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Giocando a nascondino nella notte delle lune - racconto di Giovanni D'Alessandro

Ultimo Aggiornamento: 26/08/2011 18:17
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26/08/2011 18:17


RACCONTI

Giocando a nascondino nella notte delle lune


La mia prima avventura risale al ’58. A due anni e mezzo ho esplorato l’universo, rimanendo in uno spazio di duecento metri da casa; era la casa di montagna in Abruzzo dove noi, che abitavamo al Nord, scendevamo dai nonni a passare parte della stagione estiva. È stata l’unica vera avventura della mia vita perché è stata la prima, e neanche se dovessi attraversare uno Stargate in grado di catapultarmi nella più remota galassia, arriverei più lontano. Non si può esplorare due volte l’ignoto; esiste solo la prima volta, poi l’ignoto diventa noto. A me successe giocando a nascondino in una sera d’estate, la prima volta che i bambini grandi (fratelli, sorelle e loro amici, alcuni dei quali andavano già alle elementari) permisero anche a noi piccoli di unirci ai loro giochi. Di solito non ce lo consentivano e avevano ragione: se un bambino piccolo si nascondeva con gli altri, bisognava tappargli la bocca, o si sarebbe messo a ridere e a parlare e avrebbe fatto tanare tutti. E per una strana magia, di quelle che si producono in momenti irripetibili, quella volta anche i genitori si distrassero e potemmo arrivare dove il loro sguardo non era in grado di seguirci. La notte, fuori, era tiepida, paurosa e irresistibile. C’era, in attesa, il Possibile, il Potenziale: dove tutto poteva essere e la realtà non aveva ancora reclamato il suo tributo di unicità. Era un plenilunio d’estate. Forse altri oggetti luminosi, come quello lassù chiamato luna (che, avevo capito, era il sole della notte ma meno forte, tanto che lo si poteva guardare) sarebbero apparsi all’improvviso nel cielo, a illuminarlo di più.
* * *
Non ricordo chi ebbe l’idea di giocare a nascondino. Ho solo, nitido, il ricordo di un gruppo che si mette a correre, con noi più piccoli dietro, verso un gioco che non avevamo diritto di conoscere e da cui era già un privilegio non essere esclusi; o forse certe informazioni, a due anni, si scambiano telepaticamente, senza bisogno di comunicazione verbale. Ricordo l’eccitazione e l’ansia del respiro. Ricordo lo sciamare intorno alla casa, che si trovava all’ingresso del paese. Alcuni bambini erano del posto e facevano da capi, guidando i vari gruppetti, che si separavano, chi da una parte chi da un’altra, verso i nascondigli. Mi accodai a uno di loro. Vicino a casa dei nonni c’era una cappellina rimasta aperta dall’ora del rosario (la chiudeva sempre di sera, prima di andare a letto, una fantesca) e il gruppetto di cui facevo parte io si nascose dietro all’altare; ma non vollero me, perché ero troppo piccolo.
Come sarebbe, prima mi si erano portati dietro e adesso non mi facevamo giocare?
Mi rabbuiai, mi offesi moltissimo. Ero, e sono rimasto, geneticamente portato ad adombrarmi, più che a reclamare i miei diritti; e forse per compensazione mi occupo, nella vita, di reclamare i diritti altrui, per cui me ne andai nello stanzino che fungeva da sacrestia, a occhi bassi. Quelli che non mi avevano voluto mi facevano cenno con le mani di sparire o li avrei fatti scoprire, ma una bimba, con la mano, m’indicava qualcosa alle mie spalle. Era un armadio, enorme (tutto è enorme nei ricordi di quando si è piccoli), con dentro i paramenti del prete che alla domenica veniva a dir messa, prima di pranzo e qualche volta si fermava da noi. Ci entrai senza troppa convinzione, riaccostai l’anta e mi rincantucciai, coi vestiti del prete che mi facevano il solletico alla faccia. A quel punto passò un’eternità di tempo, interrotto solo da grida, che, da fuori, annunciavano che qualcuno era stato scovato. Dopo un po’ si sentì sbattere la porta della cappella. Nel silenzio echeggiarono dei passi. Seguì un’esplosione di grida, con vari nomi chiamati, e di passi, molti e concitati: il gruppetto dell’altare, scoperto, era scattato in piedi e si cimentava nell’impossibile impresa di arrivare prima all’albero della tana, per liberarsi. Rimasi solo, dentro l’armadio. Seguì un altro tempo lunghissimo, con le voci, da fuori, dei bambini, ormai tutti, chi prima chi dopo, scoperti. Restavo solo io; sentii la bambina che mi aveva indicato l’armadio fare il mio nome. Qualcuno le chiese: «Ma perché gioca, quello? è piccolo!». Offese su offese! per forza adesso dovevo restare lì, o avrei dimostrato a tutti che non avevo capito il gioco. Così cominciò una caccia a me, accompagnata da una serie d’indicazioni: «Nettino! (Giannettino) Non ti fare tanare e liberaci tutti!». Questo sì che mi andava a genio, essere invocato come un liberatore. Il bambino che mi cercava perlustrò prima i paraggi, poi si allontanò e lasciò la tana scoperta. A quel punto sentii la bimba entrare in fretta nella cappella. «Corri! Esci e corri alla tana! – mi ordinò a bassa voce – Tocca dove ha covato lui e dì: tana liberi tutti!». Uhm, pensai, era un’informazione complicata; l’avevo visto fare un’altra volta ma non sapevo come funzionava precisamente. "Precisamente" è stato un altro avverbio genetico che mi ha accompagnato nella vita: ho sempre trovato approssimativo il modo di parlare di molti miei simili; anche allora volevo sapere se per «toccare dove ha covato lui» bastava toccare il tronco o bisognava toccarlo proprio dove teneva appoggiato il braccio, perché così in alto io non ci arrivavo: comunque ci eravamo messi a correre verso l’albero e rinviai il dubbio a dopo. Il bambino che covava mi vide, non sentì «tana liberi tutti!» e si mise a correre a sua volta per tanarmi all’albero. Allora tutti gli altri presero a urlarmi: «Tocca l’albero, scemo, e di’ tana liberi tutti, sennò non vale!». Eh!, pensai, c’è da arrabbiarsi tanto? Finalmente avete parlato chiaro: basta toccare l’albero. Lo feci all’istante, pronunciai la formula liberatoria ed esplose un’ovazione. Fui portato in trionfo dai miei che, dileguatosi l’incantesimo, erano adesso usciti di casa col cuore in gola a cercarmi. Ma non mi rimproverarono: non si rimprovera un eroe. Inoltre almeno un altro paio di lune erano apparse in cielo a fare il tifo per me e a congratularsi.
* * *
Quella fu la prima avventura della mia vita. E per quante ne abbia vissute e ancora debba viverne, quando la vita tornerà a stanarmi dai miei nascondigli di adulto, so che non avrò più la stessa eccitazione, la stessa ansia nel respiro; e che nessuna notte mi regalerà più tante lune.


Giovanni D'Alessandro

da L'Avvenire


_________Aurora Ageno___________
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