"IN VIAGGIO" - riflessioni quotidiane di Marina Corradi

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auroraageno
00martedì 5 marzo 2013 07:09



UNA INTERVISTA SILENZIOSA


Verona, ottobre 2005 – Sul comodino il caffelatte è intatto. Accanto, un vecchio orologio da polso e un Rosario: tutto quello che un missionario ha riportato a casa, dopo 57 anni in Africa. Nella casa madre dei comboniani a Verona padre Francesco Rinaldi Ceroni, 81 anni, è tornato a morire. Ma ha scritto una lettera al giornale, e sono venuta a cercarlo. Non ne ha per molto: il volto livido, prosciugato, non lascia dubbi. Eppure, come nel dovere di un'ultima testimonianza, racconta. Di quella volta nella savana che, aggredito dai briganti, li sfidò: «Ammazzatemi pure, nel mio Dio io ho vissuto più di tutti voi». E la soldataglia, sbalordita, lo lasciò andare.
La coscienza viene e va, il malato si assopisce. Mi guardo attorno, nella candida nudità della stanza. Il crocefisso sul muro. La goccia della flebo scandisce il tempo come un orologio. Lui si risveglia: «Io posso testimoniare – dice, la voce affannata – che quando si porta Cristo gli uomini cambiano, e cominciano a operare». Di nuovo, dorme. Strana intervista: fatta di silenzi, più che parole. Lo guardo: mi pare di averlo già visto, ma dove? Quel viso terreo, consumato dal dolore. Capisco: sembra un Cristo di El Greco. Mi congeda, infine: «Che Dio la benedica». Quella benedizione addosso: come una mano che, generosa, perdona.


Marina Corradi


auroraageno
00mercoledì 6 marzo 2013 11:01


IL RESPIRO DI DIO


Gulu, Uganda, 2006 - Al Lacor Hospital nel 2000 scoppiò la terribile epidemia di virus Ebola che fece strage di pazienti e medici. Oggi, sei anni dopo, il Lacor è un ospedale ordinato e pulito. Nei letti lenzuola candide e ravviate. I malati ci seguono, muti, con lo sguardo. Hanno l'Aids, o la malaria, o infezioni contratte nei campi profughi qui attorno, dove il popolo Acholi, tormentato da anni dai ribelli del Lord Resistance Army, consuma una vita miserabile.
Le facce nerissime dei pazienti sul candore dei cuscini però sembrano serene. Al passare delle infermiere mi meraviglia che nessuno le ferma, nessuno chiede niente. Come se questi uomini fossero già increduli e grati di un letto pulito, del cibo, dell'acqua. Il silenzio di questo posto mette soggezione. Sembra un silenzio sacro.
In una culla c'è un neonato piccolissimo. Dorme: il respiro irregolare e affannato gli fa sussultare bruscamente il petto. Quale male ha già ereditato, nel sangue? È così inerme, sembra un passero nel nido. Vorrei prenderlo in braccio, ma non si può. Resto a guardarlo a lungo, avvinta, ma solo andandomene lo riconosco: è l'Agnello, è l'innocente il cui dolore accompagna ancora la Croce di Cristo. Si esce zitti, domati, dal Lacor. Una culla nel fondo dell'Africa - e il respiro di Dio, così vicino.


Marina Corradi


auroraageno
00giovedì 7 marzo 2013 08:04


Preghiera da un assedio



Gulu, Uganda, 2006 - Dell'Africa equatoriale sbalordisce quanto la notte cali rapidissima: come un brigante che piombi alle spalle, e ti sia addosso. In questo precipitare di tenebre, nella foresta attorno alla missione dei comboniani a Laybi i sentieri si affollano di passi: uno scalpiccio sempre più intenso di zoccoli e piedi nudi. Sono i night commuters, i pendolari della notte. Minacciata dai guerriglieri del Lord Resistance Army che rapinano, bruciano, rapiscono i figli, la gente dei villaggi a notte mendica protezione nel cortile della chiesa; che è piccolo, ma almeno ha un muro attorno. E, forse illusoriamente, questo popolo qui si sente meno indifeso.
Ma quando la notte è del tutto nera, e stelle grandi il doppio delle nostre si accendono come fari nel cielo, i night commuters cominciano a pregare in lingua acholi. Non distinguo le parole, ma la cadenza sì: è il Rosario. La catena della preghiera è retta dal filo di una tensione radicale; è la domanda fissa negli occhi nerissimi delle madri, i bambini al seno. Salvaci, Padre, salva i nostri figli, ripetono quegli occhi scuri, mentre i bambini più grandi si rincorrono e strillano. Erano uguali le notti, nelle rocche assediate del Medioevo? Non avevo mai sentito pregare come da queste madri, inermi nella notte africana.


