I PONTI DI MADISON COUNTY- di Robert James Waller - Romanzo completo - Per adulti

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auroraageno
00martedì 26 febbraio 2008 20:58
I PONTI DI MADISON COUNTY





I PONTI DI MADISON COUNTY
è la storia di Robert Kinkaid, fotografo di fama, e Francesca Johnson, moglie di un agricoltore. Kinkaid, singolare quasi mistico viaggiatore dei deserti asiatici, di fiumi lontani, di antiche città, è un uomo che quasi non appartiene al suo tempo. Francesca Johnson, un'italiana giunta in America come sposa di guerra, vive tra le colline dello Iowa meridionale e, di tanto in tanto, torna col pensiero ai suoi sogni di ragazza. Nessuno dei due ha mai cercato qualcosa di diverso da ciò che ha, ma quando Robert, in viaggio per un servizio, entra nel cortile di lei per chiedere un'informazione, il ritmo delle loro esistenze si spezza sotto la forza di un'emozione inesprimibile. L'incontro fra Robert e Francesca diventa rapidamente un legame profondo e ciò che accade durante pochi giorni di una torrida estate, presso i vecchi ponti coperti di Madison County, è per entrambi un'esperienza così intensa da trasfigurare i luoghi consueti e i gesti quotidiani. I momenti trascorsi insieme diventano un patrimonio raro e prezioso di sentimenti a cui attingere per il resto della vita e che sopravviverà a loro stessi. Una storia appassionante, che riscopre nell'amore la forza originaria dell'esistenza, una vicenda profondamente commovente, espressa in una prosa lirica, che consacra Robert James Waller autore fra i più rappresentativi della nuova narrativa americana.


Titolo originale: The Bridges of Madison County
Traduzione di Maria Barbara Piccioli
1993 - Edizioni Frassinelli







I PONTI DI MADISON COUNTY - di Robert James Waller




Ai pellegrini



L'inizio



Ci sono canzoni che nascono dall'erba punteggiata d'azzurro, dalla polvere di migliaia di strade di campagna. Questa ne incarna la poesia. E' un tardo pomeriggio dell'autunno del 1989, io sono seduto alla mia scrivania, guardando il cursore che ammicca sul video del computer davanti a me, quando squilla il telefono.
All'altro capo del filo c'è un ex abitante dello Iowa, di nome Michael Johnson, che ora vive in Florida. Un amico gli ha inviato uno dei miei libri. Michael Johnson l'ha letto, l'ha letto anche sua sorella Carolyn, e hanno da propormi una storia che credono possa interessarmi. Johnson è piuttosto circospetto, si rifiuta di aggiungere altro in proposito, se non che lui e Carolyn sono disposti a venire nello Iowa per parlarne con me.
Che siano pronti a tanto mi intriga, a dispetto del mio scetticismo nei confronti di simili proposte. Acconsento quindi a incontrarli a Des Moines la settimana successiva. Le presentazioni hanno luogo in un Holiday Inn nei pressi dell'aeroporto, l'impaccio gradualmente scema e i due si siedono di fronte a me, mentre fuori scende la sera e cade una neve leggera.
Mi strappano una promessa. Se deciderò di non scrivere la loro storia, non dovrò mai rivelare nulla di quanto accadde nella Madison County nel 1965, né di altri eventi correlati che si verificarono nel corso dei ventiquattro anni successivi. Nessun problema, è una richiesta ragionevole. Dopo tutto, è la loro storia, non la mia.
Così ascolto. Ascolto con attenzione e faccio domande precise. E loro parlano. Parlano ininterrottamente . In certi momenti Carolyn piange apertamente e Michael si sforza di non imitarla. Mi mostrano dei documenti, dei ritagli di giornale e alcuni diari appartenuti alla loro madre, Francesca.
Il cameriere entra ed esce dalla camera. Ordiniamo dell'altro caffè. E mentre loro parlano, io comincio a vedere le immagini. E' necessario evocare le immagini, prima; solo in seguito arrivano le parole. Ed ecco che incomincio a sentire le parole, incomincio a vederle scritte sulla pagina. A un certo punto, la mezzanotte è passata da poco, accetto di scrivere la storia... o almeno di provarci.
Non era stato facile per i Johnson decidere di rendere di pubblico dominio il materiale in loro possesso. Le circostanze sono delicate, coinvolgono la loro madre e, più indirettamente, anche il padre. Erano quindi ben consci del rischio di scatenare pettegolezzi di cattivo gusto e di svilire il ricordo, quale che fosse, che la gente serbava di Francesca e Richard Johnson.
Ciononostante, in un mondo dove l'impegno personale in ogni suo aspetto sembra agonizzare, e l'amore è diventato una questione di convenienza, entrambi sentivano che valeva la pena raccontare questa meravigliosa storia. Ritenni allora, e ritengo oggi con convinzione ancora maggiore, che fossero nel giusto.
Nel corso del lavoro di ricerca e della stesura vera e propria, chiesi a Michael e a Carolyn altri tre incontri, e ogni volta loro non esitarono a raggiungermi nello Iowa senza protestare. Tanta era la loro ansia di fare tutto il possibile perché la storia venisse narrata nel modo più accurato. A volte ci limitavamo a parlare, a volte percorrevamo lentamente le strade della Madison County e loro mi indicavano i luoghi che nella storia avevano rivestito un ruolo di qualche significato.
Oltre che sui contributi di Michael e di Carolyn, la storia così come ve la propongo si basa sulle informazioni contenute nei diari di Francesca Johnson; su ricerche condotte negli Stati Uniti nordoccidentali e su altre, espletate con discrezione nalla Madison County, su spunti ricavati dai servizi fotografici di Robert Kincaid, sull'assistenza prestata da redattori di riviste; su informazioni fornite da produttori di pellicole e materiale fotografico, e su lunghe discussioni con svariati e meravigliosi anziani ospiti della casa di riposo di Barnesville, che si ricordavano di Kincaid ragazzo.
Ma, a dispetto dell'impegno investigativo, permangono delle lacune. Per colmarle ho aggiunto qua e là qualcosa di mio, ma solo quando ero in grado di avanzare ipotesi ben meditate, frutto della familiarità che avervo acquisito con Francesca Johnson e Robert Kinkaid nel corso del lavoro di ricerca. Sono certo di essermi avvicinato molto a ciò che realmente avvenne.
Una delle lacune maggiori concerne i particolari di un viaggio che Kinkaid effettuò negli Stati Uniti settentrionali. Sappiamo che il viaggio avvenne grazie a un certo numero di forografie successivamente pubblicate, a un breve accenno che Francesca Johnson ne fa nel suo diario e ad alcuni appunti scritti a mano che il fotografo lasciò a un redattore. Basandomi su queste informazioni, percorsi quello che credo sia stato l'itinerario che, nell'agosto del 1965, portò Kinkaid da Bellingham alla Madison County. Alla fine del mio vagabondaggio, mentre mi dirigevo verso la Madison County, mi parve per molti versi di essere diventato Robert Kinkaid.
Nondimeno, il tentativo di catturare l'essenza di Kinkaid ha costituito la parte più impegnativa della ricerca così come della stesura. La sua è una figura elusiva. A volte appare come un individuo del tutto comune. A volte è etereo, forse addirittura spettrale. Nel suo campo era un professionista eccellente e tuttavia si considerava uno strano tipo di animale, obsoleto e prossimo all'estinzione in un mondo che sempre di più privilegia l'organizzazione. In un'occasione parlò dello « spietato gemito » del tempo che gli echeggiava nella testa, e Francesca Johnson lo descrisse come un essere che viveva « in luoghi strani, tormentati, molto addietro nelle ramificazioni della logica di Darwin ».
Altri due affascinanti interrogativi sono tuttora senza risposta. Primp, non siamo stati in grado di scoprire la sorte che toccò agli archivi fotografici di Kinkaid. Data la natura del suo lavoro, avrebbero dovuto esserci migliaia, probabilmernte centinaia di migliaia di fotografie. Ma non sono mai state ritrovate. L'ipotesi che ci sembra più attendibile, e coerente con la visione che lui aveva di sé e del proprio posto nel mondo, è che le abbia distrutte prima di morire.
La seconda questione attiene all'arco di tempo compreso tra gli anni 1975 e 1982. Le informazioni relative a questo periodo sono scarsissime. Sappiamo che per parecchi anni Kinkaid si guadagnò a stento di che vivere lavorando come fotografo ritrattista a Seattle e che continuò a fotografare la zona di Puget Sound. Ma questo è tutto. Un particolare interessante è dato dal fatto che tutte le comunicazioni inviategli all'epoca dalla Previdenza Sociale e dall'Associazione ex combattenti tornarono indietro con le parole « Restituire al mittente » scritte di suo pugno.
La preparazione e la stesura di questo libro hanno modificato la mia visione del mondo, trasformato il mio modo di pensare e, soprattutto, hanno diminuito il cinismo con cui guardo alle potenzialità insite nelle relazioni umane. Arrivando a conoscere Francesca Johson e Robert Kinkaid come ho avuto occasione di fare durante le ricerche, ho scoperto che i limiti di tali relazioni possono estendersi molto più di quanto avessi creduto fino a quel momento. Forse, leggendo questo racconto, farete anche voi la stessa esperienza.
Non sarà facile. In un mondo sempre più indifferente, noi tutti abbiamo imparato a sopravvivere protetti da una spessa corazza. Dove si dilegui la grande passione e abbia inizio la sdolcinatezza, non lo so per certo. Ma la nostra propensione a negare la possibilità della prima e a etichettare sentimenti genuini e profondi come svenevolezze rende difficile l'accesso al reame di gentilezza che, solo, consente di capire la storia di Francesca Johnson e Robert Kinkaid. Da parte mia, so di aver dovuto vincere questa tendenza prima di poter cominciare a scrivere.
Se, in ogni caso, vi accosterete alle pagine che seguono con una compiacente sospensione dell'incredulità, come dice Coleridge, sono certo che vivrete anche voi la mia stessa esperienza. Forse, negli spazi d'indifferenza del vostro cuore, ne troverete perfino uno, come accadde a Francesca Johnson, per ballare ancora.



auroraageno
00martedì 26 febbraio 2008 21:02
I

P O N T I

D I

M A D I S O N

C O U N T Y





Robert Kinkaid


La mattina dell'8 agosto 1965, Robert Kinkaid chiuse a chiave la porta del suo piccolo bilocale al terzo piano di un asimmetrico edificio di Bellingham. Con uno zaino pieno di attrezzature fotogragiche e una valigia scese le scale di legno, percorse un corridoio e uscì sul retro dove, in uno degli spazi riservati agli inquilini dello stabile, era parcheggiato il suo pickup Chevrolet.
Un altro zaino, una frigoborsa di medie dimensioni, due cavalletti, stecche di sigarette Camel, un thermos e un sacchetto di frutta erano già sul furgone. Nel vano bagagli c'era la custodia di una chitarra. Kinkaid sistemò gli zaini sul sedile e i cavalletti e la frigoborsa sul fondo. Incuneò la chitarra e la valigia in un angolo del vano e, per impedire che cadessero, vi spinse contro la ruota di scorta a cui le legò con un pezzo di corda per il bucato. Sotto il logoro pneumatico infilò un'incerata nera.
Salì al volante, si accese una Camel ed effettuò mentalmente un ultimo controllo: duecento rullini assortiti, in gran parte Kodachrome a bassa sensibilità; cavalletti; refrigeratore; tre macchine fotografiche e cinque obiettivi; jeans e pantaloni di tela kaki; camicie, gilè con molte tasche. Okay. Se avesse avuto bisogno di qualcos'altro, lo avrebbe comperato durante il viaggio.
Kinkaid indossava un paio di Levi's sbiaditi, stivali Red Wing logorati dall'uso, una camicia kaki e bretelle arancioni. All'ampia cintura di pelle portava un coltello da campeggio infilato nella sua guaina.
Controllò l'ora: le otto e diciassette. Il pckup partì al secondo tentativo; Kinkaid uscì a retromarcia, poi inserì la prima e sotto il sole caliginoso percorse lentamente il vicoletto.
Avanzò lungo le strade di Bellingham, dirigendosi a sud della provinciale 11; costeggiò per qualche chilometro il litorale di Puget Sound, quindi seguì la superstrada che curvava leggermente a est poco prima di incrociare la statale 20.
Con il sole di fronte, iniziò il lungo e tortuoso tragitto attraverso le Cascades. La regione gli piaceva e si sentiva gradevolmente rilassato; di tanto in tanto si fermava per prendere nota di qualche località interessante o per scattare quelle che definiva «istantanee promemoria». Il loro scopo era di rammentargli luoghi che in seguito avrebbe potuto visitare più a fondo. Nel tardo pomeriggio deviò a nord all'altezza di Spokane, dove imboccò la statale 2 che lo avrebbe portato fino a Duluth, nel Minnesota, più o meno a metà del suo viaggio attraverso gli Stati Uniti settentrionali.
Per la millesima volta rimpianse di non avere un cane, un golden retriever magari, che viaggiasse con lui e gli facesse compagnia quando era a casa. Ma era via troppo spesso, quasi sempre oltreoceano, e un animale avrebbe sofferto delle sue prolunhate assenze. Nondimeno, indugiò a pensarci, Ancora qualche anno e sarebbe stato troppo vecchio per il lavoro sul campo. «Forse allora prenderò un cane», confidò alla verde distesa di conifere che sfilava ai lati del furgoncino.
Viaggi come quello inducevano sempre in lui il bisogno di fare un bilancio. Un cane era una voce sempre presente. Robert Kinkaid era solo quanto era possibile esserlo: figlio unico di genitori entrambi deceduti, lontani parenti che di lui non sapevano più nulla, così come nulla lui sapeva di loro, nessun amico intimo.
Conosceva il nome del gestore del supermercato vicino a casa sua, a Bellingham, e quello del proprietario del negozio di materiale fotografico presso cui faceva i suoi acquisti. Intratteneva inoltre rapporti formali, rigorosamente professionali, con i redattori di svariate riviste. Per il resto, non conosceva praticamente quasi nessun altro, e nessuno avrebbe potuto dire di conoscere lui. Non è facile per la gente comune diventare amica degli zingari, e lui era una specie di zingaro.
Pensò a Marian. Lo aveva lasciato nove anni prima, dopo cinque di matrimonio. Ora Kinkaid aveva cinquantadue anni, il che significava che lei era prossima alla quarantina. Marian aveva sognato di diventare musicista, cantante folk. Conosceva tutte le canzoni dei Weavers e le interpretava magnificamente nei locali di Seattle. Ai vecchi tempi, quando era a casa, lui l'accompagnava alle serate e, seduto tra il pubblico, l'ascoltava cantare.
Le sue lunghe assenze - a volte anche di due o tre mesi - erano un'insidia per il loro matrimonio. Lui lo sapeva. Quando avevano deciso di sposarsi, Marian era a conoscenza del suo lavoro e tutti e due avevano creduto che in un modo o nell'altro sarebbero riusciti a controllare la situazione. Non era stato così. Di ritorno dall'Irlanda, dov'era andato per un servizio fotografico, lei non c'era più. Il biglietto diceva: «Robert, non ha funzionato. Ti lascio la chitarra Harmony. Fatti sentire».



(continua)

auroraageno
00giovedì 28 febbraio 2008 09:32
Lui non si era fatto sentire. E lei neppure. L'anno successivo, quando erano arrivati i documenti per il divorzio, Robert li aveva firmati e il giorno dopo aveva preso un volo per l'Australia. Lei non gli aveva chiesto nulla, eccetto la libertà.
Sul tardi si fermò per la notte a Kalispell, nel Montana. Il Cozy Inn aveva l'aria poco costosa e lo era. Trasportò la sua roba in una stanza munita di due lampade da tavolo, una delle quali con la lampadina fulminata. Sdraiato sul letto a leggere Verdi colline d'Africa, bevendo birra, sentiva l'odore delle cartiere di Kalispell. Il mattino seguente dedicò al jogging quaranta minuti, poi fece cinquanta piegamenti e terminò utilizzando le macchine fotografiche come pesi.
Risalì il Montana fino al Nord Dakota, attraverso la campagna piatta e brulla che per lui non era meno affascinante del mare o delle montagne. Erano luoghi di austera bellezza e lui si fermò parecchie volte a scattare foto in bianco e nero a vecchie fattorie. Era quello un paesaggio che stimolava la sua propensione al minimalismo. Le riserve indiane erano deprimenti per via delle innumerevoli ragioni che tutti sanno e nondimeno ignorano. Non che quel genere di insediamenti fosse più gradevole nella parte nordoccidentale di Washington, o in qualunque altro posto.
Il mattino del quattordici agosto, a due ore di viaggio da Duluth, tagliò verso nord-est e imboccò una strada secondaria che conduceva a Hibbing e alle miniere di ferro. Polvere rossa galleggiava nell'aria e si vedevano grossi macchinari e i convogli utilizzati per trasportare il metallo fino ai piroscafi da carico di Two Arbors, sul Lago Superiore. Passò il pomeriggio a vagabondare per Hibbing e scoprì che non gli piaceva, sebbene fosse da lì che proveniva Bob Zimmerman-Dylan.
La sola canzone di Dylan che avesse realmente apprezzato era Girl from the North Country. Era anche l'unica che fosse in grado di suonare e cantare e ne canticchiò le parole tra sé e sé mentre si allontanava dalle enormi cavità rossastre che si aprivano nel terreno. Marian gli aveva insegnato qualche accordo e pochi semplici arpeggi di accompagnamento. « Mi ha lasciato più di quanto io abbia lasciato a lei », aveva confidato una volta a un pilota di imbarcazioni fluviali ubriaco, in un locale che si chiamava McElroy's Bar, da qualche parte nel bacino del Rio delle Amazzoni. Ed era vero.
La Superior National Forest era bella, bella davvero. Terra di boscaioli. Da giovane si era augurato che i tempi dei vecchi boscaioli non finissero, così da poterlo diventare a sua volta. Seguì la strada che si snodava tra i prati e vide tre alci, una volpe rossa e un'infinità di cervi. In riva a uno stagno si fermò a fotografare i riflessi creati sull'acqua da un ramo dalla foggia bizzarra. Poi sedette sul predellino del pickup a bere caffè e a fumare una Camel, ascoltando intanto il vento tra le betulle.
Sarebbe bello avere accanto qualcuno, una donna, pensò guardando il fumo della sigaretta dileguarsi sulla superficie dello stagno. Con l'età si incomincia ad entrare in quest'ordine di idee. Ma con lui così spesso lontano, sarebbe stata troppo dura per chi restava a casa. Aveva già avuto modo di constatarlo.
Quando era a Bellingham, si vedeva di tanto in tanto con la direttrice artistica di un'agenzia pubblicitaria di Seattle. L'aveva conosciuta nel corso di un incarico svolto per conto di una società. Lei aveva quarantadue anni ed era gradevole e brillante, ma lui non l'amava, non l'avrebbe mai amata.
A volte capitava, però, che si sentissero tutti e due un po' soli, e allora passavano la serata insieme: andavano al cinema, bevevano qualche birra e dopo facevano l'amore in modo adeguatamente soddisfacente. Lei aveva fatto le sue esperienze... era stata sposata due volte e mentre frequentava l'università aveva lavorato come cameriera in parecchi bar. Invariabilmente, dopo che avevano fatto l'amore ed erano sdraiati vicini, gli diceva: « Sei il migliore, Robert, non c'è nessuno che ti stia alla pari ».
Probabilmente doveva essere un bel complimento per un uomo, ma lui non era poi così esperto e non aveva modo di sapere se lei dicesse la verità.


(continua)

auroraageno
00giovedì 6 marzo 2008 07:03

Un giorno, tuttavia, lei aggiunse qualcosa che lo turbò. “Robert, c’è una creatura in te che io non ho la capacità di tirare fuori e neppure di raggiungere. A volte ho la sensazione che tu esista da un’infinità di tempo e abbia vissuto in luoghi segreti che il resto di noi non si è mai neppure sognato. Mi spaventi, anche se con me sei gentile. Se non lottassi per mantenere il controllo quando sono con te, credo che potrei perdermi e non ritrovarmi mai più.”
Seppure oscuramente, lui sapeva di che cosa stava parlando, ma era a sua volta incapace di metterlo a fuoco. Fin da bambino, quando viveva in una piccola città dell’Ohio, aveva avuto di questi pensieri vaghi, un malinconico senso del tragico combinato a una grande potenza fisica ed intellettuale. Mentre gli altri ragazzini cantavano Row, Row, Row Your Boat, lui imparava la melodia e il testo inglese di una canzone da cabaret francese.
Amava le parole e le immagini. “Blu” era uno dei vocaboli che prediligeva. Gli piaceva la sensazione che provava sulle labbra e sulla lingua quando lo pronunciava. Le parole avevano una loro fisicità, non si limitavano a significare qualcosa, ricordava di aver pensato da giovane. Apprezzava anche altre parole, quali “distante”, “fumo di legna”, “superstrada”, “antico”, “passaggio”, “viaggiatore” e “India”, per il loro suono, il loro sapore e per le immagini che evocavano nella sua mente.
Teneva affissi nella sua stanza gli elenchi delle parole che amava di più.
Poi aveva raggruppato le parole in frasi e aveva affisso anche quelle:

Troppo vicino al fuoco.

Giunsi dall’est con un gruppetto di viaggiatori.

Il costante cinguettio di coloro che volevano
salvarmi e di coloro che volevano vendermi.

Talismano, Talismano, mostrami i tuoi segreti.
Timoniere, Timoniere, conducimi a casa.

Sdraiato nudo là dove nuotano balene azzurre.

Lei gli augurò treni a vapore che partivano
da stazioni invernali.

Prima di diventare uomo, fui freccia,
tanto tempo fa.


Poi c’erano i luoghi di cui amava i nomi: il Somali Current, le Big Hatchet Mountains, lo Stretto di Malacca e molti altri. Con il tempo, i fogli coperti di parole, frasi e luoghi avevano finito per coprire completamente le pareti della stanza.
Perfino sua madre aveva notato che in lui c’era qualcosa di diverso. Fino a tre anni non aveva pronunciato neppure una parola, poi aveva cominciato a esprimersi in frasi compiute, e a cinque leggeva perfettamente.
A scuola era stato un allievo indifferente, uno di quei ragazzi che riempiono di frustrazione gli insegnanti.
Loro avevano esaminato il suo punteggio nei test di QI e gli avevano parlato di obiettivi da conseguire, della necessità di fare tutto quello che era in grado di fare e del fatto che potesse diventare qualsiasi cosa volesse. Uno dei suoi professori del liceo aveva dato di lui la seguente valutazione scritta: “Crede che i test di QI siano uno strumento inadeguato per stabilire le capacità degli individui, in quanto tralasciano di tenere in debito conto la magia, che ha una sua importanza, sia di per se stessa sia in quanto complemento della logica. Consiglio un incontro con i genitori”.
Sua madre aveva incontrato parecchi insegnanti. Quando le parlavano della taciturna riluttanza di Robert alla luce delle sue capacità, lei rispondeva: “Robert vive in un mondo tutto suo. E’ mio figlio, lo so, ma a volte ho la sensazione che non sia nato da mio marito e da me, che sia piuttosto arrivato da un luogo in cui sta cercando di tornare. Le sono grata per l’interesse che gli dimostra, e cercherò ancora una volta di incoraggiarlo ad impegnarsi di più”.
Ma lui era più che soddisfatto di divorare tutti i libri di viaggi e di avventura disponibili nella biblioteca locale e per il resto di restarsene in disparte, trascorrendo le giornate lungo il fiume che scorreva ai margini della città, ignorando le partite di football, i balli studenteschi e tutte le altre cose che lo annoiavano. Pescava, nuotava, camminava e si sdraiava nell’erba alta ad ascoltare voci lontane che fantasticava di essere il solo a sentire. “Ci sono stregoni là fuori”, soleva dirsi. “Puoi sentirli se resti aperto e silenzioso; sono là fuori.” E avrebbe desiderato che ci fosse un cane a dividere con lui quei momenti.
I soldi per l’università non c’erano. E neppure il desiderio di andarci. Suo padre sgobbava sodo ed era buono con lui e con sua madre, ma il lavoro presso una fabbrica di valvole non gli lasciava molto tempo per altre cose, e certo non per mantenere un cane. Aveva diciotto anni quando suo padre morì, la Grande Depressione si faceva sentire, così, per mantenere se stesso e la madre, si arruolò nell’esercito. Ci rimase quattro anni, ma furono quattro anni che cambiarono la sua vita.
Come conseguenza della logica misteriosa che governa le menti militari, gli fu assegnato l’incarico di fotografo, sebbene non sapesse neppure caricare una macchina fotografica. Fu così che scoprì la professione giusta per lui. I dettagli tecnici non furono un problema. Nel giro di un mese non solo si occupava del lavoro in camera oscura per conto di due fotografi dell’esercito, ma era inoltre autorizzato a effettuare per proprio conto qualche semplice servizio.


