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"IN VIAGGIO" - riflessioni quotidiane di Marina Corradi

Ultimo Aggiornamento: 01/04/2013 12:05
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30/01/2013 06:41



La scoperta del mare



Vada (Livorno), giugno 1994 - Ora cammina, e osserva attento ogni cosa. Ha un anno e mezzo. Siamo appena arrivati da Milano e corriamo a salutare il mare. C'è un gran vento oggi, e, in spiaggia, nessuno. Con il bambino in braccio cammino fino a dove arrivano le onde. Lui scalcia: vuole scendere. Il viso verso di me, non ha ancora visto il mare. Si gira e se lo trova davanti, per la prima volta. Resta immobile, sbalordito. Davanti a lui le onde si gonfiano e si acquietano; e non c'è nulla tra noi e l'orizzonte, solo l'immensità del cielo.
Pietro rimane muto, incantato. Poi di corsa torna verso di me, che seduta sulla sabbia lo aspetto; e mi si tuffa addosso, e mi abbraccia, come uno che abbia ricevuto uno straordinario regalo. Lo abbraccio anch'io, un po' meravigliata. Non crederà, mi dico perplessa, che l'abbia fatto io, il mare?
«Tuo figlio invece ha avuto ragione», mi dice poi un amico sacerdote, «a correre ad abbracciarti, nell'istante in cui per la prima volta ha visto il mare. Non sei tu che lo hai fatto, però mettendo tuo figlio al mondo gli hai permesso di vedere quanto splendido è, il mare». (Vivessi cento anni, conserverei negli occhi l'attimo del voltarsi di mio figlio verso di me, pazzo di gioia; e, dietro, solo lo sterminato blu del cielo).


Marina Corradi



_________Aurora Ageno___________
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30/01/2013 15:48

mi perdo in queste riflessioni..
grazie Aurora...
***********************
Non ho nulla da lasciarti in dote figlio mio,posso solo insegnarti l arte del perdono e dell amore incondizionato,solo quello possiedo.
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31/01/2013 11:34


Le posto perchè penso che come fanno bene a me possano fare bene anche ad altri...
Grazie a te amica mia che condividi il mio sentire!

Aurora



_________Aurora Ageno___________
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31/01/2013 11:35



Don Benzi e la gazzella



Rimini, anni 90. Don Oreste Benzi è seduto alla sua scrivania. Davanti a lui, appena appoggiata sul bordo della sedia, una giovanissima nigeriana, esile, nervosa. Una gazzella inseguita. Io, in un angolo, aspetto di intervistare don Benzi. Non sento le parole del dialogo. Ma guardo quei due, così diversi: il vecchio grosso prete in tonaca nera, e quella fanciulla rubata all'Africa, gettata su un marciapiede d'Occidente come una cosa - ciechi gli occhi di noi che passiamo, e non vediamo nell'ombra notturna una povera preda spaventata.
Ma, mentre aspetto, osservo sotto alla scrivania i piedi di quei due. La ragazza africana ha esili piedi quasi nudi nei sandali; piccoli agili piedi da gazzella di savana, abituati a correre per fuggire, per sopravvivere. Don Oreste ha grossi piedi da contadino dentro a robuste scarpe nere, sciupate, risuolate, impolverate. Scarpe come carrarmati, che macinano la strada e non si fermano davanti a niente.
I piedi della gazzella fremono sotto alla scrivania, inquieti, come chiedendosi se non sia il caso di fuggire di nuovo. I piedi di don Benzi sono immobili, piantati sul pavimento come radici di quercia. Fondati sulla roccia. (Sotto alla scrivania, dopo un po', finalmente fermi, in pace, i piccoli piedi di gazzella africana).


