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L'ISOLA DEL TESORO - di Robert Louis Stevenson - Completo -

Ultimo Aggiornamento: 21/01/2009 20:01
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21/01/2009 14:03


PARTE TERZA - LA MIA AVVENTURA A TERRA

Capitolo 13

Come incominciò la mia avventura


L'aspetto dell'isola, quando io salii sul ponte l'indomani mattina, era completamente
cambiato. Quantunque la brezza fosse del tutto caduta, avevamo fatto un bel tratto di
cammino durante la notte, e eravamo ora imprigionati dalla bonaccia a circa mezzo
miglio a sud-est della piatta costa orientale. Boscaglie grigiastre rivestivano gran parte
della sua superficie. Questa tinta uniforme era interrotta nella zona più bassa da strisce
di sabbia gialla e da una quantità di alberi elevati, della famiglia dei pini, che
sormontavano gli altri: alcuni isolati, altri a gruppi; ma la colorazione generale era
monotona e triste. I monti innalzavano su questa vegetazione i loro picchi di nuda
roccia.
Tutti erano di forma bizzarra, e il Cannocchiale, di tre o quattrocento piedi il più alto
dell'isola, presentava il più strano profilo, balzando su ripido e scabro da ogni lato, per
rimanere in cima improvvisamente mozzato come un piedestallo su cui collocare una
statua.
L'"Hispaniola" rullava sulle onde gonfie. Le verghe squassavano i bozzelli, la barra del
timone sbatteva di qua e di là, e l'intera nave scricchiolava, gemeva, s'impennava e
abbatteva come una creatura torturata. Io mi tenevo attaccato ai paterazzi, e ogni cosa
mi girava vertiginosamente intorno; poiché se ero abbastanza buon marinaio mentre la
nave filava, questo rimaner lì piantato e sballottato come una bottiglia era cosa che non
sopportavo senza nausea, e soprattutto a digiuno.
Forse anche l'aspetto melanconico dell'isola con le sue cineree foreste e i suoi rocciosi
e selvaggi picchi, e lo spumeggiare e tuonare delle onde contro l'irta riva acuivano il
mio malessere; fatto sta che malgrado il sole smagliante e infuocato, e l'allegria degli
uccelli marini che si tuffavano e gridavano intorno a noi, e la prospettiva così grata
sempre a chi approda dopo una lunga navigazione, io mi sentivo il cuore oppresso, e
fin da quella prima occhiata imparai a odiare l'Isola del Tesoro.
Avevamo davanti una mattinata di fastidioso lavoro, poiché non c'era indizio di vento; e
bisognava mettere in mare i canotti e tirare il bastimento a rimorchio per tre o quattro
miglia, visto che tanto era il cammino per doppiare la punta dell'isola, passare lo stretto
canale, e raggiungere il porto dietro l'isolotto dello Scheletro. Io presi posto in una
imbarcazione, dove, peraltro, non avevo nulla da fare. Il calore era soffocante, e gli
uomini curvi sulla loro fatica brontolavano rabbiosamente. Anderson, che governava il
mio canotto, anziché richiamare l'equipaggiò all'ordine, protestava peggio degli altri.
"Ma," disse infine con una bestemmia "non andrà sempre così." Queste parole mi
parvero un pessimo segno. Fino a quel giorno gli uomini avevano compiuto il loro
lavoro di buona voglia e con slancio; ma la semplice vista dell'isola era bastata ad
allentare i vincoli della disciplina.
Durante tutto il tragitto Long John stette vicino al timoniere a pilotare la nave. Egli
conosceva lo stretto come la palma della sua mano, e quantunque lo scandaglio
indicasse più acqua che non risultasse dalla carta, John non ebbe mai un momento di
esitazione.
"C'è una spinta violenta, qui, col riflusso" disse "ed è come se questo canale fosse
stato scavato con una vanga." Gettammo l'àncora nel preciso punto segnato sulla
carta, a circa un terzo di miglio da ciascuna riva: la terra da un lato, e l'isolotto dello
Scheletro dall'altro. Il fondo era pura sabbia.
Il tuffo della nostra àncora sollevò una nuvola di uccelli che gridando girarono sopra i
boschi: ma in meno di un minuto si erano di nuovo posati, e tutto era ridiventato quieto
e silenzioso.
La rada era completamente riparata dalla costa e circondata da boschi i cui alberi
discendevano fino quasi a lambire il mare; le rive erano in gran parte piatte; e le cime
dei monti disposte a cerchio formavano una specie di lontano anfiteatro. Due
fiumiciattoli o meglio due paludosi ruscelletti si scaricavano in questo che chiamerei
stagno; e la vegetazione su quella parte della costa ostentava una specie di malvagio
splendore. Da bordo nulla potevamo scorgere né del fortino né della palizzata
completamente affondata nel verde; e se non fosse stato per la carta spiegata sotto i
nostri occhi, avremmo potuto illuderci d'essere i primi ad ancorarci lì da quando l'isola
era emersa dalle acque.
Non c'era un alito di vento né si sentiva alcun rumore tranne il tuonar della risacca
mezzo miglio lontano lungo la spiaggia e contro le scogliere di fuori. Caratteristiche
esalazioni di foglie imputridite e tronchi d'alberi marciti stagnavano sul posto
dell'ancoraggio. Io vidi il dottore arricciare il naso più volte, come si fa quando si
annusa un uovo guasto.
"Non so nulla del tesoro" disse "ma scommetterei che qui c'è la malaria." Se il
contegno degli uomini era stato inquietante nel canotto, diventò addirittura minaccioso
non appena ritornati a bordo. Si raggruppavano sul ponte a mormorare tra loro. Il più