(continua)
auroraageno
00lunedì 10 marzo 2008 07:23

Uno dei due fotografi, Jim Peterson, lo trovava simpatico, e nei momenti liberi gli insegnava le sottigliezze della sua arte. Dalla biblioteca di Fort Monmouth, Robert Kinkaid si procurò libri di fotografia e di arte, e li studiò. Inizialmente apprezzava soprattutto gli impressionisti francesi e l’utilizzo della luce in Rembrandt.
Con il tempo cominciò a capire che proprio la luce era il fulcro delle sue fotografie, non gli oggetti, semplice veicolo di riflessione. Se la luce era buona, si trovava sempre qualcosa degno di essere fotografato. Cominciavano a prendere piede le macchine fotografiche da trentacinque millimetri, e lui acquistò una Leica di seconda mano in un negozio del posto. La portò con sé a Cape May, nel New Jersey, e dedicò la sua settimana di licenza a fotografare la vita sulla costa.
In un’altra occasione raggiunse il Maine in pullman, e con l’autostop risalì fino alla costa dove si imbarcò sul postale in servizio fra Stonington e l’isola di Au Haut, dove si accampò. Poi attraversò con il traghetto la baia di Fundy fino alla nuova Scozia. Fu lì che cominciò a prendere appunti sugli scenari e i luoghi in cui contava di tornare. Quando si congedò, a ventidue anni, se la cavava già piuttosto bene e non ebbe difficoltà a trovare lavoro come assistente di un noto fotografo di moda newyorkese.,
Le modelle erano bellissime, ne frequentò alcune e si innamorò parzialmente di una di loro, prima che lei si trasferisse a Parigi. La ragazza gli aveva detto: “Robert, non sono sicura di chi o che cosa tu sia, ma ti prego, vieni a trovarmi a Parigi”. Lui le aveva promesso che lo avrebbe fatto, e diceva sul serio, ma non ci andò mai. Anni dopo, mentre lavorava a un servizio sulle spiagge della Normandia, cercò il suo nome sull’elenco telefonico di Parigi, la chiamò e presero un caffè insieme. Lei si era sposata con un regista cinematografico e aveva tre bambini.
Non riuscì mai ad appassionarsi alla moda. La gente gettava via i vestiti in perfetto stato o se li faceva frettolosamente confezionare in base ai criteri imposti dai dittatori della moda europea. A lui sembrava un atteggiamento insensato, e pensava che occuparsi di quell’aspetto della fotografia lo sminuisse. Sei quello che produci, si disse quando lasciò l’impiego.
Era a New York da due anni quando sua madre morì. Lui tornò nell’Ohio, la seppellì, poi andò a sedersi davanti a un legale che gli diede lettura del testamento. Non c’era granché, né lui se lo era aspettato. Ma lo sorprese scoprire che la minuscola casa di Franklin Street, in cui i genitori avevano trascorso tutta la loro vita coniugale, valeva un piccolo patrimonio. Vendette la casa e con il ricavato acquistò un’attrezzatura fotografica di prima classe. Mentre pagava il negoziante, pensò agli anni di lavoro occorsi al padre per guadagnare quel denaro e alla semplice esistenza che i genitori avevano condotto.
Alcuni suoi lavori cominciavano ad apparire su riviste di secondo piano. Poi lo chiamò il National Geographic. Avevano notato su un calendario una delle foto che aveva scattato a Cape May. Parlò con la redazione e ottenne un incarico di poca importanza che eseguì con professionalità; questo fu l’inizio.
L’esercito lo richiamò nel 1943. Entrò nei marines dove imparò ad arrancare faticosamente sulle spiagge del Pacifico meridionale, l’attrezzatura buttata a tracolla, sdraiato a fotografare gli uomini che sbarcavano dai mezzi anfibi. Vide il terrore sui loro volti, e lo conobbe lui stesso. Li vide tagliati in due dal fuoco delle mitragliatrici, li vide chiedere aiuto a Dio e alle proprie madri. Conobbe tutto questo, sopravvisse, e mai fu preda della falsa atmosfera fatta di romanticismo e di gloria che circonda la fotografia di guerra.
Quando lasciò l’esercito, nel 1945, si rimise in contatto con il National Geographic. Erano pronti a farlo lavorare in qualsiasi momento. A San Francisco comperò una moto con cui puntò a sud, verso Big Sur, dove fece l’amore sulla spiaggia con una violoncellista di Carmel. Poi andò a Nord per esplorare lo stato di Washington. Il posto gli piacque e decise di farne la propria base. Ora, a cinquantadue anni, stava ancora osservando la luce. Era stato in quasi tutti i luoghi i cui nomi figuravano sulle pareti della sua camera di adolescente, e ogni volta si era stupito di essere realmente arrivato fin là: seduto a un tavolo del Raffles Bar, a bordo di un battello che risaliva le acque turbinose del Rio delle Amazzoni, o in groppa a un cammello nel deserto di Rajasthan.
Le sponde del Lago Superiore erano belle come gli era stato detto. Prese nota di parecchie ambientazioni che contava di utilizzare in futuro, scattò qualche foto che gli sarebbe servita da promemoria e infine si diresse a sud verso il Mississippi, diretto nello Iowa. Non ci era mai stato, ma restò affascinato dalle colline che si ergevano nella zona nordorientale del grande fiume. Fece sosta nella cittadina di Clayton, dove prese alloggio nel motel di un pescatore, e trascorse due mattinate a fotografare i rimorchiatori e un pomeriggio a bordo di uno di essi, invitato da un pilota conosciuto in un bar del posto. Tagliando per la statale 65, attraversò Des Moines nelle prime ore di lunedì, sedici agosto 1965, diretto alla Madison County e ai ponti coperti che, stando alla National Geographic, avrebbe dovuto trovare. E c’erano infatti, gli assicurò l’addetto della stazione Texano, fornendogli le indicazioni di massima per raggiungerli tutti e sette.
I primi sei furono facili da trovare e intanto abbozzò mentalmente un programma di lavoro, ma il settimo, chiamato Roseman Bridge, gli sfuggiva. Faceva caldo, aveva caldo. Harry, il suo furgone, era bollente, e lui continuava ad aggirarsi per strade sterrate che sembravano non condurre da nessuna parte se non alla strada sterrata successiva.
All’estero, la sua prima regola era: “Chiedi, tre volte”. Aveva scoperto che tre risposte, anche se tutte sbagliate, finivano sempre per condurlo, seppure per gradi, alla meta. Forse lì due volte sarebbero state sufficienti.
Si stava approssimando a una cassetta per le lettere, piantata alla fine di un vialetto lungo una cinquantina di metri. Il nome riportato sulla cassetta era: “Richard Johnson, RR 2”. Rallentò e imboccò il vialetto, sperando di imbattersi in qualcuno che lo indirizzasse sulla strada giusta.
Quando entrò nel cortile, vide una donna seduta sulla veranda. Sembrava che lì facesse fresco, e la donna stava bevendo qualcosa che appariva ancora più fresco. Lei si alzò per andargli incontro. Lui scese dal furgone e la guardò, la guardò una seconda e poi una terza volta, con sempre maggiore attenzione. Era deliziosa, o lo era stata un tempo, o forse avrebbe potuto esserlo di nuovo. E subito lui cominciò ad avvertire l’antico senso di imbarazzo che sempre lo prendeva in presenza di una donna da cui si sentiva anche solo vagamente attratto.






(continua)
auroraageno
00martedì 11 marzo 2008 07:01

Francesca


Il Compleanno di Francesca cadeva in pieno autunno, e la pioggia fredda era tornata a spazzare la sua casa di legno nella campagna dello Iowa meridionale. Lei guardava la pioggia e attraverso di essa le colline che si ergevano lungo il Middle River, e intanto pensava a Richard. Era morto in una giornata come quella, otto anni prima, di una malattia il cui nome preferiva non ricordare. Ma pensava a lui, ora. Alla sua gentilezza risoluta, ai suoi modi pacati e alla vita tranquilla che le aveva dato.

I ragazzi avevano telefonato. Anche quell’anno nessuno dei due poteva tornare a casa per il suo compleanno, sebbene fosse il sessantasettesimo. Lei capiva, come sempre, Aveva sempre capito, e sempre lo avrebbe fatto. Erano entrambi nel pieno della carriera, uno a capo di un ospedale, l’altra insegnante; Michael prossimo al secondo matrimonio, Carolyn che si dibatteva nel primo.
Segretamente lei era felice che non riuscissero mai a organizzarsi per farle visita in occasione del suo compleanno, per quel giorno aveva in serbo celebrazioni tutte sue.
Quella mattina le sue amiche di Winterset erano passate a portarle una torta. Francesca aveva preparato il caffè mentre chiacchieravano di nipoti, della città, del giorno del Ringraziamento e di che cosa regalare e a chi per Natale. Le risate sommesse e il tono a volte alto a volte basso della conversazione erano confortanti nella loro familiarità e rammentavano a Francesca una delle piccole ragioni per cui aveva preferito rimanere lì dopo la morte di Richard.
Michael aveva decantato la Florida, Carolyn il New England. Ma lei era rimasta fra le colline dello Iowa meridionale, mantenendo il vecchio indirizzo per un motivo speciale, ed era lieta di averlo fatto.
All’ora di colazione le aveva guardate andar via. A bordo delle Buick e delle Ford avevano disceso il vialetto, imboccato la provinciale e si erano dirette verso Winterset, i tergicristalli in funzione per disperdere la pioggia. Erano buone amiche, anche se non avrebbero mai capito ciò che si nascondeva dentro di lei, neppure se glielo avesse detto.
Suo marito le aveva promesso che avrebbe trovato una buona accoglienza quando, dopo la guerra, l’aveva portata lì da Napoli. “La gente dello Iowa ha i suoi difetti”, aveva detto, “ma tra questi non c’è l’incapacità di provare affetto.” Ed era vero, lo è ancora.
Lei aveva venticinque anni quando si erano conosciuti… aveva lasciato l’università da tre anni, insegnava in una scuola femminile privata e intanto si chiedeva che cosa avrebbe fatto della propria vita. Buona parte dei ragazzi italiani erano morti, oppure rimasti feriti, o erano internati nei campi di concentramento, o devastati dall’esperienza bellica. La sua storia con Niccolò, un docente universitario di arte, che dipingeva tutto il giorno e la notte la trascinava in folli e spericolate escursioni per la vecchia Napoli, si era conclusa da più di un anno, definitivamente logorata dall’incessante disapprovazione della sua famiglia così tradizionale.
Lei portava nastri fra i capelli neri e si aggrappava ai suoi sogni. Ma nessun affascinante marinaio sbarcò mai in città in cerca di lei, nessuna voce si levò fino alla sua finestra dalla strada sottostante. La dura pressione della realtà la costrinse infine a riconoscere che le sue opzioni erano severamente limitate. Richard le offrì un’alternativa ragionevole: gentilezza e la dolce promessa dell’America.
Lei lo aveva studiato con attenzione, vestito con la sua uniforme di soldato, mentre sedevano in un bar inondato dal sole mediterraneo. Aveva notato che la guardava serio, con la serietà tipica del Midwest, e lo aveva seguito nello Iowa. Lo aveva seguito per mettere al mondo i suoi figli, per guardare Michael giocare a football nelle fredde sere di ottobre, per accompagnare Carolyn a Des Moines, dove acquistava gli abiti per i balli della scuola.
Parecchie volte all’anno scriveva alla sorella rimasta a Napoli e vi era anche tornata due volte, in occasione della morte dei genitori, ma ora la Madison County era la sua casa e lei non aveva alcun desiderio di ritornare indietro.


(continua)
auroraageno
00giovedì 13 marzo 2008 06:58

La pioggia cessò a metà pomeriggio, per riprendere subito prima di sera. Al crepuscolo, Francesca si versò un bicchierino di brandy e aprì l’ultimo cassetto della scrivania con alzata avvolgibile di Richard, il mobile di noce che la famiglia di lui si tramandava da tre generazioni. Ne estrasse una busta di carta di Manila e lentamente vi passò sopra la mano, nel gesto che ripeteva ogni anno in quel giorno particolare.
Il timbro postale diceva: “Seattle, WA, 12 settembre 1965”. Guardava sempre il timbro postale per primo. Quindi l’indirizzo scritto a mano: “Francesca Johnson, RR2, Winterset, Iowa”. Infine il mittente, scarabocchiato frettolosamente in alto a sinistra. “Casella Postale 642, Bellingham, Washington”. Sedette accanto alla finestra, lesse di nuovo gli indirizzi e si concentrò, perché in essi erano contenuti i gesti delle mani di lui, e voleva richiamare la sensazione di quelle mani sul proprio corpo, com’era stato ventidue anni prima.
Quando le sembrò di percepire il tocco delle sue dita, aprì la busta e con cura ne estrasse tre lettere, due fotografie, un breve dattiloscritto e un numero completo del National Geographic, insieme con alcuni ritagli di altri numeri della rivista. Lì, nella luce grigia che andava lentamente sbiadendo, sorseggiò il brandy, sogguardando da sopra l’orlo del bicchiere il biglietto scritto a mano, fermato con una graffetta sulle pagine dattiloscritte. Lui aveva usato uno dei fogli della sua semplice carta da lettere, la cui sobria intestazione diceva soltanto: “Robert Kinkaid, scrittore-fotografo”.


10 settembre 1965

Cara Francesca,
accludo due fotografie. Una è l’istantanea che ti ho scattato nel pascolo al tramonto. Spero che ti piaccia quanto piace a me. L’altra è del Roseman Bridge, presa prima che staccassi il biglietto che tu vi avevi affisso.
Me ne sto seduto qui a rovistare nelle zone grigie della mia mente in cerca di ogni particolare, di ogni momento del tempo che abbiamo trascorso insieme. E in continuazione mi chiedo: “Che cosa mi è accaduto nella Madison County?” E cerco disperatamente di rimettere insieme i pezzi. Ecco perché ho scritto il racconto, "Precipitando dalla dimensione Z", che ti allego per cercare in qualche modo di esaminare la mia confusione.
Guardo in un obiettivo e in fondo ci sei tu. Comincio a lavorare a un articolo ed ecco che sto scrivendo di te. Non so bene neppure come ho fatto dallo Iowa ad arrivare fin qui. In qualche modo il vecchio furgone mi ha riportato a casa, ma del viaggio non ricordo praticamente nulla.
Solo poche settimane fa ero un uomo indipendente, ragionevolmente soddisfatto. Forse non propriamente felice, forse un po’ solo, ma almeno soddisfatto. Adesso tutto è cambiato.
Mi è chiaro ora che già da molto tempo mi stavo avvicinando a te e tu a me. Sebbene prima del nostro incontro nessuno dei due sapesse dell’esistenza dell’altro, al di là della nostra inconsapevolezza operava con allegra noncuranza una sorta di cieca sicurezza che ha fatto sì che ci trovassimo. Come due uccelli solitari che in ottemperanza a un calcolo celeste sorvolano le praterie sterminate, per tutti questi anni e per tutta la nostra vita passata non abbiamo fatto che avvicinarci l’uno all’altra.
La strada è uno strano posto. Vagabondo qua e là, ed ecco che un giorno d’agosto alzo gli occhi e ci sei tu che cammini tra l’erba verso il mio furgone. A un esame retrospettivo, sembra tutto inevitabile… non sarebbe potuto essere diversamente… un tipico esempio di quella che io definisco l’elevata probabilità dell’improbabile.
Così eccomi qui, con un’altra persona dentro di me. Anche se credo di essermi espresso meglio il giorno in cui ci separammo, quando dissi che noi due insieme abbiamo dato vita a una terza persona. E ora questa nuova entità mi accompagna con incrollabile ostinazione.
In un modo o nell’altro, dobbiamo rivederci. In qualunque luogo, in qualunque momento.
Chiamami, se dovessi avere bisogno di me, o semplicemente se avessi voglia di vedermi. Arriverò subito. Sarebbe bello se tu potessi venire qui un giorno o l’altro… di nuovo, in qualunque momento. Posso pensare io al biglietto aereo, se questo dovesse essere un problema. La settimana prossima parto per l’India sudorientale, ma sarò di ritorno alla fine di ottobre.

Ti amo.

Robert


P.S. Il servizio fotografico sulla Madison County è riuscito ottimamente. Cercalo nel National Geographic dell’anno prossimo. Se invece preferisci che ti mandi una copia del numero su cui sarà pubblicato, fammelo sapere.



Francesca posò il bicchiere del brandy sul largo davanzale di quercia e guardò la foto in bianco e nero venti per venticinque che la ritraeva. A volte le riusciva difficile ricordare l’aspetto che aveva avuto allora, ventidue anni prima. Nella foto era appoggiata a un paletto della staccionata, con indosso aderenti jeans stinti, una maglietta bianca e sandali, e il vento del mattino le arruffava i capelli.
Attraverso la cortina di pioggia, dal suo posto vicino alla finestra, vedeva il paletto nel punto in cui la vecchia staccionata delimitava ancora il terreno da pascolo. Quando aveva dato in affitto la terra, dopo la morte di Richard, aveva messo la condizione che il pascolo non fosse toccato, sebbene fosse ormai inutilizzato e trasformato in un campo di fienarola.
All’epoca in cui era stata scattata la foto, le prime rughe cominciavano a segnarle il viso. L’obiettivo le aveva colte, e tuttavia quello che vedeva le piaceva. I capelli erano neri, e il corpo pieno riempiva i jeans nei punti giusti. E tuttavia era il suo viso quello che stava guardando. Era il viso di una donna disperatamente innamorata dell’uomo che stava dietro alla macchina.
Sull’onda inarrestabile dei ricordi, rivedeva con chiarezza anche lui. Ogni anno ripercorreva mentalmente tutte le immagini, con meticolosità, senza tralasciarne alcuna, fermandole per sempre nel tempo, come gli uomini delle tribù che di generazione in generazione si tramandano oralmente la storia della loro gente. Lui era alto, sottile e solido, e si muoveva come l’erba stessa, con grazia e senza sforzo. I capelli grigio argento gli arrivavano parecchio sotto le orecchie ed erano sempre in disordine, come se fosse appena arrivato da un lungo e ventoso viaggio in mare e avesse cercato di ravviarseli con le dita.
Aveva il viso stretto, gli zigomi alti, e i capelli che gli ricadevano sulla fronte nascondevano gli occhi azzurro chiaro che sembravano perennemente in cerca di qualcosa da fotografare. Le aveva sorriso, dicendole quant’era bella e viva nella prima luce, e le aveva chiesto di appoggiarsi al paletto e poi le aveva girato intorno tracciando un ampio arco e aveva cominciato a scattare, prima inginocchiato, poi in piedi e infine sdraiato supino con l’obiettivo puntato su di lei.
Lei era lievemente imbarazzata per la quantità di pellicola che gli vedeva usare, e al tempo stesso lusingata da tanta attenzione. Sperava che nessuno dei vicini avesse deciso di uscire presto con il trattore, quella mattina. Anche se quel giorno non si era preoccupata granché dei vicini e di quello che avrebbero potuto pensare.
Lui scattava, sostituiva il rullino, cambiava obiettivi e macchina, scattava ancora e intanto le parlava con voce quieta, dicendole quanto gli sembrava bella e quanto la amava. “Francesca, sei di una bellezza incredibile.” Di tanto in tanto si fermava a guardarla, guardava attraverso di lei, intorno e dentro di lei.
I suoi capezzoli erano chiaramente visibili, premuti contro la maglietta di cotone. Stranamente, il fatto di essere nuda sotto la maglietta non le aveva procurato nessun imbarazzo. Anzi, si era sentita felice pensando che lui poteva vederle i seni con tanta nitidezza nell’obiettivo. Non si sarebbe mai vestita in quel modo se con lei vi fosse stato Richard. Lui non avrebbe approvato. Di più: prima di conoscere Robert Kinkaid, non l’avrebbe fatto in nessuna circostanza.
Robert le aveva chiesto di inarcare leggermente la schiena e aveva bisbigliato: “Sì, sì, perfetto, resta così”. Era stato allora che aveva scattato la foto che adesso lei stava guardando. La luce era perfetta, così aveva detto lui… “una luminosità nuvolosa”, l’aveva definita…e l’otturatore ticchettava con regolarità mentre lui le si muoveva intorno.
Era flessuoso, questo era l’aggettivo che le era balzato alla mente mentre lo osservava. A cinquantadue anni, il suo corpo era tutto muscoli che si flettevano con quell’intensità e quell’energia propria solo degli uomini che lavoravano sodo e avevano buona cura di sé. Le aveva raccontato che aveva fatto il fotografo sul campo nel Pacifico, e per Francesca era stato facile immaginarlo strisciare su spiagge soffocate dal fumo insieme con i marines, le macchine fotografiche che gli sbattevano contro i fianchi e una incollata all’occhio, l’otturatore infuocato per la rapidità con cui scattava.
Guardò di nuovo la fotografia, la studiò. Ero bella, pensò sorridendo tra sé di quel senso di blanda autoammirazione. Non sono mai stata così bella, né prima né dopo di allora. Era lui. E bevve un altro sorso di brandy mentre la pioggia si arrampicava sul dorso del vento novembrino, e lo cavalcava.