Marina Corradi



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01/02/2013 10:04


NON C'ERA, E ORA C'È


È il Ferragosto di una caldissima estate. Milano sembra abbandonata. Anche la maternità di questa clinica è vuota. Il nostro secondo figlio è il solo, pare, a nascere qui, stamane. Tutto è andato bene. «Riposi, adesso», mi ingiunge una infermiera, e cala le tapparelle sul sole abbagliante.
Ma non sono stanca. Irrequieta, invece; l'ho visto solo un attimo, il bambino. Cautamente mi alzo e vado alla nursery. Dietro alla vetrata, nelle culle un solo neonato, lui. Incollo il naso al vetro come da piccola, davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli. Quanti capelli ha. E il naso? Non lo vedo bene da qui, il naso. E, somiglia a mio marito, o invece a mio padre? E sono lì che discuto fra me, quando arriva una signora anziana con un bambino sui sei anni, forse il nipote, per mano.
Guarda, dice la signora al bambino, com'è piccolo, quello: deve essere proprio appena nato. Guarda le mani: sembra una bambola. Poi, dopo un istante di silenzio: «Però, ci pensi? Quello — e indica mio figlio — nove mesi fa non c'era, e ora c'è. Che mistero».
Questa frase mi attraversa. E io che guardavo i capelli, e il naso. Ma: nove mesi fa nulla di lui esisteva, e ora è un uomo. Sbalorditivo. E evidente. Sono ancora grata a quella sconosciuta: «Nove mesi fa non c'era, e ora c'è».


Marina Corradi



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02/02/2013 11:10



IL CODICE SEGRETO


Stoccolma, autunno 1996 – La stanza d'albergo dove mi sono sistemata per seguire un convegno dell'Onu ha una finestra su un cortile, che al pomeriggio è pieno di bambini. Io a casa di bambini ne ho due, piccoli. E che cos'è quest' ansia, mentre scrivo? Qualcosa mi insinua un'agitazione strana. Smetto di lavorare, sto in ascolto. Capisco: è questo pianto acuto dal cortile. Il pianto ha composto un codice segreto, e ha allertato qualcosa in me. Non riesco a scrivere perché una parte di me, antica, mi dice che ho un compito più originario, più urgente.
È una faccenda di viscere. Come quando di notte, in un hotel di una città qualsiasi, per le pareti sottili passa il vagito di un neonato. Apro gli occhi, senza capire cosa mi ha svegliato. Poi, riconosco il richiamo.
Quando sono in viaggio, ora, penso ai figli con nostalgia e quasi con ribellione: perché, se ho questo imperativo nel sangue, mi trovo altrove, lontano? C'è qualcosa di sbagliato in tutto questo, protesto fra me, confusamente. E conto i giorni e le ore che mancano al ritorno, e sono sempre la prima all'imbarco, all'aeroporto. Stasera li avrò accanto. Sarò in pace, come la gatta che spiavo da bambina, in montagna, fiera con la sua cucciolata. Sarò felice, stasera – non esistendo più al mondo alcun altrove, da preferire.


Marina Corradi



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03/02/2013 07:15



Se fosse per stanotte


Alpi piemontesi, fine anni 90. Il paese più vecchio d'Italia quest'anno è un piccolo borgo arrampicato alle soglie del parco del Gran Paradiso. Poche decine di abitanti, quasi tutti oltre i settanta. Nessun bambino, da tanto tempo.
La strada che sale dalla pianura è deserta, in una mattina di inizio primavera. Giunta quasi in cima vedo sulla mia destra un piccolissimo lago. Accosto, mi fermo, affascinata: non ho mai visto un'acqua così limpida e chiara.
Nel paese, basse case di nuda pietra, tutte sbarrate e vuote. Un solo bar, un unico avventore. Il rumore dei miei passi nei vicoli deserti. Busso alla porta di quella che sembra la canonica. Un prete molto anziano mi accoglie in una stanzetta, la stufa a legno è arroventata. È qui da tanti anni, il sacerdote, e ha visto partire tutti quelli che ha battezzato. Sono rimasti in pochi, nel borgo dove i ricordi stanno sospesi nelle strade abbandonate.
Il vecchio prete però sembra così sereno, col suo breviario sulle ginocchia. Dice di sé, e dei ragazzi di un tempo, emigrati lontano. Poi, assorto, come parlando a se stesso: «Se fosse per stanotte, io sono pronto, non ho paura». Mi resta addosso, tornando a valle, la pace chiara dei suoi occhi. Limpida come l'acqua del piccolo lago. «Se fosse per stanotte, io non ho paura».


