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L'ISOLA DEL TESORO - di Robert Louis Stevenson - Completo -

Ultimo Aggiornamento: 21/01/2009 20:01
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21/01/2009 19:31


PARTE QUINTA - LA MIA AVVENTURA IN MARE


Capitolo 22

Dove incomincia la mia avventura



I ribelli non si fecero più vedere, né spararono un solo colpo dai loro nascondigli.
Avevano avuto il fatto loro per quel giorno, per dirla col capitano; e noi, padroni del
luogo, potemmo in tutta tranquillità ed agio vegliare i feriti e preparare il pranzo. A
dispetto del pericolo io e il cavaliere facemmo la cucina all'aperto; e tuttavia anche lì ci
raggiungevano gli acuti gemiti dei pazienti del dottore; era uno strazio e una
disperazione sentirli.
Degli otto uomini caduti nell'azione, tre soltanto respiravano ancora: il pirata che era
stato colpito davanti alla feritoia, Hunter e il capitano Smollett. I primi due potevano
ritenersi perduti; difatti il rivoltoso mori sotto il bisturi del dottore, e Hunter malgrado le
nostre cure non riprese più conoscenza. Egli languì l'intero giorno respirando
pesantemente come il vecchio filibustiere a casa nostra dopo il suo colpo apoplettico;
aveva avuto le costole fracassate e il cranio fratturato nella caduta, e così, nel corso
della notte seguente, senza né un gesto né una sillaba, passò al Creatore.
Quanto al capitano, le sue ferite erano gravi in verità, ma non pericolose. Nessun
organo era irrimediabilmente leso. La palla di Anderson, giacché era stato Anderson il
primo a sparargli, gli aveva spezzato una scapola e toccato leggermente il polmone;
l'altra gli aveva soltanto lacerato e spostato qualche muscolo del polpaccio. Egli
sarebbe senza dubbio guarito, secondo quanto affermava il dottore, ma intanto e per
alcune settimane, doveva astenersi dal camminare o dal muovere il braccio; e,
possibilmente, evitare di parlare.
La mia sbucciatura alle dita non aveva più importanza di un morso di pulce. Il dottor
Livesey ci mise sopra un impiastro, e per soprappiù vi aggiunse una tiratina d'orecchi.
Dopo pranzo il cavaliere e il dottore si consultarono un momento al capezzale del
capitano; e ragionato che ebbero a loro piacimento, essendo di poco passato
mezzogiorno, il dottore prese il cappello e le pistole, cinse un coltellaccio, mise la carta
in tasca, e con un moschetto sulle spalle scavalcò la palizzata dal lato nord e s'inoltrò
di buon passo nel bosco.
Gray ed io ci eravamo ritirati all'estremità del fortino per non udire i discorsi dei nostri
superiori. La stupore del mio compagno nel vedere quella uscita fu tale che si levò la
pipa di bocca e non pensò più a rimettervela.
"Per Satanasso" proruppe "il dottor Livesey è matto?" "Io non lo credo" risposi. "Sono
sicuro che è l'ultimo di noi a correre questo rischio." "Ebbene, amico mio, ti ammetterò
che non sia pazzo; ma allora, ascoltami bene, se non è pazzo LUI, lo sono io." "Io
suppongo" replicai "che il dottore ha una sua idea. Se non sbaglio, va in cerca di Ben
Gunn." Indovinavo, infatti, come più tardi risultò; ma intanto, poiché nella casa si
moriva dal caldo e la sabbia dentro il recinto, sotto il sole di mezzogiorno, mandava
riverberi arroventati, io a poco a poco mi lasciai prendere da un'altra idea che non era
proprio altrettanto giusta. Cominciai a invidiare il dottore che, beato lui, se ne
camminava nella fresca ombra degli alberi, godendosi i canti degli uccelli e il gradito
aroma dei pini, mentre io, inchiodato lì, arrostivo, coi miei abiti appiccicati alla calda
resina, e con quel sangue sparso, e quei poveri cadaveri stesi intorno a me... Mi prese
a poco a poco un tale disgusto di quel luogo, che quasi finì per divenire terrore.
Per tutto il tempo che impiegai a ripulire la casa e a lavare il vasellame, questo
disgusto e il desiderio di evadere si fecero sempre più tormentosi, finché, trovandomi
non osservato da alcuno, accanto a un sacco di pane, mi riempii le tasche di biscotti, e
detti inizio alla mia scappata.