(continua)
auroraageno
00venerdì 14 marzo 2008 07:02

Robert Kinkaid era una specie di stregone, che ospitava dentro di sé luoghi strani, perfino spaventosi: Francesca lo aveva intuito immediatamente in quel caldo, asciutto lunedì d’agosto del 1965, quando lo aveva visto scendere dal furgone, nel suo cortile. Richard e i ragazzi erano alla Illinois State Fair, dove presentavano il manzo da competizione, che aveva ricevuto da loro più attenzioni di quante ne avessero mai dedicate a lei, e Francesca aveva la settimana tutta per sé.
Era seduta sulla sedia a dondolo della veranda, a bere tè freddo, e osservava soprappensiero la spirale di polvere sollevata da un furgone che scendeva lungo la provinciale. L’automezzo avanzava con lentezza, come se il conducente stesse cercando qualcosa; si era fermato subito prima del viottolo di casa sua e infine lo aveva imboccato. Oh, Dio, pensò lei, chi può essere?
Era a piedi nudi, con indosso i jeans, e una camicia blu sbiadita con le maniche rimboccate e i lembi fuori dei pantaloni. Il pettine di tartaruga regalatole da suo padre quando aveva lasciato il suo vecchio paese le tratteneva i lunghi capelli neri. Il furgone avanzò sobbalzando lungo il vialetto e andò a fermarsi vicino al cancello che si apriva nella recinzione di filo spinato che circondava la casa.
Francesca lasciò la veranda e senza fretta si incamminò nell’erba, diretta al cancello. E dal furgone scese Robert Kinkaid, simile a una visione tratta da un libro mai scritto e intitolato Storia illustrata degli sciamani.
Il sudore gli appiccicava al corpo la camicia verde militare; sotto le ascelle erano visibili ampi cerchi scuri. I primi tre bottoni erano slacciati e lei intravide i muscoli del petto, sotto la semplice catena d’argento che lui aveva al collo. Portava larghe bretelle arancioni, di quelle usate da chi passa gran parte del proprio tempo in regioni selvagge.
Le sorrise. “Mi dispiace disturbarla, ma sto cercando un ponte coperto che dovrebbe trovarsi da queste parti, e non riesco a trovarlo. Credo di essermi smarrito.” Si asciugò la fronte con un fazzoletto azzurro e sorrise di nuovo.
I suoi occhi la scrutavano attenti, e Francesca sentì qualcosa che le si agitava dentro. Gli occhi, la voce, il viso, i capelli d’argento, le movenze sciolte del suo corpo, movenze antiche, inquietanti e piene di fascino. Movenze che ti parlano sussurrando all’orecchio un istante prima che sopraggiunga il sonno, quando ogni barriera è caduta. Movenze che ridispongono lo spazio molecolare tra maschio e femmina, a qualunque specie appartengano.
Le generazioni devono succedersi, e solo di questo sussurrano tali movenze. Il potere è infinito, lo schema di suprema eleganza. Le movenze sono immutabili, il loro obiettivo è chiaro. Le movenze sono semplici, siamo stati noi a renderle complicate. Francesca avvertiva tutto questo senza rendersene conto, lo percepiva a livello cellulare. E fu a quel punto che ebbe inizio ciò che doveva cambiarla per sempre.
Un’auto passò sulla strada, sollevando una nube di polvere, e strombazzò. Francesca ricambiò il saluto di Floyd Clark che agitava il braccio abbronzato fuori del finestrino della sua Chevy, poi tornò a guardare lo sconosciuto. “C’è arrivato molto vicino, il ponte è a soli tre chilometri da qui.” Poi, dopo vent’anni di una vita raccolta in se stessa, una vita di comportamenti circoscritti e sentimenti nascosti come esige la cultura rurale, Francesca Johnson si sorprese a dire: “ Sarò lieta di mostrarglielo, se vuole”.
Perché avesse pronunciato quelle parole, non lo seppe mai con certezza. Forse una reazione da adolescente, che affiorava come una bolla sull’acqua ed esplodeva, dopo molti anni. Non era una donna timida, ma neppure sfrontata. La sola conclusione a cui poté giungere fu che in qualche modo, e dopo che lo aveva guardato solo per qualche secondo, Robert Kinkaid l’aveva attirata a sé.
Fu chiaro che la sua offerta lo aveva colto lievemente di sorpresa. Ma si riprese in fretta e, guardandola serio, disse che gliene sarebbe stato molto grato. Dai gradini sul retro lei recuperò gli stivali che utilizzava per i lavori agricoli e lo seguì fino al furgone.
“Mi dia un minuto per farle un po’ di spazio, c’è un sacco di roba sul sedile.” Sembrava quasi che parlasse con se stesso mentre si dava da fare, e lei comprese che era vagamente agitato e un po’ intimidito dall’intera faccenda.
Lo guardò ridisporre delle borse di tela e un cavalletto, un thermos e dei sacchetti di carta. Sul retro del furgone c’erano una Samsonite marrone chiaro e la custodia di una chitarra, entrambe polverose e malconce, entrambe assicurate alla ruota di scorta con una corda da bucato.
La portiera del furgone oscillò e si chiuse di colpo, colpendolo al sedere mentre lui borbottava e divideva e infilava bucce di banana e bicchieri di carta usati in un sacchetto di drogheria che poi scaraventò nel bagagliaio. Infine estrasse una borsa termica bianca e azzurra e gettò anche quella nel bagagliaio, sul cui sportello verde era dipinta in sbiadite lettere rosse la scritta “Kinkaid Fotografia, Bellingham, Washington”.
“Okay, salti su.” Chiuse la portiera dietro di lei, girò attorno al veicolo e con la grazia sciolta di un animale salì al volante. Finalmente la guardò, solo un’occhiata rapida, e sorridendo appena chiese: “Da che parte?”


(continua)
auroraageno
00mercoledì 19 marzo 2008 07:27

Lei indicò con la mano. “A destra.” Lui girò la chiavetta d’accensione e il motore tossì, girò a vuoto e infine si avviò. Si mossero sobbalzando lungo il vialetto, mentre le sue lunghe gambe azionavano in modo automatico i pedali, le gambe inguainate nei vecchi Levi’s da cui spuntavano un paio di stivaletti marrone con i lacci che dovevano aver macinato un’infinità di chilometri.
Quando si allungò verso il vano portaoggetti, il suo avambraccio sfiorò accidentalmente la coscia di lei. Con un occhio alla strada e uno al cassetto, tirò fuori un biglietto da visita e glielo porse. “Robert Kinkaid, scrittore-fotografo.” Seguivano l’indirizzo e il numero telefonico.
“Sono qui per conto del National Geographic”, spiegò. “Lo conosce?”
“Sì”, rispose Francesca, pensando, e chi non lo conosce?
“Stanno realizzando un servizio sui ponti coperti e pare che nella Madison County ce ne siano di interessanti. Ne ho individuati sei, ma mi avevano accennato all’esistenza di un settimo, proprio da queste parti.”
“Si chiama Roseman Bridge”, disse Francesca al di sopra del fragore del vento, dei pneumatici e del motore. La sua voce le parve estranea, come se appartenesse a qualcun altro, a un’adolescente che si sporgeva da una finestra di Napoli, per guardare al di là delle strade sottostanti verso la ferrovia o il porto, pensando ad amanti lontani che ancora dovevano arrivare. Mentre parlava, guardava i muscoli del braccio di lui flettersi ogni volta che cambiava marcia.
Accanto a lei stavano due zaini. Uno era chiuso, ma il risvolto dell’altro, ripiegato all’indietro, lasciava intravedere una macchina fotografica nera e argento. Sul retro era fissata con del nastro adesivo la linguetta di un rullino: “Kodachrome, 25. 36 esposizioni”. Infilato tra gli zaini, un gilè color kaki pieno di tasche. Da una di queste sporgeva un cordoncino sottile con un pulsante all’estremità.
Sotto i suoi piedi c’erano due cavalletti. Sebbene fossero coperti da graffi, riuscì a leggere parte di una logora etichetta di uno di essi: “Gitzo”. Quando lui aveva aperto lo scomparto dei guanti, aveva notato che traboccava di taccuini, carte geografiche, penne, portarullini vuoti, spiccioli e una stecca di Camel.
“Giri a destra al prossimo angolo”, lo istruì, approfittandone per lanciare un’occhiata al suo profilo. La pelle di Robert Kinkaid era abbronzata, liscia e lucida di sudore. Aveva delle belle labbra, chissà perché, lei l’aveva notato subito. E il suo naso era identico a quello di un pellerossa che aveva visto durante una vacanza nell’ovest, quando i ragazzi erano ancora piccoli.
Non era bello, non nel senso convenzionale del termine. E neppure era affabile. Nessuno di questi aggettivi gli si addiceva. Ma c’era qualcosa in lui, qualcosa di molto vecchio, leggermente logorato dal tempo, e non nella sua fisionomia generale, bensì negli occhi.
Al polso sinistro portava un orologio dall’aspetto complicato, con un cinturino marrone macchiato di sudore. Al polso destro, un braccialetto d’argento di complessa lavorazione.Avrebbe avuto bisogno di una bella lucidata con la pasta per argenti, pensò lei, e subito si rimproverò per quella ricaduta nelle futilità della vita di provincia a cui negli anni si era sempre silenziosamente ribellata.
Robert Kinkaid estrasse dal taschino un pacchetto di sigarette, lo scosse per estrarne una a metà e gliela offrì. Per la seconda volta in cinque minuti, lei si sorprese, accettandola. Che cosa sto facendo? si domandò. Un tempo fumava, ma l’incessante, strenua riprovazione di Richard l’aveva indotta a smettere. Lui ne prese una per sé. accese uno Zippo d’oro e lo tese verso di lei senza staccare gli occhi dalla strada.
Lei mise le mani a coppa intorno alla fiammella per proteggerla dal vento e gli toccò la mano che si muoveva in sintonia con i sobbalzi del furgone. Non impiegò più di un istante per accendere la sigaretta, ma le bastò per percepire il calore della sua mano e la carezza della peluria che ne ricopriva il dorso. Si appoggiò all’indietro e lui accostò la fiamma alla propria sigaretta, staccando le mani dal volante per non più di un secondo.
Francesca Johnson, moglie di un agricoltore, si assestò meglio sul sedile impolverato, tirò una boccata e indicò con la mano: “E’ qui, proprio dietro la curva”. Il vecchio ponte, lievemente inclinato dagli anni, dipinto di vernice rossa scrostata in più punti, era gettato su un piccolo corso d’acqua.
Robert Kinkaid aveva sorriso. “Fantastico”, dichiarò lanciandole una rapida occhiata. “Perfetto da riprendere all’alba.” A un centinaio di metri dal ponte fermò il furgone e scese, prendendo con sé lo zaino aperto. “Vorrei fare una breve ricognizione. Questione di pochi minuti. Le dispiace?” Lei scosse la testa, restituendogli il sorriso.
Lo guardò allontanarsi lungo la strada, estrarre una macchina dallo zaino e quindi buttarselo sulla spalla sinistra. Un gesto che doveva aver ripetuto migliaia di volte, glielo disse la fluidità con cui lo effettuò. Camminava girando continuamente la testa da un lato all’altro, verso il ponte e quindi verso gli alberi al di là di esso. Una volta si voltò a guardarla, serio in viso.
A differenza della gente del posto, che si nutriva di salse, patate e carne rossa tre volte al giorno, Robert Kinkaid aveva l’aspetto di chi vive di frutta, verdura e noci. Asciutto, pensò lei. Notò come fossero piccole le natiche inguainate nei jeans… riusciva a distinguere i contorni del portafoglio infilato nella tasca sinistra e del fazzoletto in quella destra… e il modo in cui si muoveva, senza gesti superflui.
L’aria era tranquilla. Un merlo nero stava appollaiato sul filo spinato della recinzione e la guardava. Una stornella cantava nell’erba sul ciglio della strada. Nient’altro si muoveva sotto l’incandescente sole d’agosto.
Poco prima di arrivare al ponte Robert Kinkaid si fermò. Restò lì un momento, poi si accovacciò a terra, guardando attraverso l’obiettivo. Passò quindi sull’altro lato della strada e fece lo stesso. Si inoltrò sul ponte per esaminare le assi e le tavole del fondo e il torrente sottostante che si intravedeva da un’apertura laterale.
Francesca spense la sigaretta nel portacenere, aprì la portiera e posò i piedi sulla ghiaia. Si guardò intorno per accertarsi che non ci fosse in giro l’auto di qualche vicino prima di dirigersi verso il ponte. Il sole del tardo pomeriggio era come un martello, e forse all’interno del ponte avrebbe fatto più fresco. Distinse i contorni della figura di lui dall’altra parte, prima che scomparisse lungo il pendio che digradava verso l’acqua.
Dentro, sentì i piccioni tubare piano nei loro nidi sotto le grondaie e posò il palmo della mano sulle assi della copertura laterale, percependone il calore. I graffiti deturpavano alcune delle tavole: “Jimbo Denison, Iowa”. “Sherry + Dubby.” “Forza Hawks!” Il sommesso borbottio dei piccioni continuava. Attraverso una crepa che si apriva fra due assi, Francesca sbirciò verso il torrente, Robert Kinkaid era in piedi su un masso proprio al centro del piccolo corso d’acqua, guardava il ponte e lei restò sorpresa nel vederlo salutare con la mano. Con un salto fu di nuovo sulla riva, risalì l’erta senza apparente fatica. Lei tenne gli occhi fissi sull’acqua finché non sentì i suoi stivali rimbombare sul pavimento di legno.
“E’ molto bello qui, davvero grazioso”, disse lui, e la sua voce echeggiò all’interno del ponte. Francesca assentì. “E’ vero. Noi della zona tendiamo a dare per scontati questi vecchi ponti e non ce ne ricordiamo quasi mai..”
Lui si fece più vicino e le tese un mazzolino di fiori di campo, piccole composite dal pistillo nero. “Grazie per la visita guidata.” Sorrise dolcemente. “Uno dei prossimi giorni tornerò all’alba per scattare le foto.” Di nuovo lei sentì qualcosa muoversi dentro di sé. Fiori. Nessuno le regalava mai fiori, neppure nelle occasioni speciali.
“Non so ancora il suo nome”, riprese Kinkaid, e solo in quel momento lei si rese conto di non essersi presentata e si sentì sciocca per questo. Quando lo fece, lui annuì. “Mi era sembrato di cogliere un lievissimo accento. Italiana?”
“Sì. Molto tempo fa.”


(continua)
auroraageno
00giovedì 20 marzo 2008 06:56

Di nuovo il furgone verde. Lungo la strada di ghiaia su cui calava il sole. Incrociarono due auto, ma non era nessuno che Francesca conoscesse. Nei quattro minuti che impiegarono per tornare alla fattoria, lei vagò con la mente, sentendosi strana, scoperta. Ancora un po’ di tempo con Robert Kinkaid, scrittore-fotografo, ecco quello che voleva. Voleva saperne di più sul suo conto e stringeva con forza il mazzolino di fiori, tenendolo ben diritto come farebbe una liceale che rientra da un appuntamento.
Aveva il viso arrossato, lo sentiva. Non aveva fatto né detto nulla, ma era come se qualcosa fosse accaduto. L’autoradio, quasi completamente sopraffatta dal ruggito della strada e del vento, trasmetteva brani di chitarra, a cui fece seguito il notiziario delle cinque.
Lui imboccò il vialetto. “Richard è suo marito?” Aveva notato la cassetta per le lettere.
“Sì”, disse Francesca, appena un po’ affannata.
Continuò a parlare. “Fa un gran caldo. Le andrebbe un tè freddo?”
Lui la guardò. “Volentieri, se non le è di disturbo.”
“Nessun disturbo.”
Gli indicò, in modo sufficientemente disinvolto, sperava, dove parcheggiare il furgone, dietro la casa. Non le andava che al ritorno di Richard qualche vicino saltasse su a dirgli: “Ehi, Dick, stai facendo qualche lavoro alla fattoria? Ho visto un furgone verde, la settimana scorsa. Sapevo che Frannie era a casa, così non mi sono preoccupato di fermarmi a dare un’occhiata”.
Lo guidò su per gli sconnessi gradini di cemento che portavano alla veranda sul retro. Lui le tenne aperta la porta. Aveva con sé gli zaini. “Troppo caldo per lasciare l’attrezzatura sul furgone”, le aveva spiegato mentre li tirava fuori.
In cucina faceva un po’ più fresco, ma il caldo incombeva ancora. Il collie annusò gli stivali di Kinkaid, poi uscì sulla veranda e a balzi scese giù per gli scalini, mentre Francesca staccava i cubetti di ghiaccio dalla vaschetta di metallo e versava il tè da una caraffa da due litri. Sentiva che lui la stava osservando, seduto al tavolo di cucina con le lunghe gambe stese, mentre si ravviava i capelli con entrambe le mani.
“Limone?”
“Sì, per favore.”
“Zucchero?”
“No, grazie.”
Il succo di limone gocciolò lentamente lungo il bicchiere, e anche lui lo notò. Ben poco sfuggiva a Robert Kinkaid.
Francesca gli posò il bicchiere davanti. Appoggiò il suo sull’altro lato del tavolo di formica e mise i fiori nell’acqua, in un vecchio barattolo di marmellata con l’immagine di Paperino. Appoggiata al piano di lavoro, tenendosi in equilibrio prima su una gamba e poi sull’altra, si chinò a sfilarsi gli stivali.
Lui bevve un piccolo sorso e la osservò. Alta circa uno e sessantacinque, sulla quarantina o poco più, con un viso grazioso e un bel corpo. Ma di donne carine ce n’erano ovunque andasse. Certe caratteristiche fisiche erano piacevoli, ma per lui a contare erano soprattutto l’intelligenza e la passione per la vita, la capacità di suscitare sottigliezze della mente e dello spirito, e di percepirle. Era questo il motivo per cui di solito trovava poco attraenti le donne giovani, per quanto belle fossero. Non avevano vissuto abbastanza a lungo né abbastanza intensamente per possedere che qualità che lo interessavano.
Ma in Francesca Johnson c’era qualcosa che lo colpiva. C’era intelligenza, la intuiva. E c’era passione, anche se non riusciva a capire verso che cosa fosse diretta e neppure se avesse una direzione.
In seguito, le avrebbe detto che in un certo modo indefinibile e inesplicabile, mentre la guardava sfilarsi gli stivali, aveva vissuto una delle esperienze più sensuali di cui avesse memoria. Il perché non aveva importanza. Non era questo il modo in cui si accostava alla vita. “L’analisi distrugge l’interezza. Ci sono cose, cose magiche, che devono restare intere. Se cominci a guardarne le singole parti, svaniscono.” Questo le aveva detto.
Lei sedette al tavolo, una gamba ripiegata sotto il corpo, e si allontanò dal viso qualche ciocca di capelli, fermandola di nuovo con il pettine di tartaruga. Poi, come ricordando qualcosa, tornò ad alzarsi e dall’ultimo armadietto estrasse un portacenere, che posò sul tavolo, a portata della mano di lui.
Con quella tacita autorizzazione, Robert tirò fuori il pacchetto di Camel e glielo tese. Lei prese una sigaretta, che il sudore di lui aveva leggermente inumidito. I gesti furono gli stessi. Lui le accostò lo Zippo d’oro, lei gli tenne ferma la mano, sentì la sua pelle sotto i polpastrelli, e infine si ritrasse. La sigaretta aveva un gusto meraviglioso. Sorrise.
“Che cosa fa esattamente… voglio dire nel campo della fotografia?”
Lui parlò con voce pacata, guardando la sigaretta. Ho un contratto con il National Geographic, ma non occupa tutto il mio tempo. Quando mi viene un’idea, la vendo alla rivista e mi occupo della parte fotografica. Oppure sono loro a contattarmi per affidarmi qualche incarico. Non c’è molto spazio per l’espressione artistica, è una pubblicazione di stampo conservatore. Ma i compensi sono decenti. Non fantastici, ma decenti, e regolari. Per il resto, scrivo e fotografo per mio conto e vendo i servizi ad altri giornali. Se ho bisogno di soldi, lavoro per qualche società, ma è un’attività che trovo terribilmente limitante.
“A volte scrivo poesie, ma lo faccio esclusivamente per me. Di tanto in tanto mi cimento con la narrativa, anche se non mi appassiona più di tanto. Vivo a nord di Seattle e buona parte del mio lavoro la svolgo nella zona. Mi piace fotografare i pescherecci, gli insediamenti indiani e i paesaggi.
“Spesso il lavoro per il Geographic mi tiene lontano da casa per un paio di mesi, soprattutto quando si tratta di grossi servizi in località come l’Amazzonia o il deserto nordafricano. In questi casi, di norma vado in aereo e noleggio un’auto sul posto. Ma questa volta mi andava di guidare e di esplorare un po’ i paraggi, in cerca di buone ambientazioni da sfruttare eventualmente in seguito. Ho disceso il Lago Superiore e penso di tornare per le Black Hills. E lei?”
Francesca non aveva previsto la domanda. Esitò un istante. “Oh, Dio, niente di così interessante. Mi sono laureata in letteratura comparata. Quando arrivai a Winterset, nel 1946, c’era carenza di insegnanti, e l’aver sposato uno del luogo, e un veterano per di più, mi rese bene accetta alla comunità. Così ottenni l’abilitazione e per qualche anno insegnai inglese alle superiori. Ma a Richard non piaceva che lavorassi. Diceva che era perfettamente in grado di mantenerci e che non c’era alcuna necessità che continuassi, soprattutto considerando che i bambini stavano crescendo. Alla fine smisi e divenni una moglie di agricoltore a tempo pieno. Questo è tutto.”
Si accorse che lui aveva bevuto quasi tutto il tè e gliene versò dell’altro.
“Grazie. Le piace vivere nello Iowa?”
Era quello il momento della verità, comprese lei. La risposta standard era: “Certo. E’ tranquillo qui. E la gente è simpatica”.
Non rispose subito. “Potrei avere un’altra sigaretta?” Di nuovo il pacchetto di Camel, di nuovo il leggero contatto con la sua mano. Il sole inondò la veranda sul retro e il cane si alzò e scomparve alla vista. Per la prima volta, Francesca guardò Robert Kinkaid negli occhi.
“Immagino che dovrei dire: ‘Certo. E’ tranquillo, qui. E la gente è simpatica’. E’ tutto vero, o quasi. E’ tranquillo. E la gente è a posto, per certi versi. Ci aiutiamo gli uni con gli altri. Se qualcuno si ammala o si fa male, sono i vicini a mietere il granturco o a tagliare l’avena, a fare tutto quello che c’è da fare. In città, non c’è bisogno di chiudere l’auto e i bambini possono correre dove vogliono; non c’è nessun pericolo. La gente di qui ha un sacco di buone qualità e io la rispetto per questo.
“Ma…” esitò, tirò una boccata, guardò Robert Kinkaid che le sedeva di fronte, “non è quello che sognavo quando ero ragazza.” La confessione, finalmente. Da anni quelle parole erano annidate dentro di lei, e non le aveva mai pronunciate. Ma lo aveva fatto ora, davanti a un uomo arrivato su un furgone verde da Bellingham, Washington.
Per un momento lui non parlò. Poi disse: “Qualche giorno fa ho scarabocchiato qualcosa sul mio taccuino, pensando di servirmene in futuro. L’idea mi era venuta mentre guidavo; mi capita spesso. Il senso era più o meno questo: ‘I vecchi sogni erano bei sogni; non si sono avverati, ma sono contento di averli coltivati’. Non so bene che cosa significhi, ma ho l’impressione che ci sia qualcosa di vero. Per questo credo di sapere quello che prova”.
E allora Francesca gli sorrise. Per la prima volta gli rivolse un sorriso caldo e intenso. E l’istinto del giocatore ebbe il sopravvento. “Le andrebbe di fermarsi a cena? La mia famiglia non è qui e in casa non c’è molto, ma posso mettere insieme qualcosa.”


