I PONTI DI MADISON COUNTY- di Robert James Waller - Romanzo completo - Per adulti

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auroraageno
00sabato 12 aprile 2008 05:09


Dopo il 1975, non aveva più trovato il suo ritratto nella rivista. Neppure la firma compariva più. Lei cercò a lungo ma inutilmente. Quell'anno lui compiva sessantadue anni.
Richard morì nel 1979. Terminato il funerale, dopo la partenza dei ragazzi, pensò di telefonargli. Lui aveva sessantasei anni, lei cinquantanove. C'era ancora tempo, anche se di anni ne avevano perduti quattordici. Ci pensò per un'intera settimana, poi compose il numero impresso sulla sua carta da lettere.
Il cuore le si fermò quando il telefono cominciò a squillare. Sentì che la cornetta veniva sollevata e il ricevitore quasi le sfuggì di mano. "McGregor Assicurazioni", disse una voce femminile. Le sembrò di sprofondare, ma si riprese in tempo per chiedere alla donna se aveva fatto il numero giusto. La risposta fu affermativa. Allora ringraziò e riappese.
Tentò con il servizio informazioni di Bellingham. Il suo nome non figurava. Provò con Seattle. Nulla. Poi con gli uffici della Camera di commercio di entrambe le località. Chiese che controllassero gli elenchi cittadini. Loro la accontentarono, ma il suo nome non c'era. Avrebbe potuto essere ovunque, pensò allora.
A quel punto si ricordò della rivista; lui le aveva detto di cercarlo lì. La centralinista era gentile, ma lavorava al giornale da poco e dovette girare la sua richiesta a qualcun altro. La telefonata di Francesca fu smistata a tre persone diverse prima che le passassero un redattore che lavorava lì da vent'anni. Lei gli chiese di Robert Kinkaid.
Naturalmente se lo ricordava. "Sta cercando di rintracciarlo, dice? Era un diavolo di fotografo, se mi perdona l'espressione. Un tipo difficile, non in modo sgradevole, ma tenace. Inseguiva l'arte per l'arte, non esattamente quello che interessa ai nostri lettori. Loro vogliono fotografie ben fatte, abili, ma non troppo fuori dalla norma.
"Noi dicevamo sempre che Kinkaid era un tipo strano. Lavorava per noi, ma di lui non sapevamo quasi nulla. Era un professionista, però. Potevi mandarlo ovunque, e lui ci andava, anche se non era quasi mai d'accordo con le nostre scelte editoriali. Quanto al recapito attuale, mentre parlavamo ho sfogliato la sua pratica. Ha lasciato la rivista nel 1975. L'indirizzo e il numero telefonico riportati qui sono..." Ma quei dati Francesca li aveva già. Dopo quel giorno non tentò più di rintracciarlo, soprattutto perché aveva paura di quello che avrebbe potuto scoprire.
Si lasciò andare, indugiando sempre più spesso con il pensiero su Robert Kinkaid. A guidare se la cavava ancora piuttosto bene, e ogni anno si recava parecchie volte a Des Moines, a pranzare nel ristorante in cui era stata con lui. Nel corso di una di queste gite, acquistò un diario rilegato in pelle. E su quelle pagine cominciò a riportare con calligrafia ordinata i particolari della loro storia d'amore e le sue riflessioni al riguardo. Riempì tre diari prima di sentire di aver adempiuto al compito che si era prefissa.
Winterset stava migliorando. C'era un'attiva associazione artistica, composta perlopiù da donne, e da qualche anno si parlava spesso di ristrutturare i vecchi ponti. Gente giovane e interessante aveva incominciato a costruire la propria casa sulle colline. La mentalità era cambiata, i capelli lunghi non attiravano più gli sguardi, sebbene gli uomini che portavano sandali fossero ancora pochi e i poeti rari.
E tuttavia, fatta eccezione per poche amiche, lei si autoescluse completamente dalla comunità. Molti se ne accorsero, e notarono la frequenza con cui la si poteva vedere in piedi sul Roseman Bridge, e a volte nei pressi del Cedar Bridge. Capita spesso che i vecchi diventino strani, dicevano, e si accontentavano di questa spiegazione.
Il 2 febbraio del 1982, nel cortile della fattoria arrivò un furgone dell'United Parcel Service. Francesca non ricordava di aver ordinato alcunché. Perplessa firmò la ricevuta e controllò l'indirizzo riportato sul pacchetto: "Francesca Johnson, RR2, Winterset, Iowa, 50273". Il mittente era uno studio legale di Seattle.
Il pacchetto era confezionato con cura e dotato di un'assicurazione supplementare. Lei lo posò sul tavolo di cucina, lo aprì con gesti misurati. Conteneva tre scatole impacchettate nel polistirolo. Una piccola busta imbottita era fissata sulla prima con del nastro adesivo, mentre alla seconda era acclusa una busta commerciale con l'intestazione dello studio legale e indirizzata a lei.
Tremando, staccò la busta commerciale e la aprì.


(continua)
auroraageno
00domenica 13 aprile 2008 03:51


25 gennaio 1982

Signora Francesca Johnson
RR 2
Winterset, IA 50273


Gentile signora Johnson,
il nostro studio rappresenta il signor Robert L.
Kinkaid, recentemente deceduto...



Francesca posò la lettera sul tavolo. Fuori, la neve turbinava sui campi invernali. La osservò rasentare le stoppie, trascinare via le barbe di granturco, ammucchiarle in un angolo sotto il filo spinato. Rilesse ancora una volta quelle prime parole.


Il nostro studio rappresenta il signor Robert L.
Kinkaid, recentemente deceduto...



"Oh, Robert... Robert... no." Mormorò piano il suo nome, la testa china.
Un'ora dopo riuscì a continuare la lettura. Il brutale linguaggio legale, la precisione della terminologia la irritarono.


Il nostro studio...


Un avvocato che espleta le sue mansioni nei confronti di un cliente.
Ma il potere, il leopardo giunto a cavallo della scia di una cometa, lo sciamano che in una calda giornata d'agosto andava in cerca del Roseman Bridge, l'uomo che in piedi sul predellino di un furgone chiamato Harry si voltava a guardarla morire nella polvere di una fattoria dello Iowa... dov'era lui in quelle parole?
La lettera avrebbe dovuto essere lunga migliaia di pagine. Avrebbe dovuto parlare della fine di una catena evolutiva e della perdita della libertà di scelta, dei cowboy che lottavano contro il filo spinato, come fanno le barbe di granturco in inverno.