Marina Corradi



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05/02/2013 06:45



UN CORAGGIO CHE NON HO


Chisinau, Moldavia, 1999 - Nel centro della città grappoli di bambini sui cinque o sei anni chiedono l'elemosina, aggrappandosi ai finestrini delle auto ferme al semaforo. Mollano la presa e ricadono quando gli automobilisti, ripartendo, accelerano. Li guardo attonita. «Lei non ha visto ancora niente», dicono quelli dell'Ai.Bi, l'associazione italiana che mi ha portato qui.
Nella Moldavia del 1999 la disoccupazione è al 40%, e la vodka costa meno del sapone. Migliaia di bambini in abbandono. Mi conducono a Trieri, istituto per orfani. Come nelle più cupe pagine di Dickens: una prigione dove finiscono anche bambini di otto anni, "rei" di accattonaggio. Stanze buie, tracce di topi - ma le facce dei secondini fanno più paura. I più grandi hanno l'espressione dura di chi si sa già perduto. I più piccoli balbettano di madri alcolizzate, di padri che li spingono per strada a mendicare. E che occhi, hanno: ti si piantano nel cuore. E quei due in "camera di sicurezza", sporchi, atterriti? Forse il più fortunato è quello che ho visto ieri per strada, addormentato, abbracciato a un grosso cane.
Non voglio vedere altro, mi dico, e quanto vorrei tornare in Italia. Ma domani andiamo in un altro istituto. Non immaginavo che per scrivere di orfanotrofi dell'Est ci volesse un coraggio, che non ho.


Marina Corradi



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06/02/2013 11:46



L'ETERNO SCANDALO


Moldavia,1999 - Una vecchia costruzione nella campagna. Nel cortile razzolano delle galline. Sembra non ci sia nessuno. Ma il rumore delle nostre auto richiama le ricoverate dell'istituto di Hincesti: 230 bambine handicappate, lasciate qui da famiglie in miseria. Ci circondano ora: vestite di stracci, o rapate a zero, i piedi che inciampano in scarpe troppo larghe, ci fissano attonite. Per 230 bambine, 11 vecchie infermiere e un solo medico. Nei corridoi l'odore di urina toglie il respiro.
L'ultima porta in fondo, è la camerata delle allettate. Una ventina di bambine immobili, mute, lo sguardo vacuo. Il medico francese di Médecins Sans Frontières che ci accompagna guarda le pupille: Valium, dice. Sono tutte sedate.
Sotto le lenzuola le gambe scheletriche, la pelle diafana di chi non vede mai il sole. Una per un istante però ci fissa, con uno sguardo lucido. Mi avvicino. Come si chiama? domando a un'infermiera. «Non hanno un nome, le pazienti di questo reparto, non le chiamiamo per nome», traduce l'interprete.
Nemmeno un nome. Gli occhi delle bambine di Hincesti mi inseguono ancora; e quello sguardo, che per un attimo, vivo, ci ha cercato. Nemmeno un nome. O è il nome stesso di Cristo, che ciascuna di quelle bambine porta addosso? Nell'eterno scandalo del dolore innocente.


Marina Corradi



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06/02/2013 14:30

Che tristezza. Pensare che esistono ancora oggi questi (inferni)
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06/02/2013 14:57


Proprio così Cal... inferni!

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06/02/2013 15:02

Amica mia non immagini quanto vorrei andare in uno di quei posti e portare via con me quelle anime.