(continua)
auroraageno
00venerdì 21 marzo 2008 07:46

“Be’, sono piuttosto stufo di ristoranti e piatti pronti, questo è sicuro. Se non la disturba troppo, mi farebbe piacere.”
“Le piacciono le braciole di maiale? Potrei prepararle con un po’ di verdura dell’orto.”
“La verdura mi basterà. Non mangio carne, non ne mangio da anni. Non per scelta ideologica; è solo che preferisco così.”
Di nuovo Francesca sorrise. “Questo è un punto di vista che dalle nostre parti non incontrerebbe molto favore. Richard e i suoi amici direbbero che sta cercando di distruggere i loro mezzi di sostentamento. Io stessa non mangio molta carne, non so bene il perché, forse semplicemente perché non mi piace più di tanto. Ma ogni volta che mi azzardavo a preparare un pasto senza carne, si scatenava la ribellione. Così alla fine ho rinunciato. Sarà divertente escogitare qualcosa di diverso, tanto per cambiare.”
“Benissimo, ma non si dia troppo da fare per me. Senta, ho parecchi rullini nella frigoborsa. Devo togliere il ghiaccio che si è sciolto e riordinare il materiale. Ci metterò un po’.” Si alzò e bevve l’ultimo sorso di tè.
Lei lo guardò varcare la porta della cucina, attraversare la veranda e scendere in cortile. Diversamente da come facevano tutti, non lasciò sbattere la porta schermata, ma l’accompagnò con la mano. Un istante prima di uscire, si chinò ad accarezzare il collie, che lo ricambiò con parecchie leccate umide sulle braccia.
Al piano di sopra, Francesca fece un rapido bagno e, mentre si asciugava, sbirciò fuori da sopra la mezza tendina. Lui aveva aperto la valigia e si stava lavando con la vecchia pompa a mano. Avrebbe potuto invitarlo a fare una doccia in casa e in effetti aveva pensato di farlo, ma la familiarità che quel gesto implicava l’aveva trattenuta e in seguito, galleggiando nella propria confusione, se n’era dimenticata.
Ma Robert Kinkaid si era lavato in condizioni ben peggiori. Con secchiate d’acqua rancida nel paese delle tigri, con la sua borraccia nel deserto. Nel cortile di lei, si denudò fino alla cintola, usando la camicia sporca come spugna e un asciugamano insieme. “Un asciugamano”, si rimproverò lei. “Almeno quello avrei potuto darglielo.”
Il sole incendiò la lama del suo rasoio, posato sul cemento accanto alla pompa, e lei rimase a guardarlo mentre si insaponava il viso e si radeva. Era – di nuovo quella parola – asciutto. Di struttura non troppo robusta, alto sul metro e ottantacinque, piuttosto snello. Ma le spalle erano ampie e il suo ventre piatto come la lama di un coltello. Qualunque età avesse, non sembrava affatto vecchio, e non assomigliava per nulla agli uomini di lì, appesantiti da troppo sugo e da troppi biscotti fin dal mattino.
Nel corso della sua ultima spedizione a Des Moines, Francesca aveva comperato un profumo nuovo, Wind Song, e ora lo usò con parsimonia. Che cosa indossare? Niente di troppo elegante; sarebbe stato fuori luogo, visto che lui era ancora in abiti da lavoro. Camicia bianca a maniche lunghe, rimboccate appena sotto i gomiti, un paio di jeans puliti, sandali, gli orecchini d’oro a cerchio che, secondo Richard, la facevano assomigliare a una sgualdrina, e un braccialetto d’oro. Si pettinò i capelli all’indietro e li assicurò con un fermaglio sulla nuca, lasciando che le ricadessero sulle spalle. Perfetto.
Quando scese in cucina, lui era di nuovo seduto al tavolo, con i suoi zaini, la sua frigoborsa e una camicia kaki pulita su cui spiccavano le bretelle arancioni. Sul tavolo c’erano tre macchine fotografiche, cinque obiettivi e un pacchetto nuovo di Camel. Tutte le macchine erano di marca Nikon e così gli obiettivi, alcuni corti, altri medi e uno più lungo. L’attrezzatura era piena di graffi e mostrava qua e là qualche ammaccatura, eppure lui la maneggiava con cura anche se in modo disinvolto, pulendo, spazzolando e soffiando.
Alzò gli occhi su di lei, di nuovo serio e come intimidito. “Ho delle birre nella frigoborsa. Ne vuole una?”
“Volentieri.”
Lui estrasse due bottiglie di Budweiser. Quando sollevò il coperchio, lei distinse alcuni contenitori di plastica trasparente, in cui i rullini erano allineati come pezzi di legna da ardere. Oltre alle due che aveva tirato fuori, c’erano altre quattro bottiglie di birra.
Francesca fece scorrere un cassetto in cerca dell’apribottiglie. “Ce l’ho io”, disse Robert. Estrasse dalla guaina il coltello da campeggio e con gesti esperti fece saltare i tappi.
Le tese una bottiglia e sollevò la sua in un mezzo brindisi. “Ai ponti coperti nel tardo pomeriggio o, meglio ancora, nella calda e rossa luce del mattino. “ Sorrise.
Francesca non disse nulla, ma ebbe un sorriso lieve e alzò appena la sua bottiglia, esitante, un po’ impacciata. Uno strano sconosciuto, fiori, profumo, birra e un brindisi in un afoso lunedì di fine estate. Era quasi più di quanto potesse affrontare.
“Tanto tempo fa c’era qualcuno che un pomeriggio d’agosto aveva una gran sete. Chiunque fosse a sovrintendere alla questione ‘sete’, mise insieme qualcosa e inventò la birra. Fu così che nacque, ed è così che venne risolto un problema.” Stava armeggiando con uno degli apparecchi fotografici, ed era come se parlasse alla macchina, mentre stringeva una vite con un piccolo cacciavite da gioielliere.
“Esco un momento in giardino. Torno subito.”
Lui alzò gli occhi. “Serve aiuto?”
Scuotendo la testa lei gli passò davanti, conscia degli occhi di lui fissi sui suoi fianchi, chiedendosi se l’avrebbe seguita con lo sguardo per tutta la lunghezza della veranda e immaginando che sì, lo avrebbe fatto.
Aveva ragione. Lui la osservò. Scosse la testa e la guardò di nuovo. Studiava il suo corpo, pensava all’intelligenza di cui, ora lo sapeva, era dotata, fantasticò sulle altre cose che intuiva in lei. Ne era attratto, e non voleva.
Ora il giardino era immerso nell’ombra. Francesca si aggirò tra le piante con una bacinella smaltata di bianco. Raccolse carote e prezzemolo, e poi pastinaca, cipolle e rape.
Quando rientrò in cucina, Robert Kinkaid stava rifacendo gli zaini, con ordine e precisione, notò lei. Era evidente che ogni cosa aveva il suo posto e che lì veniva sempre ricollocata. Aveva finito la birra e ne aveva aperte altre due, sebbene Francesca non avesse ancora terminato di bere la prima. Lei rovesciò la testa all’indietro e vuotò la bottiglia, che poi gli porse.
“Posso fare qualcosa?” domandò lui.
“Può portare dentro l’anguria che è sulla veranda, e prendere qualche patata dal secchio che troverà fuori dalla porta.”
Si muoveva con tanta agilità che a lei non sembrò neanche uscito quando lo vide rientrare, con l’anguria sotto il braccio e quattro patate in mano.
“Bastano?”
Lei annuì, e intanto pensava che c’era qualcosa di irreale in lui. Kinkaid posò le patate accanto al lavello dove Francesca stava pulendo le verdure e tornò alla sua sedia. Si accese un’altra Camel.
“Quanto si fermerà?” chiese lei, gli occhi fissi sugli ortaggi.
“Non lo so ancora. Questo è un periodo tranquillo per il lavoro e non devo consegnare il servizio sui ponti coperti prima di tre settimane ancora. Tutto il tempo che sarà necessario, direi. Probabilmente una settimana.”
“Dove alloggia? In città?”
“Sì. Un posticino con dei bungalow. Un Motor Court o un altro. Mi sono registrato stamattina; è per questo che non ho ancora scaricato l’attrezzatura..”
“Già, non ci sono altri posti, fatta eccezione per la casa della signora Carlson, affitta delle stanze. Ma i ristoranti saranno una delusione per lei, soprattutto considerate le sue abitudini alimentari.”
“Lo so. E’ una vecchia storia. Ma ho imparato a cavarmela ugualmente. In questo periodo dell’anno non è poi tanto male; trovo sempre prodotti freschi nei negozi e sulle bancarelle lungo la strada. Pane e qualcosa per accompagnarlo, più o meno non mi serve altro. Ma un invito a cena fa sempre piacere; gliene sono grato.”
Lei allungò la mano per accendere la piccola radio, una di quelle con due soli quadranti e tela marrone sugli altoparlanti. “Con il tempo in pugno e il cielo dalla mia parte…” cantava una voce con un sottofondo di chitarre. Lasciò basso il volume.
“Sono bravo ad affettare la verdura”, si offrì lui.
“Benissimo. Lì c’è un tagliere, il coltello lo trova nel cassetto sotto. Voglio preparare un minestrone, quindi la si può tagliare a cubetti.”
In piedi a pochi passi da lei, la testa china, lui cominciò ad affettare le carote e le rape, le pastinache e le cipolle. Francesca pelava le patate nel lavello, acutamente conscia della vicinanza di uno sconosciuto. Non avrebbe mai pensato di poter sbucciare patate in uno stato d’animo così insolito.


(continua)
auroraageno
00martedì 25 marzo 2008 07:10
“Suona la chitarra? Ho visto la custodia, sul furgone.”
“Un po’. Mi fa compagnia, nulla di più. Mia moglie era una cantante folk, molto prima che quel genere diventasse così popolare, e mi ha dato qualche lezione.”
Francesca si era leggermente irrigidita nel sentirlo pronunciare la parola moglie. Il perché, non avrebbe saputo dirlo. Lui aveva tutti i diritti di essere sposato, ma chissà perché lo stato coniugale non gli si confaceva. Non voleva che fosse sposato.
“Non ce l’ha fatta a sopportare le mie lunghe assenze. Non che la biasimi per questo. Se n’è andata nove anni fa e l’anno successivo abbiamo divorziato. Non avevamo figli, ed è stato tutto piuttosto semplice. Si è portata via soltanto una chitarra. “
“Ha più avuto sue notizie da allora?”
“Mai.”
Non disse altro. Francesca non insistette sull’argomento, ma egoisticamente si sentiva meglio e ancora una volta si chiese perché mai la cosa le stesse a cuore.
“Sono stato in Italia”, riprese lui. “Due volte. Lei di dov’è?”
“Napoli.”
“Non l’ho mai vista. La prima volta sono stato al nord, per un servizio sul fiume Po. E la seconda in Sicilia.”
Francesca pelava le patate; per un istante pensò all’Italia, consapevole della presenza di Robert Kinkaid accanto a lei.
Le nuvole che erano sopraggiunte da occidente avevano frantumato la luce del sole, i cui raggi si diffondevano ora in numerose direzioni. Lui si sporse a guardare fuori dalla finestra sovrastante il lavello.
“Luce divina. Le società che producono calendari la adorano. E così le riviste religiose.”
“Sembra interessante il suo lavoro.” Francesca sentiva la necessità di mantenere la conversazione su un piano neutrale.
“E lo è. Mi piace molto. Mi piace la strada e mi piace fare foto.”
Aveva detto “fare”, notò lei. “Dunque lei fa fotografie, non le scatta?”
“Infatti. Mi piace pensarlo, almeno. C’è differenza tra i fotografi della domenica e quelli che lo fanno per vivere. Quando avrò finito con il ponte che abbiamo visto oggi, resterà sorpresa. L’avrò trasformato in qualcosa di mio, grazie alla scelta degli obiettivi, dell’angolazione o della composizione generale, o, più probabilmente, grazie a una combinazione di tutti questi fattori.
“Non mi limito a riprodurre le cose così come sono; tento di fare qualcosa che rifletta il mio livello di consapevolezza personale, la mia anima, se vuole. Cerco la poesia contenuta nell’immagine. La rivista ha il suo stile e le sue esigenze e io non sempre sono d’accordo con le scelte della redazione; anzi, quasi mai. E questo li infastidisce, anche se naturalmente sono loro a decidere che cosa pubblicare e che cosa scartare. Conoscono i loro lettori, immagino, ma vorrei che di tanto in tanto accettassero di correre qualche rischio. Se la prendono, quando provo a parlarne.
“Ecco dove sta la difficoltà di guadagnarsi da vivere con l’arte. Devi vedertela con il mercato, e il mercato, il mercato di massa, mira a soddisfare i gusti della media. E’ da lì che arriva il guadagno, e suppongo che questa sia la realtà dei fatti. Ma, come ho detto, può diventare estremamente limitante. Però mi permettono di tenere le foto che a loro non interessano, e in questo modo mi sono organizzato un archivio personale di quelle che mi piacciono.
“Ogni tanto, un’altra pubblicazione ne compera una o due, oppure vengo incaricato di scrivere un pezzo su una località che ho visitato e di illustrarlo con immagini un po’ più audaci di quelle preferite dal Geographic.
“Un giorno o l’altro scriverò un saggio intitolato Le virtù del dilettantismo, dedicato a tutti coloro che avrebbero desiderato guadagnarsi da vivere con l’arte. Non c’è nulla che uccida la passione artistica più delle regole del mercato. Il mondo si fonda soprattutto sulla sicurezza. La gente vuole sicurezza, e i giornali e i produttori gliela danno, le danno omogeneità, ciò che è familiare e rassicurante, non le propongono sfide.
“Sono il profitto, gli abbonamenti e tutto il resto a dominare il mondo artistico. Stiamo finendo tutti imbrigliati alla grande ruota dell’uniformità.
“Nel marketing, non fanno che parlare dei cosiddetti ‘consumatori’. Ogni volta che sento questo termine, mi viene in mente un ometto piccolo e grasso, con indosso bermuda sformati, una camicia hawaiana e un cappello di paglia da cui penzola un apriscatole, e manciate di dollari in ogni mano.”
Francesca rise piano, pensando alla sicurezza e al comfort.
“Ma in fondo non posso lamentarmi. Come ho detto, viaggiare mi piace, mi piace andarmene in giro con le mie macchine e vivere all’aperto. La realtà non è esattamente come le battute d’inizio facevano presagire, ma tutto sommato rimane una canzone accettabile.”
Forse, pensava Francesca, per Robert Kinkaid quelle erano chiacchiere banali, ma per lei era pura letteratura. Nella Madison County la gente non parlava così, e certo non di quelle cose. Gli argomenti di conversazione erano il tempo, i prezzi dei prodotti agricoli, i bambini appena nati e i funerali, i programmi governativi e le squadre sportive. Niente arte né fantasia. Nulla della realtà che faceva tacere la musica e costringeva i sogni nel cassetto.
Lui aveva finito di affettare le verdure. “Posso fare qualcos’altro?”
Lei scosse la testa. “No, è tutto sotto controllo.”
Kinkaid tornò a sedersi al tavolo; fumava e di tanto in tanto beveva un sorso di birra. Lei cucinava e a sua volta sorseggiava la birra. L’alcol, anche se in quella piccola quantità, cominciava a farsi sentire. La sera dell’ultimo dell’anno, alla Legion Hall, lei e Richard si concedevano qualche bicchiere, ma per il resto bevevano di rado e in casa non tenevano alcolici, a eccezione di una bottiglia di brandy che lei aveva comperato un giorno, spinta da un vago anelito di trovare un po’ di avventura e romanticismo anche nella vita rurale. La bottiglia era ancora sigillata.


(continua)
auroraageno
00mercoledì 26 marzo 2008 07:01

Olio e una tazza e mezzo di verdure. Far cuocere finché non imbiondiscono. Aggiungere farina e mescolare bene. Poi acqua, mezzo litro. Infine la verdura rimasta, il sale e il pepe. Cuocere a fuoco basso per quaranta minuti circa.
Regolata la fiamma, Francesca si mise di nuovo seduta di fronte a lui. Avviluppava la stanza una sensazione di tranquilla intimità, stimolata in qualche modo da quelle semplici operazioni di cucina. Preparare la cena per uno sconosciuto che al tuo fianco tagliava le rape e, con esse, la distanza tra di voi, annullava almeno parzialmente la sensazione di estraneità. E al suo posto subentrava l’intimità.
Lui spinse verso di lei il pacchetto di Camel su cui aveva posato l’accendino. Francesca prese una sigaretta, armeggiò goffamente con lo Zippo. Non voleva accendersi. Lui sorrise appena, con gentilezza glielo tolse di mano e fece scattare due volte la rotella della pietrina per far scoccare la scintilla. Lei si protese ad accendere. Di solito una presenza maschile la rendeva più consapevole della propria grazia, ma con Robert Kinkaid era diverso.
Il sole prima bianco si era fatto di fuoco e ardeva rosso proprio sopra i campi di granturco. Dalla finestra della cucina Francesca vide uno sparviero che cavalcava le correnti ascensionali della prima serata. La radio trasmetteva il notiziario delle sette e gli indici di borsa. E Francesca guardava al di là del piano di formica gialla, verso Robert Kinkaid che aveva percorso molta strada per arrivare nella sua cucina. Una lunga strada, e non solo in chilometri.
“Si sente già un buon profumo”, osservò lui indicando i fornelli. “Un profumo di… pace.” La guardò.
“Pace? Come può qualcosa profumare di pace?” Ma poi ci pensò su e comprese che lui aveva ragione. Dopo le braciole di maiale, le bistecche e gli arrosti che preparava per la sua famiglia, quello era un modo di cucinare che sapeva di pace. Nessuna violenza, in nessun punto della catena alimentare, a eccezione forse di quella insita nella raccolta delle verdure. Il minestrone bolliva piano e profumava di pace. C’era pace in cucina.
“Se non le secca, mi parli della sua vita in Italia.” Si era allungato sulla sedia, la gamba destra incrociata sulla sinistra all’altezza della caviglia.
In presenza di lui il silenzio la sgomentava, così parlò. Gli raccontò della sua infanzia, della scuola privata, delle suore e dei suoi genitori… casalinga, direttore di banca. Di come, da ragazzina, se ne stava davanti al mare a guardare attraccare le navi provenienti da tutto il mondo. Dei soldati americani arrivati in seguito. Del suo incontro con Richard in un bar dove lei e certe sue amiche stavano bevendo il caffè. La guerra aveva sconvolto la loro vita e cominciavano a chiedersi se si sarebbero mai sposate. Non fece parola di Niccolò.
Lui ascoltava senza dire nulla, limitandosi di tanto in tanto a un cenno della testa. Quando lei finalmente tacque, osservò: “Ha detto di avere dei figli, vero?”
“Sì. Michael ha diciassette anni, Carolyn sedici. Tutti e due vanno a scuola a Winterset. Hanno finito le superiori, ecco perché sono andati all’Illinois State Fair. A presentare il manzo di Carolyn.
“Una cosa che non sono mai riuscita a capire è come possano nutrire un amore così devastante per gli animali, occuparsene con tanta dedizione e poi venderli perché siano macellati. Ma non mi azzardo a parlarne, Richard e i suoi amici mi salterebbero addosso. E tuttavia continuo a pensare che c’è una sorta di spietata, crudele contraddizione in tutto questo.”
Pronunciare il nome di Richard la fece sentire in colpa. Non aveva fatto nulla, assolutamente nulla. E tuttavia si sentiva colpevole, di una colpa scaturita da possibilità vaghe e remote. E si chiese come arrivare alla fine della serata e se non fosse andata a ficcarsi in una situazione che non era in grado di gestire. Forse Robert Kinkaid se ne sarebbe semplicemente andato, e questo sarebbe stato tutto. Sembrava un tipo tranquillo, educato, forse addirittura un po’ timido.
Mentre chiacchieravano, il crepuscolo trascolorò in una luce azzurra e brumosa che bagnava l’erba dei prati. Lui aprì altre due birre mentre il minestrone di Francesca bolliva pacificamente. Lei si alzò per buttare gli gnocchetti nell’acqua bollente, poi si appoggiò al lavello, sentendosi favorevolmente disposta verso Robert Kinkaid di Bellingham. Sperava che non se ne andasse troppo presto.
Lui si servì due volte del minestrone, con gesti pacati e cortesi, ed entrambe le volte non mancò di dirle che era buonissimo. L’anguria era perfetta. La birra era fredda al punto giusto. La sera era azzurra. Francesca Johnson aveva quarantacinque anni, e Hank Snow cantava una canzone nostalgica sulle onde della KMA di Shenandoah, Iowa.


(continua)
auroraageno
00mercoledì 26 marzo 2008 07:04

Antiche sere,
musica lontana




E ora? pensò Francesca. La cena era finita, ma loro due indugiavano ancora a tavola. Fu lui a venirle in aiuto. “Le va di fare una passeggiata nei prati? L’aria si sta rinfrescando un po’.” Quando lei assentì, estrasse una macchina fotografica da uno degli zaini e se la buttò in spalla.
Kinkaid aprì la porta sul retro e si fece da parte per lasciarla passare prima di chiuderla gentilmente dietro di sé. Percorsero il marciapiede crepato, attraversarono il cortile di ghiaia e si diressero verso i prati a est del capannone che ospitava le macchine agricole, da cui si sprigionava un odore di lubrificante riscaldato dal sole.
Arrivati alla recinzione, lei abbassò con una mano il filo spinato e lo scavalcò, sentì la rugiada bagnarle i piedi protetti solo dai sandali. Lui fece lo stesso, sollevando con facilità gli stivali.
“Questo lo chiamano prato o pascolo?” chiese…
“Pascolo, credo. E’ il bestiame che provvede a tenere corta l’erba. Attenzione agli escrementi.” Una luna quasi piena saliva nel cielo di oriente, che si era fatto azzurro al calare del sole. Sulla strada sottostante, un’auto sfrecciò con un brontolio sordo. Il ragazzo dei Clark. Terzino della squadra di football di Winterset. Usciva con Judy Leverenson.
Era molto tempo che non faceva una passeggiata come quella. Dopo la cena, che consumavano sempre alle cinque, c’era il telegiornale, e quindi i programmi della sera, seguiti da Richard e a volte dai ragazzi, dopo che avevano fatto i compiti. Di solito Francesca restava in cucina a leggere libri della biblioteca di Winterset e del club a cui era iscritta, storia, narrativa e poesia, oppure, quando era bel tempo, andava a sedersi sulla veranda. La televisione la annoiava.
Quando Richard la chiamava: “Frannie, questo lo devi proprio vedere!” lo raggiungeva e restava con lui per un po’. Di solito era Elvis a suscitare quei richiami. E anche i Beatles, quando erano apparsi la prima volta all’Ed Sullivan Show. Richard guardava le loro capigliature e scuoteva la testa, incredulo e disapprovante.
Per qualche minuto, striature rossastre solcarono il cielo, “Io questo lo chiamo ‘effetto rimbalzo’”, disse Robert Kinkaid indicando in alto. “Quasi tutti hanno troppa fretta di mettere via la macchina fotografica. Dopo il tramonto c’è spesso un breve arco di tempo in cui la luce e i colori sono bellissimi. Sono soltanto pochi minuti, quando il sole è già scomparso all’orizzonte ma il cielo ne riflette ancora la luce.”
Francesca non fece commenti, ma si interrogava sul conto di un uomo al quale sembrava importante la differenza tra prato e pascolo, che si entusiasmava per le sfumature del cielo, che scriveva poesie ma poca narrativa. Che suonava la chitarra, si guadagnava da vivere con le immagini e portava la sua attrezzatura in due zaini. Che assomigliava al vento. Come il vento si muoveva. E forse dal vento era venuto.
Lui guardava ancora in alto, le mani infilate nelle tasche dei Levi’s, la macchina fotografica appoggiata sul fianco sinistro. “Le mele argentee della luna/Le mele dorate del sole.” Con la sua voce di mezzo baritono recitò i versi come avrebbe fatto un attore professionista.
Lei lo guardò. “W. B. Yeats, The Song of Wandering AEngus.”
“Giusto. In gamba, quello Yeats. Realismo, concisione, sensualità, bellezza, magia. Si adatta alle mie origini irlandesi.”
Aveva detto tutto in sole cinque parole. Francesca aveva faticato per spiegare Yeats agli studenti di Winterset, ma senza grandi risultati. Se aveva scelto Yeats era stato anche per quello che Kinkaid aveva appena detto, persuasa che certe caratteristiche sarebbero piaciute ad adolescenti con il glande martellante come le marcette della banda nell’intervallo fra il primo e il secondo tempo di una partita di football. Ma i pregiudizi che nutrivano nei confronti della poesia, l’abitudine a considerarla il prodotto di una virilità incerta, erano stati troppo perfino per Yeats.
Ripensò a Matthew Clark che guardava il suo compagno di banco e racchiudeva le mani come per posarle sui seni di una donna quando lei leggeva “Le dorate mele del sole”. Tutti e due avevano ridacchiato, e le ragazze sedute con loro nell’ultima fila erano arrossite.
Quel modo di pensare li avrebbe accompagnati per tutta la vita. Era stata questa consapevolezza a scoraggiarla, si era sentita umiliata e sola, a dispetto dell’apparente cordialità della gente del posto. Lì i poeti non erano i benvenuti. A compensazione del loro autoimposto senso di inferiorità culturale, gli abitanti della Madison County amavano ripetere: “E’ un buon posto per crescere i bambini”. E ogni volta lei provava l’impulso di ribattere: “Ma è un buon posto per crescere gli adulti?”
Senza una meta precisa, si inoltrarono lentamente nel pascolo per un centinaio di metri e, disegnando una curva, tornarono verso la casa. L’oscurità calò su di loro mentre scavalcavano la recinzione; questa volta fu lui ad abbassare il filo.