Il solo testamento lasciato dal nostro cliente è
datato 8 luglio 1967. Le istruzioni relative alla
consegna degli oggetti qui acclusi erano esplicite.
Nel caso non fosse stato possibile recapitarlo a lei,
il materiale doveva essere bruciato.
Nella scatola contrassegnata dalla parola
«Lettera» troverà una missiva a lei indirizzata,
affidataci dal signor Kinkaid nel 1978. La busta,
sigillata, non è stata aperta.
Le spoglie del signor Kinkaid sono state cremate.
Dietro sua richiesta, non è stata apposta alcuna
lapide. Sempre dietro sua richiesta, uno studio
associato al nostro ha provveduto a spargere le
ceneri in prossimità della sua abitazione. Credo che
la località in questione sia denominata Roseman
Bridge.
La prego di non esitare a contattarci in caso di
necessità.

Sinceramente suo.
Allen B. Quippen, procuratore legale



Riprese fiato, si asciugò nuovamente gli occhi e continuò a esaminare il contenuto della scatola.
Sapeva che cosa avrebbe trovato dentro la piccola busta imbottita. Lo sapeva così come sapeva che la primavera sarebbe arrivata anche quell'anno. Estrasse la catena d'argento. La medaglietta era graffiata e portava inciso il nome «Francesca». Sul retro, a lettere minuscole, la scritta: «Si prega inviarla a Francesca Johnson, RR 2, Winterset, Iowa, USA».
C'era anche il braccialetto, avvolto in carta velina. A esso era accluso un foglietto.


Se l'attira l'idea di un'altra cena quando
«volano le falene», venga stasera dopo il lavoro.



Il biglietto che lei aveva lasciato sul Roseman Bridge. Aveva conservato anche quello.
Solo allora rammentò che era la sola cosa che avesse di lei, l'unica prova della sua esistenza, oltre a poche immagini elusive, fissate su una pellicola che andava lentamente sbiadendo. Il biglietto del Roseman Bridge. Era macchiato e sgualcito, come se lui lo avesse portato con sé, ripiegato nel portafoglio, per chissà quanto tempo.
Si chiese quante volte lo avesse riletto nel corso degli anni, tanto lontano dalle colline lungo il Middle River. Se lo immaginò mentre se lo accostava agli occhi, nella luce fioca di una lampada da lettura a bordo di un jet diretto chissà dove, seduto sul pavimento di una capanna di bambù con una torcia elettrica accesa, mentre lo ripiegava e lo riponeva in una notte piovosa a Bellingham, e poi guardava la fotografia di una donna appoggiata al paletto di una staccionata in un mattino d'estate o ripresa nell'atto di emergere da un ponte coperto, al tramonto.


(continua)
auroraageno
00lunedì 14 aprile 2008 00:28

Ciascuna delle tre scatole conteneva una macchina fotografica munita di obiettivo. Erano vecchie, malconce. Rigirandosene una tra le mani, distinse la scritta "Nikon" sul mirino e, nell'angolo in alto a sinistra dell'etichetta, la lettera F. Era la macchina che lei gli aveva teso, quel giorno al Cedar Bridge.
Per ultima, aprì la lettera di lui. Scritta a mano su uno dei suoi fogli intestati, portava la data del 16 agosto 1978.


Cara Francesca,
spero che questa mia ti trovi bene. Non so
quando la riceverai. Quando io me ne sarò già
andato. Ho sessantacinque anni, ormai, e ne sono
passati esattamente tredici dal nostro primo incontro,
quando imboccai il vialetto di casa tua in cerca
di indicazioni sulla strada.
Spero con tutto me stesso che questo pacchetto
non sconvolga in alcun modo la tua vita. Il fatto
è che non sopporto di pensare alle mie macchine
fotografiche sullo scaffale riservato all'attrezzatura
di seconda mano di un negozio o nelle mani di
uno sconosciuto. Saranno in pessime condizioni
quando le riceverai, ma non ho nessun altro a cui
lasciarle e mi scuso per il rischio che forse ti
costringerò a correre mandandotele.
Dal 1965 al 1975 ho viaggiato quasi ininterrottamente.
Nell'intento di allontanarmi almeno
parzialmente dalla tentazione di telefonarti o di
venire a cercarti, tentazione che da sveglio in
pratica non mi lascia mai, ho accettato tutti gli
incarichi oltreoceano che sono riuscito a procurarmi.
Ci sono stati momenti, molti momenti, in cui mi
sono detto: "All'inferno, vado a Winterset e, costi
quel che costi, porto Francesca via con me".
Ma non ho dimenticato le tue parole, e rispetto
i tuoi sentimenti. Forse avevi ragione, non lo so. So
però che uscire dal viale di casa tua, in quella
arroventata mattina di agosto, è stata la prova più
ardua che abbia mai affrontato e che mai avrò
occasione di affrontare. Dubito, in effetti, che molti
uomini ne abbiano vissute di più dure.
Ho lasciato il National Geographic nel
1975 e da allora mi sono dedicato soprattutto a
fotografare ciò che piaceva a me, prendendo il
lavoro là dove potevo, servizi locali o regionali che
non mi impegnavano mai per più di pochi giorni.
Finanziariamente è stata dura, ma tiro avanti.
Come ho sempre fatto.
Buona parte del mio lavoro lo svolgo nella zona
di Puget Sound. Mi va bene così. Pare che
invecchiando gli uomini si rivolgano sempre più spesso
all'acqua.
Ah, sì, adesso ho un cane, un golden retriever.
L'ho chiamato Highway, e lo porto quasi sempre
con me, quando siamo in viaggio, se ne sta con la
testa fuori dal finestrino, in cerca di posti
interessanti da fotografare.
Nel 1972 sono caduto da una rupe nell'Acadia
National Park, nel Maine, e mi sono fratturato
una caviglia. Nella caduta ho perso la catena e la
medaglia, ma fortunatamente non erano finite
lontano. Le ho recuperate e un gioielliere ha provveduto
ad aggiustare la catena.
Vivo con il cuore impolverato. Meglio di così
non saprei metterla. C'erano state delle donne prima
di te, qualcuna, ma nessuna dopo. Non mi sono
votato deliberatamente alla castità: è solo che non
provo alcun interesse.
Una volta ho avuto modo di osservare il
comportamento di un'oca canadese la cui compagna
era stata uccisa dai cacciatori. Si uniscono per la
vita, sai. Dopo l'episodio, ha continuato ad aggirarsi
intorno allo stagno per qualche giorno. L'ultima
volta che l'ho vista, nuotava tutta sola tra il
riso selvatico, ancora alla ricerca. Immagino che
da un punto di vista letterario la mia analogia sia
un po' troppo scontata, ma è più o meno così che mi
sento anch'io.
Con la fantasia, nelle mattine caliginose o nei
pomeriggi in cui il sole si riflette sull'acqua a nord-
ovest, cerco di immaginare dove sei e che cosa stai
facendo. Niente di complicato... ti vedo in giardino,
seduta sulla veranda, in piedi davanti al lavello
della cucina. Cose così.
Ricordo tutto. Il tuo profumo e il tuo sapore, che
erano come l'estate stessa. La tua pelle contro la
mia, e il suono dei tuoi bisbigli mentre ti amavo.
Robert Penn Warren scrisse: "Un mondo che
sembra abbandonato da Dio". Non male, molto
vicino a quello che provo certe volte. Ma non posso
vivere sempre così. Quando la tensione diventa
eccessiva, carico Harry e, in compagnia di
Highway, ritorno sulla strada per qualche giorno.
Commiserarmi non mi piace. Non è nella mia
natura. E in genere non me la passo poi tanto male.
Al contrario, sono felice di averti almeno incontrata.
Avremmo potuto sfiorarci come due frammenti
di polvere cosmica, senza mai sapere nulla l'uno
dell'altra.
Dio o l'universo o qualunque altro nome si
scelga di dare ai grandi sistemi di ordini ed quilibri,
non riconosce il tempo terrestre. Per l'universo,
quattro giorni non sono diversi da quattro miliardi
di anni luce. Per quanto mi riguarda, cerco di
tenerlo sempre a mente.
Ma, dopo tutto, sono un uomo. E tutte le
considerazioni filosofiche non bastano a impedirmi
di desiderarti, ogni giorno, ogni momento, con la
testa piena dello spietato gemito del tempo, del tempo
che non potrò mai vivere con te.
Ti amo, di un amore profondo e totale. E così
sarà sempre.


