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"TRACCE" - Riflessioni quotidiane di Anna Foa

Ultimo Aggiornamento: 14/09/2013 10:14
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03/07/2013 11:56




IL SENSO DELLA LETTURA


Ho un ricordo molto vivido del momento in cui cominciai a leggere da sola, mentre non ricordo affatto il processo di apprendimento che deve naturalmente averlo preceduto. Ma invece mi vedo chiaramente con un libro in mano, la sera nel letto, a leggerlo da sola per la prima volta e risento ancora la sensazione che ho provato: improvvisamente, mi è sembrato di avere le ali e di poter volare, di poter uscire dal mio corpo e dalla mia stanza e di poter andare ovunque volessi, senza limiti. Mi sembrò che si aprissero infinite possibilità di fronte a me, innumerevoli vite da percorrere e rivivere, misteriosi luoghi da esplorare. Era un senso mai provato fino ad allora di libertà infinita. Leggendo, mi sentivo senza peso, senza corpo, senza legami. Non dovevo più supplicare che gli altri mi leggessero qualcosa e dipendere dalle loro scelte. Ci ho ripensato molte volte quando leggevo a mio figlio o alle mie nipotine, e soprattutto quando leggevo qualcosa a mio padre, quando era molto vecchio e quasi cieco. La libertà, pensai, si può perdere, non dura illimitatamente. Anche quella che dipende solo da te. Perché sei fatto anche degli occhi, che possono tradirti, anche delle forze, che possono lasciarti. E il libro, con la libertà che consente, ti cade dalle mani.


Anna Foa



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04/07/2013 14:35



DENTRO L'ESILIO


Tra i tanti miti che accompagnano la storia del popolo ebraico, ce n'è uno che narra come dopo la cattività ad opera degli assiri dieci delle dodici tribù non siano tornate in patria, ma siano state nascoste da Dio in paesi lontani da dove ritorneranno solo con l'avvento del Messia. È il mito delle tribù perdute d'Israele. Già formulato nei testi biblici, dove unisce all'esilio il tema della punizione divina, è riformulato nei testi profetici dove all'esilio e alla punizione si
accosta il ritorno, il ristabilimento: le tribù torneranno. Dopo queste antiche formulazioni, il mito si sviluppa, si arricchisce. In Ezra IV, testo apocrifo della fine del I secolo d.C., le tribù decidono di recarsi in una terra lontana e incontaminata dove poter mantenere la purezza dell'osservanza. Fa la sua comparsa il fiume Sambation, che le divide dal mondo, e le cui acque il Signore tratterrà per consentir loro di tornare. In un brano talmudico è una nuvola che scende sugli esiliati per volontà di Dio e li occulta. Le tribù restano così fuori dal tempo e dallo spazio, moltiplicando l'esilio col crearsi un esilio entro l'esilio: nascoste, occultate, ma presenti. E il loro ritrovamento annuncia agli ebrei l'era messianica.


Anna Foa



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05/07/2013 09:55



VIAGGIATORE E CERCATORE


Il più famoso dei viaggiatori ebrei medievali fu uno spagnolo, Beniamino da Tudela, un dotto rabbino della città navarrese, all'epoca abitata per la metà da ebrei. Non sappiamo con sicurezza perché abbia intrapreso, nel 1165, il suo viaggio che attraverso Roma, la Grecia, la terra d'Israele, lo portò a Babilonia, in Persia e fin forse nella lontana Cina molto prima che vi arrivasse Marco Polo. Più che per commercio, è probabile che sia stato per amore della conoscenza o dell'avventura. Sappiamo che ci lasciò nel suo Itinerario una descrizione minuziosa e accurata dei paesi che attraversò, della grandezza delle città, delle comunità ebraiche che incontrava nel suo cammino. Di Roma ci disse che vi abitavano duecento famiglie di ebrei che vivevano in buoni rapporti con il papa. Ma nel lungo percorso che compiva Beniamino era anche attento a cogliere le tracce degli ebrei scomparsi, delle tribù perdute. E ne trovò ben quattro nelle montagne della Persia, discendenti della cattività degli assiri. Ce lo dice senza averle viste, sulla base dei racconti che se ne facevano: «Hanno città e grandi villaggi nelle montagne e il fiume Gozan ne segna da un lato i confini, e hanno un loro principe e non vivono sotto la legge dei gentili». Si consolidava così anche il mito di un regno indipendente degli ebrei.


