracco
che tracci e fiuti il baio capriuolo.
Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio.

Livido si fuggì per folto il biacco.
Si levarono due tre quattro a volo
migliarini già tinti di gialliccio.

Vidi un che bianco; e un velo era dell'alba.
Per guatar l'alba disamarrii la traccia.


A MEZZODI'

A mezzodì scopersi tra le canne
del Motrone argiglioso l'aspra ninfa
nericiglia, sorella di Siringa.

L'ebbi sù miei ginocchi di silvano;
e nella sua saliva amarulenta
assaporai l'orígano e la menta.

Per entro al rombo della nostra ardenza
udimmo crepitar sopra le canne
pioggia d'agosto calda come sangue.

Fremere udimmo nelle arsicce crete
le mille bocche della nostra sete.


IN SUL VESPERO

In sul vespero, scendo alla radura.
Prendo col laccio la puledra brada
che ancor tra i denti ha schiuma di pastura.

Tanaglio il dorso nudo, alle difese;
e per le ascelle afferro la naiàda,
la sollevo, la pianto sul garrese.

Schizzan di sotto all'ugne nel galoppo
gli aghi i rami le pigne le cortecce.
Di là dai fossi, ecco il triforme groppo
su per le vampe delle fulve secce!


L'INCANTO CIRCEO

Tra i due porti, tra l'uno e l'altro faro,
bonaccia senza vele e senza nubi
dolce venata come le tue tempie.

Assai lungi, di là dall'Argentaro,
assai lungi le rupi e le paludi
di Circe, dell'iddía dalle molt'erbe.

E c'incantò con una stilla d'erbe
tutto il Tirreno, come un suo lebete!


IL VENTO SCRIVE

Su la docile sabbia il vento scrive
con le penne dell'ala; e in sua favella
parlano i segni per le bianche rive.

Ma, quando il sol declina, d'ogni nota
ombra lene si crea, d'ogni ondicella,
quasi di ciglia su soave gota.

E par che nell'immenso arido viso
della pioggia s'immilli il tuo sorriso.


LE LAMPADE MARINE

Lucono le meduse come stanche
lampade sul cammin della Sirena
sparso d'ulve e di pallide radici.

Bonaccia spira su le rive bianche
ove il nascente plenilunio appena
segna l'ombra alle amare tamerici.

Sugger di labbra fievole fa l'acqua
ch'empie l'orma del piè tuo delicata.


NELLA BELLETTA

Nella belletta i giunchi hanno l'odore
delle persiche mézze e delle rose
passe, del miele guasto e della morte.

Or tutta la palude è come un fiore
lutulento che il sol d'agosto cuoce,
con non so che dolcigna afa di morte.

Ammutisce la rana, se m'appresso.
Le bolle d'aria salgono in silenzio.


L'UVA GRECA

Or laggiù, nelle vigne dell'Acaia,
l'uva simile ai ricci di Giacinto
si cuoce; e già comincia a esser vaia.

Si cuoce al sole, e detta è passolina,
anche laggiù su l'istmo, anche a Corinto,
e nella bianca di colombe Egina.

In Onchesto il mio grappolo era azzurro
come forca di rondine che vola.
All'ombra della tomba di Nettuno
l'assaporai, guardando l'Elicona.





( Data di composizione non precisata )



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FERIA D'AGOSTO



Espero sgorga, e tremola sul lento
vapor che fuma dalla Val di Magra.
Un vertice laggiù, nel cielo spento
ultimo flagra.

Emulo della stella e della vetta,
arde il Faro nell'isola di Tino.
Dóppiano il Capo Corvo una goletta
e un brigantino.

Or sì or no la ragia con la cuora
si mescola nel vento diforàno.
Dell'agrore salmastro s'insapora
l'odor silvano.

Albica il mar, di cristalline strisce
varia, su i liti ansare odesi appena.
Ed ecco, il promontorio s'addolcisce
come l'arena.