T V B
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07/02/2013 08:31



L'ombra e la luce



Vada (Livorno), estate 2000. Torrida giornata di luglio. Cielo blu smalto, non un filo di vento. Nell'ora più calda sto sistemando la casa. La finestra è spalancata. Il figlio di cinque anni giocherella con un piccolo dinosauro di plastica. Si affaccia alla finestra. Fuori, nella luce abbagliante del sole allo zenit, il tetto disegna sulla ghiaia un'ombra nera, netta. La voce di mio figlio: «Mamma, a cosa serve l'ombra?» Io, distrattamente: «Serve a dare un po' di fresco in una giornata come questa». Silenzio. Lui continua a guardare la linea nera, in cortile. «Però - replica - l'ombra c'è anche d'inverno. A cosa serve l'ombra, d'inverno?» In difficoltà, sto pensando a cosa rispondere quando il bambino si risponde da solo: «Forse, l'ombra serve perché siamo più contenti della luce». Io alzo la testa, disorientata. Poi: «Scusa, cosa hai detto?» Ma lui, già dimentico, di nuovo gioca con il suo dinosauro.
Quel taglio nero sulla terra, come una non rimarginabile ferita. Che, davvero, l'ombra serva perché siamo più contenti della luce, e il male sia permesso perché infine desideriamo il bene, e il dolore, perché domandiamo la pace? Ma chi suggerisce certe cose ai bambini? Vorrei ricordarmene, da vecchia, l'ultimo giorno: l'ombra, è perché siamo più contenti della luce.


Marina Corradi


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08/02/2013 09:47




UN'ORA A MEZZANOTTE



Milano, 31 dicembre 1999. Tra un'ora inizia il terzo millennio. Sul divano di casa ho in braccio la terza figlia, tre anni. I suoi fratelli si affacciano alle finestre, eccitati dai botti, più forti nell'approssimarsi della mezzanotte. Mio marito ride con loro. Sul balcone, al freddo, una bottiglia di spumante. Non so però se sarò sveglia a mezzanotte - dopo una giornata dietro a questi tre, ho un gran sonno.
Me li contemplo, nella felicità di una sera in cui non può squillare il telefono, e nessuno dalla redazione mi dirà di partire, e di mandare subito un pezzo. Questa sera non è in viaggio, ma a casa. Noi due e questi tre, che da ragazza non avrei immaginato di avere; e che ora sono la cosa più grande che potrei desiderare. Due maschi, e una bambina. Lei, già a sei mesi, diversa. («Esiste la donna?» si domandava pensoso un saggio di Simone de Beauvoir - pressoché obbligatorio leggerlo, per le liceali della mia generazione. Oggi risponderei che sì, esiste: e per vederlo basta avere una bambina).
Caterina, ora dorme. Lo schiocco del tappo che salta, lo spumante che trabocca festoso dalla bottiglia. Una goccia sulle labbra di lei, e i due, riottosi, da portare a letto. Peguy scrisse: «Bisogna avere avuto una grande grazia, per sperare». I figli, per me sono questa grazia.


Marina Corradi



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09/02/2013 10:32



Sulle orme di San Bernardo



Novembre 2001, Francia - L'abbazia cistercense di Sept-Fons, nell'Allier, fu fondata nel 1132 da Guglielmo e Riccardo de Montbard, parenti di san Bernardo. È grande, massiccia, circondata da 90 ettari di terra nera. Lontano, i fumi delle ciminiere della Peugeot arrossano l'orizzonte. In questo 2001 oltre metà dei 70 monaci hanno poco più di vent'anni: una rinascita. Tanto che hanno osato una fondazione audace: un monastero nell'Est, in Boemia, Repubblica Ceca.
Stamattina con uno di loro parto da qui per raggiungere il cantiere di Novy Dur. Oltre mille chilometri. Nevica molto forte, procediamo adagio su una vecchia Ford attraverso la Baviera. Nelle campagne bianche mi immagino com'era il cammino di Bernardo e dei suoi, a cavallo per le foreste di un'Europa inselvatichita, verso una nuova fondazione. Come dovevano essere immense le distanze, e rare le cascine, e benedetto, un focolare.
In autogrill la gente si volta a guardare il monaco in saio. In Boemia, dei ragazzini lo fisseranno sbalorditi, come fosse un marziano. Penso fra me: quante rivoluzioni, francese, russa, e il socialismo reale, e il nazismo. Tutto è venuto, e andato. I cistercensi, novecento anni dopo, ritornano.
I tergicristalli faticano a spazzare via la neve, e nel candore il tempo sembra annullato.


