BALLA COI LUPI - romanzo completo

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Pagine: 1, [2], 3, 4
auroraageno
00lunedì 8 ottobre 2007 03:08
(segue)


13



Faccia sorridente non era un ragazzo di cui ci si potesse fidare. Nessuno lo avrebbe
definito un piantagrane, ma Faccia Sorridente detestava il lavoro e a differenza della
maggior parte dei ragazzi indiani, l'idea di assumersi delle responsabilità lo lasciava
del tutto freddo.
Era un sognatore e, come spesso fanno i sognatori, Faccia Sorridente aveva imparato
che uno dei migliori espedienti per evitare la noia del lavoro era quello di starsene in
disparte.
Ne conseguiva, quindi, che l'indolente ragazzino passasse quanto più tempo possibile
con il grosso branco di pony della tribù. Otteneva quest'incombenza regolarmente, in
parte perché era sempre pronto a offrirsi di andare e in parte perché, all'età di dodoci
anni, era diventato un esperto in fatto di cavalli.
Faccia Sorridente era in grado di prevedere con l'approssimazione di poche ore quando
una cavalla avrebbe sgravato. Aveva l'abilità di tenere sotto controllo gli stalloni turbolenti
e quando si trattava di curarli, sapeva che cosa fare per i loro malanni quanto qualsiasi
altro adulto della tribù, se non di più. Quando c'era lui, sembrava proprio che i cavalli se
la passassero meglio.
Tutto questo era una seconda natura per Faccia Sorridente... una seconda natura e
secondario. Ciò che più gli piaceva del fatto di stare con i cavalli era che questi pascolavano
lontano dal campo, a volte fino a un miglio di distanza, e questo faceva stare lontano anche lui,
lontano dagli occhi onnipotenti di suo padre, lontano dal probabile incarico di accudire ai
fratellini e alle sorelline, lontano dall'interminabile lavoro che richiedeva il mantenere un
accampamento.
Di solito, attorno al branco giravano altri ragazzi, ma a meno che non saltasse fuori niente
di speciale, Faccia Sorridente si univa raramente ai loro giochi.
Preferiva montare in groppa a qualche tranquillo castrato, distendendosi lungo la schiena
del cavallo e sognando, a volte per ore, mentre il cielo sempre mutevole scorreva al disopra
di lui.
Era rimasto a sognare in questo modo per gran parte del pomeriggio, felice di essere lontano
dal villaggio ancora scosso per il tragico ritorno del gruppo che era andato all'attacco degli
ute. Faccia Sorridente sapeva che, anche se non era molto interessato a combattere, presto
o tardi avrebbe dovuto scendere sul sentiero di guerra e aveva già preso mentalmente nota
di tenersi alla larga dai gruppi che sarebbero scesi contro gli ute.
Per l'ultima mezz'ora si era goduto l'insolito lusso di essere da solo con il branco. Gli altri
bambini erano stati richiamati al villaggio per un motivo o per l'altro, ma nessuno era venuto
a cercare lui e questo lo rendeva il più felice dei sognatori. Con un po' di fortuna, non avrebbe
dovuto tornare se non fino a quando fosse stato buio, e mancavano ancora parecchie ore
al tramonto.
Era allungato sulla schiena di un cavallo, sognando a occhi aperti di essere padrone di un
branco tutto suo, un branco che sarebbe sembrato una grossa adunata di guerrieri che nessuno
avrebbe osato sfidare, quando notò un movimento sul terreno.
Era un gopher, un grosso serpente giallo. Chissà come, si era perso nel bel mezzo di tutti
quegli zoccoli che si muovevano continuamente e strisciava da una parte all'altra alla disperata
ricerca di una via d'uscita.
A Faccia Sorridente piacevano i serpenti e questo era sicuramente abbastanza grosso e
vecchio da essere nonno. Un nonno nei pasticci. Saltò giù dalla sua comoda posizione con