Ero pazzo, se vogliamo, e certo stavo per abbandonarmi a un'azione insensata e
temeraria: ma ero deciso a compierla senza trascurare ogni possibile precauzione.
Questi biscotti, qualunque cosa mi capitasse, mi avrebbero evitato di morire di fame
almeno fino a tutto l'indomani. Altro, di cui m'impadronii, fu un paio di pistole; e siccome
già possedevo una fiaschetta di polvere e pallottole, mi credetti sufficientemente
armato.
Quanto al disegno che avevo in testa, non era in se stesso cattivo. Mi proponevo di
partire dalla lingua di sabbia che separa a levante l'ancoraggio dal mare aperto,
portarmi fino alla Roccia Bianca che avevo osservato la sera prima, ed accertarmi se
era lì o no che Ben Gunn teneva nascosto il canotto; fatica tutt'altro che oziosa, come
tuttora penso. Ma, essendo certo che non mi avrebbero permesso di lasciare il recinto,
il mio unico mezzo era congedarmi alla francese, e scappar via mentre nessuno mi
badava:
e questo era un modo di agire così brutto che mi rendeva la cosa stessa nettamente
riprovevole. Ma io non ero che un ragazzo, e avevo preso la mia decisione.
Orbene, le circostanze si disposero infine in modo da crearmi una magnifica
occasione. Il cavaliere e Gray erano occupati a cambiare le bende al capitano; la costa
appariva sgombra; io rapido come una saetta scavalcai lo steccato, tuffandomi nel folto
degli alberi; e, prima che la mia assenza fosse notata, non ero già più a portata di voce
dei miei compagni.
E fu questa la mia seconda follia, peggiore assai della prima, dato che a guardia del
fortino io non lasciavo che due soli uomini validi: ma al pari della prima contribuì alla
comune salvezza.
Io mi rivolsi dritto verso la costa a levante dell'isola, perché avevo deciso di percorrere
la lingua di sabbia dal lato del mare, per evitare il rischio di farmi scoprire
dall'ancoraggio.
Nonostante che il pomeriggio fosse già inoltrato, l'aria si manteneva rovente.
Continuando il mio cammino attraverso l'alta selva, sentivo lontano davanti a me,
insieme col continuo fragore dei marosi, un mormorìo di frasche, un agitarsi di rami,
segni evidenti che la brezza marina si era alzata più vivace del solito.
Presto alcune fresche folate mi raggiunsero; e fatti alcuni passi mi ritrovai sul margine
del bosco, e vidi il mare stendersi azzurro e luminoso fino all'orizzonte, e la risacca
abbattersi fumante di spuma lungo la spiaggia.
Io non ricordo di aver mai visto il mare calmo intorno all'Isola del Tesoro. Il sole poteva
dardeggiare dall'alto, l'aria restare senza un soffio, le acque dell'ancoraggio essere
lisce e azzurre; ma sempre ancora lungo la costa esterna quei cavalloni si
rovesciavano tuonando e tuonando giorno e notte; né io credo vi fosse un punto
dell'isola dove quel dannato clamore non arrivasse.
Avanzai camminando con grande piacere lungo i frangenti, finché, sembrandomi di
essermi ormai spinto abbastanza a sud, approfittai del riparo di alcuni folti cespugli per
strisciare cautamente fin sulla punta della lingua di terra.
Dietro di me c'era il mare aperto: di fronte, l'ancoraggio. Come se la brezza marina si
fosse sfogata più presto del solito nell'inconsueta violenza, era già spenta; un leggero
e instabile venticello da sud e sud-est era seguito, portando vasti banchi di nebbia; e
l'ancoraggio, riparato dall'isolotto dello Scheletro, giaceva quieto e plumbeo come la
prima volta che vi eravamo entrati. In quell'intatto specchio l'"Hispaniola" si rifletteva
dalla cima degli alberi fino alla linea d'immersione, compresa la bandiera corsara che
pendeva dalla punta dell'albero di maestra.
Lungo il bordo era accostato uno dei canotti governato da Silver (lui lo riconoscevo
sempre) verso cui si chinavano, appoggiati al bastingaggio, due uomini, uno dei quali,
con in testa un berretto rosso, era lo stesso furfante che alcune ore prima avevo visto a
cavalcioni sulla palizzata. Sembrava che parlassero e ridessero:
però a quella distanza, più di un miglio, non potevo naturalmente afferrare una sillaba.
D'improvviso scoppiò un atroce infernale gridìo, che a tutta prima mi gelò il sangue; ma