L'ultimo cowboy,
Robert


P.S. L'estate scorsa ho cambiato il motore a Harry,
e ora va benissimo.



Il pacco era arrivato cinque anni prima. E l'esaminarne il contenuto era divenuto parte dell'annuale rito che lei celebrava il giorno del suo compleanno. Macchine fotografiche, braccialetto, catena e medaglietta erano conservati in una cassetta nell'armadio, fabbricata su suo disegno da un falegname del posto. In legno di noce, aveva chiusura a tenuta ermetica per impedire che vi entrasse la polvere, e l'interno suddiviso in scomparti imbottiti. "Un oggettino piuttosto strano, no?" aveva osservato il falegname. Francesca si era limitata a sorridere.
Il rituale si concludeva con la lettura del dattiloscritto. Lo leggeva sempre a lume di candela, a fine giornata. Andò in soggiorno a prenderlo e lo posò con gesti attenti sul piano di formica gialla, vicino alla candela. Accese l'unica sigaretta che fumava ogni anno, una Camel, bevve un sorso di brandy e cominciò a leggere.




(continua)
auroraageno
00lunedì 14 aprile 2008 08:27


Precipitando dalla dimensione Z


ROBERT KINKAID



Ci sono antichi venti che ancora non sono giunto a capire, sebbene abbia viaggiato, sembrerebbe all'infinito, sulle increspature dei loro dorsi. Mi muovo nella Dimensione Z; il mondo scorre altrove in un'altra piega della realtà, a me parallela. Come se, con le mani in tasca e leggermente chino in avanti, lo vedessi attraverso la vetrina di un grande magazzino.
Nella Dimensione Z ci sono momenti strani. Uscendo da una lunga curva bagnata dalla pioggia del nuovo Messico a ovest di Magdalena, l'autostrada si trasforma in un sentiero e quindi in una pista per animali. Ancora una sventagliata del tergicristalli, e la pista diventa una foresta dove nulla è mai penetrato. Il tergicristalli di nuovo in azione, ed ecco qualcosa di ancora più antico. Ghiaccio infinito, questa volta. Avanzo tra l'erba bassa, coperto di pellicce, con i capelli arruffati e una lancia, sottile e duro come il ghiaccio stesso, tutto muscoli e implacabile astuzia. Oltre il ghiaccio, ancora più indietro lungo la misura delle cose, profonda acqua salata in cui nuoto, munito di branchie e scaglie. Non vedo nient'altro, se non che al di là del plancton è l'unità zero.
Euclide non ebbe sempre ragione. Presupponeva il parallelismo, nella continuità, fino alla fine delle cose; ma anche un'ipotesi non euclidea è possibile, là dove le rette convergono, molto più oltre. Un punto di fuga. L'illusione di convergenza.
E tuttavia so che è più di un'illusione. A volte un incontro è possibile, il riverberarsi di una realtà in un'altra. Una sorta di soave intreccio. Nessuna calibrata intersezione si profilava in un mondo di precisione, nessuna andata e ritorno. Solo... ebbene... il respiro. Sì, questo è il suo suono, e forse la sensazione che dà al tatto. Respiro.
E lentamente mi muovo attraverso quest'altra realtà, e accanto a essa, al di sotto e tutt'intorno, sempre con forza, sempre con potere, eppure concedendomi tutto. Ed essa, sprigionando il proprio potere, si dà a sua volta a me.
Da qualche parte, dentro il respiro, accordi musicali, e poi incomincia la bizzarra danza a spirale, con un metro di misurazione tutto suo che tempera l'uomo del ghiaccio con la lancia e i capelli arruffati. E lentamente - rotolandosi e capitombolando in un adagio, eternamente in un adagio - l'uomo del ghiaccio precipita... dalla Dimensione Z... dentro di lei.