Anna Foa



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06/07/2013 11:12



SENZA TEMPO (IO NO)



Faccio la storica, e la mia dimensione prediletta è il tempo. Annuso le tracce del tempo per mestiere. Amo il tempo e non riesco a non collocarvi ogni fatto, ogni immagine, ogni scrittura. Ed è forse per questo che resto sempre molto colpita da tutte le discipline e da tutte le culture che del tempo fanno a meno senza troppi problemi. E la tradizione ebraica sotto questo aspetto non ci va certo leggera. Il problema fu posto trent'anni fa da un libricino straordinario di uno storico americano, Yosef Haijm Yerushalmi, Zackor, che spiegava che gli ebrei, che hanno nella Bibbia un vero e proprio libro di storia, nell'esegesi talmudica e nel midrash aboliscono poi del tutto il tempo. Come dimostra ad esempio il midrash in cui si narra che Moshé andò un giorno a sedersi in un'accademia talmudica (siamo nel II secolo d.C.) e si sedette all'ultima fila. E non capiva nulla di quanto si diceva. Ma poi il Maestro disse: E questo ci viene da quanto il Signore comunicò a Moshé sul Sinai, ed egli ne fu riconsolato. È un gioco che schiaccia il tempo per individuare una realtà del tutto atemporale. Non posso fare a meno di provarne contemporaneamente fastidio e attrazione. Ma poi lascio ai rabbini il midrash, e torno al tempo e alla storia.


Anna Foa



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08/07/2013 14:24



IN SÉ, OLTRE SÉ



Qual è la traccia che l'atto di scrivere lascia su di noi? Se quella della lettura è la libertà, qual è quella della scrittura? Un tema su cui molto è stato scritto, ma che credo di avere afferrato davvero solo un giorno di non troppi anni fa, durante una conversazione con mio padre. Credo che fosse un quesito che si era posto spesso, lui che scriveva ancora nonostante la tarda età, anche se doveva ormai affidarsi alla mano degli altri. «Tu non sei sola — mi disse — perché scrivi. Quando si scrive, la solitudine non esiste». E non parlava solo della scrittura letteraria, non pensava a Tolstoj o a Dostoevskij o ai grandi narratori che pure tanto amava. Pensava al fatto di riempire il foglio di parole e idee e pensieri e fantasie. Noiose o affascinanti, belle o brutte che fossero. Quella sua riflessione mi convinse subito con l'evidenza delle verità che hai sempre provato ma che non sei mai riuscito a esprimere. Pensai che con quelle parole mi aveva fatto un grandissimo dono. Forse, scrivere è l'esatto contrario di leggere. Se leggendo esci fuori di te e tocchi altri mondi, scrivendo entri in te e riempi di altri il tuo mondo. Non sarai mai più solo, anche nel deserto. Altrimenti, perché scrivere?


Anna Foa



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09/07/2013 11:19



L'albero e le gambe


«L'essere umano non è un albero. .Un essere umano non è una quercia... Dio ha dato all'uomo gambe e piedi affinché vada sulla terra, che è sua». È una citazione di Joseph Roth, ripresa decenni dopo da George Steiner, a cui l'avevo sempre attribuita. Invece, lo aveva detto già Roth nel 1934, in polemica con il sionismo da una parte e dall'altra con il nazionalismo, che aveva appena dato il suo frutto più pericoloso con l'avvento di Hitler al potere. La ricerca delle radici di cui tanto si è favoleggiato a partire dagli anni Settanta sarebbe allora solo un aspetto regressivo dell'io? Chi aspira alle radici rinuncia alle gambe e paventa di errare? Non ci sono radici da riscoprire, allora, a meno che non servano per prendere una pausa, un respiro, per poi ricominciare a muoversi e a vagare? La metafora dell'albero e delle gambe fa parte di una visione cosmopolita e aperta che fu di Roth, nonostante la sua nostalgia del passato, come è oggi di Steiner. È così che l'ebreo errante, simbolo nella tradizione antigiudaica della colpa e dell'espiazione, diventa nella modernità la metafora della condizione dell'ebreo, sempre in movimento, sempre sul confine, a sua volta allegorica di una più generale condizione dell'essere nella modernità.