Marina Corradi


auroraageno
00venerdì 8 marzo 2013 11:37


«ERA BELLA, KABUL»



Kabul, aprile 2006 – Camp Invicta era una caserma sovietica. Si vede: blocchi di cemento nudo, sgraziati, già sbrecciati dal gelo dell'inverno afghano. Nella mensa invece è Italia profonda, nell'odore di sugo, nelle canzoni di Ligabue, nel Crocefisso sul muro, con il suo ramo d'ulivo. Alpini del Nord Est e ragazzi del Sud, sono i nostri. Bella gente, di poche parole.
Quando si esce in perlustrazione con gli autoblindo sulla Jalalabad road ci si trova in una coda infinita di enormi Tir infangati, colorati come giostre, in arrivo dal Pakistan, e miserabili carretti tirati da somari. Bambini stretti al burka blu delle madri, e polvere: una finissima polvere di deserto, che brucia la gola.
Sobbalzando su buche come crateri si entra in città. Chi avrà distrutto queste case, i russi o i mujahidin o Enduring Freedom? Poco importa. 25 anni di guerra. Metà degli afghani non sa cos'è, la pace.
Amin Zai, l'interprete, prima dell'arrivo dei sovietici era un insegnante. Fuggì in Italia con la famiglia; tornò, quando credette il Paese liberato. Ma vennero i mujahidin, e poi le bombe americane. S'infiamma di speranza, il professore, quando parla della nuova Costituzione. Poi, guardando la città devastata dice piano: «Era bella, Kabul, sapete». Come una preghiera, in memoria di una sposa perduta.


Marina Corradi

auroraageno
00sabato 9 marzo 2013 08:26

NEL DESERTO DEI TARTARI


Herat, Afghanistan, aprile 2006 - Attorno alla caserma di Camp Vianini la città stasera è tranquilla. Nel cortile, strani, i peschi in fiore tra i blindati. Noi giornalisti in visita alle forze italiane ci raduniamo attorno all'ufficiale che ci ha scortato per l'Afghanistan, uomo silenziosissimo. Ma questa è l'ultima sera per noi a Herat, e il capitano Cavallaro si lascia andare. Storico per passione, ha scritto un libro sulla battaglia di Montecassino, e ancora adesso va a cercarne gli ultimi superstiti, per farsi raccontare. Nella notte che avanza, tiepida, il capitano rievoca quella lontana aspra battaglia, come ci fosse stato. E noi a ascoltare, affascinati, avvinti.
Da un muro di cinta il bagliore giallo degli occhi di un dingo in cerca di cibo insinua una nota di inquietudine: forse questo è un deserto dei tartari? Dove si può solo aspettare. Poi, a notte fonda, lontano, un boato. Come qualcosa che bolla, sotto a una fragile pace.
L'indomani torniamo in Italia. Tre giorni dopo l'Ansa riferisce di un attentato kamikaze a Camp Vianini. I due soldati afghani di guardia al portone sono morti: quelli che al mattino ci dicevano «ciao», in italiano. I tartari, infine sono arrivati. O forse già vegliavano attorno alla caserma? Come quel dingo dagli occhi gialli, silenzioso, appostato.


Marina Corradi


auroraageno
00lunedì 11 marzo 2013 11:13


Uno sterminato orizzonte



Albacete, Spagna, luglio 2006 - Da qui a Toledo la Mancha si allarga sull'altopiano della Meseta. Una distesa all'apparenza infinita di terra piatta, bruciata, all'orizzonte lontane colline rosse. La strada è dritta e deserta, il sole è proprio sopra di noi, e attorno solo l'estate, torrida. Dai sedili posteriori tacciono i ragazzi, affascinati e inquieti. Questo deserto ci incute soggezione. Vai, vai, e nessuno. Rare fattorie candide, isolate. (Com'era, un tempo, vivere qui tutta la vita?). Qualche vecchio mulino a vento, le pale ferme nell'aria bruciante.
Finalmente un villaggio: quattro case, una chiesa, un bar vuoto. Perfino le mosche dormono sui vetri, a quest'ora.
E poi di nuovo la strada per Toledo è una retta che si perde all' orizzonte. Un grifo vola adagio in tondo, cercando una preda. Un gregge pascola sotto lo sguardo di un vecchio immobile. Nel cielo di zaffiro non c'è la minima traccia di nuvola. Che cosa è splendido, e nello stesso tempo spaventa nella Mancha riarsa?
Qui non ci sono fiori di cui meravigliarsi, né foreste in cui perdersi, né città in cui incontrarsi, o mercati dove scambiare ricchezze. Qui non c'è niente. C'è solo il proprio respiro, e uno sterminato orizzonte. Nella Mancha è evidente, che vivere è un'attesa. E si tace dunque, come davanti a ciò che è sacro.