l'idea di acchiappare il poveretto e di portarlo via da quel posto pericoloso.
Il vecchio serpente non era facile da prendere. Strisciava velocemente e Faccia Sorridente
continuava a venire urtato dai pony ammucchiati fra di loro. Il ragazzo doveva continuamente
chinarsi sotto un collo o un ventre, e fu soltanto grazie alla ostinata determinazione di buon
samaritano che riuscì a non perdere di vista il corpo giallo che zigzagava veloce sul terreno.
Finì bene. Vicino al bordo del branco il serpente finalmente trovò un buco in cui infilarsi e la
sola cosa che Faccia Sorridente riuscì a vedere fu la coda che spariva nel terreno.
Era ancora intento a guardare il buco quando alcuni dei cavalli del branco si misero a nitrire,
e Faccia Sorridente notò che rizzavano le orecchie. Improvvisamente, vide che le teste dell'intero
branco si giravano nella stessa direzione.
Avevano visto arrivare qualcosa.
Il ragazzo fu scosso da un brivido e l'euforia di starsene da solo si rivoltò contro
di lui in un solo colpo. Aveva paura, ma si mosse furtivamente, tenendosi basso in mezzo
ai pony, sperando di vedere prima di essere visto.
Quando riuscì a scorgere degli scorci di prateria vuoti davanti a lui, Faccia Sorridente si accucciò
e si spostò a lato delle zampe dei cavalli. Non si erano spaventati e questo diminuiva la sua
paura, ma continuavano a guardare con la stessa curiosità e il ragazzo fece attenzione a non
fare il minimo rumore.
Quando vide il cavallo, a venti o trenta passi di distanza, si fermò. Non aveva potuto vedere bene
perché le zampe dei cavalli gli ostruivano la vista, ma era sicuro di aver visto anche delle gambe.
Lentamente si sollevò e sbirciò al disopra della groppa di un pony. Ogni capello che aveva in testa
si mise a formicolare. Nella testa gli scoppiò un fragore simile a uno sciame di api impazzite.
La bocca del ragazzo si bloccò e lo stesso accadde ai suoi occhi. Non batté ciglio, Non ne aveva
mai visto uno prima, ma sapeva esattamente che cosa stesse guardando.
Era un uomo bianco. Un soldato bianco con il viso sporco di sangue.
E c'era qualcuno con lui. Quella strana donna, quella donna di nome Mano Alzata.
Sembrava ferita. Le sue braccia e le sue gambe erano fasciate con del tessuto dall'aspetto
strano. Forse era morta.
Mentre passavano davanti a lui, il cavallo dell'uomo bianco si mise a trottare. Si stava dirigendo
al villaggio. Era troppo tardi per correre avanti e dare l'allarme. Faccia Sorridente si ritrasse
in mezzo al branco e cominciò a pensare al suo rientro all'accampamento. Avrebbe passato
dei guai per questo. Che poteva fare?
Il ragazzo non riusciva a pensare chiaramente; nella sua testa tutto turbinava vorticosamente
Se fosse stato un po' più ragionevole, avrebbe capito dall'espressione della faccia che l'uomo
bianco non aveva intenzioni ostili. Nulla, nel suo atteggiamento, lo indicava. Ma le uniche parole
che rimbalzavano nel cervello di Faccia Sorridente erano: << Uomo bianco, uomo bianco >>.
Improvvisamente pensò: << Forse ve ne sono altri. Forse vi è un esercito di uomini bianchi,
fuori nella prateria. Forse sono vicini >>.
Pensando soltanto a riparare alla propria leggerezza, Faccia Sorridente si sfilò la briglia di
salice che teneva attorno al collo, la passò sul muso di un pony dall'aspetto robusto e lo portò
giù il più silenziosamente possibile fuori dal branco.
Poi balzò in groppa e frustò il pony al galoppo, allontanandosi nella direzione opposta al
villaggio, scrutando ansiosamente l'orizzonte per vedere se vi fosse qualche segno dei soldati
bianchi.