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10/07/2013 07:58



L'USO E LA NORMA


Cos'ha più peso, l'uso o la norma? Quale dei due è più vincolante, la legge che sanziona o l'abitudine che grava di scomuniche sociali ancor più pesanti perché affidate alla mentalità e non alla parola scritta? Mi viene in mente pensando alle donne del Muro, a Gerusalemme, che si battono da anni per ottenere di pregare, loro donne, con il taled e i tefillin della preghiera che l'uso, il minhag, non la Legge, riserva agli uomini. E se i custodi più autorevoli del minhag sono i rabbini ultraortodossi, che emanano scomuniche e parlano di violazioni della legge, a gridare il loro oltraggio di fronte a questa "violazione" sono andate le donne ultraortodosse, con le loro parrucche e i loro vestiti modesti, a gridare contro le “femministe” che pretendono di leggere la Torah direttamente, senza la mediazione degli uomini, che non si coprono i capelli e mettono lo scialle da preghiera sui pantaloni. Che mettono insomma in crisi un equilibrio secolare. Alla pari delle madri delle famiglie musulmane che approvano la punizione che i maschi della casa riservano alle figlie ribelli e si fanno solidali con l'oppressione esercitata dalla tradizione. Cosa lascia più tracce, la norma scritta o l'uso, la mentalità o il Libro?


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11/07/2013 11:53



COME UN ROMANZO



Ci sono vicende nella storia degli ebrei della diaspora che sembrano romanzi d'avventura. Quelle che toccano la scoperta di mondi nascosti o di popoli perduti ci ricordano l'Atlantide di Platone o forse i romanzi d'avventura di Rider Haggard. Nel 1644 un marrano portoghese, Antonio Montezinos, da ebreo Aaron Levi, sbarcò ad Amsterdam raccontando una di queste avventure e il rabbino Menasseh ben Israel, un sefardita di Amsterdam, ne mise il racconto per iscritto in un suo libro La Speranza d'Israele. O forse, chissà?, la reinventò per favorire il suo progetto di richiamare in Inghilterra gli ebrei che ne erano stati scacciati da secoli. Montezinos aveva raccontato di aver trovato in Ecuador, nella provincia di Quito, le tracce delle tribù perdute d'Israele, di averne incontrato i discendenti e di aver avuto da loro l'assicurazione che presto avrebbero dato vita a una grande rivolta contro gli spagnoli tale da portare alla liberazione di tutti gli ebrei e all'avvento del messia. Così, l'antica storia delle tribù si legava a un progetto di liberazione che preludeva sì all'era messianica, ma era opera degli uomini. E il povero marrano, discendente dei convertiti a forza, recuperava nel mito la sua libertà.


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12/07/2013 11:43



BENE SENZA PIÙ NOME



Nella Germania dei primi decenni del Seicento, distrutta dalla peste, dalla guerra e dalla fame, un altro disastro si scatenò, la caccia alle streghe che ne devastò molta parte. A perseguire le donne come streghe erano in quei decenni i prìncipi cattolici, come decenni prima erano stati quelli protestanti. Ma ora ci furono delle voci che si alzarono alte contro questa follia distruttrice. Tre gesuiti parlarono e tentarono di fermare l'epidemia, di dimostrare che non era la salvezza della fede a muovere i persecutori, ma la loro crudeltà e follia: Tanner, Layman e Spee. Spee scrisse uno di quei libri, la Cautio criminalis, che restano per sempre vivi come pietre fondanti della civiltà. Si rivolse ai prìncipi, smontò i meccanismi perversi della tortura e della confessione, e diede alla fine della persecuzione un contributo non indifferente, sia pur incompreso ai suoi tempi. Tutti e tre i gesuiti morirono pochi anni dopo di peste. La Compagnia, che li protesse dalle persecuzioni, non li appoggiò però nella loro campagna. La loro voce rimase inascoltata. Che solitudine devono aver sentito intorno a loro, vedere ardere i roghi, scrivere, combattere, e nessuno che sembrasse accorgersene. Il cardinal Albizzi, che era anche lui ostile alla caccia alle streghe, li citò anni dopo in un suo libro, ma di Spee non rammentava il nome.