Marina Corradi


auroraageno
00martedì 12 marzo 2013 09:43



IL POSTINO E LE AQUILE


Penne (Pescara) 2007 – Dodicimila abitanti sotto la mole del Gran Sasso. Ogni dieci passi, una chiesa: sotto il Regno delle Due Sicilie, la città era sede vescovile. Gliene rimane questa gravità austera, e la chiesa madre maestosa, sull'orizzonte delle colline.
Cos'è successo a Penne? Niente. Sono qui a cercare un'Italia di provincia, quieta, senza alcun dramma, o scandalo. Un'Italia in pace, invisibile sui giornali. Nel bar della piazza gli avventori giocano a carte, i bicchieri colmi di trebbiano d'oro. Per i vicoli, a mezzogiorno, profumo di sugo, clangori di padelle sul fuoco. Nei giardini rose che si sporgono tra le sbarre, curiose. Occhi verdi di gatti che ti fissano. Biciclette appoggiate ai muri, senza lucchetto. Dai balconi pendono già asciutte, rigide, le lenzuola stese, e tu ne sai, da lontano, il profumo.
Seguo il signor Orazio, il postino, nel suo giro. Per una sola lettera raggiunge cascine solitarie, dove latrano i cani alla catena. Più tortuose le strade, man mano che ci si avvicina al Gran Sasso. A una curva Orazio si ferma, indica uno strapiombo nel vuoto: «Per di qui, vede, certe mattine ho visto i piccoli delle aquile spiccare il primo volo».
Un postino innamorato delle aquile. Anche questa è Italia, silenziosa. Invisibile sui giornali, eppure grande, e vera.



Marina Corradi


auroraageno
00mercoledì 13 marzo 2013 09:57


UN POZZO D'ACQUA VIVA



Milano, 2007 – «Da ragazza, se mi piaceva un fiore, avrei voluto addirittura mangiarlo». In una stanza d'ospedale mi imbatto nel Diario e nelle Lettere di Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz. Sorrido: anch' io, da bambina, trovavo le rose così belle che le avrei mangiate.
Ma nell' Olanda occupata dai nazisti, mentre i suoi amici vengono deportati, Etty attraversa una straordinaria metamorfosi: «Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c'è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri». Quale misteriosa strada si è aperta in una ragazza vivace, libera, quasi sorella delle adolescenti degli anni 70? (Il passo della Carità nella Lettera ai Corinzi induce lei, ebrea, a inginocchiarsi, in un gesto che non le è stato tramandato).
La storia erompe, tragica. Etty accompagna al treno un amico che parte per il nulla. In una notte come questa – scrive – bisognerebbe solo inginocchiarsi e pregare. Infine è il suo treno, a partire: «Ho aperto a caso la Bibbia: "Il Signore è il mio baluardo"».
Una sorella più grande: una che da ragazza, vorace di bellezza, voleva mangiarsi i fiori. Un giorno ha scoperto in fondo a sé un pozzo; e avidamente ne ha bevuto l'acqua viva.


Marina Corradi


auroraageno
00giovedì 14 marzo 2013 09:57


Lei, all'alba, in pace


Milano, marzo 2008 - Le otto di sera. Nelle case di fronte la gente è a cena dietro le finestre illuminate. Qui, nel reparto non autosufficienti di una casa di riposo, le luci sono già spente. Nessuno, nei corridoi odorosi di disinfettante. I ricoverati dormono, le sbarre del letto rialzate. Sui comodini pile di pannoloni, come quelli dei neonati, solo più grandi. Ottant'anni, tra un'infanzia e l'altra. Ma nessuno vezzeggia questi vecchi bambini, così ossuti, sgraziati. Nel sonno uno si agita: «Mamma! Vieni!», grida. Dalla stanza degli infermieri voci basse, risate - la vita che si insinua in questo limbo, clandestina. Le lancette dell'orologio a muro, immobili.
L'ossigeno scorre con un suono d'acqua. La paziente più anziana respira a fatica. A tratti alza il busto, contrae le mani, nel fiato che manca. Il volto estenuato sembra chiedere pace; ma il cuore non si arrende, e batte disordinato, e fa sussultare il magro petto. Il cuore riottoso si ostina, scalcia - come se tutto, in noi, si ribellasse alla morte.
La paziente più anziana è mia madre, e io la veglio attonita: rivedendo i suoi begli occhi, e la mano che stringeva la mia, da bambina. (Stanotte, è come se mi venisse strappata da sotto i piedi la terra).
Lei, all'alba, in pace - il volto pallido da Madonna antica.