Marina Corradi



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10/02/2013 11:13



CRISTO NELLA POLVERE


Novembre 2001, Plasy, Repubblica Ceca - Alla frontiera di Waidhaus, chi dalla Germania entra in Boemia trova due enormi cartelli pubblicitari: Coca Cola, e Mc Donald. Attorno, il nulla. In quest'angolo di Est, sotto la neve le strade sono piene di buche, le case rare e dimesse, e pare di entrare in un altro mondo.
A Plasy ci sono i resti di un'abbazia cistercense. Bussiamo a un portone decrepito. Dopo molta insistenza ci apre una vecchia, che con malgarbo, a gesti, fa intendere che non c'è nulla da vedere. Andandocene incrociamo un uomo che in inglese ci domanda da dove veniamo. Italia? Cattolici? Lo sconosciuto sorride, incredulo. È il parroco del paese. Con una grande chiave arrugginita ci apre il portone della abbazia abbandonata. Dentro, nella chiesa, file di panche affastellate, quadri e crocefissi alla rinfusa, nella polvere, come nella bottega di un rigattiere.
Il prete racconta che qui tutto è stato dimenticato. Un giorno, dice, ha visto un uomo che piantava una croce per strada, dove gli era morto un figlio. «Gli ho chiesto: sei cristiano allora? E quello, stupito: no, metto una croce perché mi pare che si usi così».
Nella città deserta, bianca di neve, quella cappella con i crocefissi tra le ragnatele. Un senso profondo di abbandono. Di Dio - ma, insieme, dell'uomo.


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12/02/2013 11:50



LA PRIMA PIETRA


Novy Dur, Repubblica Ceca, novembre 2001 - È una grande villa antica, in rovina. Dai tetti sfondati sbucano arbusti. Intorno, per chilometri solo campi di neve intonsa. Il monastero cistercense di Novy Dur, nuova fondazione dell'abbazia francese di Sept-Fons, va sorgendo, fra calce e mattoni, in questo inizio di millennio. È il primo monastero di clausura che rinasce nell'Est, dopo la caduta del Muro. Accanto agli operai cechi lavorano una decina di monaci in saio, sul capo l'elmo giallo da muratore. Si fermano, rigorosamente, allo scoccare dell'ora media: le mani sporche di calce, cercano una pagina del Libro delle Ore.
In una stanzetta scaldata da una stufa elettrica, mentre si fa buio, i monaci si ritrovano a recitare i Vespri. Due operai cechi restano a osservarli da fuori, incuriositi: come chiedendosi cos'è, una preghiera. «Pour ménér les temps à leur plénitude, récapituler toutes choses dans le Christ...» Poi, è il silenzio nella campagna irrigidita dal gelo.
Nei sotterranei è pronta la pietra per la fondazione. MMI, reca scritto. Ed è strano, leggere questo nuovo millennio in cifre romane. Fra poco la prima pietra sarà sotto terra - pezzo di storia che continua, tenace. Allungo la mano a toccarla, quasi in una carezza. Fra secoli, sarà qui sotto, ancora.


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13/02/2013 10:32



Il miracolo c'è già stato


Piazza San Pietro, 16 giugno 2002 - Una donna in nero racconta, con un forte accento siciliano: «La mia prima notte da vedova ho sognato che camminavo su un sentiero ripido di montagna, accanto a un burrone. Allora Padre Pio dall'alto mi gettava una fune e io mi ci aggrappavo, e mi sono svegliata che la tenevo stretta, ancora; ma era la corona del mio rosario».
Attorno, una folla immensa. Sono arrivati all'alba, in treno, in pullman, da lontano. Nella striscia d'ombra dei seggiolini portati da casa liberano i piedi gonfi dai sandali, e li appoggiano a rinfrescarsi sui sampietrini. Che immagine antica, questi piedi dolenti venuti a Roma, pellegrini per un santo.
Quando arriva Giovanni Paolo II la folla che gremisce il Colonnato ammutolisce di colpo, venerante e filiale. «Pover'uomo, chissà come patisce, in questo caldo!» mormora una donna. La voce del gran vecchio trema ma non cede, sotto al sole di mezzogiorno: «Beatum Pium a Pietrelcina Sanctum esse decernimus». E allora è urlo corale ed esultanza vera, carnale, di popolo.
Sono qui, grati per un figlio che se n'era andato ed è tornato, o per un bambino, arrivato quando sembrava troppo tardi; sono qui, contenti di sperare ancora. Non sono venuti, oggi, a domandare, ma a ringraziare. Lieti. Il miracolo, in loro, c'è già stato.