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13/07/2013 14:57



Un pizzico di follia


Che rapporto si può avere con il proprio oggetto di studio? Ci sono biografi che si immedesimano totalmente nel loro personaggio, storie che ti trascinano come mulinelli nel mare in tempesta. E allora bisogna staccarsene. Un grande studioso della storia dell'arte, Aby Warburg, diceva che bisognava sempre di nuovo salvare Atene da Alessandria. Alessandria, la città dai mille riti, Atene la polis serena di Socrate ed Euclide. Puoi calarti nei miti, analizzarli, frequentare le magie e le follie dell'umanità, ma come un analista di fronte a uno psicotico devi attenerti severamente al distacco che ti dà la ragione. In questo, lo studioso è come Ulisse che vorrebbe precipitarsi fra le braccia della sirena che lo ammalia ma che prima si è fatto saldamente legare all'albero della nave, per non essere risucchiato nei flutti. Solo tenendoti stretto al sapere e alla razionalità riesci ad evitare di esser preso dal fascino irresistibile dell'irrazionale, riesci a raccontare di Cagliostro senza credere alle sue profezie. Entro certi limiti, naturalmente, perché un pizzico di follia resta attaccata all'analista che cura un paziente grave e un pizzico di paura a chi studia le angosce dell'uomo nella storia.


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15/07/2013 11:11



PIÙ FORTI, PIÙ EMOZIONANTI



Ascolto una ballata composta in un campo di concentramento. È di un compositore austriaco morto ad Auschwitz, Viktor Ullmann. Perché nei campi si componeva e suonava. Non in quelli di sterminio, certo, dove si poteva solo morire, ma in quelli di concentramento e lavoro, in quelli di transito, nei ghetti della Polonia, nel campo di Terezin dove furono rinchiusi gli intellettuali ebrei di mezza Europa prima di essere avviati alla morte. È la musica concentrazionaria, composta in cattività, con il fiato della morte sul collo. Molti ricercatori sono andati indagando le tracce di quelle musiche, negli spartiti rimasti ormai cancellati dagli anni, nella memoria dei musicisti che l'hanno suonata. Tracce scritte, tracce orali, musicali. Testi poetici anche, ritrovati dove un marito li aveva sepolti per preservarli mentre la moglie poetessa che li aveva composti andava a morire. Dove era possibile, si suonava, si scriveva poesie, e se non si poteva almeno si recitava Dante, come fece Primo Levi per resistere alla disumanizzazione. Cosa sarebbe diventata la musica se quei compositori avessero potuto vivere e continuare a comporre? E la poesia? Sono le tracce di ciò che non è stato, ancora più forti e più emozionanti forse di quelle di ciò che è stato.


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16/07/2013 11:56



MOSÈ E BRUTO



Michael Walzer analizzava anni fa la narrazione dell'Esodo dall'Egitto per comprendere come essa fosse diventata nella storia una metafora della liberazione e quali fossero i movimenti e le culture che l'hanno usata in questo senso, facendone un cardine interpretativo dell'azione politica. Nel mondo ebraico, in realtà, alla metafora narrativa dell'Esodo fu preferita quella del Purim. Nei due casi, siamo di fronte a uno scioglimento favorevole di una situazione di pericolo e di oppressione. Ma fu la vittoria su Haman di Mardocheo e di Ester, nel Purim, ad essere assunta dalle comunità ebraiche per indicare un momento di scampato pericolo, tanto che nei ghetti italiani si celebrarono purim locali per la fine di un'epidemia o per la liberazione da un'accusa dimostratasi falsa. Invece la metafora dell'Esodo divenne centrale nel mondo non ebraico, in particolare in quello protestante, e divenne il motore dei sommovimenti rivoluzionari, dalla rivoluzione inglese di Cromwell a quella americana al movimento per i diritti civili in America. Solo la Rivoluzione francese non se ne appropriò mai e preferì affidarsi ai simboli dell'antica Roma piuttosto che a quelli dell'Esodo biblico, a Bruto piuttosto che a Mosé.