(continua)
auroraageno
00giovedì 27 marzo 2008 07:25

Francesca si ricordò del brandy. “Ho una bottiglia di brandy. O preferisce un po’ di caffè?”
“C’è la possibilità di averli tutti e due?” Le sue parole emersero dal buio, ma lei comprese che stava sorridendo.
Erano già dentro l’alone di luce descritto sull’erba e sulla ghiaia dalla lampada esterna quando lei rispose: “Naturalmente”, e qualcosa nel suono della sua voce la turbò. Era il suono delle chiare risate nei caffè di Napoli.
Non fu facile trovare due tazze prive di scheggiature. Sebbene sapesse con certezza che le tazze sbeccate erano parte integrante della vita di lui, questa volta ne voleva di perfette. I bicchieri del brandy, due di quelli che stavano sul fondo della credenza, capovolti, non erano mai stati usati. Come il brandy. Dovette alzarsi in punta di piedi per raggiungerli, conscia dei sandali umidi e dei jeans che le si tendevano sulle natiche.
Seduto sulla stessa sedia che aveva occupato a cena, lui la guardava. Gli antichi istinti che si andavano risvegliando. Si chiese quale fosse la consistenza dei suoi capelli al tocco, in che modo la curva della schiena di lei si sarebbe adattata al cavo della sua mano, che effetto avrebbe fatto sentirla sotto di sé.
Gli antichi istinti lottavano contro tutto ciò che è acquisito, contro il decoro costruito in secoli di cultura, contro le dure regole dell’uomo civile. Si sforzò di pensare a qualcos’altro, alla fotografia o alla strada, ai ponti coperti. Qualsiasi cosa che non fosse l’aspetto di lei in quel momento.
Non ci riuscì e di nuovo tornò a chiedersi che cosa avrebbe provato nello sfiorarle la pelle, nel premere il ventre contro quello di lei. Domande eterne, e sempre uguali. I maledetti antichi istinti, che si dibattevano sotto la superficie. Li ricacciò indietro, li spinse giù, e, accesa una Camel, inspirò profondamente.
Lei sapeva che la stava studiando, sebbene il suo fosse un esame cauto, mai palese né invadente. Sapeva che lui aveva capito che quei bicchieri non avevano mai contenuto del brandy. Ed era certa che, in virtù del suo senso del tragico, tipicamente irlandese, quel vuoto risvegliava in lui una qualche emozione. Non pietà. No, non era pietà che provava. Tristezza, forse. Le pareva quasi di percepire i pensieri che si andavano formando nella sua mente:

La bottiglia ancora chiusa,
e i bicchieri vuoti,
che lei cercava,
da qualche parte sul Middle River,
nello Iowa.
Io la guardavo con occhi
che avevano visto un Jivaro del Rio delle Amazzoni
e la Via della Seta,
dove la polvere delle carovane
si inerpicava dietro di me,
protendendosi verso vergini spazi
del cielo d’Asia.


Mentre toglieva il sigillo dal tappo, Francesca guardò le proprie unghie, desiderando che fossero più lunghe e più curate. Ma la vita di fattoria non consentiva di avere le unghie lunghe. E fino a quel momento non se n’era mai preoccupata.
Pose il brandy e i due bicchieri sul tavolo. Mentre lei preparava il caffè, lui aprì la bottiglia e versò la giusta quantità di liquore in entrambi i bicchieri. Robert Kinkaid non era nuovo al rito del brandy dopo cena.
Lei si chiese in quante cucine, in quanti ristoranti di lusso, in quanti soggiorni dalla luce soffusa avesse praticato quel piccolo rituale. Quante mani dalle lunghe unghie avesse visto stringersi intorno allo stelo di un bicchiere da brandy, quante paia di occhi rotondi e azzurri, castani e allungati, lo avessero osservato nel corso di esotiche serate, mentre barche a vela dondolavano al largo della costa e l’acqua schiaffeggiava i moli di antichi porti.
L’illuminazione centrale della cucina era troppo intensa per il caffè e il brandy. Francesca Johnson, moglie di Richard Johnson, l’avrebbe lasciata accesa. Francesca Johnson, una donna che passeggiava tra l’erba e sfogliava sogni adolescenziali, l’avrebbe spenta. Ci voleva una candela, ma sarebbe stato eccessivo. Lui avrebbe potuto farsi idee sbagliate. Accese la piccola lampada sopra il lavello e spense quella centrale. Non era ancora la perfezione, ma andava già meglio.
Lui sollevò il bicchiere all’altezza delle spalle e lo accostò a quello di lei. “Alle antiche sere e alla musica lontana.” Per qualche ragione, il brindisi le tolse il fiato per un istante. Ma toccò con il suo il bicchiere di lui, e anche se avrebbe voluto ripetere: “Alle antiche sere e alla musica lontana”, si accontentò di abbozzare un sorriso.
Seduti, fumarono in silenzio, bevendo brandy e caffè. Un fagiano gridò nei campi. In cortile Jack, il collie, abbaiò due volte. Le zanzare saggiavano la zanzariera della finestra vicina al tavolo, e una falena solitaria, dai pensieri tortuosi ma dall’istinto sicuro, fu attirata dalle infinite possibilità della luce sul lavello.
Faceva ancora caldo e non c’era un alito di vento, ma l’aria era umida. Robert Kinkaid sudava leggermente, i primi due bottoni della camicia slacciati. Non la guardava direttamente, ma lei intuiva di essere compresa nella sua visione periferica, sebbene lui paresse guardare fuori dalla finestra. Sedeva in modo da permetterle di distinguere un lembo di pelle del suo torace e le goccioline di sudore che lo imperlavano.
Sensazioni gradevoli si agitavano in Francesca, sensazioni antiche che parlavano di musica e di poesia. E tuttavia, pensò, era ora che lui se ne andasse. L’orologio sopra il frigorifero segnava le nove e cinquantadue. Alla radio c’era Faron Young, con una canzone di qualche anno addietro: The Shrine of St. Cecilia. Martire romana del terzo secolo dopo Cristo, rammentò Francesca. Patrona della musica e dei ciechi.
Il bicchiere di lui era vuoto. Mentre lui girava la testa verso l’interno, Francesca impugnò la bottiglia di brandy per il collo e fece il gesto di versare di nuovo. Lui scosse la testa: “Il Roseman Bridge all’alba. E’ meglio che vada”.
Lei ne fu sollevata. E al contempo precipitò nella delusione. Tutto era caos dentro di lei. Sì, ti prego, vattene. Bevi un altro brandy. Resta. Va’. A Faron Young non importava nulla delle sue sensazioni. E neppure importava alla falena che svolazzava sopra il lavello. Non riusciva a capire che cosa stesse pensando Robert Kinkaid.
Lui si alzò, si buttò uno zaino sulla spalla sinistra, mise l’altro sopra la frigoborsa. Lei fece il giro del tavolo. Prese la mano che lui le porgeva. “Grazie per la serata, per la cena e per la passeggiata. E’ stato tutto molto bello. Lei è una brava persona, Francesca. Tenga il brandy sul davanti della credenza, forse dopo un po’ funzionerà.”
Dunque sapeva, proprio come aveva immaginato. Ma non si sentiva offesa dalla sua osservazione. Lui stava parlando di romanticismo, e le sue intenzioni non avrebbero potuto essere migliori. Lo capiva dalla dolcezza con cui aveva parlato. Ciò che non sapeva era che lui avrebbe voluto gridare alle pareti della cucina, scolpendo le sue parole nell’intonaco: “Cristo Santo, Richard Johnson, sei davvero il grosso idiota che io credo tu sia?”
Lo seguì fino al furgone e rimase a guardarlo caricare l’attrezzatura. Il collie attraversò il cortile, cominciò ad annusare il veicolo. “Qui, Jack”, sibilò lei, e il cane le si mise al fianco, ansimante.
“Arrivederci. Stia bene”, la salutò lui, indugiando un istante accanto alla portiera. Per un attimo la guardò dritto negli occhi poi, con un unico movimento, fu dietro al volante e richiuse lo sportello. Accese il vecchio motore, premendo più volte sull’acceleratore. Sorridendo, si sporse dal finestrino. “Credo che abbia bisogno di una messa a punto.”
Spinse il pedale della frizione, ingranò la retromarcia, cambiò di nuovo e infine si mosse nel cortile illuminato. Un attimo prima che il furgone sparisse nell’oscurità del viale, la sua mano sinistra sbucò dal finestrino in un gesto di saluto. E lei, sebbene sapesse che non poteva vederla, salutò a sua volta.
Mentre il furgone discendeva il vialetto, Francesca percorse qualche metro di corsa, poi si fermò nel buio, seguendo con gli occhi i fanalini rossi che si allontanavano sobbalzando. Robert Kinkaid girò a sinistra sulla strada principale, in direzione di Winterset; lampi di colore solcavano il cielo d’estate e Jack caracollava già verso la veranda.
Dopo che lui se ne fu andato, Francesca indugiò davanti allo specchio del cassettone, nuda. I due parti le avevano allargato i fianchi solo impercettibilmente, il seno era ancora fermo e sodo, né troppo grande, né troppo piccolo, il ventre appena arrotondato. Lo specchio non le permetteva di vedere le gambe, ma sapeva che erano ancora belle. Avrebbe dovuto depilarsi più spesso, ma lì in campagna non sembrava avesse molta importanza.
Richard faceva l’amore con lei di rado, una volta ogni due mesi o giù di lì; era sempre una faccenda rapida, statica e rudimentale, e lui non sembrava particolarmente interessato a profumi, depilazioni e roba del genere. Era facile lasciarsi andare.
Per lui, la moglie era soprattutto un socio d’affari e, per certi versi, Francesca ne era lieta. Ma dentro di lei si agitava un’altra persona, una donna che voleva immergersi nell’acqua calda e profumata… ed essere presa, trasportata in alto, travolta da una forza di cui intuiva l’esistenza ma che non traduceva mai in parole compiute, neppure nella propria mente.
Si rivestì e, seduta al tavolo di cucina, scarabocchiò qualche parola su un mezzo foglio di carta ordinaria. Jack la seguì fino al furgoncino Ford e saltò dentro quando lei aprì la portiera. Uscirono in retromarcia dal capannone. Il collie si era sistemato sul sedile del passeggero, con la testa fuori dal finestrino; si girò per guardarla una volta e poi tornò a voltarsi mentre discendevano il vialetto e in fondo giravano a destra, sulla provinciale.
Il Roseman Bridge era immerso nel buio, ma Jack avanzò a lunghi balzi, annusando qua e là, mentre lei prendeva la pila. Con un puntina affisse il biglietto sul lato sinistro dell’ingresso al ponte, poi tornò a casa.


(continua)
auroraageno
00venerdì 28 marzo 2008 06:39

I ponti
di martedì



R
obert Kinkaid oltrepassò la cassetta per le lettere di Richard Johnson un’ora prima dell’alba, mentre addentava alternativamente un Milky Way e una mela, il bicchiere del caffè stretto tra le cosce per evitare che si rovesciasse. Lanciò uno sguardo alla casa bianca che si ergeva nel chiaro di luna ormai languente e scosse la testa pensando alla stupidità degli uomini, di certi uomini, di quasi tutti. Avrebbero potuto almeno bere il brandy, e non sbattere la controporta uscendo.
Francesca sentì passare lo sconquassato furgone. Era a letto, e aveva dormito nuda per la prima volta dopo chissà quanto tempo. Immaginò Kinkaid, con i capelli arruffati dal vento, una mano sul volante e nell’altra una Camel.
Mentre ascoltava il rombo del motore che si allontanava verso Roseman Bridge, recitò mentalmente i versi della poesia di Yeats. “Sono uscito nel bosco di noccioli, perché un fuoco ardeva nella mia testa…” La sua esecuzione era a metà fra il professorale e il supplichevole.
Lui parcheggiò il furgone a una certa distanza dal ponte, affinché non interferisse nel quadro generale. Da sotto il sedile estrasse un paio di stivali di gomma alti fino al ginocchio e sedette sul predellino per calzarli. Uno zaino fissato sulla schiena, il cavalletto agganciato sulla spalla sinistra e l’altro zaino nella mano destra, discese il ripido argine del corso d’acqua.
Il trucco stava nel riprendere il ponte da un’angolazione che trasmettesse un senso di dinamismo, che includesse uno scorcio del torrente ma non i graffiti che deturpavano il muro vicino all’ingresso. Anche i cavi del telefono visibili sullo sfondo costituivano un problema. ma un’inquadratura attenta avrebbe appianato ogni difficoltà.
Prese la Nikon caricata con un rullino Kodachrome e la fissò al pesante cavalletto. Sostituì l’obiettivo da ventiquattro millimetri con quello da centocinque, che prediligeva. Il cielo a est era grigio quando cominciò la ricerca della composizione. Spostò di una sessantina di centimetri il cavalletto, ne regolò l’altezza delle gambe, conficcate nel terreno melmoso. Teneva la macchina fotografica assicurata al polso sinistro, come sempre faceva in prossimità dell’acqua. Troppe ne aveva viste cadere in acqua quando il cavalletto si rovesciava.
Il cielo cominciava a schiarirsi, e il grigio andava sfumando nel rosso. Abbassare la macchina di una quindicina di centimetri, ridisporre il cavalletto. Non c’era ancora. Trenta centimetri più a sinistra. Modificare di nuovo l’altezza. Regolare l’obiettivo su F/8. Valutare la profondità del campo, aumentarla con la tecnica iperfocale. Avvitare il flessibile dello scatto. Il sole al quaranta per cento sopra l’orizzonte, e lo strato di vecchia vernice del ponte che andava assumendo una calda tonalità rossa: proprio quello che voleva.
Prendere l’esposimetro dal taschino della camicia, accertarsi che il diaframma fosse su F/8. Un secondo di esposizione, ma la pellicola Kodachrome avrebbe fatto egregiamente la sua parte. Guardò nel mirino. Regolazione orrida. Pigiò il pulsante di scatto e attese un secondo.
Proprio mentre scattava, qualcosa attirò il suo sguardo. Guardò di nuovo attraverso il mirino. “Che cosa diavolo c’è appeso all’ingresso del ponte?” brontolò fra sé e sé. “Un pezzetto di carta. Ieri non c’era.”
Assestare il cavalletto. Correre su per l’argine con il sole che lo inseguiva. Un foglio fissato con una puntina. Staccarlo, infilarlo in una tasca del gilè. Di nuovo giù, alla macchina. Il sole al sessanta per cento.
Aveva il fiato grosso per la corsa. Scattare di nuovo. Due volte consecutive, così da avere una copia. Neanche un alito di vento, l’erba immobile. Scattare tre foto a due secondi e tre a uno e mezzo, per sicurezza.
Modificare il diaframma su F/16. Ripetere daccapo l’intero procedimento. Spostare macchina e cavalletto in mezzo al torrente. Preparare l’ambientazione, la terra umida che cedeva sotto i suoi passi. L’intera procedura, ancora una volta. Un altro rullino Kodachrome. Cambiare obiettivo. Avvitare il ventiquattro, ficcarsi in tasca il centocinque. Avvicinarsi di più al ponte, risalendo contro corrente. Regolare, fissare, verificare la luce, scattare tre volte, più uno scatto di riserva.
Mettere la macchina in verticale, ricomporre l’inquadratura. Scattare di nuovo. Stessa sequenza, con metodicità. Non c’era goffaggine nei suoi movimenti. Tutto era ben sperimentato, tutto aveva una ragione, ogni eventualità era prevista, con efficienza e professionalità.
Su per l’argine, attraverso il ponte, con l’attrezzatura in spalla e in gara contro il sole. Cominciava la parte più faticosa. Prendere la seconda macchina con la pellicola più sensibile, infilarsele tutte e due al collo, arrampicarsi sull’albero vicino al torrente. La corteccia gli graffiò un braccio – “Diavolo!” – continuare ad arrampicarsi. In alto finalmente, in cerca di un’angolazione che cogliesse il riverbero della luce sull’acqua.
Regolare l’apparecchio su un’esposizione intermedia, così da mettere bene a fuoco il tetto del ponte, poi il suo lato in ombra. Inquadrare il riverbero sull’acqua. Nove scatti di fila, tenendosi in equilibrio, la macchina appoggiata sul giubbotto incuneato in una biforcazione dell’albero. Cambiare apparecchio. Pellicola a sensibilità più elevata. Un’altra dozzina di scatti.
Giù dall’albero, sull’argine. Sistemare il cavalletto, sostituire la pellicola, ricostruire una composizione simile a quella della prima serie, ma dalla sponda opposta. Estrarre la terza macchina fotografica, la vecchia SP con telemetro. Foto in bianco e nero, adesso. Sul ponte, la luce che mutava di secondo in secondo.
Dopo venti minuti di quell’attività intensa che solo i soldati, i chirurghi e i fotografi possono capire, Robert Kinkaid gettò gli zaini in macchina e riprese la strada da cui era venuto. Ci volevano quindici minuti per raggiungere l’Hogback Bridge, a nord-ovest della città; se si fosse sbrigato avrebbe potuto scattare qualche foto anche lì.
Tra turbinii di polvere, la Camel accesa, il furgone sobbalzante, oltre la casa di legno che guardava a nord, oltre la cassetta per le lettere di Richard Johnson. Nessuna traccia di lei. Be’, che cosa ti aspettavi? Pensò. E’ sposata, se la cava bene. Anche tu te la cavi bene. Chi ha bisogno di quel genere di complicazioni? Una bella serata, una bella cena, una bella donna. Quanto basta. Dio, è deliziosa, però, e c’è qualcosa in lei. Qualcosa. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
Francesca stava lavorando nella stalla quando il furgone passò di gran carriera. Il frastuono del bestiame copriva i rumori della strada. E Robert Kinkaid correva verso l’Hogback Bridge, sfidando gli anni, inseguendo la luce.


(continua)
auroraageno
00domenica 30 marzo 2008 06:27

Al secondo ponte, tutto andò a meraviglia. Era in una vallata e la foschia lo circondava ancora quando lui arrivò. L’obiettivo da trecento millimetri gli garantì un’ottima luce nel settore in alto a sinistra dell’inquadratura, mentre la parte restante era occupata dalla tortuosa strada bianca che si snodava fino al ponte e dal ponte stesso.
Poi nel mirino apparve un contadino arrampicato su un carro tirato da una coppia di cavalli marrone chiaro. Uno degli ultimi ragazzi di una volta, pensò Kinkaid con un sogghigno. Sapeva sempre quando il lavoro gli riusciva al meglio, ed era certo che una volta stampate le foto si sarebbero rivelate esattamente come le aveva volute. Nelle inquadrature in verticale lasciò un piccolo spazio di cielo vuoto in alto per l’eventuale titolo.
Quando ripiegò il cavalletto, alle otto e trentacinque, si sentiva di ottimo umore. Aveva fatto un buon lavoro. Roba bucolica, tradizionale, ma valida. Soddisfacente. La fotografia con l’agricoltore e i cavalli avrebbe potuto addirittura meritarsi la copertina; era quello il motivo per cui aveva lasciato lo spazio in cima, spazio per la didascalia, per un logo. In redazione apprezzavano quel genere di meditata maestria. Ecco perché molti servizi venivano affidati a Robert Kinkaid.
Aveva consumato per intero o in parte sette rullini, e ora infilò la mano nella tasca in basso a sinistra del gilè per prendere gli altri quattro. “Dannazione!” imprecò. La puntina gli aveva graffiato l’indice. Aveva dimenticato di averla messa lì quando aveva staccato il foglio di carta dal Roseman Bridge. In effetti, si era dimenticato anche del foglio. Lo tirò fuori, lo spiegò. “Se l’attira l’idea di un’altra cena ‘quando volano le falene’, venga stasera dopo il lavoro. Qualsiasi ora andrà bene.”
Non poté fare a meno di sorridere, mentre immaginava Francesca Johnson che guidava nella notte fino al ponte con il suo messaggio e la puntina. Cinque minuti dopo era in città. Mentre l’inserviente della Texaco faceva il pieno al furgone e controllava il livello dell’olio (“è quasi al minimo”), Kinkaid usò il telefono pubblico della stazione di servizio. Lo smilzo elenco telefonico era sudicio per essere stato sfogliato da troppe mani sporche di benzina. Di “R. Johnson”, ce n’erano due, ma accanto a uno figurava un indirizzo in città.
Compose l’altro numero e attese. Francesca stava dando da mangiare al cane, sulla veranda posteriore, quando in cucina suonò il telefono. Sollevò la cornetta al secondo squillo. “Johnson.”
“Salve, sono Robert Kinkaid.”
Qualcosa si mosse dentro di lei, proprio com’era successo il giorno prima. Una lieve trafittura che partiva dal petto e scendeva fino allo stomaco.
“Ho trovato il suo biglietto. W. B. Yeats come messaggero e tutto quanto. Accetto l’invito, ma potrei venire soltanto sul tardi. Il tempo è magnifico e ho in mente di andare a fotografare il… vediamo, come si chiama?... il Cedar Bridge… in serata. Con tutta probabilità non finirò prima delle nove. E dopo avrò bisogno di darmi una ripulita. Potrei essere da lei per le nove e mezzo, dieci. Le va bene?”
No, non le andava affatto bene. Non voleva aspettare così a lungo, ma disse soltanto: “Certo. Faccia il suo lavoro, è questa la cosa importante. Preparerò qualcosa da riscaldare al suo arrivo”.
E a quel punto lui aggiunse: “Se le va di venire con me, ne sarò felice. Non mi darà alcun disturbo. Potrei passare a prenderla verso le cinque e mezzo”.
Francesca valutò la proposta. Desiderava andare con lui. Ma se qualcuno l’avesse vista? Che cosa avrebbe detto a Richard, se lui fosse venuto a saperlo?
Il Cedar Bridge si trovava a una cinquantina di metri più a monte rispetto alla strada nuova e al ponte di cemento armato. Non credeva che qualcuno l’avrebbe notata lì. Oppure sì? Prese la sua decisione in meno di due secondi. “Mi piacerebbe. Ma preferisco venire con il mio furgone e incontrarla là. A che ora?”
“Verso le sei. Ci vediamo più tardi, allora. Arrivederci.”
Trascorse il resto della mattinata nella biblioteca locale, a sfogliare vecchi giornali. La cittadina era amena; davanti al tribunale si apriva una graziosa piazza, dove si sedette all’ora di colazione su una panchina all’ombra, con un sacchetto di frutta, del pane e una Coca comperata in un bar sull’altro lato della strada.
Era mezzogiorno passato da poco quando era entrato nel locale e aveva chiesto una Coca da portare via. Come nei vecchi saloon del selvaggio West al momento in cui compariva il famoso pistolero, la conversazione era cessata per un istante e tutti lo avevano guardato. Era una situazione che Kinkaid detestava e che lo riempiva d’imbarazzo, ma era inevitabile nei piccoli centri. Una persona nuova! Una persona diversa! Chi è? Che cosa ci fa qui?
“Non so chi ha detto che è un fotografo. Ha detto di averlo visto allo Hogback Bridge stamattina, con un sacco di macchine fotografiche.”
“La targa dice che viene da Washington, dall’ovest.”
“Ha passato tutta la mattinata in biblioteca. Jim dice che cercava dai giornali delle informazioni sui ponti coperti.”
“Già, ieri sera si è fermato dal giovane Fischer, alla Texaco, e gli ha chiesto la strada per tutti i ponti coperti.”
“Che cos’è che vuol sapere su quei ponti, in ogni caso?”
“E a chi diavolo può interessare fotografarli? Stanno andando in pezzi.”
“Certo che ce li ha proprio lunghi, i capelli. Sembra uno dei quei Beatle, o… com’è che si chiamano quegli altri? Hippie.” Gli occupanti del séparé in fondo scoppiarono a ridere, e così quelli del tavolo accanto.
Kinkaid prese la sua Coca e uscì, seguito dagli occhi di tutti. Forse aveva commesso un errore a invitare Francesca. Per lei, naturalmente, non per sé. Se qualcuno l’avesse vista al Cedar Bridge, grazie al giovane Fischer della stazione di servizio Texaco, l’indomani mattina la notizia sarebbe stata servita a tutti i clienti del bar insieme con il caffè. Forse perfino prima.
Aveva imparato a non sottovalutare la rapidità con cui le piccole notizie si diffondevano nelle città di provincia. Due milioni di bambini potevano morire di fame nel Sudan, ma questo non avrebbe scosso nessuno. Ma se la moglie di Richard Johnson veniva vista in compagnia di uno straniero con i capelli lunghi… be’, questa sì che era una notizia! Una notizia da far circolare, su cui rimuginare, una notizia che lambiva in modo vago ma carnale la mente di coloro che l’ascoltavano, l’unica increspatura nella piattezza di quell’annata.