Alla fine del giorno del suo sessantasettesimo compleanno, quando la pioggia era cessata, Francesca ripose la busta di carta di Manila nell'ultimo cassetto della scrivania con alzata avvolgibile. Dopo la morte di Richard, aveva deciso di conservarla nella sua cassetta di sicurezza presso la banca, ma ogni anno in quel periodo la ritirava per qualche giorno. Il coperchio si richiuse sulle macchine fotografiche, e la cassetta in legno di noce venne ricollocata sullo scaffale dell'armadio, in camera sua.
Nel primo pomeriggio era andata al Roseman Bridge. Ora uscì sulla veranda, e dopo aver asciugato la sedia a dondolo con uno strofinaccio, vi si sedette. Faceva freddo, ma sarebbe rimasta lì fuori per qualche minuto, come faceva sempre. Si spinse quindi fino al cancello, dove indugiò un istante. Poi in fondo al viale. Dopo ventidue anni, lo vedeva ancora scendere dal furgoncino nella luce del tardo pomeriggio; vedeva Harry allontanarsi sobbalzando verso la provinciale, poi fermarsi, e Robert Kinkaid in piedi sul predellino, che guardava indietro.








(continua)
auroraageno
00mercoledì 16 aprile 2008 03:05


Una lettera
di Francesca



Francesca Johnson morì nel gennaio del 1989. Aveva sessantanove anni. Se fosse vissuto, Robert Kinkaid ne avrebbe avuti settantasei. Le cause della morte furono definite "naturali". "Si è semplicemente spenta", riferì il medico a Michael e a Carolyn. "Anche se, in effetti, siamo un po' perplessi. Non è stato possibile individuare alcuna causa specifica. Una vicina l'ha trovata accasciata sul tavolo di cucina."
In una lettera scritta nel 1982 al suo legale, Francesca aveva chiesto che i suoi resti fossero cremati e le ceneri sparse nei pressi del Roseman Bridge. La cremazione non era diffusa nella Madison County, considerata com'era una pratica vagamente radicale, e il suo desiderio suscitò innumerevoli discussioni alla stazione di servizio Texaco e presso la rivendita di attrezzi agricoli. Le modalità concernenti la dispersione delle ceneri non vennero invece rese note.
Dopo il servizio funebre, Michael e Carolyn si spinsero in auto fino al Roseman Bridge, per eseguire la volontà di Francesca. Sebbene fosse vicino alla loro casa, il ponte non aveva mai rivestito alcun particolare significato per la famiglia, e non potevano fare a meno di chiedersi perché la madre, una donna dotata di buon senso, avesse fatto quell'enigmatica scelta, invece di chiedere di essere sepolta accanto al marito, come voleva la consuetudine.
Espletata l'incombenza, Michael e Carolyn si dedicarono al compito di vagliare il contenuto della casa, e dopo che il procuratore legale ne ebbe preso visione, ritirarono gli incartamenti conservati nella cassetta di sicurezza.
Si divisero il materiale e cominciarono a esaminarlo. La busta di carta di Manila era nella pila di Carolyn, abbastanza sul fondo. Lei rimase piuttosto sconcertata quando l'aprì e ne estrasse il contenuto. Lesse la lettera che Robert Kinkaid aveva scritto a Francesca nel 1965, poi quella datata 1978 e infine la comunicazione dello studio legale di Seattle. In ultimo scorse i ritagli di giornale.
"Michael."
Lui percepì la sorpresa e la pensosità nella sua voce e alzò subito la testa. "Che cosa c'è?"
Carolyn aveva gli occhi pieni di lacrime. Parlò con voce incerta. "La mamma era innamorata di un uomo che si chiamava Robert Kinkaid. Era un fotografo. Ricordi quel numero del National Geographic con il servizio sui ponti coperti? era stato lui a fotografare quelli della nostra contea. E rammenti come tutti i ragazzi parlavano di un tipo strano che andava in giro carico di macchine fotografiche? Era lui."
Michael sedette di fronte alla sorella, la cravatta allentata, il colletto della camicia sbottonato. "Ripeti tutto da capo, lentamente. Non posso credere di aver capito bene."
Dopo aver letto a sua volta le lettere, Michael frugò nell'armadio al piano terra, poi salì in camera di Francesca. Prima di allora non aveva mai notato la cassetta di legno di noce e si affrettò ad aprirla. La portò di sotto, la posò sul tavolo di cucina. "Ecco le macchine fotografiche."
Ripiegata a un'estremità della cassetta c'era una busta sigillata su cui Francesca aveva scritto: "Per Carolyn e Michael", e infilati tra gli apparecchi c'erano tre diari rilegati in pelle.
"Non sono sicuro di potercela fare", sospirò Michael. "Leggi tu ad alta voce, se te la senti."
La sorella aprì la busta e lesse forte:



(continua)
auroraageno
00giovedì 17 aprile 2008 09:18


7 gennaio 1987

Carissimi Carolyn e Michael,
per quanto mi senta in buona salute, credo che
sia arrivato per me il momento di mettere ordine nei
miei affari (come si dice). C'è qualcosa, qualcosa di
molto importante, che dovete sapere. Ecco perché vi
scrivo questa lettera. Dopo che avrete esaminato il
contenuto della cassetta di sicurezza e trovato la
busta di carta di Manila a me indirizzata con il
timbro postale del 1965, sono certa che non
impiegherete molto a trovare anche questa lettera. Se
possibile, leggetela seduti al vecchio tavolo di cucina.
Fra poco capirete il motivo di questa mia richiesta.
E' difficile per me parlare di queste cose con i miei
figli, ma devo farlo. C'è qualcosa che è troppo
intenso e troppo bello per lasciare che muoia con me.
E se volete sapere com'era vostra madre nel bene e nel
male, è giusto che veniate a conoscenza di quanto
sto per dirvi. Tenetevi forte.
Come avrete già scoperto, il suo nome era Robert
Kinkaid. Il suo secondo nome cominciava per L. ma
non ho mai saputo quale fosse. Era un fotografo, e
venne qui nel 1965 per fotografare i ponti coperti.
Ricordate l'eccitazione in città, quando il servizio
comparve sul National Geographic? Forse
ricorderete anche che più o meno a quell'epoca io mi
abbonai alla rivista. Ora conoscete anche la
ragione del mio improvviso interesse per il National.
A proposito, ero con lui (e portavo uno dei suoi
zaini con le macchine fotografiche) quando scattò
la foto del Cedar Bridge.
Cercate di capire: ho amato vostro padre, l'ho
amato di un amore tranquillo. Lo sapevo allora e lo
so adesso. Era buono con me e mi ha dato voi due,
che amo infinitamente. Non dimenticatelo.
Ma Robert Kinkaid era diverso, diverso da
chiunque abbia conosciuto o di cui abbia sentito
parlare in tutta la mia vita. E' impossibile riuscire
a farvi comprendere appieno la sua natura. Tanto
per cominciare, voi non siete me. Secondo, avreste
dovuto stare con lui, guardarlo muoversi, ascoltarlo
parlare mentre spiegava di far parte di un ramo
dell'evoluzione ormai estinto. Forse i diari e i ritagli
vi saranno di aiuto, ma certo non saranno sufficienti.
Per un certo verso, non era di questa terra. Non
saprei esprimermi diversamente. Ho sempre pensato
a lui come a una creatura simile al leopardo, che
cavalcava la coda di una cometa. Era così che si
muoveva, e così era il suo corpo. In lui, un'intensità
stupefacente si mescolava al calore e alla gentilezza,
ed egli emanava un indefinito senso di tragedia.
Sentiva di stare diventando sempre più obsoleto in
un mondo di computer e di robot, governato
dall'organizzazione. Si considerava l'ultimo cowboy,
sono parole sue, e si definiva antiquato.
La prima volta che lo vidi fu quando si fermò nel
nostro cortile a chiedermi la strada per il Roseman
Bridge. Voi tre eravate nell'Illinois, alla fiera. Vi
assicuro, non ero in cerca di avventure. Quello era
il mio ultimo pensiero. Ma mi bastò guardarlo per
pochi secondi per capire che lo volevo, anche se non
ancora con l'intensità con cui alla fine giunsi a
desiderarlo.
Vi prego, non pensate a lui come a una specie di
Casanova che vagabondava per la campagna in
cerca di ragazze ingenue da sedurre. Non era
affatto così. Anzi, era un po' timido, e io non sono
meno responsabile di lui per quello che accadde.
Forse lo sono in misura maggiore. Il biglietto che
troverete insieme con il suo braccialetto è quello che
gli lasciai al Roseman Bridge, in modo che lui lo
trovasse il mattino successivo al nostro primo
incontro. Oltre alle fotografie che mi ha scattato,
è questa l'unica prova che ha mai avuto della mia
esistenza, del fatto che non ero stata solo un sogno.
So che i figli tendono a pensare ai propri genitori
come a individui asessuati, e spero che quanto sto
per dirvi non sia uno choc per voi, e che non
modifichi il ricordo che avete di me.



(continua)
auroraageno
00venerdì 18 aprile 2008 03:33

Robert e io trascorremmo molte ore nella nostra
vecchia cucina. Parlammo e ballammo a lume di
candela. E sì, facemmo l'amore, lì e in camera e
sull'erba del pascolo, e più o meno in qualunque
altro posto a cui possiate pensare. Era un amore
incredibile, intensissimo, trascendente, e si protrasse
per giorni, quasi ininterrottamente. Pensando a lui,
una delle parole che ho usato più di frequente è
"potente". Perché così era giunto a essere quando
ci incontrammo.
La sua intensità era acuta come una freccia. Io
ero del tutto inerme quando faceva l'amore con me.
Non debole, no. Soltanto... sopraffatta dalla sua
potenza emotiva e fisica. Una volta glielo dissi e lui
rispose semplicemente: "Io sono l'autostrada e un
pellegrino e tutte le vele che hanno mai solcato
il mare".
Più tardi controllai sul dizionario. Di solito, il
termine "pellegrino" evoca l'immagine di "falco".
Ma esistono altri significati e certo lui li conosceva.
Uno di questi è "straniero, forestiero". Un altro
"chi vagabonda o compie un pellegrinaggio".
Deriva dal latino peregrinus, che significa straniero.
Lui era tutte queste cose... uno straniero nel senso
più ampio del termine, un errante e, ora che ci penso,
era anche simile a un falco.
Figlioli, sforzatevi di capire che sto cercando di
esprimere ciò che non può essere formulato in parole.
Vorrei soltanto che un giorno anche voi provaste
quello che io ho provato... anche se comincio a
dubitare che sia possibile. Sebbene forse possa
apparire un po' antiquato dire certe cose nella
nostra epoca illuminata, non credo che sia possibile
trovare in un uomo il particolare potere di cui
Robert Kinkaid era dotato. Questo ti mette fuori
gioco, Michael. Quanto a Carolyn, temo che la
brutta notizia sia che come lui ce n'era uno e uno
soltanto.
Se non fosse stato per vostro padre, e per voi due,
lo avrei seguito ovunque, senza esitazioni. Mi
chiese di farlo, mi supplicò di seguirlo. Ma io non
volli, e lui era una persona troppo sensibile e attenta
per interferire nelle nostre vite.
Ma ecco l'aspetto paradossale: se non fosse
stato per Robert Kinkaid, non credo che sarei
rimasta alla fattoria per tutti questi anni. In quattro
giorni, mi regalò una vita intera, un universo,
e ricompose i frammenti del mio essere in un tutto.
Non ho mai smesso di pensare a lui, neppure per un
istante. Anche se non lo ricordavo consciamente, lo
sentivo vicino a me, c'era sempre.
Ma tutto questo non ha mai sminuito l'affetto
che provavo per voi e per vostro padre. Pensando
solo a me stessa, non sono sicura di avere preso la
decisione giusta. Ma se prendo in considerazione la
famiglia, allora ne ho la certezza.
Devo tuttavia essere sincera e dirvi che fin
dall'inizio Robert comprese meglio di me la realtà
che insieme avevamo creato. Da parte mia, credo di
averla compresa appieno solo gradatamente, con il
passare degli anni. Perché se l'avessi capita allora,
quando lui mi stava davanti e mi chiedeva di
seguirlo, probabilmente lo avrei fatto.
Robert era dell'avviso che il mondo fosse divenuto
troppo razionale, che avesse cessato di confidare
nella magia, come invece sarebbe giusto. Mi
sono chiesta spesso se anche la mia scelta non fu
troppo razionale.
Sono certa che le mie disposizioni riguardo alla
sepoltura vi saranno apparse incomprensibili, e che
le avrete forse attribuite alla mente confusa di una
vecchia. Ma dopo aver letta la lettera che l'avvocato
di Seattle mi scrisse nel 1982, forse tutto vi
sarà più chiaro. Alla famiglia ho dato la mia vita,
Robert Kinkaid avrà ciò che resta di me.
Credo che Richard intuisse che in me c'era
qualcosa a cui non poteva arrivare, e a volte mi
chiedo se non abbia trovato la busta, all'epoca in
cui la conservavo a casa, nel cassettone. Poco
prima di morire, mentre sedevo al suo capezzale
all'ospedale di Des Moines, mi disse: "Francesca,
so che anche tu hai avuto i tuoi sogni. Mi dispiace
di non essere stato io a esaudirli". E' stato il
momento più toccante della nostra vita in comune.