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14/02/2013 11:23



Vecchiaia di un poeta



Firenze, marzo 2003 - Tira un vento freddo sull'Arno, ma tra le nuvole già filtra una luce da primavera. Nello studio di Mario Luzi ne entra un raggio, e percorre, come le passasse in rivista, le librerie stracolme, la scrivania sommersa da torri di volumi in equilibrio instabile. Il poeta ha 79 anni, e una nobile faccia da generale reduce da fatica e dolori.
Parla di sua madre, Margherita. «Il giudizio che mia madre dava sulla vita è sempre stato un punto di riferimento per me. Nei momenti più difficili, ho sempre saputo che di quello che mi aveva detto mia madre potevo fidarmi. Era profondamente credente. Un modo raro di vivere il cristianesimo. Cristo non come qualcuno da commemorare e celebrare, ma vivente».
«Io - ora il poeta libera i ricordi - sono del '14. Ho delle vaghe reminiscenze delle ville fiorentine nel '18, adibite a ospedali, dei carri che arrivavano, carichi di feriti. Era un'Italia stremata, che però sapeva sperare». Starei qui, a ascoltarlo, per ore. Ma il professore torna agli anni nostri, e a un prete di Pienza, don Fernaldo Flori, in cui, già vecchio, aveva ritrovato la fede di sua madre. Per questo Luzi non è amaro né nostalgico, a ottant'anni? Ecco, mi dico andandomene nel sole acerbo di marzo, un testimone: un uomo in pace, che non ha più paura di niente.


Marina Corradi



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15/02/2013 11:46



Tutto è per un bene


Belluno, estate 2003 - Il vescovo della città si scopre malato di un cancro già inoperabile. Scrive ai fedeli: sono malato, pregate per me. L'arcivescovado si affaccia sul greto del Piave, coperto da una foschia in cui la prospettiva si perde nell'infinito. Monsignor Vincenzo Savio è un gigante alto un metro e 90, su cui i vestiti ora pendono semivuoti. Mi accoglie sorridente. Io, non so che parole usare. Ma lui è totalmente franco. Racconta della Tac, dei medici attorno che sembravano boccheggiare, e non sapere più che dire. «La prima notte - dice - ho dormito tranquillo. Poi però ho cominciato a pensare alla mia diocesi». La diocesi? domando io. E il vescovo: «Lei, ha dei figli? Se si ammalasse, non penserebbe prima di tutto ai figli?».
Un'ora di generosa confessione di sé. Grato, quest'uomo, di una vita intera. Non più un'amarezza, non un rancore. Come a dire: tutto è stato per un bene. Il cancro, come un terzo interlocutore muto fra noi, è impotente davanti alla letizia di un cristiano. Che sia così, un santo? mi chiedo fra me. Salutandomi, Savio mi dice di andare a vedere una certa parete di roccia, nella valle dell'Agner: «È come una cattedrale».
Ci andrò, un giorno. Con in mente la faccia del vescovo di Belluno, così sereno, così certo: che ogni cosa, ci è data per un bene.