Ogni cosa più gran dolcezza impetra.
Tutto avvolve l'immensa pace urania.
Fin, nell'aere tenue, si spetra
la cruda Pania.

O fanciullo, inghirlanda l'architrave;
salda la cera ai tuoi calami arguti;
rinfondi nella lampada il soave
olio di Buti.

Fa grido e aduna i tuoi compagni auleti,
che rechino le fístole sonore
composte con le canne dei canneti
di Camaiore.

Sette di pino belle faci olenti
e sette di ginepro irsuto appresta,
a rischiarare gli ospiti vegnenti
per la foresta.

Fresche delizie avranno elli da scerre
bene accordate su la stoia monda:
l'uva sugosa delle Cinque Terre
e nera e bionda,

l'uva con i suoi pampani e i suoi tralci,
le pèsche e i fichi su la chiara stoia,
e le ulive dolcissime di Calci
in salamoia.

Infra l'ombrína e il dèntice la triglia
grassa di scoglio veggan rosseggiare,
e il vino di Vernazza e di Corniglia
nelle inguistare.

Anche avremo di miele e di friscello
la focaccia che fu grata a Priapo,
e ghirlanda di cúnzia e d'alberello
per ogni capo.

O fanciulli, e per voi saremo lauti.
Io farò sì che ognun di voi ricordi
la mia feria d'agosto, ma se i flauti
non sien discordi.

Accendete le faci, e andiam nel bosco
a rischiarare l'ospite che viene.
Odo tinnire un riso ch'io conosco,
ch'io mi so bene.

E' di quella che fústiga i miei spirti,
d'una che acerba ride e dolce parla.
Accendete le faci e andiam tra i mirti
ad incontrarla.

Non vi stupite già che la crocòta
sia guisa d'oggidì tra Serchio e Magra.
Quest'ospite è d'origine beota,
vien di Tanagra.

Ma ben la grazia onde succinge il giallo
bisso e i sandali scopre è maraviglia
(porta anelli d'elettro e di cristallo
alla caviglia)

mentre il suo capo sottilmente ordito
piega, ove ferma un lungo ago l'intreccio,
fulvo come i ginepri che sul lito
morde il libeccio.

Rugge e odora il ginepro nella teda.
Or configgete in terra acceso il fusto.
Flauti silvestri, e il nume vi conceda
il tono giusto.

Fanciulli, attenti! Fate un bel concerto.
Pan vi guardi da nota roca o agra.
Quest'ospite che v'ode ha orecchio esperto;
vien di Tanagra.





( Data di composizione sconosciuta )



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12/07/2008 20:58


IL POLICEFALO



Spezzate i flauti. Il lino che connette
le canne è quel medesmo degli astuti
lacci, e la cera troppo sa di miele.

Il suono puerile è breve oblio
pel cor prestante che non ama il gioco
facile nè cattare il sonno lieve.

Nè tu sei cittadino d'Agrigento
nomato Mida, vincitore in Delfo.
Nè t'insegnò la Cèsia il grande carme.

Pallade Atena dai fermi occhi chiari
prima inventò tal melodia, nel giorno
in cui Medusa tronca fu dall'arpe.

Udì le grida e i pianti ch'Euriàle
mettea tra il sibilare dei serpenti
verso la strage; udì l'orrendo ploro.

I gemiti di Steno come dardi
fendeano l'etra, e tutti gli angui eretti
minacciavan l'eroe nato dall'oro.

Così la Melodía di Mille Teste
nacque in giorno sanguigno; e la raccolse
Pallade Atena e modulò per l'uomo.

Le canne dei canneti d'Orcomèno
ella guarnì con làmine di brinzo
e sì ne fece più possente il tuono.

Spezzate i flauti esigui, auleti imberbi,
poi che non han potenza al grande carme.
Cercatemi nel mare i nicchi intorti.

V'insegnerò davanti alle tempeste
dedurre dalle búccine profonde
la melodia delle mie mille sorti.