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18/07/2013 11:48



NOIA E ONORI



La regina Cristina di Svezia si annoiava molto nel suo paese sepolto nella neve, in mezzo a rigidi protestanti e alle pressioni dei cortigiani che la volevano a tutti i costi maritare per perpetuare la regale stirpe che aveva dato, nel padre di Cristina, Gustavo II Adolfo, un eroe alla Svezia e allo schieramento protestante nella guerra dei Trent'anni. Per un po', si dilettò a prender lezioni di matematica dal grande Cartesio, che fu però ben presto ucciso dai rigori dell'inverno svedese. Fu così che Cristina decise di convertirsi al cattolicesimo e di trasferirsi a Roma. Ma siccome aveva un alto senso della sua regalità, decise che di Roma sarebbe stata la regina. Si fece precedere da casse innumerevoli contenenti i preziosi dipinti e arredi razziati come bottino di guerra all'imperatore d'Asburgo, e fuggì a Roma dove fu accolta con tutti gli onori. Onori che non fece grandi sforzi per ricambiare, dal momento che condusse vita apertamente sregolata, predilesse eretici e alchimisti, insomma ne fece proprio di tutti i colori. Riunì intorno a sé letterati ed artisti e lasciò gran traccia di sé a Roma: il suo palazzo alla Lungara, i suoi quadri e la sua fama. Fu sepolta nei sotterranei del Vaticano, si disse per poter tener d'occhio almeno le sue ossa irrequiete.


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19/07/2013 11:41



L'ATTESO STRAVAGANTE


Sabbatai Zevi, ebreo di Smirne, cominciò a metà del Seicento a proclamare l'avvento dell'era messianica. Ben presto il suo seguace Nathan di Gaza proclamò che Sabbatai era l'atteso Messia. Mentre Sabbatai e Nathan si imbarcavano per Costantinopoli per andare a chiedere al Sultano la restituzione della terra d'Israele, e il mondo cristiano seguiva con affannosa curiosità la vicenda, le comunità ebraiche, da Salonicco a Livorno ad Amsterdam, accoglievano con entusiasmo l'avvento del Messia e si preparavano al ritorno. Ma il sultano obbligò Sabbatai e i suoi seguaci a scegliere tra la morte o la conversione all'islam, ed essi si convertirono. Un Messia musulmano, dunque. Grande fu la delusione nel mondo ebraico, nonostante Sabbatai continuasse a professarsi, oltre che musulmano, ebreo e a sostenere che la sua conversione era solo il passo finale per la realizzazione dell'era messianica. Da allora, il messianismo fu guardato con sospetto e timore dal mondo ebraico, e anche il misticismo chassidico, culturalmente tanto vicino alle tendenze messianiche, lo abbandonò. Una storia che il grande studioso del pensiero mistico e cabbalista, Gershom Scholem, ha raccontato con maestria insuperata in un grande libro dedicato a Sabbatai e alla sua stravagante vicenda.


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20/07/2013 11:12



VOLTI E NOMI



Quali sono le tracce che uomini e donne lasciano di sé dopo la loro scomparsa? In primo luogo, naturalmente, i loro libri, le opere da loro realizzate. Ma di quanti non lasciano libri, né cattedrali né sinfonie, che tracce possiamo rinvenire per ricostruirne la storia? Il nome e il volto, naturalmente, ambedue elementi che li hanno caratterizzati come individui. Ben lo sapevano i totalitarismi che si sono affannati a cercare di cancellare anche queste tracce delle loro vittime. E per questo nelle sinagoghe, nel giorno dedicato al ricordo della Shoah, si leggono per ore e ore i nomi delle vittime. In Russia, dove tanti milioni di esseri umani sono scomparsi senza lasciar traccia, ha cominciato un'associazione di oppositori, Memorial, a mettere insieme nomi e volti e a renderli pubblici, perché potessero esser riconosciuti. Di alcuni di loro possiamo ritrovare i volti nelle immagini segnaletiche pubblicate in Italia da Lucetta Scaraffia e Marta Dell'Asta in un libro recente. Sono le foto di centocinquanta persone fucilate da Stalin fra il 1937 e il 1938 a Bulovo, alla periferia di Mosca, dove decine di migliaia di oppositori furono assassinati. Ogni nome che riemerge, ogni volto che trova riconoscimento, è una sconfitta degli assassini.