(continua)

auroraageno
00sabato 19 aprile 2008 02:35

Non voglio che vi sentiate in colpa o proviate
pietà per me. Non è questo l'intento della mia lettera.
Voglio soltanto che sappiate quanto ho amato
Robert Kinkaid. Giorno dopo giorno, per tutti
questi anni, ho vissuto nella consapevolezza di
questo amore. Come ha fatto lui.
Pur non essendoci mai più parlati, siamo rimasti
uniti per quanto è possibile esserlo a due esseri
umani. Non conosco le parole per spiegarvi in
modo adeguato questo legame. Lui ci riuscì meglio
quando disse che avevamo smesso di essere due
persone distinte per diventarne una terza, creata dal
nostro amore. Nessuno dei due esisteva al di fuori
di questa entità. Ed essa era stata lasciata libera di
vagabondare dove volesse.
Carolyn, ricordi quel terribile litigio che avemmo
a proposito del mio vestito rosa chiaro? Tu
l'avevi notato e lo volevi. Dicesti che non ricordavi
di avermelo mai visto addosso, perché allora non
poteva essere adattato per te? Quello era il vestito
che portavo la sera in cui Robert e io facemmo
l'amore per la prima volta. In tutta la mia vita non
ero mai stata così bella. L'abito era il piccolo,
sciocco ricordo rimastomi di quella sera. Ecco
perché non lo indossai mai più e perché mi rifiutai
di dartelo.
Dopo la partenza di Robert, nel 1965, mi resi
conto che di lui sapevo molto poco. Mi riferisco alla
sua storia e alla sua famiglia. Anche se sono
convinta di aver appreso su di lui tutto il resto, tutto
quello che contava davvero, in quei brevi giorni
insieme. Era figlio unico, i suoi genitori erano
morti, ed era nato in una cittadina dell'Ohio.
Non so neppure se sia stato all'università o al
liceo, ma aveva un'intelligenza pronta, primitiva,
immediata, quasi mistica. Ah, sì, era stato fotografo
di guerra con i marines nel Pacifico meridionale,
durante la seconda guerra mondiale.
Era stato sposato, ma aveva divorziato molto
tempo prima di conoscermi. Non aveva figli. Sua
moglie era una musicista, una cantante folk, mi
disse, e le lunghe assenze di Robert si erano rivelate
fatali per il loro matrimonio. Lui si attribuiva la
responsabilità del loro fallimento.
Per quanto ne so, Robert non aveva altri congiunti.
Vi chiedo di accoglierlo nella nostra famiglia,
anche se so che in un primo tempo vi risulterà
arduo. Io almeno ho avuto una famiglia, una vita
da dividere con altri. Robert era solo. Non era
giusto e me ne rendevo conto.
Preferirei, almeno credo, per rispetto verso la
memoria di Richard e perché alla gente piace
parlare, che tutto questo rimanesse tra noi. Ma
lascio a voi decidere.
In ogni caso, è certo che non mi vergogno affatto
di quello che Robert Kinkaid e io abbiamo condiviso.
Al contrario. L'ho amato disperatamente per
tutti questi anni, anche se, per ragioni mie, solo una
volta ho cercato di mettermi in contatto con lui. E'
stato dopo la morte di vostro padre. Il mio tentativo
fallì e, poiché avevo paura che gli fosse accaduto
qualcosa, non lo ripetei. Il fatto è che non avevo il
coraggio di affrontare la realtà. Potete quindi
immaginare come mi sentii quando, nel 1982,
arrivò il pacchetto accompagnato dalla lettera
dell'avvocato.
Come ho detto, spero che capirete e non penserete
male di me. Se mi amate, allora dovete amare anche
ciò che ho fatto.
Robert Kinkaid mi ha insegnato che cosa significhi
essere donna, in un modo che poche donne,
forse nessuna, hanno mai sperimentato. Era gentile
e infinitamente caro, e senza alcun dubbio merita il
vostro rispetto e forse anche il vostro amore. Spero
che glieli concederete entrambi. A modo suo, attraverso
di me, è stato buono con voi.
Siate felici, bambini miei.

La mamma



(continua)
auroraageno
00sabato 19 aprile 2008 08:42


C'era silenzio nella vecchia cucina. Michael tirò un profondo respiro e girò la testa verso la finestra. Carolyn si guardava intorno: guardava il lavello, il pavimento, il tavolo.
Quando parlò, la sua voce era poco più di un bisbiglio: "Oh, Michael, Michael, tutti quegli anni a desiderarsi così disperatamente. Ha rinunciato a lui per il bene nostro e di papà. E Robert Kinkaid si è tenuto lontano perché rispettava i suoi sentimenti per noi. Quasi non riesco a sopportarlo. Abbiamo un atteggiamento tanto noncurante nei confronti dei nostri matrimoni, ed eravamo parte della ragione per cui un'incredibile storia d'amore è finita com'è finita.
"Hanno avuto quattro giorni, quattro giorni soltanto. In una vita intera. Fu quando noi andammo a quella ridicola fiera nell'Illinois. Guarda la foto della mamma. Non l'ho mai vista così. E' bellissima, e non grazie alla foto. Era lui a renderla così. Guardala; libera e selvaggia. Con i capelli al vento, il viso pieno di vita. E' magnifica."
"Gesù", fu tutto quello che Michael riuscì a dire, asciugandosi la fronte con lo strofinaccio e tamponandosi gli occhi quando Carolyn non lo guardava.
Lei parlò di nuovo. "A quanto pare, in tutti questi anni lui non ha mai tentato di contattarla. E dev'essere morto in solitudine; ecco perché le ha spedito le macchine fotografiche.
"Ricordo la lite a proposito del vestito rosa. Andò avanti per giorni. Io piangevo e insistevo per sapere perché non voleva darmelo. Poi smisi di rivolgerle la parola. Ma tutto quello che lei disse fu: 'No, Carolyn, quello no'."
Michael pensava al vecchio tavolo a cui erano seduti. Ora capiva perché Francesca gli aveva chiesto di riportarlo in cucina, dopo la morte del marito.
Carolyn aprì la piccola busta imbottita. "Ecco il braccialetto, e la catena d'argento con la medaglietta. Ecco il biglietto di cui la mamma parla nella sua lettera, quello che aveva lasciato al Roseman Bridge. E' visibile nella foto del ponte che lui le spedì. Michael, che cosa dobbiamo fare? Pensaci, io torno fra un momento."
Corse di sopra, per ricomparire quasi subito con l'abito rosa accuratamente avvolto nella plastica. Lo tirò fuori, sollevandolo perché il fratello lo vedesse.
"Immaginatela con questo addosso mentre balla con lui, qui in cucina. Pensa a tutto il tempo che abbiamo passato in questa stanza e alle immagini che certo le sfilavano davanti agli occhi mentre cucinava e sedeva qui con noi, parlando dei nostri problemi, del college da scegliere, della difficoltà di far funzionare un matrimonio. Dio, paragonati a lei siamo talmente sciocchi e infantili."
Con un cenno d'assenso, Michael si accostò ai mobiletti montati sopra il lavello. "Credi che la mamma tenesse qualcosa di forte da bere? Dio sa se ne ho bisogno. E per rispondere alla tua domanda, non ho idea di che cosa dobbiamo fare."
Rovistando negli armadietti, scovò una bottiglia di brandy semivuota. "Ce n'è abbastanza per due, Carolyn. Ne vuoi un goccio?"
"Sì."
Michael prese gli unici due bicchieri da brandy e li posò sul ripiano di formica gialla. Vi vuotò l'ultima bottiglia di Francesca, mentre Carolyn attaccava a leggere il primo volume del diario. "Robert Kinkaid arrivò il sedici agosto del 1965, un lunedì. Stava cercando il Roseman Bridge. Era tardo pomeriggio, faceva caldo e lui era al volante di un pickup che chiamava Harry..."