(continua)
auroraageno
00martedì 1 aprile 2008 06:48

Finì di mangiare e andò al telefono pubblico collocato nel parcheggio del tribunale. Formò il numero. Lei rispose, un po’ affannata, al terzo squillo. “Salve, sono ancora io. Robert Kinkaid.”
Lo stomaco le si serrò. Non può venire, e ha chiamato per avvertirmi.
“Mi permetta di essere franco. Se per lei è un problema uscire con me oggi pomeriggio, considerata la curiosità che c’è nelle piccole città, non si senta obbligata a farlo. Io non potrei curarmi di meno di quello che pensano di me da queste parti, e in un modo o nell’altro verrò più tardi da lei. Quello che sto cercando di dire è che potrei aver commesso un errore invitandola e che non deve sentirsi costretta in alcun modo. Anche se mi piacerebbe averla con me.”
Dalla prima telefonata, Francesca aveva continuato a pensarci, ma aveva deciso. “No, sarò felice di vederla lavorare. Le chiacchiere non mi preoccupano.” La preoccupavano, invece, ma in lei qualcosa aveva preso il sopravvento, qualcosa che aveva a che fare con il rischio. A qualunque prezzo, sarebbe andata al Cedar Bridge.
“Fantastico. Volevo semplicemente esserne sicuro. Ci vediamo più tardi.”
“Okay.” Era un uomo sensibile, ma questo lei lo sapeva già.
Alle quattro lui passò dal motel presso cui alloggiava, lavò la biancheria nel lavabo, mise una camicia pulita e ne gettò una di ricambio nello zaino, insieme con un paio di pantaloni color kaki e i sandali marroni che aveva comperato in India nel 1962, quando vi si era recato per un servizio sulla nuova ferrovia di Budweiser. Gli riuscì di infilare otto bottiglie nella frigoborsa, sistemandole intorno alle pellicole.
Caldo, di nuovo caldo sul serio. Nello Iowa il calore del sole del tardo pomeriggio che splendeva rovente a ovest andava ad accumularsi su quello già assorbito dal cemento, dai mattoni e dal terreno.
L’osteria era buia e ragionevolmente fresca, grazie alla porta d’ingresso lasciata aperta e ai grossi ventilatori che ronzavano con un rumore di almeno centocinque decibel, uno sul soffitto e l’altro collocato su un piedistallo vicino all’entrata. Ma per qualche ragione, il rumore dei ventilatori, l’odore stantio di birra e di fumo, il frastuono del juke-box e le facce semiostili che lo fissavano dal bancone del bar l’avevano resa più calda di quanto realmente fosse.
In strada, la luce del sole era quasi dolorosa, e lui pensò alle Cascades, agli abeti e alle brezze di San Juan de Fuca, nei pressi del Kydaka Point.
Francesca Johnson però aveva l’aria fresca. Se ne stava appoggiata al paraurti del suo furgoncino Ford, parcheggiato dietro un folto d’alberi nei pressi del ponte. Portava gli stessi jeans aderenti che le stavano così bene, un paio di sandali e una maglietta bianca di cotone che metteva in risalto il suo corpo. Lui la salutò con il braccio mentre si fermava vicino al pickup.
“Salve. Sono contento di rivederla. Caldo, eh?” disse. Parole innocue, che giravano intorno al punto. Di nuovo la familiare sensazione di impaccio, scaturita dalla vicinanza di una donna per cui provava qualcosa. Non sapeva mai che cosa dire in quelle occasioni, a meno che non si parlasse di questioni serie. Pur dotato di un senso dell’umorismo sviluppato, anche se un po’ bizzarro, era fondamentalmente un tipo serio, e prendeva sul serio le cose. Sua madre diceva sempre che a quattro anni era già un adulto. Una qualità utile nella sua professione. Ma non altrettanto quando era in compagnia di donne come Francesca Johnson.
“Ci tenevo a guardarla lavorare. Mentre fa foto, come dice lei.”
“Be’, è proprio quello che vedrà, e lo troverà piuttosto noioso. Perlomeno, in genere è così. Non è come ascoltare qualcuno che suona il piano, quella è una cosa a cui si può partecipare. Nella fotografia, invece, c’è un notevole intervallo di tempo tra produzione e risultato. Oggi mi occuperò della produzione. Quando le foto saranno pubblicate, avremo il risultato. Tutto quello che vedrà sarà un sacco di movimento. Ma è la benvenuta. Anzi, sono proprio contento che abbia deciso di venire.”
Lei si aggrappò a quelle ultime parole. Non c’era alcuna necessità che le pronunciasse. Avrebbe potuto limitarsi al “benvenuta”, ma non l’aveva fatto. Era autenticamente felice di vederla, saltava agli occhi. Sperava che la sua presenza rendesse chiaro che lo stesso era per lei.
“Posso esserle d’aiuto?” gli domandò mentre lo guardava infilare gli stivali di gomma.
“Può portare lo zaino blu. Io prenderò quello marrone e il cavalletto.”
Così Francesca divenne l’assistente di un fotografo.
Lui aveva torto. C’erano tante cose da vedere. Anche quello era in qualche modo un risultato, sebbene lui non ne fosse consapevole. Se n’era resa conto il giorno prima, ed era una delle cose che l’avevano attratta in lui. La sua grazia, il dardeggiare dei suoi occhi, il guizzare dei muscoli delle braccia. Il modo in cui si muoveva, soprattutto. Paragonati a lui, gli uomini che conosceva sembravano tutti goffi.
Non che ci fosse alcunché di affrettato nelle sue movenze. Al contrario, non si affrettava per nulla. C’era in lui qualcosa della gazzella, sebbene fosse forte. Di una forza agile. Forse assomigliava più a un leopardo che a una gazzella. Sì, un leopardo. Non era lui la preda. Esattamente il contrario, intuì.
“Francesca, mi dia la macchina con la cinghia azzurra, per favore.”
Lei aprì lo zaino, maneggiando con cautela quasi eccessiva l’attrezzatura che lui sembrava trattare con tanta noncuranza e ne estrasse l’apparecchio. Sul rivestimento cromato del mirino era stampigliato “Nikon”, con una “F” in alto a sinistra.
Lui stava inginocchiato sul lato nord-est del ponte, il cavalletto regolato basso. Allungò il braccio sinistro senza staccare gli occhi dal mirino, e lei gli porse la macchina, lo guardò afferrarla all’altezza dell’obiettivo. Azionò il pulsante in fondo al cavetto che il giorno prima gli aveva visto penzolare da una tasca del gilè. L’otturatore scattò. Una, due volte.
Allungò la mano sotto il cavalletto per svitare la macchina fissata su di esso e, mentre la sostituiva con quella che lei gli aveva teso, si girò a guardarla e sorrise. “Grazie. E’ un’assistente di prima categoria.” Francesca arrossì lievemente.
Dio, che cos’era! Una creatura delle stelle arrivata fin lì a cavallo di una cometa per atterrare in fondo al viale di casa sua. Perché non riesco a dirgli semplicemente: “Non c’è di che”? pensò. Mi sento lenta davanti a lui, anche se non per colpa sua. Dipende da me, non da lui. Il fatto è che non sono abituata alle persone con una mente tanto pronta.


(continua)
auroraageno
00mercoledì 2 aprile 2008 06:39

Lui guadò il ruscello, risalì sull’argine opposto. Lei attraversò il ponte portando con sé lo zaino blu e si fermò alle sue spalle sentendosi felice, inspiegabilmente felice. C’era energia, e una sorta di potenza nel suo modo di lavorare. Non si limitava ad aspettare la natura, ma ne prendeva gentilmente possesso, la conformava ai suoi bisogni, adattandola alle immagini della sua mente.
Imponeva la sua volontà allo scenario, controbattendo ai mutamenti della luce con obiettivi differenti, pellicole diverse, occasionalmente con un filtro. Non si limitava a combattere, bensì esercitava il proprio dominio, usando l’abilità e l’intelletto. Anche gli agricoltori dominavano la terra con i prodotti chimici e i bulldozer. Ma il modo in cui Robert Kinkaid modificava la natura era elastico, e a lavoro ultimato lasciava sempre che le cose riacquistassero la loro forma originaria.
Notò come i suoi jeans si tendevano sulle cosce quando si inginocchiava. Notò la sbiadita camicia di cotone che gli si era incollata alla schiena, i capelli grigi che sfioravano il colletto. Notò la scioltezza con cui si accoccolava sui talloni per regolare qualche pezzo e, per la prima volta dopo un’eternità, si accorse di essersi bagnata semplicemente guardando un uomo. Allora alzò gli occhi verso il cielo della sera e respirò profondamente, ascoltandolo imprecare piano quando un filtro si rifiutò di farsi svitare dall’obiettivo.
Di nuovo lui attraversò il corso d’acqua diretto ai furgoni, sguazzando con i suoi stivaloni di gomma. Francesca entrò sotto il ponte e, quando riemerse dalla parte opposta, lui si era accovacciato e puntava la macchina verso di lei. Scattò, ricaricò, scattò una seconda e una terza volta mentre lei gli andava incontro. Francesca si accorse di sorridere, lievemente imbarazzata.
Sorrise anche lui. “Non si preoccupi. Non userò queste foto senza il suo permesso. Qui ho finito. Credo che mi fermerò al motel a darmi una lavata prima di raggiungerla.”
“Certo, se vuole. Ma posso darle un asciugamano e farle usare la pompa o la doccia, come preferisce”, disse lei, quietamente, seriamente.
“Affare fatto. Mi preceda. Carico l’attrezzatura su Harry, il mio furgone, e la raggiungo.”
A bordo del Ford di Richard, lei uscì in retromarcia dal folto di alberi e imboccò la strada principale, poi girò a destra verso Winterset e infine tagliò a sudovest in direzione di casa sua. C’era troppa polvere per vedere se lui la stava seguendo anche se a un certo punto, uscendo da una curva, le parve di vedere la luce dei suoi fari, circa un chilometro e mezzo più dietro, i fari del rumoroso furgone che lui chiamava Harry.
Doveva essere proprio lui, perché si era appena fermata quando lo sentì risalire il viale. Jack abbaiò un momento, ma tornò subito a sdraiarsi brontolando tra sé: “Lo stesso tizio di ieri sera; tutto okay, immagino”. Kinkaid indugiò un istante a parlare con lui.
“Doccia?” propose Francesca comparendo sulla porta di servizio.
“Sarebbe fantastico. Mi mostri la strada.”
Lo accompagnò di sopra, nel bagno che aveva insistito per far installare quando i figli avevano cominciato a farsi grandi. Era una delle poche richieste su cui aveva tenuto duro. Le piaceva fare lunghi bagni la sera, e non voleva che due adolescenti rumorosi invadessero i suoi spazi privati. Richard utilizzava l’altro bagno; sosteneva di sentirsi a disagio in mezzo a tanti oggetti femminili. “Troppi fronzoli”, era il suo commento.
Il bagno si poteva raggiungere solo attraverso la camera da letto. Lei aprì la porta e dal mobiletto sotto il lavabo estrasse un assortimento di asciugamani e un telo da bagno. “Faccia con comodo.” E sorrise, mordicchiandosi il labbro inferiore.
“Userei volentieri un po’ del suo shampoo, se a lei non dispiace. Il mio è rimasto al motel.”
“Ma certo. Si serva pure.” Posò sul ripiano tre diverse boccette di shampoo, tutte parzialmente usate.
“Grazie.” Quando buttò gli indumenti puliti sul letto, Francesca notò la camicia bianca, i pantaloni kaki e i sandali. Nessuno dei locali portava sandali. Alcuni tra quelli che venivano dalla città avevano cominciato a indossare bermuda per giocare a golf, ma non gli agricoltori. E i sandali… mai più!
Mentre scendeva, sentì scorrere l’acqua della doccia. Ora è nudo, pensò, e fu colta da una strana sensazione al ventre.
Quella mattina stessa, dopo che lui le aveva telefonato, era andata fino a Des Moines, a più di cinquanta chilometri di distanza, al negozio di liquori. Non aveva esperienza in materia e aveva chiesto al commesso di consigliarle un buon vino. Lui non ne sapeva più di lei, ossia praticamente nulla, così Francesca si era guardata in giro finché non aveva notato una bottiglia la cui etichetta diceva: Valpolicella. Si ricordava di quel vino per averlo bevuto tanto tempo prima. Vino rosso italiano, secco. Ne acquistò due bottiglie più una di brandy, sentendosi una donna sensuale e di mondo.
Dopodichè si era spostata in un negozio del centro, alla ricerca di un abito estivo. Ne aveva scelto uno rosa chiaro, con due sottili spalline. Era molto scollato sulla schiena, e sul davanti la scollatura si tuffava profondamente tra i seni, in vita era trattenuto da una fusciacca. Aveva acquistato anche un paio di sandali nuovi, bianchi e costosi, senza tacco, con un delicato lavoro di intarsio sui lacci.
Nel pomeriggio aveva preparato dei peperoni farciti con un ripieno di salsa di pomodoro, riso integrale, formaggio e prezzemolo tritato. Li avrebbe serviti con una semplice insalata di spinaci, pane di granturco, e un soufflé con salsa di mele come dessert. Ora tutto, a parte il soufflé, era in frigorifero.
Preparata la cena, aveva accorciato il vestito nuovo in modo che la gonna le sfiorasse il ginocchio. Qualche tempo prima, sul Register di Des Moines era apparso un articolo che spiegava come quella fosse la moda della stagione. Lei aveva sempre giudicato bizzarri i dettami della moda, che obbligava la gente a comportarsi come pecore, assoggettandosi ai capricci degli stilisti europei, ma quella lunghezza le piaceva e così aveva fatto l’orlo.
Il vino le aveva creato qualche problema. Da quelle parti la gente lo teneva in frigo, sebbene in Italia non lo facesse nessuno. Ma faceva troppo caldo per lasciarlo semplicemente sulla credenza. A quel punto si era ricordata del magazzino costruito sopra la sorgente. In estate lì dentro non c’erano mai più di sedici gradi. Aveva posto le bottiglie per terra, allineate contro il muro.
Il rumore della doccia cessò proprio nel momento in cui il telefono cominciava a squillare. Era Richard dall’Illinois.
“Tutto bene?”
“Sì.”
“Il manzo di Carolyn verrà presentato mercoledì. E il giorno dopo contiamo di vedere qualche altra cosa. Saremo di ritorno venerdì sul tardi.”
“Benissimo. Divertitevi e guida piano.”
“Frannie, sei sicura che sia tutto a posto? Mi sembri un po’ strana.”
“No, sto benissimo. Accaldata, niente di più. Mi sentirò meglio dopo aver fatto il bagno.”
“D’accordo. Saluta Jack da parte mia.”
“Lo farò.” Lei guardò il collie sdraiato sul pavimento della veranda.
Robert Kinkaid comparve sulle scale. Camicia bianca con i primi due bottoni slacciati e le maniche rimboccate fin sotto il gomito, leggeri pantaloni color kaki, braccialetto e catena d’argento. I capelli ancora umidi erano pettinati con cura, divisi nel mezzo. E di nuovo lei si stupì dei sandali.
“Vado a portare la roba sporca sul furgone e a prendere l’attrezzatura, ha bisogno di una pulita.”
“D’accordo. Quanto a me, credo che farò un bagno.”
“Vuole una birra da portarsi di sopra?”
“Se gliene avanza una.”
Per prima cosa lui portò dentro la frigoborsa, ne estrasse una bottiglia e la aprì, mentre lei recuperava due bicchieri alti che potevano passare per boccali. Quando lui uscì di nuovo, lei prese il suo e andò di sopra. Aveva lavato la vasca, notò. Fece scorrere l’acqua calda e lasciò il bicchiere sul pavimento mentre si depilava le gambe e si insaponava. Pensò che lui era stato lì solo pochi minuti prima, che era sdraiata esattamente dove l’acqua era scivolata via dal suo corpo e trovò quella considerazione altamente erotica. Ma ormai quasi tutto quello che concerneva Robert Kinkaid aveva cominciato ad apparirle erotico.
Bastava un semplice bicchiere di birra per rendere elegante anche il momento del bagno. Perché lei e Richard non vivevano in quel modo? In parte, lo sapeva, era a causa dell’inerzia che sempre provocano le abitudini protratte nel tempo. Capitava in tutti i matrimoni, in tutte le relazioni. L’abitudine conduce alla prevedibilità, e la prevedibilità ha i suoi lati positivi; era consapevole anche di questo.
E c’era la fattoria. Come un invalido esigente, richiedeva attenzione costante, sebbene l’aumento delle macchine che si sostituivano al lavoro manuale avesse reso il compito molto meno oneroso che in passato.
Ma lì stava succedendo qualcos’altro. La prevedibilità è un conto, la paura di cambiare un altro. E Richard aveva paura dei cambiamenti, di ogni tipo di cambiamento, nell’ambito del loro matrimonio. Non voleva affrontare l’argomento in generale e, in particolare, non voleva parlare di sesso. L’erotismo era, per certi versi, una faccenda pericolosa, estranea al suo modo di pensare. Non era il solo, naturalmente, e in realtà non era neppure da biasimare. Da dove traeva origine la barriera che era stata eretta contro la libertà? Non solo nella loro fattoria, ma nell’intera cultura rurale. E forse anche in quella urbana. Perché quei muri e quelle recinzioni a impedire relazioni aperte, spontanee, tra uomini e donne? Perché quella mancanza di intimità, quell’assenza di erotismo?
Le riviste femminili ne parlavano. E le donne stavano cominciando a nutrire grandi aspettative nei confronti del ruolo a esse destinato nel grande scenario cosmico, così come di quello di cui erano investite in camera da letto. Gli uomini come Richard – quasi tutti gli uomini, pensava lei – si sentivano minacciati da quelle aspettative. In un certo senso, le donne chiedevano ai loro compagni uomini di essere poeti e nel contempo amanti intensi e appassionati.
Le donne in questo non vedevano alcuna contraddizione. Gli uomini sì. Gli spogliatoi, le feste di soli uomini, le piscine e le ristrette adunate che segnavano la loro esistenza definivano un insieme di caratteristiche maschili in cui non c’era posto per la poesia né per le sfumature del sentimento. Di conseguenza, se l’erotismo era una questione di sfumature, una forma d’arte di per sé, come Francesca sapeva essere, non aveva spazio alcuno nell’ordito delle loro vite. Così continuava la danza fuorviante e convenientemente brillante che li teneva lontani, mentre di notte nella Madison County le donne sospiravano e giravano la faccia verso il muro.
La mente di Robert Kinkaid riusciva a capire tutto questo, implicitamente. Lei ne era sicura.
Mentre si asciugava aggirandosi per la stanza, notò che erano da poco passate le dieci. Faceva ancora caldo, ma il bagno l’aveva rinfrescata. Prese dall’armadio il vestito nuovo.
Si pettinò i capelli all’indietro, legandoli sulla nuca con un fermaglio d’argento. Orecchini d’argento, grandi e a cerchio, e un morbido braccialetto pure d’argento, anche quello comperato quella mattina a Des Moines.
Di nuovo il profumo Wind Song. Un tocco di fard sugli zigomi. Un viso latino, il suo, di una tonalità rosata appena un po’ più chiara di quella dell’abito.
L’abbronzatura che si era procurata lavorando in giardino con addosso solo i pantaloncini e un top faceva risaltare meglio l’insieme. Le gambe snelle evidenziate dalla gonna corta la riempirono di compiacimento.
Davanti allo specchio del comò, si girò prima da una parte, poi dall’altra. E’ il massimo che posso fare, pensò, e poi, soddisfatta, mormorò a mezza voce: “Niente male, però”.
Robert Kinkaid era alla seconda birra e stava mettendo via il suo equipaggiamento. Sollevò la testa nel sentirla entrare.
“Gesù”, alitò. Tutte le emozioni, tutto il suo lavoro di ricerca e di riflessione, una vita di emozioni tornarono ad assalirlo in quel momento. E si innamorò di Francesca Johnson, moglie di un agricoltore della Madison County, Iowa, originaria di Napoli.
“Voglio dire…” la sua voce risuonò un po’ tremula, un po’ rauca… “se non le dispiace che glielo dica, lei è sensazionale. Sensazionale da-fare-il-giro-dell’isolato-urlando. Sul serio. E’ follemente elegante, Francesca, nel senso più puro del termine.”
La sua ammirazione era genuina, lei ne era certa. Vi sprofondò, vi si crogiolò, lasciò che la trasportasse in alto e le penetrasse in ogni poro come olio sgorgato dalle mani di un’ignota divinità che anni prima l’aveva abbandonata per tornare quella sera.
E, nell’esaltazione del momento, s’innamorò di Robert Kinkaid, fotografo-scrittore di Bellingham, Washington, arrivato al volante di un vecchio furgone che si chiamava Harry.





(continua)
auroraageno
00giovedì 3 aprile 2008 06:55

Uno spazio
per ballare ancora




Quel martedì sera dell’agosto 1965, Robert Kinkaid guardava fisso Francesca Johnson. Lei ricambiava il suo sguardo. A tre metri di distanza erano uniti l’uno all’altra, saldamente, intimamente, inesorabilmente.
Squillò il telefono. Lei continuò a guardarlo, e non si mosse al primo squillo, e neppure al secondo. Nel lungo silenzio che precedette il terzo, lui tirò un respiro profondo e abbassò gli occhi sulle custodie delle macchine fotografiche. Fu quel gesto a consentirle di attraversare la cucina per andare all’apparecchio, fissato alla parete proprio dietro la sedia di lui:
“Casa Johnson… Ciao, Marge. Sto bene, sì. Giovedì sera?” Fece in fretta qualche calcolo: lui aveva detto che si sarebbe trattenuto una settimana, era arrivato il giorno prima e si era soltanto a martedì. La decisione di mentire fu facile.
Era in piedi accanto alla porta di servizio, la cornetta nella mano sinistra. Lui le dava la schiena, ed era così vicino che avrebbe potuto toccarlo. Allungò la mano destra e gliela posò sulla spalla, nel modo casuale in cui una donna tocca un uomo a cui vuole bene. In sole ventiquattro ore era arrivata a voler bene a Robert Kinkaid.
“Oh, Marge, non credo che mi sarà possibile. Devo andare a fare spese a Des Moines. L’occasione giusta per sbrigare un’infinità di commissioni che continuo a rimandare. Sai com’è, con Richard e i ragazzi via.”
La sua mano riposava sulla spalla di lui. Sentiva il muscolo che univa il collo alla spalla, proprio sotto la clavicola. Abbassò gli occhi sui suoi folti capelli grigi divisi in mezzo. Vide come ricadevano sul colletto. Marge continuava a blaterare.
“Sì, Richard ha chiamato poco fa… No, i giudici non lo esamineranno prima di domani, mercoledì. Ha detto che saranno a casa venerdì sul tardi. C’è qualcosa che vogliono vedere, giovedì. E’ un viaggio lungo, soprattutto con il furgone per il trasporto del bestiame… No, gli allenamenti di pallone inizieranno solo la settimana prossima. Uh-uh, una settimana. Almeno, questo è quello che ha detto Michael.”
Percepiva il calore del suo corpo sotto la camicia, un calore che le penetrava nella mano, risaliva lungo il braccio e da lì si irradiava dappertutto, senza alcuno sforzo… e senza alcun controllo da parte di lei. Lui stava immobile, attento, intuiva Francesca, a non fare rumori che potessero rivelare a Marge la sua presenza.
“Oh, sì, un uomo che voleva indicazioni.” Come aveva immaginato, appena arrivato a casa il giorno prima, Floyd Clark aveva detto alla moglie di aver visto un furgone verde nel cortile dei Johnson.
“Un fotografo? Santo cielo, non saprei. Non ci ho fatto caso. Può essere.” Ora le bugie le venivano più facili.
“Cercava il Roseman Bridge… E’ questo il nome, no? Per fotografare i vecchi ponti, dici? Oh, be’, mi sembra un’attività abbastanza innocua.”
“Un hippie?” Francesca ridacchiò e guardò Kinkaid che scuoteva lentamente la testa. “Ma, non saprei. Era un tipo educato. Si è fermato solo un minuto o due… Non so se ci siano hippie in Italia, Marge. Non ci vado da otto anni. E comunque non so se saprei riconoscere un hippie anche se lo vedessi.”
Marge stava parlando dell’amore libero, di comunità e di droghe di cui aveva letto da qualche parte.
“Marge, stavo andando a fare il bagno quando hai chiamato, ed è meglio che mi sbrighi se non voglio che l’acqua si raffreddi… Okay, ci sentiamo presto. Ciao.”