Marina Corradi


auroraageno
00venerdì 15 marzo 2013 10:08


UNA STORIA NUOVA


Lampedusa, settembre 2008 - La motovedetta della Guardia Costiera salpa in soccorso di un barcone alla deriva, al largo. Sotto al sole cocente di mezzogiorno navighiamo veloci per mezz'ora. Finalmente un punto all'orizzonte. Eccoli, i naufraghi: un centinaio di uomini, donne, bambini su un gommone immobile fra le onde, che affonda sotto al loro peso. Mentre accostiamo cento occhi neri ci fissano, e nessuno dice una parola. Salgono sulla motovedetta, e tacciono: non uno che chieda acqua, o cibo. Solo una donna con un figlio in braccio piange, piano. Sfiniti i naufraghi, increduli d'essere salvi, dopo tre giorni - e tre notti, nell'infinita tenebra del mare.
In lontananza si intravvede appena una linea all'orizzonte: Lampedusa. I naufraghi la fissano come un'apparizione. Uno tira fuori un tappetino fradicio e si inginocchia sul ponte, a pregare. Un altro da uno zaino estrae un Vangelo in inglese, che gocciola acqua di mare. Esausti, miserabili, gli stranieri ringraziano Dio d'essere vivi, e in Europa. Come, forse, i coloni irlandesi, inglesi, fuggiaschi magari, o galeotti, quando scorgevano la costa del Nuovo Mondo.
Noi vecchi, noi avari di figli, noi ricchi; e giovani affamati popoli che sbarcano in Europa. Sul molo di Lampedusa la cronaca mi pare Storia, che incomincia, nuova.


Marina Corradi


auroraageno
00sabato 16 marzo 2013 09:40


LE SCARPE DEL CURATO


Ars-sur-Formans, marzo 2009. Il paese del Curato è ancora un grappolo di case, perso tra le colline del Dombe. È un martedì, piove, e non c'è nessuno nella canonica di Jean-Marie Vianney. Mi affaccio: stanze spoglie, muri di pietra, un focolare annerito. La casa del santo è abitata solo dal vento: che stamattina soffia così forte, con una voce scura. Scuri anche i vecchi mobili; e il crocefisso nella stanza da letto, di questa antica povertà il silenzioso signore. Fatico, tra queste cose morte, a immaginarmi quel prete, vivo.
Ma l'occhio mi cade su degli oggetti amorosamente conservati. C'è un ombrello nero, col manico grosso: quello sì, me lo vedo, in una mattina di marzo come questa, lucido di poggia, oscillante sui passi del parroco. E, accanto, le scarpe: un paio di grosse scarpe indicibilmente sformate. Anche le scarpe le immagino, per sterrate fangose, o nella polvere della siccità d'agosto, all'alba, in marcia verso il capezzale di un moribondo. Quanta strada devono avere fatto, queste scarpe. Ma, mi pare di averle già viste. (I ricordi, come i sogni, sono anarchici: vengono su senza ordine alcuno). Don Benzi, ecco, a don Oreste ho visto addosso delle scarpe così, nere, grosse, sfatte dall'andare. (Sono cari a Dio, penso, gli uomini che camminano per abbracciare).


Marina Corradi

auroraageno
00lunedì 18 marzo 2013 10:19


SOLTANTO IL VENTO


L'Aquila, 18 aprile 2009 – Sotto a un cielo grigio la via che sale verso la Basilica di San Bernardino è deserta. I portoni sbarrati, e non una voce, non un'eco di tv accesa; per terra, infranti, pezzi di cornicione, vecchi coppi. Piazzetta della Commenda: un gatto rosso si avvicina, a chiedere carezze. E poi soltanto il vento, e il cigolio lamentoso di vecchie imposte. Nelle vetrine in frantumi i manichini in fila, con i loro sguardi vuoti.
È terribile, una città senza uomini. Questa rete armoniosa di vicoli, queste pietre, queste piccole piazze segrete sono fatte perché gli uomini le riempiano di passi, e di parole. Cos'è un cortile senza le voci dalle finestre aperte, senza il fruscio della ramazza del custode, la mattina, e i panni sui fili, stesi al sole? Cos'è una chiesa senza la Messa, e una piazza di mercato senza le grida dei venditori? E una scuola, senza la campana alla fine delle lezioni, e i ragazzi che vociando, ridendo, corrono fuori?
Tra le facciate sbrecciate, nella polvere, in questo silenzio di morte, sognare che L'Aquila risorga. Che le sue strade siano colme di nuovo di passi, e di grida di bambini. Che qualcuno di nuovo lasci le briciole sui davanzali ai passeri, e, in giardino, gli avanzi al cane. Che L'Aquila rinasca: nelle strade vuote, una preghiera.