(continua)
auroraageno
00sabato 19 aprile 2008 19:21


Poscritto:
Il Caprimulgo
di Tacoma





Mentre scrivevo la storia di Robert Kinkaid e Francesca Johnson, mi scoprii sempre più affascinato dal fotografo di cui si sapeva così poco. Poche settimane prima che il libro venisse dato alle stampe, volai a Seattle in cerca di ulteriori informazioni sul suo conto.
Dato che amava la musica ed era lui stesso un artista, pensavo che qualche rappresentante della comunità artistica e musicale di Puget Sound potesse averlo conosciuto. Trovai aiuto nel direttore artistico del Seattle Times. Sebbene non avesse conosciuto personalmente Kinkaid, mi consentì l'accesso alle relative rubriche del giornale nell'arco di tempo compreso tra il 1975 e il 1982, ossia il periodo a cui ero particolarmente interessato.
Esaminando i numeri del 1980, mi imbattei nella foto di un musicista jazz di colore, il sassofonista John «Caprimulgo» Cummings. La foto portava la firma di Robert Kinkaid. Il locale sindacato musicisti mi fornì il recapito di Cummings, informandomi che si era ritirato dalle scene già da qualche anno. L'indirizzo era quello di una strada secondaria nei pressi di un quartiere industriale di Tacoma, non lontano dall'autostrada che scende da Seattle.
Dovetti tornare all'appartamento di Cummings parecchie volte prima di trovarlo a casa. In un primo tempo l'ex sassofonista si mostrò diffidente, ma quando lo ebbi convinto del mio genuino e benevolo interesse nei confronti di Kinkaid, divenne molto più cordiale e aperto. Quella che segue è la trascrizione, solo leggermente ritoccata, della mia intervista a Cummings, che all'epoca del nostro incontro aveva settant'anni. Io non feci altro che accendere il registratore e ascoltarlo parlare di Robert Kinkaid.