(continua)
auroraageno
00giovedì 3 aprile 2008 06:57

Non le andava di staccare la mano dalla sua spalla, ma non aveva alcuna scusa per non farlo. Andò al lavello e accese la radio. Ancora musica country. Cambiò stazione finché non ne trovò una che le piaceva.
Tangerine”, disse lui.
“Che cosa?”
“La canzone. Si intitola Tangerine. Parla di una donna argentina.” Ecco che di nuovo girava intorno alle cose. Dicendo qualcosa, qualsiasi cosa, nel tentativo di guadagnare tempo e di riacquistare il senso della realtà, mentre udiva, in un angolo della propria mente, il clic di una porta che si chiudeva dietro un uomo e una donna, in una cucina dello Iowa.
Lei gli rivolse un sorriso dolce. “Fame? La cena è pronta, se vuole.”
“E’ stata una lunga giornata. Una buona giornata. Non mi dispiacerebbe un’altra birra prima di cenare. Ne beve una con me?” Indugiava, in cerca del proprio equilibrio, perdendolo a poco a poco.
La beveva volentieri. Lui aprì due bottiglie e gliene posò una davanti.
Francesca era soddisfatta del proprio aspetto e di come si sentiva. Femminile, ecco come si sentiva. Leggera, calda e femminile. Seduta sulla sedia di cucina, accavallò le gambe e la gonna le risalì di parecchio sul ginocchio destro. Kinkaid era appoggiato al frigorifero, le braccia conserte sul petto, la Budweiser nella mano destra. Le faceva piacere che lui notasse le sue gambe, e in effetti le notò.
Aveva notato tutto di lei. Avrebbe potuto andarsene prima, aveva ancora il tempo di farlo. La razionalità strepitava dentro di lui. “Coraggio, Kinkaid, rimettiti in strada. Fotografa i ponti e vattene in India. Fermati a Bangkok e cerca la figlia del mercante di sete, la donna che conosce tutti gli antichi segreti per raggiungere l’estasi. Nuota nudo con lei all’alba negli stagni della giungla e al tramonto ascoltala urlare mentre la penetri. Dimentica questa storia…” ora la voce sibilava. “Finirà con lo schiacciarti.”
Ma era cominciato un tango lento. Da qualche parte suonava un’antica fisarmonica. Molto dietro di lui, o forse più avanti, non avrebbe saputo dirlo. Ma si stava avvicinando. E la sua musica gli offuscò la mente e incanalò tutte le alternative possibili verso l’interezza. Inesorabilmente, finché non rimase altro posto dove andare se non da Francesca Johnson.
“Possiamo ballare, se le va. E’ proprio la musica giusta”, disse con quel suo fare serio, timido. Poi subito avanzò le sue riserve: “Come ballerino non sono granché, ma se vuole, credo che in una cucina riuscirò a cavarmela”.
Jack grattava alla porta, voleva entrare. Poteva restare fuori.


(continua)
auroraageno
00venerdì 4 aprile 2008 01:04

Francesca arrossì lievemente. “D’accordo. Ma neppure io sono molto brava… Non più. Da ragazza, in Italia ballavo, ma qui ho modo di farlo solo a Capodanno, e di rado anche in quell’occasione.”
Lui sorrise e posò la birra sul piano da lavoro. Lei si alzò, si mossero l’uno verso l’altra. “E’ la vostra serata danzante del martedì, dalla stazione radio WGN, Chicago”, annunziò una calda voce baritonale. “A risentirci dopo la pubblicità.”
Risero tutti e due. Telefonate e annunci pubblicitari. C’era sempre qualcosa che tornava a frapporre la realtà fra di loro. Lo sapevano entrambi, anche senza dirselo.
Ma lui le aveva preso ugualmente la mano. Si appoggiò con un gesto fluido al ripiano, le gambe incrociate all’altezza delle caviglie. Lei gli si mise vicino, appoggiandosi al lavello, e guardò fuori dalla finestra, conscia delle dita sottili di lui intrecciate con le sue. Non c’era vento, e il granturco cresceva.
“Oh, un minuto solo.” Riluttante, Francesca staccò la mano dalla sua e si chinò ad aprire l’ultimo cassetto a destra della credenza. Ne estrasse due candele che aveva comperato a Des Moines quella mattina, insieme a due piccoli candelieri d’ottone. Posò tutto sul tavolo.
Lui si accostò, inclinò una candela per accenderla mentre lei spegneva la luce centrale. Adesso era buio, fatta eccezione per le fiammelle puntate verso l’alto, appena tremolanti nella notte immobile. L’austera cucina non era mai stata così bella.
Ricominciò la musica. Fortunatamente per tutti e due, era una versione lenta di Autumn Leaves.
Lei si sentiva goffa. E così lui. Ma la prese per mano, le passò un braccio intorno alla vita e si mossero insieme. Ogni impaccio svanì, misteriosamente tutto divenne facile. Lui la strinse con più forza, attirandola verso di sé.
Lei percepiva il suo odore, un odore tiepido di pulito e di sapone. L’odore gradevole, essenziale di un uomo civilizzato che pure aveva conservato in sé un che di primitivo.
“Che buon profumo”, mormorò lui, posando le loro mani intrecciate sul proprio petto, vicino alla spalla.
“Grazie.”
Ballarono. Piano, muovendosi appena. Lei sentiva le gambe di lui contro le sue. e di tanto in tanto i loro corpi si sfioravano.
La canzone finì, ma lui non la lasciò andare; canticchiò la melodia che avevano appena ascoltato, e rimasero così, abbracciati, finché non cominciò un’altra canzone. Ve la trascinò dentro, e la danza riprese, mentre le cicale lamentavano l’imminenza di settembre.
Lei sentiva i muscoli delle sue spalle sotto la leggera camicia di cotone. Era reale, più reale di qualunque cosa avesse conosciuto fino ad allora. Lui si chinò leggermente in avanti, per posare la guancia contro quella di lei.


(continua)
auroraageno
00venerdì 4 aprile 2008 01:05

Nel periodo che trascorsero insieme, lui una volta parlò di se stesso come dell’ultimo cowboy. Erano fuori, seduti sull’erba vicino alla pompa. Lei non capì e gli chiese spiegazioni.
“C’è una certa razza d’uomo ormai obsoleta”, disse, “o quasi. Il mondo sta diventando organizzato, troppo organizzato per me e per pochi altri. Tutto al suo posto, e un posto per ogni cosa. Lo ammetto, anche la mia attrezzatura fotografica è piuttosto ben organizzata, ma io sto parlando di qualcosa di ben diverso. Regole e normative, leggi e convenzioni sociali. Gerarchie d’autorità. Spazi di controllo, piani a lungo termine e budget. Tutto in mano alle compagnie, nel ‘budget’ noi confidiamo. Un mondo di abiti a tre pezzi spiegazzati ed etichette gommate con il nome sopra.
“Gli uomini non sono tutti uguali. Alcuni se la caveranno benissimo nel mondo che sta nascendo. Altri, forse soltanto pochi, no. Lo vedi nei computer e nei robot, e in quello che annunciano. Nel mondo di una volta c’erano cose che potevamo fare, che eravamo destinati a fare e in cui nessun altro e nessuna macchina avrebbe potuto sostituirci. Corriamo veloci, siamo forti e rapidi, duri e aggressivi. Ci è stato infuso coraggio. Sappiamo scagliare le lance molto lontano e sostenere un combattimento a corpo a corpo.
“Alla fine, saranno i robot e i computer a occuparsi di tutto. Gli esseri umani gestiranno le macchine, ma per questo non sono necessari coraggio o forza. Gli uomini stanno a tutti gli effetti sopravvivendo alla loro utilità. Tutto ciò che serve sono le banche dello sperma, per far sì che la specie continui a riprodursi, e anche queste stanno arrivando. Stando a quanto dicono le donne, gran parte degli uomini sono amanti da poco, di conseguenza sostituire la scienza al sesso non rappresenterà una gran perdita.
“Stiamo rinunciando alla libera scelta in favore dell’organizzazione e di sentimenti sempre più sfumati, del rendimento e dell’efficienza, e di tutti gli altri artifici intellettuali. E con la perdita della libertà di scelta, scompare il cowboy insieme con il puma e il lupo grigio. Per i vagabondi non resta più molto spazio.
“Io sono uno degli ultimi cowboy. Il mio lavoro mi permette una certa autonomia, più o meno tutta quella possibile al giorno d’oggi. La cosa non mi rattrista; forse mi dà un po’ da pensare. Ma non potrà non accadere, è l’unico modo per impedirci di autodistruggerci. La mia tesi è che sono gli ormoni maschili la causa ultima dei problemi che affliggono il pianeta. Un conto era sconfiggere una tribù o un guerriero nemici. Un altro è disporre di missili. E un altro conto ancora è il potere di distruggere la natura così come stiamo facendo. Rachel Carson ha ragione. Come ce l’avevano John Muir e Aldo Leopold.
"La maledizione dei tempi moderni sta nella preponderanza di ormoni maschili in luoghi e situazioni in cui possono causare danni a lungo termine. Anche a non voler considerare le guerre tra nazioni e le violenze alla natura, rimane comunque un'aggressività che ci tiene lontani l'uno dall'altro e dai problemi con cui dobbiamo confrontarci. E' indispensabile trovare il modo di sublimare gli ormoni maschili, o almeno di tenerli sotto controllo.
"Probabilmente, è arrivato il momento di dimenticare l'infanzia e cominciare a crescere. Che diavolo, lo riconosco. Lo ammetto. Io sto solo cercando di fare qualche buona fotografia e abbandonare il treno della vita prima di diventare completamente obsoleto o di provocare gravi danni."


(continua)
auroraageno
00sabato 5 aprile 2008 06:54

Nel corso degli anni, lei aveva ripensato spesso a quelle parole. Di primo acchito suonavano giuste, eppure il suo atteggiamento sembrava contraddirle. C'era in lui una certa nascosta aggressività, che però pareva in grado di controllare, di accendere e spegnere a suo piacimento. Ecco che cosa l'aveva attratta e al contempo sconcertata... La sua intensità, stupefacente, ma controllata, dosata, un'intensità acuminata come una freccia, frammista a calore e del tutto priva di meschinità.
Quel martedì sera, mentre ballavano in cucina, si erano gradatamente e spontaneamente avvicinati sempre di più l'uno all'altra. Premuta contro il suo petto, Francesca si chiedeva se lui percepiva i suoi seni attraverso la stoffa ed era certa che fosse così.
Lui le rimandava sensazioni stupende. Avrebbe voluto che quel ballo durasse per sempre. Altre vecchie canzoni, altri movimenti lenti, e ancora il corpo di lui contro il suo. Stava diventando di nuovo una donna. Aveva ritrovato lo spazio per ballare ancora. Con lentezza, ma inesorabilmente, andava verso casa, un luogo in cui non era mai stata prima.
Faceva caldo. L'umidità era intensa e a sud-ovest rumoreggiava il tuono. Le falene si appiccicavano contro le zanzariere, attirate dalle candele, bramose di luce.
Ora lui stava sprofondando in lei, e lei in lui. Staccò la guancia dalla sua, lo guardò con i suoi occhi scuri, e quando lui la baciò ricambiò il suo bacio, un bacio lungo e dolce che era come un fiume.
Avevano rinunciato alla finzione della danza, lei gli cinse il collo con le braccia. Lui le teneva la mano sinistra sulla schiena e con la destra le accarezzava il collo, la guancia e i capelli. Thomas Wolfe parlava del "fantasma dell'antico ardore". Quel fantasma si era risvegliato in Francesca Johnson. In entrambi.
Dal suo posto vicino alla finestra, il giorno del suo sessantasettesimo compleanno, Francesca guardava la pioggia e ricordava. Si trasferì con il brandy in cucina, dove indugiò un istante a guardare il punto esatto in cui avevano ballato insieme. Come sempre, la agitavano sensazioni intensissime. Così potenti che in tutto quel tempo aveva osato rivisitare nei dettagli l'accaduto solo una volta all'anno, altrimenti la carica emozionale che conteneva avrebbe finito per disintegrarle la mente.
Si era astenuta dai ricordi, per riuscire a sopravvivere, e tuttavia da qualche tempo i particolari tornavano da lei con sempre maggiore frequenza. Le immagini erano reali, nitide e presenti. E così lontane. Ventidue anni. Ma stavano lentamente ridiventando la sua realtà, l'unica in cui le premesse vivere.
Sapeva di avere sessantasette anni, e lo accettava, ma le riusciva impossibile immaginare che Robert Kinkaid ne avrebbe avuti quasi settantacinque. Non poteva pensarci, non poteva concepirlo, e neppure concepire di poterlo concepire. Lui era lì con lei, in quella cucina, con la sua camicia bianca, i lunghi capelli grigi, i pantaloni kaki, i sandali marroni, il braccialetto d'argento e la catena pure d'argento al collo. Era lì, e la cingeva con le braccia.
Infine si staccò da lui, si allontanò dal punto in cui si erano abbracciati e lo prese per mano. Lo guidò verso le scale e di sopra, oltre la camera di Carolyn, oltre quella di Michael e finalmente nella sua, dove accese la piccola lampada da notte.


(continua)
auroraageno
00sabato 5 aprile 2008 18:44

Adesso, dopo tanti anni, Francesca prese il bicchiere del brandy e cominciò a salire lentamente, la mano destra dietro di sé, come se trascinasse il ricordo di lui su per le scale e lungo il corridoio fino alla stanza da letto.
Le immagini erano impresse nella sua mente con una chiarezza che le rendeva simili alle nitide fotografie di lui. Rammentava la sequenza onirica dei vestiti che cadevano a terra e di loro due nudi a letto. Ricordava come lui le si fosse messo sopra, muovendo piano il torace contro il suo ventre e i suoi seni. Lo aveva fatto più e più volte, come in un rito di corteggiamento animale descritto da un vecchio testo di zoologia. E mentre si muoveva sopra di lei, le baciava le orecchie o le labbra, le sfiorava il collo con la lingua, leccandola come farebbe un leopardo tra l'erba alta della savana.
Era un animale. Un animale aggraziato, solido e maschio, che apparentemente non faceva nulla per dominarla, e tuttavia la dominava completamente, proprio come lei desiderava che accadesse in quel momento.
Ma ciò che esisteva fra loro andava ben oltre l'aspetto fisico, sebbene la sua capacità di fare l'amore a lungo senza stancarsi ne costituisse una parte. Amarlo era - la definizione le sembrava quasi trita ora, dopo l'attenzione tributata a certe questioni negli ultimi due decenni - spirituale. Spirituale, eppure non trito.
Mentre facevano l'amore, lei glielo aveva bisbigliato, riassumendo i propri pensieri in un'unica frase: "Robert, sei così potente da farmi paura". Lui era fisicamente potente, ma usava la sua forza con cautela. E in ogni caso, c'era molto di più.
Il sesso era solo un aspetto. Dal momento in cui l'aveva conosciuto, lei aveva vissuto nell'aspettativa - nella possibilità, perlomeno - di un'esperienza piacevole, che interrompesse finalmente una routine di ossessionante monotonia. Non aveva tenuto conto della sua stupefacente potenza.
Era come se lui avesse preso possesso di lei, a tutti i livelli. Ed era una scoperta inquietante. Prima, neppure per un attimo aveva dubitato che una parte del suo essere avrebbe mantenuto il distacco da qualunque cosa lei e Robert Kinkaid potessero fare insieme, la parte che apparteneva alla sua famiglia e alla vita nella Madison County.
Ma lui aveva spazzato via tutto. Avrebbe dovuto capirlo quando lo aveva visto scendere dal furgone per chiederle indicazioni. Le aveva ricordato uno sciamano, e quella prima impressione si era rivelata corretta.
Facevano l'amore per un'ora, forse più, poi lui si staccava lentamente e guardandola accendeva una sigaretta per entrambi. A volte si acccontentava di sdraiarsi al suo fianco, senza smettere mai di accarezzarla. Poi tornava ad affondare dentro di lei, sussurrandole parole dolci all'orecchio mentre la prendeva, baciandola tra una frase e l'altra, tra una parola e l'altra, le braccia intorno alla sua vita, attirandola a sé e sprofondando in lei.
E allora lei cominciava a ripiegarsi su se stessa, a respirare più in fretta, e si lasciava trasportare là dove lui abitava, e abitava in luoghi strani, tormentati, molto addietro nelle ramificazioni della logica di Darwin.
Con il viso sepolto contro la spalla di lui, le loro epidermidi a contatto, percepiva il profumo di fuochi di legna e di fiumi, sentiva i treni che lasciavano sferragliando stazioni invernali di molte notti addietro, vedeva viaggiatori ammantati di nero che avanzavano lungo fiumi gelati e pascoli estivi, diretti alla fine di tutte le cose. Il leopardo infuriava sopra di lei, ancora e ancora, come il vento incessante sulla prateria, e lei fremeva, travolta dal suo slancio, cavalcava quel vento come una vergine del tempio che avanza verso le fiamme miti e compiacenti che delimitano la dolce curva dell'oblio.
E bisbigliava piano, senza fiato: "Oh, Robert... Robert... mi sto perdendo".
Lei, che da anni non aveva più un orgasmo, ne ebbe una lunga serie con quella strana creatura che era per metà uomo e per metà qualcosa di completamente diverso. Si stupì di lui e della sua resistenza, ed egli le disse che poteva spingersi in quei luoghi lontani con il corpo come con la mente, e che gli orgasmi della mente avevano una loro qualità distintiva.
Lei non capiva che cosa intendesse. Tutto ciò che sapeva era che lui aveva creato una fune invisibile e l'aveva avvolta intorno a entrambi così strettamente che sarebbe certamente soffocata, se non fosse stato per la rapinosa libertà da se stessa che percepiva.
La notte scandiva le sue ore, e la grande danza a spirale si protraeva. Robert Kinkaid si allontanò da ogni regola di linearità per raggiungere una parte di sé dove esistevano solo ombre, forme e suoni. Percorse i sentieri delle antiche vie, orientandosi con candele di gelo incendiate dal sole, che si liquefacevano sull'erba estiva e sulle rosse foglie d'autunno.
E udì le parole che le bisbigliava, come se a pronunciarle fosse la voce di un altro, e non la sua. Frammenti di una poesia di Rilke: "Intorno all'antica torre... ho girato per mille anni". Le strofe di un canto navajo al sole. Le parlò delle visioni che proprio lei gli aveva donato... sabbia turbinante e venti color magenta, e pellicani bruni che cavalcavano delfini diretti a nord lungo la costa d'Africa.
Piccoli suoni inintelliggibili le scaturivano dalle labbra mentre si inarcava per offrirglisi. Ma era un linguaggio che lui comprendeva bene, e in quella donna distesa sotto di lui, il ventre premuto contro il suo, la lunga ricerca di Robert Kinkaid giunse finalmente alla fine.
E seppe allora il significato di tutte le piccole orme viste sulle spiagge deserte su cui aveva camminato, di tutti i carichi di segreti trasportati da navi che non avevano mai navigato, di tutti i volti nascosti che lo avevano spiato mentre discendeva strade tortuose di città bagnate dal tramonto. E, come un grande cacciatore dell'antichità che dopo aver percorso chilometri infiniti rivede le luci dei bivacchi che sono la sua casa, sentì la solitudine dissolversi. Era giunto così lontano... così lontano. E giacque su di lei, totalmente e inalterabilmente completo nell'amore che provava.


(continua)
auroraageno
00lunedì 7 aprile 2008 03:44

Era ormai mattino quando si sollevò leggermente e le disse, guardandola negli occhi: "Ecco perché sono su questo pianeta, in questo tempo, Francesca. Non per viaggiare o fare fotografie, ma per amarti. Adesso lo so. Per molti più anni di quanti non ne abbia vissuti, ho continuato a precipitare dall'orlo di un luogo immenso e altissimo. E in tutti questi anni, precipitavo verso di te".
Quando tornarono di sotto, la radio era ancora accesa. Era sorta l'aurora, ma una sottile cortina di nubi nascondeva il sole.
"Ho un favore da chiederti, Francesca." Le sorrise, mentre la osservava armeggiare con la caffettiera.
"Sì?" Lo guardò. Dio, lo amo così tanto, pensò incerta, desiderandolo ancora, senza smettere mai.
"Mettiti i jeans e la maglietta che portavi ieri pomeriggio, e un paio di sandali. Nient'altro. Voglio fotografarti così come sei stamattina. Una fotografia per noi due soltanto."
Lei risalì al piano di sopra, malferma sulle gambe, con cui lo aveva tenuto avvinto per tutta la notte, si vestì e insieme raggiunsero il pascolo. Ecco dove le aveva scattato la foto che anno dopo anno tornava a guardare.