Marina Corradi



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IL CIELO DEL SANTO


Padova, estate 2003 - Sopra alla grande piazza il sole acceca. A tratti, un vento che sa già di mare. Nella Basilica del Santo nella penombra si dipana la silenziosa coda dei pellegrini alla tomba. Quando arrivano alla lastra di marmo scuro, posano la mano per lunghi secondi; qualcuno appoggia la fronte, come a implorare pace. È fatta di gesti, la devozione popolare; di mani che si allungano a toccare, di ore in ginocchio, del lento metodico sgranare un rosario. Non è forse profondamente umano questo bisogno? Una madre non può fare a meno di accarezzare, e un amico si riconosce anche dalla stretta di un abbraccio, in un'ora dura.
In Basilica, solo, seduto in fondo, c'è un vecchio. È immobile, lo sguardo fisso sull'altare. Dopo ore ripasso, e non si è mosso. La sera, è ancora lì. Ha una faccia scavata, sofferente. Non dice nulla e rimane, come a bussare con insistenza, o, mendicante ostinato, a ricordare a Dio: sono qui.
Quando il sole cala e la Basilica serra il portone seguo con lo sguardo lo sconosciuto, che s'allontana per i vicoli di Padova. Quale dolore spinge a restare un giorno intero dal Santo? Nell'imbrunire sopra la Basilica si rincorrono le rondini. Da quanti secoli gli uomini tornano qui, tenaci, a domandare. È carico di immenso, questo cielo che sa già di mare.

Marina Corradi


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L'INVISIBILE ARCIERE



In treno, 2004 – In una mattina di aprile il rapido corre da Venezia a Milano. Avrei da leggere, da lavorare. Ma non so staccare gli occhi dai campi, oltre il finestrino. Quel verde chiaro delle prime foglie sugli alberi, pallide; e, quando la corsa rallenta, sulla massicciata, dalle più piccole fessure del cemento lo sporgersi dei fiori selvatici. E, la cascata di glicini dal pergolato di questa stazioncina di campagna? Chissà, qui fuori, che odore ha la terra, e come inebria, il profumo dei tigli. Chissà dove le api che danzano attorno, impazzite, ne porteranno i pollini.
Davanti a me ho gli atti di un convegno. Per san Tommaso, leggo, la natura raggiunge il suo fine non per caso, ma intenzionalmente. Non per una propria intenzione però, ma per quella di un «ente conoscente», che le dirige verso un fine «come un arciere la freccia». La natura è dunque per Tommaso «arte divina insita nelle cose».
La volontà di Dio stampata in ciò che vive, come un'orma. Penso agli uccelli che costruiscono il nido, quando è l'ora, e alla prodigiosa geometria degli stormi in volo; agli occhi fieri delle gatte che allattano, piccole tigri pronte a difendere la prole. Cosa vogliono gli animali, le piante, i fiori, se non vivere, e vivere ancora? Scagliati come una freccia, da un invisibile arciere.


Marina Corradi



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19/02/2013 07:50

bellissima. Aurora... [SM=g28003]
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Non ho nulla da lasciarti in dote figlio mio,posso solo insegnarti l arte del perdono e dell amore incondizionato,solo quello possiedo.
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Sì cara... davvero bellissima! Call... ti voglio bene [SM=g27998]

Aurora



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SUI VIALI DEI FALÒ


Rimini, 2004 – Con don Oreste Benzi nella città della notte, per i viali di periferia dove le auto rallentano accanto ai falò. Lui, tonaca nera, 79 anni, non ha paura di niente. A un incrocio, due donne: una dell'Est, giovane, bionda. L'altra ha ben più di sessant'anni, e così vestita e pesantemente truccata sembra una maschera tragica. La bionda è infastidita dal prete, che le allontana i clienti. La vecchia, è come se non le interessasse più niente. Don Benzi le chiede di dov'è, e dove vive. Quella risponde, prima laconica, poi, stupita che qualcuno la ascolti, più loquace, come reduce da un troppo lungo silenzio. Una vita di abbandoni e solitudine; e ancora qui, stanotte, sulle labbra quel rossetto sgargiante.
Dietro di noi le auto passano, rallentano, se ne vanno. Don Oreste: «Ascolta, se vuoi io ti porto via di qui, ti aiuto». La donna, dubbiosa, diffidente, espira una boccata di fumo. Guarda ancora la faccia di quello strano prete. Poi: «Vabbè, dammi il tuo numero. Magari, guarda, domani ti chiamo».
Non l'avrei mai detto. Come riesce a parlare con tutti, quest'uomo? Forse è per quello che mi confida nella calca notturna del lungomare, tra la folla dell'estate, vociante, ebbra, ridente: «Io contemplo Cristo, nella faccia di tutti quelli che incontro».


Marina Corradi


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