riconobbi subito la voce di "capitano Flint", e mi sembrò anche, dalle penne sgargianti,
di distinguere l'uccello posato sul polso del suo padrone.
Poco dopo, il canotto si distaccò, dirigendosi verso la spiaggia, e l'uomo dal berretto
rosso e il suo compagno si calarono dentro la cabina.
Nel frattempo il sole era tramontato dietro il Cannocchiale, e poiché la nebbia si
andava rapidamente addensando, l'aria cominciava a scurire. Volendo rintracciare il
canotto quella sera stessa, non dovevo perdere tempo.
La Roccia Bianca, abbastanza visibile al disopra dei cespugli, era ancora circa un
ottavo di miglio distante, giù sulla lingua di terra, e mi ci volle un po' per arrivarci,
strisciando spesso carponi attraverso il forteto. La notte già incombeva quando misi la
mano sul suo scabro fianco. Proprio sotto di essa c'era una piccola cavità erbosa
nascosta da rocce e da una lussureggiante vegetazione che mi arrivava al ginocchio; e
nel mezzo della buca c'era proprio una piccola tenda di pelle di capra simile a quella
che gli zingari si portano dietro in Inghilterra.
Saltai nella buca, sollevai l'orlo della tenda, ed ecco il canotto di Ben Gunn: rustico
lavoro, se altro mai ve ne fu, consistente in una rozza bistorta carcassa di legno duro,
con tesa sopra una coperta di pelle di capra, col pelo verso il di dentro. Lo scafo era
estremamente piccolo anche per me, e non so immaginarmi come potesse portare un
adulto. C'era un sedile collocato più in basso che fosse possibile, una specie di pedana
alle due estremità, e una doppia pagaia come propulsore.
Non avevo mai visto una piroga, il battello degli antichi Bretoni, ma ne vidi poi una, e
non saprei dare una più chiara idea dell'imbarcazione di Ben Gunn che confrontandola
con la prima e più informe piroga che mano d'uomo avesse costruita. Ma un gran
vantaggio alla piroga non le mancava di certo, leggerissima com'era, e portatile.
Ora che avevo trovato il battello, sembrava naturale che l'avventura finisse lì; ma nel
frattempo un'altra idea m'era saltata in mente, e me ne ero così ardentemente
innamorato, che l'avrei realizzata, credo, anche a dispetto dello stesso capitano
Smollett. Si trattava di sgusciare fuori protetto dall'oscurità notturna, tagliare l'ormeggio
dell'"Hispaniola" e lasciarla andare alla deriva contro la costa come meglio le piacesse.
Ero sicuro che ai ribelli, dopo lo scacco del mattino, nulla stesse tanto a cuore quanto
levare l'àncora e prendere il largo; sarebbe, pensavo, un bel colpo impedirglielo; e
poiché avevo constatato come lasciassero i loro guardiani sprovvisti di una
imbarcazione, credevo di poter attuare il mio progetto con poco rischio.
Messomi a sedere, per attendere che fosse buio, mangiai di gusto il mio biscotto. Notte
più propizia al mio disegno non si sarebbe potuta scegliere tra mille. La nebbia aveva
ormai invaso tutto il cielo. Quando le ultime luci del giorno diminuirono fino a
scomparire del tutto, un'assoluta oscurità avvolse l'Isola del Tesoro. E quando infine mi
caricai sulle spalle la piroga, e, districatomi a fatica dalla buca dove avevo mangiato,
presi a tastoni la strada, non vi erano in tutto l'ancoraggio che due soli punti visibili.
Uno era il gran fuoco acceso sulla riva, intorno al quale gli sconfitti pirati stavano
gozzovigliando. L'altro, uno scialbo luccichio nelle tenebre, indicava il punto dove la
goletta era ancorata. Il riflusso l'aveva fatta girare; ora mi presentava la prua; e poiché i
soli lumi a bordo erano nella cabina, ciò che io vedevo non era che il riverbero dentro
la nebbia dei vivi raggi che scaturivano dalla finestra di poppa.
La marea calava già da qualche tempo, e mi toccò attraversare un lungo banco di
sabbia pantanosa, affondandovi più volte fin sopra il collo del piede, prima di
raggiungere il limite del mare. Mi addentrai un po', e, con un po' di forza e destrezza,
deposi sulla superficie, a chiglia in giù, la piroga.




(continua)

_________Aurora Ageno___________
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