Intervista con «Caprimulgo» Cummings

Ero stato ingaggiato da Shorty, a Seattle, dove abitavo a quel tempo, e mi serviva una foto in bianco e nero per farmi pubblicità. Il bassista mi disse che su una delle isole viveva un fotografo che ci sapeva fare. Dato che non aveva il telefono, gli mandai una cartolina.
Arrivò. Un tipo strano, abbastanza anziano, in jeans, stivali e bretelle arancioni. Tira fuori certe macchine fotografiche così conciate che si faceva fatica a credere che funzionassero, e io penso: Uh-oh. Mi fa mettere contro una parete dipinta di chiaro con il mio sax e mi dice di suonare. Suono. Per i primi tre minuti lui se ne sta lì a fissarmi, e intendo fissarmi sul serio; aveva gli occhi azzurri più freddi che abbia mai visto.
Dopo un po' comincia a scattare. Poi mi chiede se conosco Autumn Leaves. Gli dico di sì e attacco il pezzo. Suono per dieci minuti buoni, mentre lui si dà un gran da fare, scattando una foto dopo l'altra. Alla fine dice: "Okay, ho finito. Gliele porto domani".
Il giorno dopo, quando arriva con le foto, io resto secco. Mi sono fatto fare un sacco di fotografie nella vita, ma quelle erano di gran lunga le migliori. Mi chiese cinquanta dollari, una miseria, mi sembrò. Lui mi ringraziò e prima di andarsene mi chiese dove mi esibivo. "Da Shorty", risposi io.
Qualche sera dopo, guardo tra il pubblico e lo vedo seduto a un tavolo d'angolo, che ascolta tutto intento. Be', da quel giorno cominciò a venire una volta alla settimana, sempre il martedì, e beveva sempre birra; senza mai esagerare, però.
A volte, durante una pausa, andavo a scambiare quattro chiacchiere con lui. Era un tipo tranquillo, non parlava molto, ma era gradevole, educato, e tutte le volte mi chiedeva di suonargli Autumn Leaves.
Con il tempo arrivammo a conoscerci un po' meglio. A me piaceva scendere al porto per guardare il mare e le navi, e saltò fuori che piaceva anche a lui. Così prendemmo a passare interi pomeriggi seduti su una panchina, a parlare. Solo un paio di vecchietti che se la prendono comoda, perché cominciano a sentirsi un po' inutili, un po' sorpassati.
Portava sempre il suo cane con sé. Un bel cane. Si chiamava Highway.
Capiva la magia. Anche i musicisti jazz la capiscono. Probabilmente è per questo che andavamo d'accordo. Suoni un brano che in passato hai già suonato mille volte, e di colpo un sacco di idee nuove sgorgano dal tuo strumento, senza che tu te ne renda neppure conto. Lui diceva che era così anche per la fotografia, e per la vita in generale. Un giorno aggiunse: "E quando si fa l'amore con la donna che si ama".
Stava lavorando a qualcosa in cui cercava di trasformare la musica in immagini. Mi disse: "John, hai presente quel riff che suoni quasi sempre nella quarta battuta di Sophisticated Lady? Be', credo di essere riuscito a riportarlo su pellicola, l'altra mattina. La luce sull'acqua era quella giusta e c'era un airone azzurro che continuava a volteggiare nel mirino. Vedevo il tuo riff mentre lo ascoltavo e premevo il pulsante di scatto".
Dedicava tutto il suo tempo a questa faccenda della musica tradotta in immagini. Ne era ossessionato. Non so come facesse a mantenersi.
Non parlava mai molto di se stesso. Sapevo che aveva viaggiato parecchio per lavoro, ma questo fu tutto fino al giorno in cui gli chiesi che cosa fosse la medaglietta che portava al collo. Guardandola da vicino, avevo notato che vi era inciso il nome Francesca. Così gli domandai: "Significa qualcosa di speciale?"
Lui per un po' non rispose; fissava l'acqua in silenzio. Poi disse: "Quanto tempo hai?"
Be', era lunedì, la mia serata libera; gli assicurai che ne avevo in abbondanza.
Cominciò a parlare. Era come se qualcuno avesse improvvisamente aperto un rubinetto. Parlò per tutto il pomeriggio e per buona parte della notte. Ebbi l'impressione che si fosse tenuto tutto dentro per un'infinità di tempo.
Non pronunciò mai il cognome della donna, e neppure il luogo in cui tutto era successo. Ma, ragazzi, quel Robert Kinkaid diventava poeta quando parlava di lei. Doveva essere stata qualcosa di realmente speciale, una signora fuori del comune. Cominciò citando un racconto che aveva scritto per lei... qualcosa a proposito della Dimensione Z, ricordo. Rammento di aver pensato che assomigliava a una di quelle improvvisazioni di Ornette Coleman.
E, ragazzi, mentre parlava, piangeva. Grosse lacrime, di quelle che solo un vecchio può versare, di quelle che per metterle in musica ci vuole un sassofono. Fu allora che capii perché mi chiedeva sempre di suonare Autumn Leaves. E incominciai a volergli bene. Chiunque sia capace di provare certe cose per una donna merita di essere amato.
Così cominciai a pensarci... al potere di questa cosa che lui e la donna condividevano. A quelli che lui chiamava gli «antichi istinti». E mi dissi: "Devo riuscire a mettere in musica questo potere, questa storia d'amore, devo far uscire questi antichi istinti dal mio sax". C'era qualcosa di maledettamente lirico in quello che mi aveva raccontato.
Fu così che scrissi il brano... ci impiegai tre mesi. Volevo che fosse semplice, elegante. E' facile realizzare le cose complicate. Ma la semplicità è difficile da raggiungere. Ci lavorai ogni giorno finché non sentii di essere sulla strada giusta. Ci detti dentro ancora per un po' e buttai giù una partitura per pianoforte e basso. E una sera lo suonai.
Lui era tra il pubblico; martedì sera, come al solito. Era una serata fiacca, non più di venti persone in tutto, e nessuno che facesse particolare attenzione all'orchestra.
Se ne stava seduto lì, tranquillo come sempre, ad ascoltare, e a un certo punto io presi il microfono e dissi: "Ora vi suonerò un pezzo che ho scritto per un mio amico. Si intitola Francesca".
Mentre parlavo lo tenevo d'occhio. Fissava la bottiglia di birra, ma quando dissi Francesca, alzò lentamente lo sguardo, si ravviò i lunghi capelli grigi con entrambe le mani, accese una Camel e mi puntò addosso quei suoi occhi azzurri.
Non ho mai più suonato come quella sera, quando feci piangere il mio sax per tutti gli anni e i chilometri che dividevano quei due. Nella prima aria c'era un breve motivo melodico che in qualche modo scandiva il nome di lei... Fran... ce... sca.
Quando finii, per un istante lui rimase seduto, le spalle ben dritte, poi sorrise annuendo, pagò il conto e se ne andò. Da quella sera, quando c'era lui suonai sempre quella canzone. Per ringraziarmi, fece incorniciare una fotografia che raffigurava un vecchio ponte coperto e me la regalò. E' appesa lì, sulla parete. Non mi rivelò mai dove l'avesse scattata, ma sotto la sua firma c'è scritto «Roseman Bridge».
Un martedì sera, sette o forse otto anni fa, non venne. E neppure la settimana successiva. Penso, magari è ammalato o qualcosa del genere. Preoccupato, vado al porto, comincio a chiedere in giro. Nessuno ne sa nulla. Alla fine raggiungo in barca l'isola su cui viveva. Stava in un vecchio chalet, una baracca, in effetti, vicino alla riva.
Mentre mi guardo intorno, arriva un vicino e mi chiede che cosa sto facendo lì. Glielo spiego e quello mi dice che il fotografo è morto dieci giorni prima. Ragazzi, se mi fece male. Fa male ancora adesso. Quel tipo mi piaceva un sacco. C'era qualcosa in lui, qualcosa. Avevo la sensazione che sapesse cose di cui il resto di noi non sa niente.
Chiedo al vicino notizie del cane. Non ne sa nulla. Dice che non conosceva neppure Kinkaid. Allora chiamo il canile municipale, e sì, mi dicono, il vecchio Highway è da loro. Vado a prenderlo e lo affido a mio nipote. L'ultima volta che l'ho visto, lui e il ragazzino erano proprio innamorati. Mi ha fatto un gran piacere.
Questo è tutto, direi. Non molto tempo dopo aver saputo della morte di Kinkaid, il braccio sinistro cominciò a darmi delle noie: si intorpidiva ogni volta che suonavo per più di venti minuti di fila. Un problema di vertebre, pare. Così mi sono ritirato.
Ma, ragazzi, sono ossessionato dalla storia che mi raccontò, la storia sua e della donna. E' per questo che ogni martedì sera tiro fuori il mio sax e suono il pezzo che ho composto per lui. Lo suono qui, tutto solo.
E mentre suono, guardo la fotografia che lui mi regalò. C'è qualcosa in quella foto, non so che cosa sia, ma quando suono la sua canzone non riesco a smettere di guardarla.
Me ne sto lì, verso il crepuscolo, e faccio piangere il mio sax e suono per un uomo che si chiamava Robert Kinkaid e una donna a cui lui dava il nome di Francesca.





















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