Marina Corradi


auroraageno
00martedì 19 marzo 2013 06:58


NELLA TANA DEL LEONE


Londra, 2009 – Sotto a King Charles Street, dietro al Parlamento, le Cabinet War Rooms sono intatte: il gabinetto di guerra da dove Churchill guidò il Paese. In una luce artificiale livida, gli uffici e camerate delle dattilografe. Un cartello: «Fine and warm», «bello e soleggiato»: per ricordarsi, nel bunker sepolto, mentre le bombe incenerivano Londra, che fuori il cielo c'era ancora.
La stanza da cui Churchill trasmetteva sulla Bbc i discorsi da leone ascoltati clandestinamente in Europa, è uguale; i microfoni lucenti ancora sulla scrivania. La Map Room è tappezzata di mappe ingiallite. Dieci telefoni neri in linea dai fronti, e sulle mappe centinaia di spilli colorati: ogni spillo, migliaia di uomini di eserciti amici e nemici. (Quello spillo là, verso il Don, era la Julia, era anche mio padre).
Con i figli – silenziosi, in questo ipogeo di un altro mondo – riemergiamo nella Londra di oggi. Fra turisti di ogni paese, americani, tedeschi, dimentichi, lieti. Eppure, dice un figlio, commosso, «di qualcosa lì sotto avevo nostalgia».
Di cosa? Di una immensa collettiva speranza, del colossale sforzo che permise lo sbarco alleato in Normandia. Di uno strenuo desiderio di libertà e pace: una cosa grande, che mio figlio a 14 anni avverte, e nella svagatezza dell'oggi non trova.


Marina Corradi


auroraageno
00mercoledì 20 marzo 2013 10:53


EGELANTINSTRAAT, 147


Amsterdam, dicembre 2009 - Una settimana a Natale. Nevica forte stasera, attorno ai lampioni i fiocchi danzano come falene. Luminarie fastose rischiarano la notte: cascate di luce algida si specchiano sui marciapiedi candidi, si frammentano nei diamanti allineati nelle vetrine degli orefici, dietro a piazza Dam. In ogni negozio Babbi Natale, e ovunque, ossessive, le note di Jingle bells.
Il 58 per cento degli olandesi non sa cosa esattamente sia successo, duemila anni fa, il 24 dicembre, e molti dei campanili illuminati a festa appartengono a chiese chiuse, o trasformate in musei; mentre le moschee in città sono venti, e piene di fedeli.
Sono venuta a cercare il Natale nel Paese più secolarizzato d'Europa, ma, fra tante luci, fatico a trovarlo. Per mille Santa Klaus, finora ho visto un solo piccolo presepe - vicino alla Centraal Station, alla mensa dei poveri.
Nel quartiere di Jordaan, non un buon quartiere, in una via stretta c'è una casa spoglia, senza neanche una luce. Suono, mi apre una suora di Madre Teresa. Nella cappella spoglia un grande crocefisso, due sorelle in adorazione, e, davanti all'altare, una piccola mangiatoia vuota - sembra il palmo di una mano mendicante.
Egelantinstraat, 147. Né Jingle bells né luci, ma qui palpita, vivo nel silenzio, il Natale di Amsterdam.


Marina Corradi


auroraageno
00giovedì 21 marzo 2013 10:45


L'ORA DELL'APPELLO


Czestochowa, luglio 2010 – Alle nove di sera è l'ora dell'Appello. Nel santuario di Jasna Gora convergono i pellegrini. Nell'imbrunire estivo passano svelti sotto il san Michele Arcangelo con la spada sguainata verso il cielo, ed entrano tra le poderose mura turrite, da fortezza. Zitti, veloci, verso la cappella. Nella penombra che splende di ori ci si avvicina più che si può alla Madonna bruna, i cui begli occhi paiono guardare chi la guarda.
La Bogurodzica, antica preghiera mariana, colma la chiesa. Il tonfo sordo e simultaneo di centinaia di fedeli che si inginocchiano insieme, nel medesimo istante, colpisce lo straniero: pare il devoto omaggio di un esercito, al passare della sua regina.

E ora l'Appello è finito, e la gente sciama fuori, nel buio. Restano a vegliare solo dei pellegrini venuti da lontano. Ma in fondo, negli ultimi banchi, nella penombra sono rimasti anche quattro vecchi clochard. Uno, magro, la faccia scavata, ha una borsa all'apparenza molto pesante. Si inginocchia con la fronte per terra e resta lì, immobile, il suo fardello accanto; come avesse portato fin qui un antico dolore.
E il portone di Jasna Gora ora chiude con un tonfo, ma i guardiani sembrano non vedere i quattro mendicanti, e li lasciano lì. Pregano? Dormono? Comunque, davanti alla Madonna: a casa loro.