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22/07/2013 10:10



IL MONELLO DI DIO


«Mi calai da una nube di primavera / Che il mondo ancor piccolo era / E Dio ancora un giovane padre. … Mille vite felici sulla terra darei / per rinascere in Dio qualsiasi cosa farei / e per rivedere gli angeli in tanto luccichio / eh sì, quando ero ancora il monello di Dio»…
Sono versi di Else Lasker-Schüler. Quanti ne conoscono il nome? Era una poetessa ebrea tedesca, la maggiore dell'espressionismo tedesco. Ebbe una vita anticonformista e irregolare: povera, senza casa né mezzi, scriveva le sue poesie nei caffè dell'avanguardia, adorata dalla critica e dal mondo della bohème letteraria. Fu fra i fondatori nel 1910 dello “Sturm”, la più famosa rivista espressionista. Poco prima dell'avvento al potere di Hitler ottenne il premio Kleist, che la consacrava come grande poetessa, ma subito dopo dovette andare in esilio e i suoi versi finirono arsi nei roghi nazisti dei libri. Si stabilì prima a Lugano, poi a Gerusalemme. È stato detto che la sua poesia è simile alla pittura di Chagall, simbolica e astorica, con forti radici tanto nel monoteismo ebraico quanto nell'esperienza dell'esilio e della persecuzione nazista. In Palestina lesse in pubblico le sue poesie fitte di immagini bibliche e di colori, apprezzata ed ammirata. Morì a Gerusalemme nel 1945.


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23/07/2013 16:58



LE MUTEVOLI DOMANDE



Il percorso della memoria dei libri e degli scrittori ci ricorda quello delle onde sulla sabbia, che ora cancellano ora lasciano riaffiorare le tracce, come nella canzone di Prévert il mare cancella i passi degli amanti disuniti. Quanti nomi scomparsi sono riaffiorati, di quanti, che consideriamo grandi, scopriamo percorsi frastagliati e zone lunghe di oblio. Senza neppur bisogno di censure o inquisizioni, secondo la tendenza dei tempi. Alcuni, scomparsi dopo la morte, riappaiono d'un colpo decenni dopo, osannati, ripubblicati, sottoposti all'elogio della critica. Di altri, si perde memoria, i libri restano ingialliti negli scaffali dei negozi di seconda mano, il loro nome si confonde con altri nomi di perduti, di dimenticati. È il tempo il grande giudice della grandezza di una scrittura, della profondità di un pensiero? O sono le nostre domande, mutando, che determinano l'altalena delle risposte e che ci portano nelle mani, alternativamente, ora uno ora l'altro degli scritti del passato? Solo pochi grandi sfuggono a questo spontaneo oscillare della fama e all'incostanza dei lettori. A questi pochi, ai grandi classici, ci attacchiamo invecchiando, quasi ci facessero partecipi di un poco della loro eternità.


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25/07/2013 14:31




SOPRAVVISSUTI



Sono pochi i libri che meritano di essere tenuti sugli scaffali e accarezzati amorosamente fino alla morte. Ma anche se pochi, questi libri finiscono inevitabilmente per sopravvivere al loro lettore. In passato, quando i libri erano più preziosi di oggi, ne trovavi l'elenco nei testamenti e potevi reperire le tracce di chi li aveva posseduti, capire cosa sapeva, cosa aveva studiato, che cosa lo interessava. Oggi è più difficile. Se nessuno si prende cura dei libri divenuti orfani, se nessuno li accoglie nei suoi scaffali, finiscono su una bancarella, nei casi più fortunati con altri libri della stessa provenienza. Li riconosci, questi libri sopravvissuti ai loro lettori, sulle bancarelle, ammucchiati tutti insieme, legati da un filo ideale ormai spezzato. Sono letti e riletti. A volte, conservano tracce di appunti al margine, correzioni a matita o addirittura a penna. Il loro lettore non c'è più ma i libri hanno ancora un'anima. E ti consentono di immaginare quella di chi li ha posseduti, di decifrarne gli appunti, forse un nome sul frontespizio o una dedica anch'essa lontana, scritta con mano antica. E ancora oggi queste parole che vengono da lontano ti toccano come tracce di un passato scomparso senza possibilità di ritorno.


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26/07/2013 09:56



LO SPAZIO NEUTRO



C'era un tempo, negli anni Venti e Trenta del Novecento, che gli intellettuali più famosi della Germania e dell'Austria preferivano alle case gli alberghi e come studio usavano i caffè. Vi si sedevano in tarda mattinata, bevevano e scrivevano e vi facevano conversazione fino a tarda notte. La maggiore poetessa dell'espressionismo tedesco, Else Lasker-Schüler, vi viveva proprio, dal momento che sovente non aveva nemmeno i soldi per l'albergo. Joseph Roth, invece, passava da un albergo all'altro e considerava come assurda l'idea di metter su casa, anche potendo. I caffè di Vienna erano assai più che dei luoghi di ritrovo, erano il cuore della cultura austriaca. Nel suo «Hotel Savoy», una delle prime opere di Joseph Roth e quella che lo consacrò come grande scrittore, il valore eccezionale dell'albergo emerge con forza. L'albergo è fuori dal tempo, è spazio neutro, consente di essere marginale e al tempo stesso ti offre tutto l'agio possibile. Succede anche che uscire dal proprio spazio abituale ti consente quella concentrazione della mente che sola sfocia nella scrittura. Così, il caffè e l'albergo incontrano l'aspetto bohème della scrittura, la sua immagine marginale e trasgressiva. E liberano, sovente, la scrittura rimasta bloccata nelle pastoie della vita borghese.