( Data di composizione ignota )



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12/07/2008 20:59


IL TRITONE



Il Tritone squammoso mi fu mastro.
S'accoscia su la sabbia ove la schiuma
bulica; e al sole la sua squamma fuma.
Giúngogli ov'è tra il pesce e il dio l'incastro.

Ha il gran torace azzurro come il glastro
ma l'argento sul dorso gli s'alluma.
Sceglie tra l'alghe la più verde, e ruma
e gli cola il rigurgito salmastro.

Con la vasta sua man palmata afferra
la sua conca, v'insuffla ogni sua possa,
gonfio il collo le gote gli occhi istrambi.

Va il rimbombo pel mare e per la terra.
L'Alpe di Luni cròllasi percossa.
Bàlzano nel mio petto i ditirambi.





( Data di composizione sconosciuta )



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12/07/2008 21:00


L'ARCA ROMANA



Alpe di Luni, e dove son le statue?
I miei spirti désian perpetuarsi
oggi sul cielo in grandi simulacri.

O antichi marmi in grandi orti romani!
Stan per logge e scalèe di balaustri,
con le lor verdi tuniche di muschi.

Negreggiano i cipressi i lecci i bussi
intorno alla fontana ove il Silenzio
col dito su le labbra è chino a specchio.

Vede apparire dal profondo il teschio
dell'eterna Medusa, la Gorgóne
vede sé fiso nel divino orrore.

Lamenta i fati il grido del paone.
Tutto è immobilità di pietra, vita
che fu, memoria grave, ombra infinita.

Un sarcofago eleggo, ov'è scolpita
in tre facce una pugna d'Alessandro;
pieno è di terra, e porta un oleandro.

Quivi masticherò la foglia amara
del mio lauro, seduto su quell'arca.

Quivi disfoglierò la rosa vana
dell'amor mio, seduto su quell'arca.





( Data di composizione sconosciuta )



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12/07/2008 21:05


L'ALLORO OCEANICO



Oleandro d'Apollo, ambiguo arbusto
che d'ambra aulisci nell'ardente sera;
melagrano, e il tuo rosso balausto
quasi fiammella in calice di cera;

nautico pino, e il tuo scoglioso fusto
e i coni entro la chioma tua leggera;
olivo intorto da dolor vetusto,
e l'oliva tua dolce che s'annera;

ginepro irsuto, mirto caloroso,
lentisco, terebinto, caprifoglio,
cento corone dell'Estate ausonia;

ma te, sargasso, re del Marerboso,
vasto alloro del gorgo, anche te voglio,
che bacche fai come la fronda aonia.





( Data di composizione sconosciuta )



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12/07/2008 21:07


IL PRIGIONIERO



Ardi, sei triste come il Prigioniero
ignudo che il titano Buonarroto
cavò da quel che or splende àvio e rimoto
Sagro, per il pontefice guerriero.

Constretto anche tu sei del tuo mistero,
vittima consacrata al Mare Ignoto;
e la bocca tua bella grida a vòto
contra il fato che tolseti l'impero.

Tiranno fosti in Gela, trionfale
nell'ode pitia re? Traesti schiavi
da Tespe uomini e marmi alla tua Tebe?

O sul cavallo bianco eri a Micale,
presso il padre di Pericle, e pugnavi
con l'altra gioventù nel nome d'Ebe?





( Data di composizione sconosciuta )




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12/07/2008 21:09


LA VITTORIA NAVALE



Se quella ch'arma di sue grandi penne
la prua della trière samotrace
venir dee verso me che senza pace
persèvero lo sforzo mio ventenne,

non altrove ma fra le vive antenne
di questa selva nata dal focace
lito, in vista dell'Alpe che si tace
gloriosa di suo candor perenne,

l'attenderò dicendo: "Ben mi vieni
dalla piaggia che i Càbiri nutrica,
dall'isola che sta di contro all'Ebro.

Io son l'ultimo figlio degli Elleni:
m'abbeverai alla mammella antica;
ma d'un igneo dèmone son ebro".





( Data di composizione sconosciuta )



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