Marina Corradi


auroraageno
00venerdì 22 marzo 2013 08:21


NEL FONDO DELLA NEBBIA


Policany, Boemia, inverno 2010 – Da Praga a qui sono 60 chilometri, ma ci si perde, per queste campagne deserte. Poi in fondo a una vallata, dentro la nebbia che si va alzando, come un castello bianco: la nuova fondazione dalle trappiste di Vitorchiano. Sono arrivate in nove dall'Italia, tre anni fa, e ora hanno dieci novizie.
La notte cala sul monastero con il suo velo di profondo silenzio. Alle quattro e mezza si recitano le Vigilie. Fuori, nel buio la nebbia ha cancellato ogni cosa. Eppure un sottile tocco di campana, il "piccolo", promette che l'oscurità sta per finire. In quale remoto angolo d'Europa è stato gettato questo seme, penso, ascoltando le voci limpide del coro.
Di giorno, qui è ancora un cantiere: battere di martelli, girare di betoniere. Fino all'ora dei Vespri, in chiesa. Ma inaspettatamente alle mie spalle il portone si apre. Due operai, le mani sporche di calce, entrano, rispettosi si tolgono i berretti e gli stivali infangati, e siedono, ad ascoltare.
Come cantano le monache, dentro alla nebbia che di nuovo avvolge il convento. E questi due manovali stanchi, che, affascinati, tardano a rincasare. Infine se ne vanno. Diranno a casa: dovete sentire come cantano, al monastero. E altri verranno, curiosi, a sentire. (È la bellezza, che eternamente seduce).


Marina Corradi


auroraageno
00sabato 23 marzo 2013 11:29


La lingua di Babele


Fuenlabrada, Spagna, 2011 - «Bisogno di un miracolo? Chiamaci». I manifesti di una setta evangelica tappezzano questo hinterland di Madrid. A Fuenlabrada, in effetti, di miracoli sembrano servirne parecchi. Qui le ondate di immigrazione - dall'Est, dalla Cina, dall'Africa - si sono stratificate fino a formare un tessuto in cui ognuno è, per l'altro, straniero. Ogni balcone delle torri di cemento ha la sua parabola: la sera, dalle finestre echi di cento lingue diverse. Babele, era così?
C'è una chiesa: l'han costruita negli anni 60, bassa come un'officina e senza campanile, né campana. Ora una campana ce l'ha, e la corda la tira la mano nerissima di un sacrestano africano. Il parroco, don Antonio, missionario della Fraternità San Carlo, è italiano, figlio di calabresi, cresciuto alla periferia di Milano. Un uomo solido, un' ancora in questo mare di frontiera.
Come Babele, Fuenlabrada sgomenta chi la guarda. Però, mi accorgo, quanti bambini: in passeggini spinti da madri russe, arabe, cinesi. E che occhi, hanno: luminosi, in uno stupore lieto. Guardando la madre sorridono e ciangottano i primi monosillabi - che sono assolutamente uguali.
Anche a Babele c'è un idioma universale. Lo parlano i bambini, finché sono molto piccoli. Memoria di un mondo anteriore, vergine - non infranto, ancora.


Marina Corradi


auroraageno
00lunedì 25 marzo 2013 09:28


LA VERTIGINE DELLA SAGRADA


Barcellona, 2011 - Vista dal basso, la Sagrada Familia è un vertiginoso castello. Ma, più alte delle guglie, sei gru meccaniche girano i loro poderosi bracci, e operai imbragati come scalatori in parete lavorano, dall'alba al tramonto. L'ascensore del cantiere sale con un clangore di ferraglia e si spalanca sulla sommità della cattedrale. Ma da qui ancora ponti e scale mozzafiato, fino a lassù: dove c'è solo il vento, e, oltre la città, la linea blu del mare.
Qui attorno invece la cattedrale è un Eden di fiori e frutti di pietra, offerti al cielo come un dono; e chiocciole e ramarri e scarabei del fantastico mondo simbolico di Gaudí, che strisciano e si arrampicano su per le guglie d'oro. Nella struttura possente, ancora tutto è simbolo: 24 le volte, come i vecchi dell'Apocalisse, 4 le nuove torri, come gli Evangelisti, attorno a quella che un giorno svetterà altissima, icona di Cristo. Dentro, poi, quando i battenti a sera chiudono, è una foresta ombrosa la Sagrada, dove come viandanti stanchi ci si potrebbe fiduciosi addormentare.
Fuori, sotto al cantiere, un vecchio dalle mani callose guarda in su e indica a un nipote una colonna: quella, dice, l'ho fatta io. Come una cattedrale medioevale, sorgente nel 2011. È un miracolo la Sagrada, che si va alzando sotto il cielo di Catalogna.