Anna Foa



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27/07/2013 10:59



L'ATTENZIONE DEI PIÙ



La parola «cabala» è uno di quei termini che sono stati sottoposti nel tempo a slittamenti progressivi di significato, senza tuttavia che quello originale andasse perduto e senza che, anche nella versione popolare, di quello originale si perdessero completamente le tracce. Cabala, o meglio Qabbalah, è la tradizione mistica ebraica come si afferma nella Spagna del XIII secolo, anche se per meglio affermarne il carattere esoterico se ne attribuiva l'origine a tempi più remoti. Ma cabala è anche la popolare interpretazione dei sogni attraverso i numeri e le lettere, la divinazione dei numeri del lotto, la magia dei ciarlatani: tutte trovate che vanno sempre molto di moda e che in quella dotta tradizione filosofica hanno parte delle loro radici. I numeri, le lettere, gli spazi delle lettere sono momenti importanti delle tecniche di apprendimento e interpretazione cabbalistiche dotte. Bisogna anche dire che la Qabbalah, nata dentro la tradizione ebraica e ad essa intimamente legata, trovò presto nel mondo cristiano seguaci desiderosi di impararla. Così nella Venezia del Cinquecento i dotti cristiani facevano la coda presso i sapienti ebrei per poterla apprendere da loro. Si sa, tutto ciò che è nascosto e per pochi attrae sempre l'attenzione dei più.


Anna Foa




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29/07/2013 06:37



PAROLE E LIBERTÀ



«Le parole sono pietre», ha scritto Carlo Levi. E mai come nel libro di Victor Klemperer, La lingua del Terzo Reich, possiamo renderci conto del valore profondo di questa semplice affermazione. Perché, ci spiega l'autore, ebreo tedesco sfuggito alla deportazione e poi vissuto nella Germania comunista, i totalitarismi inventano una propria lingua e tendono a distruggere quella che era espressione della società che li aveva preceduti. E non solo creano nuove parole adatte a sollecitare il consenso e l'identificazione cieca del popolo o modificano le vecchie, come fanatismo, vittoria totale, stirpe, ma attraverso la loro ripetizione e l'uso costante dell'aggettivo superlativo le trasformano in strumenti di guerra. E la denigrazione violenta dell'avversario fa parte di questa trasformazione che dalla lingua passa alla mente, da linguistica diviene antropologica. Anche il terrore giacobino e poi il totalitarismo comunista hanno creato un loro linguaggio, declinando i termini della cultura del sospetto e del tradimento. E anche qui lo sbocco fu mortale. Se ne deduce che le parole vanno sorvegliate, usate secondo il loro significato, mai gridate a ferire o a distruggere l'avversario. Toni sommessi, pacati: uno strumento vitale per la libertà.


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30/07/2013 10:18



OSSERVARE E CREDERE



Quando l'Inquisizione spagnola cercava i falsi convertiti, i cosiddetti «marrani», cioè quegli ebrei battezzati che mantenevano fede alle antiche pratiche religiose, non interrogava i sospetti su quella che era la loro vera credenza, sulla loro adesione alla fede nel Dio cristiano, ma su quanto facevano: su quello che mangiavano, su come seppellivano i morti e su altri aspetti della loro vita quotidiana. Questo perché gli inquisitori ben sapevano che l'ebraismo è una religione della prassi e non della fede, e che l'osservanza si esplica nella pratica dei rituali e nell'obbedienza ai divieti e non nella fede del cuore. Ed ecco i giudici chiedere alla servitù se le loro padrone marrane mescolavano la carne e il latte, come è proibito agli ebrei, e in che giorno della settimana si cambiassero la biancheria. Tutte tracce di una credenza nella «fede di Mosé» che erano poi discusse e valutate nei processi e che potevano rappresentare il discrimine fra il rogo e la libertà. Così, una vecchia donna è accusata di non mangiare carne di maiale. Accusa grave perché traccia inequivocabile di marranesimo. Ma lei nega e dice di farlo perché debole di stomaco. Alla fine confesserà il suo intento, quello di osservare la fede di Mosé. Ma sotto tortura. Qual è il vero dietro la traccia?