(continua)
auroraageno
00lunedì 7 aprile 2008 03:48

L'autostrada e
il pellegrino



Nei giorni successivi Robert Kinkaid trascurò la fotografia. E, fatta eccezione per le poche incombenze necessarie, di cui minimizzava comunque l'entità, Francesca Johnson trascurò la routine della fattoria.
Trascorrevano tutto il tempo insieme, parlando o facendo l'amore. Due volte, dietro richiesta di lei, lui suonò la chitarra e cantò con voce fra il discreto e il buono, era un po' a disagio e le rivelò di non avere mai cantato in pubblico. Lei sorrise e lo baciò, poi si lasciò trasportare dalle sensazioni, mentre lo ascoltava cantare di baleniere e venti del deserto.
Lo accompagnò a Des Moines, dove Robert spedì le pellicole a New York. Quando era possibile, si faceva sempre precedere dai primi rullini, in modo che i redattori potessero farsi un'idea del lavoro e i tecnici assicurarsi che l'apparecchiatura funzionasse a dovere.
Dopo, lui la portò a colazione in un grazioso ristorante e le tenne le mani sul tavolo, sorridendole in quel suo modo intenso. E il cameriere sorrise a sua volta guardandoli, e si augurò di provare anche lui qualcosa del genere, un giorno o l'altro.
Lei si meravigliava della sicurezza con cui Robert Kinkaid presentiva la sua prossima fine, e della facilità con cui l'accettava. Robert scorgeva con chiarezza l'imminenza della morte dei cowboy e di altri come loro, compreso lui stesso. E Francesca cominciò a capire che cosa intendesse quando sosteneva di essere l'ultimo prodotto di un ramo dell'evoluzione condannato a estinguersi. Una volta, parlando di quelle che lui definiva le "ultime cose", le sussurrò: " 'Mai più', gridò il Signore dell'Alto Deserto. 'Mai, mai, mai più' ". Dopo di sé, lungo quella direzione non vedeva più nulla. Apparteneva a una specie in estinzione.
Il giovedì pomeriggio, dopo aver fatto l'amore, parlarono. Entrambi riconoscevano l'inevitabilità di quella conversazione. Entrambi avevano preferito evitarla fino a quel momento.
"Che cosa faremo?" chiese lui.
Lei rimase in silenzio, lacerata. Poi: "Non lo so", disse piano.
"Senti, resterò qui, se vuoi. Oppure in città. Quando la tua famiglia tornerà, parlerò con tuo marito e gli spiegherò la situazione. Non sarà facile, ma dev'essere fatto."
Lei scosse la testa. "Richard non capirebbe mai; lui non ragiona in questi termini. Non capisce la magia, la passione e tutte le altre cose di cui noi parliamo e che viviamo, non lo farà mai. Questo non lo rende necessariamente un individuo inferiore. Ma è troppo lontano da quello che ha sempre provato e pensato. Non ha gli strumenti necessari."
"Dobbiamo rinunciare a tutto, dunque?" Era serio, non sorrideva.
"Non so neppure questo. Robert, in un certo senso, io ti appartengo. Non volevo che accadesse, non ne sentivo la necessità, e so che questo vale anche per te, ma è andata così. In realtà non sono seduta qui sull'erba, accanto a te. Mi hai dentro di te, come una prigioniera volontaria."
"Non sono sicuro di averti dentro di me, né di essere dentro di te, e neppure di possederti", replicò lui. "E in ogni caso, non è al possesso che aspiro. Credo invece che siamo entrambi dentro un altro essere che abbiamo creato, e che si chiama 'noi'.
"No, neppure: non siamo realmente dentro a questo essere, lo siamo. Abbiamo perduto noi stessi e creato qualcos'altro, qualcosa che esiste solo in quanto ci unisce. Cristo, ci amiamo. Con tutta la profondità, l'intensità con cui è possibile amarsi.
"Vieni in viaggio con me, Francesca. Non ci sono difficoltà. Faremo l'amore sulla sabbia del deserto e berremo brandy sulle terrazze di Mombasa, guardando i dhows arabi prendere il largo con il primo vento del mattino. Ti mostrerò il paese dei leoni e una vecchia cittadina francese nella Baia del Bengala dove c'è un magnifico ristorante sul tetto, e treni che si inerpicano tra passi di montagna e piccole locande gestite da baschi, nei Pirenei. In una riserva di tigri dell'India meridionale c'è un posto speciale su un'isola che sta in mezzo a un enorme lago. Se viaggiare, non ti piace, ci stabiliremo da qualche parte e per mantenerci aprirò un negozio, facendo ritratti e matrimoni, qualsiasi cosa."
"Robert, mentre facevamo l'amore, stanotte, hai detto qualcosa che non ho dimenticato. Continuavo a sussurrarti del tuo potere... e, mio Dio, ce l'hai davvero. Hai detto: 'Io sono l'autostrada e il pellegrino e tutte le vele che hanno mai solcato i mari'. Avevi ragione. Questo è il tuo modo di sentire la vita, hai la strada dentro di te. Di più: non so bene come spiegarmi, ma in un certo senso tu sei la strada. Nel punto in cui realtà e illusione si incontrano, ecco dove sei, là fuori sulla strada, e tu sei la strada.
"Sei vecchi zaini e un furgone che si chiama Harry e jet in volo verso l'Asia. Ed è questo che voglio che tu sia. Se, come dici, il ramo dell'evoluzione a cui appartieni è morto, allora voglio che tu corra verso quella morte a tutta velocità. E non sono certa che ci riusciresti con me accanto. Vedi, ti amo così tanto che non posso pensare di limitarti, neppure per un istante. Sarebbe come uccidere il magnifico, selvaggio animale che sei, e il suo potere morirebbe con lui."
Lui fece per parlare, ma Francesca lo interruppe.
"Non ho ancora finito. Se tu ora mi prendessi tra le braccia e mi trasportassi sul furgone, costringendomi a seguirti, non esprimerei la minima protesta. Potresti riuscire nello stesso intento anche semplicemente parlandomi. Ma non credo che lo farai. Sei troppo sensibile, troppo attento ai miei sentimenti. E io sento di avere delle responsabilità, qui
"Sì, per certi versi è noiosa. La mia vita, intendo. Manca di romanticismo, di erotismo, di balli in cucina a lume di candela, e della meravigliosa presenza di un uomo che sa come amare una donna. Soprattutto, manchi tu. Ma c'è questo mio maledetto senso di responsabilità. Verso Richard, verso i ragazzi. Se me ne andassi, se privassi Richard della mia presenza fisica, per lui sarebbe già un colpo durissimo. Basterebbe questo a distruggerlo.
"Ma più grave e ancora più doloroso sarebbe per lui il dover sopportare per il resto della sua vita i mormorii della gente di qui: 'Quello è Richard Johnson. La sua focosa mogliettina italiana lo ha piantato qualche anno fa per andarsene con un fotografo capellone'. Richard ne soffrirebbe e i ragazzi diventerebberto l'oggetto degli scherni di tutta Winterset. Anche loro soffrirebbero. E mi odierebbero per quello che ho fatto.
"Per quanto ti voglia e per quanto desideri starti vicino, diventare parte di te, non posso sottrarmi alla realtà delle mie responsabilità. Se tu mi costringessi, fisicamente o con le parole, verrei con te, come ti ho detto, non mi opporrei. Non ne avrei la forza, perché ti amo. A dispetto di quanto ho detto sulla mia riluttanza ad allontanarti dalla strada, ti seguirei perché è quello che egoisticamente desidero.
"Ma ti prego, non farlo. Non forzarmi a dimenticare tutto questo, le mie responsabilità. Non ci riuscirei mai del tutto e vivrei per tutta la vita nel rimorso. Se ora venissi via con te, questa consapevolezza mi trasformerebbe in qualcosa di diverso dalla donna che hai imparato ad amare."
Robert Kinkaid non parlò. Capiva quello che lei diceva a proposito della strada e delle responsabilità, e di come il senso di colpa avrebbe finito con il cambiarla. Sapeva che, per un verso, aveva ragione. Mentre guardava fuori, combatté con se stesso, sforzandosi di rendere totale quella comprensione. Lei scoppiò a piangere.
Rimasero a lungo abbracciati. Lui le bisbigliò: "Ho solo una cosa da dire, una cosa soltanto; non la ripeterò mai più a nessuno e ti chiedo di ricordarla: in un universo di ambiguità, questo genere di certezza viene una volta e una soltanto, per quante vite si possano vivere".


(continua)
auroraageno
00mercoledì 9 aprile 2008 02:16

Fecero l'amore di nuovo quella notte, giovedì notte, e restarono sdraiati vicini fino all'alba e molto oltre, sfiorandosi e bisbigliando. Francesca dormì un poco, e quando si svegliò il sole era già alto e rovente. Nel sentire il cigolio di una delle portiere di Harry che si apriva, si buttò in fretta qualcosa addosso e scese di sotto.
Lui aveva preparato il caffè e sedeva fumando al tavolo di cucina. Le sorrise. Lei attraversò la stanza e andò a seppellire il viso sulla sua spalla, le mani affondate nei suoi capelli e le sue braccia intorno alla vita. Lui la fece girare e la prese in braccio, accarezzandola.
Infine si alzò, portava i suoi vecchi jeans, con le bretelle arancioni su una camicia kaki pulita, gli stivali Red Wing allacciati stretti, il coltello fissato alla cintura. Da una tasca del gilè, appeso a una sedia, sporgeva il flessibile dello scatto. Il cowboy era di nuovo in sella.
"E' meglio che vada."
Lei annuì e cominciò a piangere. Vide le lacrime anche nei suoi occhi, ma lui non aveva smesso di sorriderle in quel suo modo timido.
"Potrò scriverti qualche volta? Vorrei almeno mandarti una foto o due."
"Certo." Francesca si asciugò gli occhi con lo strofinaccio appeso allo sportello della credenza. "Inventerò qualcosa che spieghi perché ricevo posta da un fotografo hippie, a condizione che non capiti troppo spesso."
"Hai il mio indirizzo e il numero di telefono di Bellingham, vero?" Lei annuì di nuovo. "Se non mi trovi lì, prova alla redazione del National Geographic. Ecco, ti scrivo il numero." Lo annotò sul taccuino posato accanto al telefono, strappò il foglietto e glielo porse.
"Se anche dovessi perderlo, potrai sempre trovarlo su un numero qualsiasi della rivista. Chiedi degli uffici editoriali. Sanno quasi sempre dove trovarmi.
"Non esitare a chiamarmi se avrai voglia di vedermi, o anche soltanto per parlare. In qualunque parte del mondo mi trovi, prenota la chiamata a mio carico. In questo modo non comparirà sulla vostra bolletta. Io resterò nei paraggi ancora per qualche giorno. Rifletti su quello che ti ho detto. Posso rimanere qui e sistemare tutto in fretta. E dopo andremo a nord-ovest insieme."
Francesca non disse niente. Non dubitava che lui avrebbe saputo sistemare tutto in un batter d'occhio. Richard era di cinque anni più giovane, ma non reggeva il confronto con Robert Kinkaid, né fisicamente né intellettualmente.
Lo guardò infilarsi il gilè. Aveva la mente vuota e vorticante. "Non andartene, Robert Kinkaid", si sentì supplicare, e fu come se quel grido scaturisse da una parte ignota della sua anima.
Lui la prese per mano, la guidò oltre la porta e verso il furgone. Aprì la portiera dalla parte del guidatore, posò un piede sul predellino, quindi tornò ad appoggiarlo per terra e la strinse a sé per parecchi minuti. Nessuno dei due parlò, rimasero così, a trasmettere e a ricevere sensazioni, imprimendosi reciprocamente addosso la realtà dell'altro. Riaffermando l'esistenza di quell'essere speciale di cui lui aveva parlato.
Per l'ultima volta, lui la lasciò andare e salì sul furgone, ma senza chiudere la portiera. Le lacrime gli rigavano le guance. Le lacrime rigavano le guance di lei. Lentamente chiuse la portiera, che cigolò. Come sempre, Harry era riluttante a mettersi in moto, ma lei sentì lo stivale di lui premere sull'acceleratore finché il motore si avviò.
Lui ingranò la retromarcia, indugiò ancora con la mano sul cambio. Serio prima, poi con un sorriso ammiccante, indicò il viale. "La strada, sai com'è. Il mese prossimo sarò nell'India sudorientale. Vuoi che ti mandi una cartolina?"
Lei non poteva parlare, ma fece un cenno di diniego con la testa. Sarebbe stato troppo per Richard, se l'avesse trovata nella cassetta delle lettere. Lo vide annuire e fu certa che avesse capito.
In retromarcia, con le ruote che scricchiolavano sulla ghiaia, il furgone attraversò il cortile. Spaventate, le galline si diedero precipitosamente alla fuga; Jack ne inseguì una fino al capannone abbaiando.
Robert Kinkaid la salutò agitando la mano fuori dal finestrino dalla parte del passeggero. Il sole si rifletteva balenando sul braccialetto d'argento. I primi due bottoni della camicia erano slacciati.
Imboccò il vialetto. Francesca continuava ad asciugarsi gli occhi, cercando di vedere la luce del sole che creava prismi bizzarri tra le sue lacrime. Come aveva fatto la sera del loro primo incontro, si affrettò lungo il sentiero per seguire con lo sguardo il vecchio furgone che si allontanava sobbalzando. Arrivato in fondo, Harry si fermò, la portiera si aprì di scatto e lui comparve sul predellino. Poteva vederla, un centinaio di metri più indietro, rimpicciolita dalla distanza.
Rimase lì, accanto ad Harry che ronzava impaziente nel caldo, a guardare. Nessuno dei due si mosse; si erano già detti addio. Si guardarono in silenzio... la moglie di un agricoltore dello Iowa, la creatura che concludeva un ramo dell'evoluzione, uno degli ultimi cowboy. Per trenta secondi lui restò lì, e i suoi occhi da fotografo registrarono ogni particolare, per creare un'immagine che non avrebbe mai più dimenticato.
Infine richiuse la portiera, ingranò la marcia ed ecco che piangeva di nuovo mentre girava a sinistra sulla provinciale, in direzione di Winterset. Tornò a voltarsi un istante prima che un folto d'alberi sul lato nordoccidentale della fattoria gli ostruisse la visuale, e la vide: seduta per terra a gambe incrociate nel punto d'accesso al vialetto, la testa fra le mani.


(continua)
auroraageno
00giovedì 10 aprile 2008 01:23


Richard e i ragazzi arrivarono nelle prime ore della serata, pieni di aneddoti da raccontare e inalberando il nastro che il manzo aveva vinto prima di essere venduto perché fosse macellato. Carolyn si attaccò immediatamente al telefono. Era venerdì, e Michael andò in città col furgone per fare le cose che di solito fanno i diciassettenni il venedì sera... più che altro gironzolare per la piazza e gridare dietro alle ragazze che passavano in macchina. Richard sedette davanti al televisore, e intanto diceva a Francesca com'era buono il pane di granturco che stava mangiando con burro e sciroppo d'acero.
Lei andò a sedersi nella veranda sul retro, sulla sedia a dondolo. Richard la raggiunse al termine del programma che aveva seguito, alle dieci passate. "E' proprio bello essere di nuovo a casa", brontolò, stirandosi. Poi la guardò. "Stai bene, Frannie? Sembri un po' stanca, distratta o che so io."
"Sto bene. Sono contenta che siate qui sani e salvi."
"Be', me ne vado a letto. E' stata una settimana lunga e sono a pezzi. Vieni anche tu, Frannie?"
"Non subito. Si sta bene qua fuori, credo che resterò un altro po'." Era stanca, ma aveva paura che Richard volesse fare l'amore e quella sera non avrebbe potuto sopportarlo. Lo sentì muoversi in camera da letto, mentre si dondolava sulla sedia, a piedi nudi a contatto del pavimento. Arrivava fino a lei il suono della radio di Carolyn.
Nei giorni successivi evitò di andare in città, neppure per un istante le riusciva di dimenticare che Robert Kinkaid era a pochi chilometri di distanza. Non credeva che avrebbe potuto trattenersi se lo avesse rivisto. Probabilmente gli sarebbe corsa incontro gridando: "Subito! Dobbiamo andarcene subito!" Aveva accettato il rischio andando a incontrarlo al Cedar Bridge, rivederlo ora sarebbe stato un pericolo troppo grande.
Il martedì rimasero a corto di provviste e Richard aveva bisogno di un pezzo di ricambio per la trebbiatrice che stava riparando. Era una giornata deprimente, piovosa, nebbiosa, fredda per essere agosto.
Richard si procurò il pezzo di ricambio e si fermò al caffè mentre lei faceva la spesa. Sapeva quanto ci impiegava abitualmente, e quando uscì dal Super Value, Francesca lo trovò ad aspettarla. Con il suo berretto Allis-Chalmers, lui saltò giù dal furgone, la aiutò a caricare i sacchetti, sistemandoli sul sedile e intorno alle gambe di lei. Francesca pensò a cavalletti e zaini.
"Devo tornare alla concessionaria. Ho dimenticato un altro pezzo."
Puntarono a nord lungo la statale 169, la strada principale di Winterset. A un isolato a sud della Texaco lei vide Harry che usciva dalla stazione di servizio, i tergicristalli in funzione. Si immise nella strada davanti a loro.
La velocità li portò proprio dietro al vecchio furgone. Francesca scorse un'incerata nera tesa sul vano posteriore; sotto di essa si intravedevano i contorni di una valigia e di una custodia per chitarra, incuneate accanto alla ruota di scorta. Sebbene la pioggia avesse imbrattato il lunotto posteriore, la testa di lui era parzialmente visibile. Lo vide chinarsi in avanti, come per prendere qualcosa dal cassetto dei guanti; otto giorni prima aveva fatto lo stesso, e la sua mano le aveva sfiorato la gamba. Una settimana prima lei era a Des Moines a comperare un abito rosa.
"Quel furgone è parecchio lontano da casa", osservò Richard. "Stato di Washington. Si direbbe che alla guida ci sia una donna. O comunque, qualcuno con i capelli lunghi, Ripensandoci, potrebbe essere il fotografo di cui parlavano al caffè."
Seguirono Robert Kinkaid per qualche isolato ancora, fino al punto in cui la 169 incrociava la 92, che si stendeva a est e a ovest. Era un crocevia a quattro strade e il traffico, sempre intenso, quel giorno era appesantito dalla pioggia e dalla foschia.
Rimasero fermi all'incrocio per qualche secondo. Lui era davanti a loro, a non più di dieci metri di distanza. Poteva ancora farcela. Scendi e corri ad aprire la portiera di Harry, arrampicati tra gli zaini e i cavalletti.
Robert Kinkaid l'aveva salutata il venerdì precedente, e da allora lei si era resa conto che, pur sapendo di amarlo infinitamente, aveva nondimeno sottovalutato i propri sentimenti. Sembrava impossibile, ma era proprio così. Aveva cominciato a capire quello che lui aveva già compreso.
Ma non si mosse, immobilizzata dalle sue responsabilità, guardando il lunotto posteriore con un'intensità che fino ad allora non aveva mai dedicato a nessuna cosa. Vide lampeggiare la freccia di sinistra, ancora un istante e sarebbe scomparso. Richard stava armeggiando con le manopole della radio.
Per uno strano scherzo della mente, lei cominciò a vedere tutto come al rallentatore. Ecco... si preparava a partire... lentamente... portò Harry al centro dell'incrocio... le sembrava di vedere le sue lunghe gambe muoversi sulla frizione e l'acceleratore, e i muscoli del braccio guizzare mentre manovrava il cambio... girò a sinistra sulla 92, in direzione di Council Bluffs, delle Black Hills e del nord-ovest... lentamente... lentamente, oh, quanto lentamente! Il malconcio furgone oltrepassò l'incrocio, il muso rivolto a occidente.
Strizzando gli occhi per disperdere le lacrime, la pioggia e la nebbia, riuscì a distinguere a stento la sbiadita scritta rossa sulla fiancata: "Kinkaid Fotografia - Bellingham, Washington".
Lui aveva abbassato il finestrino per vedere meglio durante la manovra. Quando svoltò e accelerò lungo la statale 92, lei scorse i suoi capelli svolazzare al vento. Poi il finestrino venne richiuso.
"Oh, Cristo... oh, Gesù Onnipotente... no!" Le parole si affollavano dentro di lei. "Mi sbagliavo, Robert, sbagliavo a voler restare... ma non posso venire... lascia che ti spieghi di nuovo... perché non posso venire... ripetimi ancora perché dovrei seguirti."
E poi sentì la sua voce scendere lungo la superstrada verso di lei. "In un universo di ambiguità, questo genere di certezza viene una volta e una soltanto, per quante vite si possano vivere."
Richard attraversò l'incrocio in direzione nord. Per un istante lei guardò oltre il suo viso, verso i fanalini di coda di Harry che sparivano tra la pioggia. Il vecchio pickup sembrava piccolissimo, affiancato da un enorme semirimorchio che entrava ruggendo in Winterset, schizzando acqua sporca sull'ultimo cowboy.
"Addio, Robert Kinkaid", bisbigliò, e cominciò a piangere senza più nascondersi.
Richard si voltò a guardarla. "Cosa c'è che non va, Frannie? Vuoi per piacere dirmi cosa non va in te?"
"Solo un momento, Richard. Lasciami in pace. Fra poco starò bene."
Lui si sintonizzò sulla stazione radio che trasmetteva il notiziario degli agricoltori, la guardò di nuovo e scosse la testa.






(continua)
auroraageno
00venerdì 11 aprile 2008 03:00


Ceneri


La notte era scesa sulla Madison County. Era il 1987, il giorno del suo sessantasettesimo compleanno. Francesca era a letto da due ore. Ventidue anni erano trascorsi, e lei vedeva, toccava e udiva ancora tutto quello che era accaduto allora.
Aveva ricordato, e poi ricordato di nuovo. L'immagine dei fanalini rossi che si perdevano tra la pioggia e la foschia lungo la statale 92 l'aveva ossessionata per più di due decenni. Si sfiorò i seni e le parve di sentire il suo torace sopra di lei. Dio, come lo amava. Lo aveva amato allora, più di quanto avesse mai creduto possibile, e lo amava ora perfino di più.
Scese di sotto e andò a sedersi al vecchio tavolo con il piano di formica gialla. Quando, tempo addietro, Richard aveva insistito per acquistarne uno nuovo, lei aveva chiesto che quello vecchio venisse conservato nel capannone, e prima che lo portassero via lo aveva avvolto con cura in un telo di plastica.
"Non capisco perché sei tanto attaccata a quel vecchio tavolo", aveva borbottato lui mentre la aiutava. Dopo la morte di Richard, dietro richiesta di lei, Michael lo aveva riportato in casa; non le aveva chiesto perché lo preferisse al nuovo, limitandosi a guardarla con aria interrogativa, ma Francesca non aveva dato spiegazioni.
Ora sedette al tavolo, ma si rialzò quasi subito e dalla credenza prese due candele bianche infilate in piccoli candelieri d'ottone. Le accese e accese anche la radio, girando la manopola finché non si imbatté in una stazione che trasmetteva musica lenta.
Rimase a lungo in piedi vicino al lavello, la testa appena inclinata, guardando il viso di lui, e bisbigliò:
"Non ti ho dimenticato, Robert Kinkaid. Forse il Signore dell'Alto Deserto aveva ragione. Forse tu eri l'ultimo. Forse i cowboy sono ormai tutti vicini a morire".
Prima della morte di Richard non aveva mai tentato di mettersi in contatto con Kinkaid, sebbene per anni ogni giorno fosse stata sul punto di farlo. Se gli avesse parlato di nuovo anche solo una volta, sarebbe andata da lui. E sapeva che se gli avesse scritto, sarebbe stato lui a raggiungerla. Neppure Robert si era fatto più vivo, dopo averle mandato le fotografie e il dattiloscritto. Francesca sapeva che lui comprendeva il suo stato d'animo e non ignorava le complicazioni che avrebbe potuto causarle.
Nel settembre del 1965 si abbonò al National Geographic. Il servizio sui ponti coperti venne pubblicato l'anno successivo; c'era il Roseman Bridge ripreso nella calda luce del primo mattino, il mattino in cui lui aveva trovato il suo biglietto. In copertina campeggiava la foto di un carro trainato da due cavalli in direzione dell'Hogback Bridge. Kinkaid era autore anche del testo.
In ultima pagina erano riportati i nomi degli autori e dei fotografi che avevano collaborato ai vari numeri, occasionalmente accompagnati da una foto. A volte c'era anche la sua. Gli stessi lunghi capelli argentei, il braccialetto, jeans o pantaloni color kaki, le macchine fotografiche buttate a tracolla, le vene marcate delle braccia. Nel Kalahari, sulle mura di Jaipur, in India, su una canoa nel Guatemala, o nel Canada settentrionale. La strada e il cowboy.
Lei ritagliava le foto e le conservava nella busta di carta di Manila in cui aveva riposto il servizio sui ponti coperti, il dattiloscritto, le due fotografie e la sua lettera. Teneva la busta in un sacchetto, nascosta sotto la sua biancheria, dove sapeva che Richard non sarebbe mai andato a guardare. E, come un osservatore che ne seguisse la vita nel corso degli anni, osservò Robert Kinkaid invecchiare.
Il sorriso era quello di sempre, e così il lungo corpo snello e muscoloso. Ma lei lo capiva dalle rughe intorno alla bocca, dal leggero curvarsi delle spalle, dal progressivo cedimento dei contorni del viso. Aveva studiato il corpo di lui con un'attenzione che non aveva dedicato a nessun'altra cosa, neppure a se stessa. E, se possibile, il vederlo invecchiare accresceva il desiderio che aveva di lui. Sospettava... no, ne era certa... che lui fosse solo. E così era.
Al lume di candela, passò in rassegna i ritagli. Lui la guardava da luoghi infinitamente lontani. Arrivò alla foto che considerava speciale, pubblicata su un numero del 1967. Lui stava accovacciato sulla riva di un fiume dell'Africa settentrionale, con la macchina fotografica incollata agli occhi, in procinto di scattare.
La prima volta che l'aveva vista, anni prima, Francesca si era accorta che dalla catena d'argento pendeva una medaglietta. Michael era via, all'università, e quando Richard e Carolyn si furono coricati, lei tirò fuori la potente lente d'ingrandimento che da ragazzino il figlio utilizzava per la collezione di francobolli ed esaminò la fotografia.
"Mio Dio", alitò. Perché sulla medaglietta era inciso il nome Francesca. Era stata l'unica, piccola indiscrezione di lui, e lei lo perdonò con un sorriso. Nelle foto successive, la medaglietta era sempre stata presente.


(continua)
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