Marina Corradi


auroraageno
00martedì 26 marzo 2013 10:25


A KARL-MARX-STADT


Chemnitz, Germania, 2011 – Karl-Marx-Stadt, si chiamava questo posto fino alla caduta del Muro. Era una città modello della ex DDR. Sono passati molti anni da allora. Mi sbalordiscono, arrivando, le strade semideserte, e interi viali, in centro, di case in abbandono, i vetri rotti, i muri coperti di graffiti. Nei cortili vuoti i passi lenti di un vecchio che rincasa. Alle nove del mattino incroci ragazzi con la bottiglia di birra in mano, o punk col cranio rasato, e, a mo' di orecchino, un bullone. Alla caduta del Muro, da Karl-Marx-Stadt in 80 mila sono scappati. Scatta il verde e poi il rosso ai semafori, ma non passa nessuno.
Una torre alta, nuova. È un centro commerciale: dagli iPhone alle magliette da due lire, in una musica stordente. Adolescenti che ciondolano annoiati, senza soldi per comprare. In piazza, un enorme corrucciato busto di Marx. (Hanno fatto un'indagine, i ragazzi non sanno più chi era, quel signore).
In un cimitero senza croci una donna anziana sta seduta su un seggiolino portatile, accanto a una lapide. Non prega, non piange, semplicemente rimane. Per un marito, per un figlio? Sotto al sole di luglio la donna non si muove. Nella ex Karl-Marx-Stadt, dove in 80 su 100 si dicono atei, una vecchia immobile davanti a una tomba, come una domanda ostinata.

Marina Corradi


auroraageno
00mercoledì 27 marzo 2013 10:03


UN CROCEFISSO SULLE TOFANE


Dolomiti ampezzane, 2011 - Sulle Tofane non c'è una nuvola. Nel cielo perfettamente blu il sole di luglio, altissimo, acceca e scotta. Dal rifugio Lagazuoi lo sguardo abbraccia l'assise di regine di pietra. Picchi gotici, protuberanze giurassiche, ferite nere di crepacci, dove nemmeno questo sole s'avventura.
Sul sentiero i figli procedono davanti a me, e con un passo, mi dico fiera, più certo del mio. Hanno 19, 16, 14 anni: già così lontano il tempo in cui li conducevo, esitanti, per mano.
Le macchie dei rododendri, e il profondo blu delle genziane. Lo splendore del mezzogiorno mi ammutolisce come quando, bambina, dalla valle contemplavo al tramonto queste vecchie sorelle – e mi sembrava che mi guardassero, buone.
Nell'aria immobile, impercettibili crepitii di roccia che si spacca; e echi di voci lontane. Nel gran sole il mio sguardo si ferma sulle fessure nere degli abissi. Penso a mio padre, a mia madre, a mia sorella, che mi portavano, da piccola, fra queste cime. Nel vertice dell'estate, nel passo agile dei figli, la morte tuttavia così ineludibile e presente.
Un crocefisso annerito dal tempo, spaccato dal sole e dal gelo, mi si para davanti. Lo riconosco come sola speranza, solo volto salvo dal tempo che passa, e dal buio, che s'annida nelle ferite delle Tofane.


Marina Corradi


auroraageno
00giovedì 28 marzo 2013 11:34


Mendicanti di misericordia



Marsiglia, 2012 — Le dieci di una domenica mattina. Attorno a Saint-Vincent-de-Paul, sulla Canebière, la gente va a Messa. Ma, noto stupita, alcuni si portano un seggiolino: non c'è già più un posto libero, nelle navate gremite.
Mi metto in un angolo. Cosa colma la "grande église" nel cuore di Marsiglia, dieci anni fa tanto vuota che si voleva trasformarla in museo?
Entra il sacerdote, seguito da un nugolo di chierichetti. L'organo suona splendidamente, la gente canta a piena voce un canto antico, bello. Rigore e bellezza in ogni singolo gesto. L'omelia è di parole schiette, concrete; ma dette con passione e urgenza — come se ognuno di noi, a quel prete, stesse a cuore.
Mi affascina la straordinaria lentezza della consacrazione del pane — nel più assoluto silenzio. Alla Comunione una fila lunghissima, paziente. All'uscita, una fila altrettanto lunga per una parola, da quell'uomo con lo sguardo buono. Sembrano mendicanti di misericordia, in questa città impoverita e stanca.
Fede profonda, bellezza della liturgia, e un sacerdote fedele, ogni sera alle cinque, al suo confessionale. In chiesa un
vecchio clochard mite e bizzarro tenacemente ha atteso per ricevere, ultimo, la Comunione proprio dalle sue mani. Ho sorriso: come a volte i folli sanno, ciò che occorre ai sani.