semplice comando veniva accolto con aria cattiva ed eseguito di mala voglia e
trascuratamente. Persino ai marinai onesti doveva essersi appiccicato il contagio,
poiché non c'era un uomo a bordo che riprendesse un altro. La rivolta, era chiaro, ci
pendeva sul capo come una nuvola carica di tempesta.
Né eravamo noi soli della cabina ad avvertire il pericolo. Long John si dava molto da
fare, correndo di gruppo in gruppo e prodigandosi in consigli di calma. Nessuno
avrebbe potuto offrire un miglior esempio. Egli superava se stesso in buon volere e
cortesia; e a tutti dispensava sorrisi. Appena sentiva un comando, eccolo sulla gruccia
col più gioviale, "sì, sì signore"; e quando non c'era altro da fare, intonava una canzone
dietro l'altra, come per coprire il malcontento dei compagni.
Fra tutti i lati oscuri di quel bieco pomeriggio, l'evidente ansia di Long John appariva il
più peggiore.
Noi tenemmo consiglio in cabina.
"Signore" disse il capitano rivolgendosi al cavaliere "se io arrischio un altro ordine,
l'intero equipaggio si ribellerà come un sol uomo. Sì, signore, siamo a questo punto.
Mettiamo che mi si risponda male. Se io ribatto, eccoci ai ferri corti; se taccio, Silver
capisce che c'è sotto qualche cosa, e la partita è perduta.
Per il momento, noi non abbiamo che un uomo su cui poter contare." "E sarebbe?"
domandò il cavaliere.
"Silver, signore. Egli desidera non meno ardentemente di noi che le cose si assestino.
Questa non è che una bizza. Silver la farebbe loro presto passare se ne avesse
l'occasione, e ciò che io vi propongo è di fornirgli quest'occasione. Concediamo agli
uomini il permesso di scendere a terra un pomeriggio. Se vanno tutti, la nave è nostra.
Se nessuno si muove, noi teniamo la cabina e Dio proteggerà il nostro buon diritto. Se
solo alcuni vanno, Silver, credete a me, li riporterà a bordo dolci come agnelli." Così fu
deciso. Pistole cariche vennero distribuite a tutti gli uomini sicuri; Hunter, Joyce, e
Redruth furono messi al corrente della situazione, e ricevettero le nostre confidenze
con minor sorpresa e maggior coraggio di quanto non avessimo immaginato; dopo di
che il capitano salì sul ponte, e arringò l'equipaggio.
"Ragazzi" disse "la giornata è stata calda, e siamo tutti stanchi e non di buon umore.
Un giro a terra non farà male a nessuno; i canotti stanno ancora in acqua: potete
prenderli, e chi ne ha voglia può rimanere a terra tutto il pomeriggio. Farò tirare un
colpo di cannone mezz'ora prima del calar del sole." Quegli sciocchi pensavano certo
di trovarsi a inciampare nel tesoro appena sbarcati, perché in un lampo il loro
malumore si dissipò, e mandarono un evviva che risvegliò l'eco di un monte lontano, e
spinse in aria un altro stormo di uccelli che stridendo volteggiarono sopra l'ancoraggio.
Il capitano era uomo troppo accorto per rimanere in mezzo a loro.
Egli si dileguò subito lasciando a Silver il compito di regolare la spedizione, il che credo
fu un ottimo consiglio. Si fosse trattenuto sul ponte, non avrebbe potuto più a lungo
fingere d'ignorare la reale situazione. Era chiaro come il sole. Silver era il vero capitano
e disponeva di un equipaggio in rivolta. Gli onesti, e io potei presto assodare che ne
rimanevano a bordo, erano indubbiamente della gente assai stupida. O meglio, la
verità era questa, che l'esempio dei caporioni aveva più o meno demoralizzato tutti
quanti: e alcuni pochi, bravi ragazzi in fondo, non si sarebbero lasciati portare o
spingere un passo più in là. Difatti, una cosa è essere poltrone e infingardo, altra cosa
è impadronirsi di una nave e trucidare una schiera di innocenti.
La spedizione fu finalmente allestita. Sei rimanevano a bordo, ed i tredici altri,
compreso Silver, cominciarono a calarsi nei canotti.
Fu allora che mi balenò in mente la prima di quelle idee pazze che tanto contribuirono
a salvarci la vita. Restando a bordo sei uomini, era chiaro che i nostri non potevano
pensare a impadronirsi della nave; ma poiché le forze delle due parti si bilanciavano,
altrettanto chiaro era che, per il momento, la cabina non necessitava del mio aiuto. Mi
prese a un tratto la voglia di scendere a terra. Con la lestezza di un gatto scivolai giù
dal bordo e mi acquattai a prua del canotto più vicino, che quasi subito si mosse.
Nessuno si accorse di me, tranne il rematore di prua, che mi disse:
"Sei tu, Jim? Abbassa la testa." Ma Silver dall'altro canotto si voltò a guardare, e gettò
una voce per sapere se ero io; e da quel momento io cominciai a pentirmi di ciò che
avevo fatto. Gli equipaggi gareggiarono in velocità per guadagnare la riva; ma il
canotto che mi portava, avendo qualche vantaggio iniziale, ed essendo insieme più
leggero e meglio governato, sorpassò di molto il suo concorrente. La prua del nostro
aveva già urtato contro il groviglio degli alberi della riva, ed io, afferrato un ramo, m'ero
lanciato fuori piombando nel più vicino cespuglio, quando Silver e gli altri arrancavano
ancora cinquanta metri indietro.
"Jim! Jim!" udii gridare alle mie spalle.
Ma io non diedi retta: saltando, curvandomi, spezzando rami per aprirmi un passaggio,
corsi e corsi dritto da vanti a me fin tanto che le forze non mi abbandonarono.




(continua)

_________Aurora Ageno___________
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