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31/07/2013 09:51



MARGINALI E SIGNIFICATIVE



Il mio mestiere, quello di storico, ha molto in comune con altre attività, quali quella del medico, quella del cacciatore, quella dell'investigatore. Si tratta infatti di cercare le tracce di qualcosa: per i medici, le tracce sono i sintomi della malattia; per i cacciatori, le tracce sono le orme delle loro prede; per gli investigatori, come per i giudici, le tracce sono gli indizi lasciati dall'assassino. Noi storici invece cerchiamo le tracce del passato. Il metodo non è molto diverso. Le tracce sono spesso impercettibili, non appaiono come tali a prima vista, richiedono di essere analizzate, decodificate, filtrate. Sempre, in ogni genere di investigazione. Freud usa a interpretare i sogni e la mente dei suoi pazienti tracce infinitesimali, aspetti marginali che diventano all'interpretazione fondamentali, orme insomma. Più le tracce sono marginali più sono significative. Sul fatto che le tracce siano sempre confuse aveva già scritto Baudelaire, quando aveva detto che «La natura è un tempio dove pilastri viventi lasciano talvolta filtrare confuse parole». Quando le sparse orme assumono un senso d'insieme, come in un puzzle in cui ciascuna tessera va improvvisamente al suo posto, allora abbiamo trovato ciò che la traccia disvela.


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01/08/2013 11:42



Memoria e storia


In Italia è poco nota, anche se è invece molto famoso Tzvetan Todorov, l'antropologo che ha scritto un libro su di lei e che la considera una figura esemplare nella storia del XX secolo. È Germaine Tillion, etnologa francese, resistente, deportata nel 1942 come prigioniera politica a Ravensbruck, il campo di sole donne, dove sua madre fu inviata alla camera a gas e da dove lei riuscì a tornare. Nella sua lunghissima vita - era nata nel 1907 e morì nel 2008 - la Tillion si è occupata della guerra d'Algeria, del gulag, dei diritti umani. Ha denunciato la tortura dei paras e ha confrontato gli orrori del gulag a quelli dei lager dove era stata prigioniera. Nel bellissimo libro che ha dedicato al campo di Ravensbruck, riscritto in tre diverse versioni negli anni, l'autrice «trasforma la propria memoria in storia», come scrive Todorov nell'introduzione, cioè coniuga armoniosamente soggettività e rigore. Come Hannah Arendt, Tillion affronta il problema della "banalità del male", ricalcando le orme non di Eichmann ma di Himmler. «Bestia notturna che nasconde le sue tracce» oppure un impiegatucolo qualunque? Nel qual caso, conclude, ci sarebbe davvero da aver paura, «perché quel ventre lì», quello degli uomini qualunque, «è ancor più fecondo di quello della Bestia».


Anna Foa



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02/08/2013 08:26



Solo indifferenza



Dalle lettere che si scrissero tra il 1964 e il 1973 lo storico tedesco Joachim Fest e la filosofa Hannah Arendt molta luce può derivare sulla famosa formulazione della Arendt, «la banalità del male» che tante reazioni polemiche ha suscitato, in particolare in Israele. Ci sono possibilità di restare innocenti dentro un sistema totalitario? Ci si domanda. E per compiere il male bisogna essere un assassino o basta essere inserito in un meccanismo omicida senza trovare la forza o la voglia di opporsi? Queste le domande, scaturite dalla Shoah e poi dal processo Eichmann, ma ancora oggi urgenti e brucianti di fronte alla coscienza dell'umanità in tante circostanze e in tante gradazioni del male. Definendo il male come banale, afferma Arendt, non si vuole asserire che tutti siano capaci di diventare degli Eichmann, ma definire degli assassini che non sono mossi da moventi personali, «assassini da scrivania o di massa». Ma con questo non si vuole certo sottovalutarne la gravità o darne una qualunque assoluzione. Questi assassini, ribadisce anzi Hannah Arendt, sono ancora più terribili degli altri perché non hanno nessun rapporto con le loro vittime. Né odio né responsabilità né rimorso, potremmo aggiungere. Solo indifferenza.


Anna Foa



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