Marina Corradi


auroraageno
00venerdì 29 marzo 2013 10:47


NEL PROFONDO DELLA MORTE


Torino, 2 maggio 2010 - «Oggi sulla terra c'è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi». Nella penombra del Duomo Benedetto XVI si inginocchia davanti alla Sindone. L'immagine di quell'uomo massacrato colma la cattedrale con la sua muta, imponente maestà. Quanto a lungo resta in ginocchio il Papa, contemplando quel volto? Da fuori, il fruscio di un piovasco di primavera, voci smorzate dalle vie della città.
Davanti alla Sindone Benedetto XVI insegna che nella solitudine più estrema dell'uomo, dove regna l'abbandono senza più alcuna parola di conforto, là la voce di Cristo è risuonata: nel profondo del regno della morte.
Nel silenzio del Duomo allora penso a quanto di dolore ho visto, in questi anni. Ai bambini degli orfanotrofi moldavi, alle madri di figli che non ritornano, ai profughi che giacciono sul fondo del Mediterraneo, dimenticati e ignoti. Anche dentro questo rappreso, coriaceo grumo di dolore, quella notte, Cristo è passato.
C'è una giustizia umana che sani tanta sofferenza, o un umano potere che possa credibilmente promettere: mai più? Quel volto martoriato davanti a noi, sola speranza capace di reggere l'urto, e di guarire il nostro sterminato male.


Marina Corradi


auroraageno
00sabato 30 marzo 2013 10:38


Pellegrini all'alba


Galizia, Spagna, aprile 2010 - Ci mettiamo in strada che ancora è notte. Sul Camino Inglés venticinque chilometri a piedi, anche oggi - verso Santiago. La terra dei sentieri è molle di umidità a quest'ora, nei villaggi deserti le imposte serrate. C'è una luna inquieta fra le nuvole, alla cui luce fredda gli alberi spogli sembrano anime ischeletrite. Avanziamo in fila, alla luce delle torce, recitando il Rosario.
Il buio è ancora fondo quando un gallo canta, stridulo. È bello sentirlo, promessa nell'oscurità. Continuiamo ad andare, di buon passo. Nei campi, le corolle dei fiori ancora chiuse. Da est si allarga un chiarore rosa. Un velo di nebbia si alza dalla terra, fantasmatico, e svanisce.
Il sole si leva all'orizzonte: lento, rosso, regale. Come a un segnale, gli uccelli prendono a cantare. Un'imposta si apre, nelle case si accendono le luci. Il nuovo giorno che si alza ci commuove - i nostri passi ora più veloci, e più certi. Quelle che sotto la luna sembravano anime in pena si rivelano chiome di alberi ancora nude, ma già coperte di gemme. Dall'oceano nuvole gonfie scaricano sui campi, come una benedizione, una pioggia fresca. Splendono le calle selvatiche, sul sentiero per Santiago. Che miracolo, questa luce di alba che ha vinto la notte, una volta ancora.


Marina Corradi


auroraageno
00domenica 31 marzo 2013 15:11


VERSO IL DESTINO


Santiago de Compostela, aprile 2010 - Il Camino Inglés va dal mare Cantabrico a Santiago. 124 chilometri nei boschi di una Spagna nordica, nel vento dell'Atlantico, battuta da piogge che si alternano a capricciose sortite del sole.
A piedi, il mondo è del tutto diverso. Ogni prospettiva muta lentamente, centellinata dai nostri passi; ogni pianta ha un profumo, e lo respiro a fondo, avida: menta, e i primi fiori dei limoni. E quelle calle che fioriscono, candide, dal fango? Terre deserte, dove per chilometri non incontri nessuno: e allora è una gioia il tetto di una cascina, e un vecchio sulla porta che augura: «Id con Dios!».
È un mondo antico quello che ci si svela sui passi del Camino dei pellegrini inglesi. Ai crocicchi si esita: dov'è la conchiglia? Eccola, nascosta sotto a una ciocca di edera, su un muro. Allora confortati ci si rimette in cammino. Il passo e il Rosario, nella stessa cadenza.
Finché da lontano intravvedi le torri della cattedrale, con un sussulto del cuore: e acceleri il passo. Eccola: mole di pietra cesellata da mille artigiani, e quasi montagna, coperta com'è, in alto, da muschi, nell'umidità dell'oceano vicino. E dentro ombra e ori e profumo d'incenso, e l'ostia bianca elevata sull'altare. Santiago, la meta: che in spagnolo, splendidamente, si dice "destino".


Marina Corradi


SoleInvernale
00lunedì 1 aprile 2013 12:05

Conosco alcune persone che sono andate a Santiago di Compostela, sono stati contenti della visita fatta, ma nessuno me ne aveva fatto un racconto così bello, così suggestivo!

Sole

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