(continua)


auroraageno
00martedì 9 ottobre 2007 10:01
(segue)


Il tenente Dunbar era rimasto sbalordito. Quel branco di pony... Dapprima aveva pensato
che la prateria si stesse muovendo. Non aveva mai visto tanti cavalli tutti insieme. Ce
n'erano seicento, forse settecento. Era un branco talmente enorme che aveva avuto la
tentazione di fermarsi a guardare. Ma non poteva.
Aveva una donna fra le braccia.
Aveva resistito abbastanza bene. Il suo respiro era regolare e non aveva perso molto
sangue. Era rimasta anche molto tranquilla, ma per quanto fosse piccola, la donna gli
stava spezzando la schiena. L'aveva trasportata in quel modo per più di un'ora e adesso
che era vicino, il tenente non desiderava altro che arrivare. Di lì a breve il suo destino
sarebbe stato deciso e questo gli faceva accelerare il sangue, ma più che a ogni altra cosa,
pensava al mostruoso dolore fra le sue scapole. Lo stava uccidendo.
La leggera salita davanti a lui stava finendo e a mano a mano che si avvicinava al ciglio
riuscì a scorgere degli scorci del fiume attraversare la prateria, poi le punte di qualcosa
e quando arrivò alla fine della salita, l'accampamento si presentò alla sua vista, sorgendo
davanti ai suoi occhi come aveva fatto la luna la notte prima.
Inconsciamente il tenente tirò le redini. Doveva smetterla. Era sempre in contemplazione
di qualche visione.
Lungo il fiume erano piantate cinquanta o sessanta tende di forma conica costruite con
delle pelli. Avevano un aspetto calmo e tranquillo alla luce del sole del tardo pomeriggio,
ma le ombre che proiettavano le facevano anche apparire più grandi delle loro reali dimensioni,
come dei monumenti antichi che vivevano ancora.
Poteva vedere della gente affaccendata attorno alle tende. Poteva sentire alcune delle loro
voci mentre camminavano per i sentieri tracciati dal calpestio dei piedi fra le varie tende.
Sentì ridere, e questo in qualche modo lo sorprese. C'era dell'altra gente lungo il fiume.
Qualcuno era nell'acqua.
Il tenente rimase immobile in groppa a Cisco, stringendo la donna che aveva trovato, i suoi
sensi sopraffatti dalla forza di quel quadro senza età, come la tela di un dipinto vivente
che venisse svolta davanti ai suoi occhi. Una civiltà primitiva, completamente intatta.
E lui era lì.
Era qualcosa che andava oltre le sue capacità di immaginazione e allo stesso tempo capì
che questo era ciò per cui era venuto, che al centro del suo desiderio di essere assegnato
ai territori dell'Ovest vi era questo. Senza che ne fosse stato consapevole, era questo che
aveva anelato di vedere.
Quei momenti che scorrevano veloci, lì sul ciglio della salita, non sarebbero tornati mai più
nella sua vita mortale. Per quei pochi, fuggevoli momenti, divenne parte di qualcosa di più
grande che cessò di essere un tenente, o un uomo, o persino un corpo fatto di organi
funzionanti. Per quei momenti fu uno spirito, sospeso nel vuoto spazio senza tempo
dell'universo. Per quei pochi, preziosi secondi, conobbe la sensazione dell'eternità.
La donna tossì. Si mosse contro il suo petto e con la mano Dunbar le batté alcuni colpetti
affettuosi sulla nuca.
Schioccò le labbra e Cisco si avviò giù per la discesa. Avevano percorso soltanto pochi metri
quando Dunbar vide una donna con due bambini salire da una fenditura del terrapieno lungo
la riva del fiume.
E loro videro lui.

La donna lanciò un urlo, lasciando cadere a terra l'acqua che stava trasportando. Afferrò i
bambini e si mise a correre verso il villaggio, gridando: << Soldato bianco, soldato bianco >>,
con quanto fiato aveva in gola. Come dei petardi scoppiarono dei furiosi latrati di cani, le
donne si precipitarono con grida acute a raccogliere i loro bambini, mentre i cavalli si misero
a scalpitare attorno alle tende nitrendo selvaggiamente. Un vero pandemonio.
L'intera tribù pensava di essere stata attaccata.
Mentre si avvicinava ancora di più al villaggio, il tenente Dunbar poteva vedere degli uomini
correre in ogni direzione. Quelli che erano riusciti a prendere le armi correvano verso i loro
cavalli in un modo talmente convulso da ricordargli della selvaggina presa dal panico. Il
villaggio nel caos era altrettanto ultraterreno del villaggio immerso nella quiete. Era come
un grosso vespaio fatto di persone in cui qualcuno avesse ficcato un bastone.
Gli uomini che avevano raggiunto i propri cavalli si stavano riunendo a formare una forza di
attacco che da un istante all'altro si sarebbe precipitata ad affrontarlo, forse a ucciderlo. Non
si era aspettato di creare un'agitazione simile, né si era aspettato che quella gente fosse così
primitiva. Ma c'era qualcosa che gravava su di lui mentre si avvicinava al villaggio, qualcosa
che annullava tutto il resto. Per la prima volta nella sua vita, il tenente Dunbar capì che volesse
dire sentirsi un invasore. Era una sensazione che non gli piaceva ed ebbe parecchio a che
vedere con ciò che fece in seguito. Essere considerato un intruso era l'ultima cosa che voleva
e quando raggiunse il terreno sgombrato dall'erba all'imbocco del villaggio, quando fu abbastanza
vicino da riuscire a vedere attraverso la cortina di polvere sollevata dal trambusto e a guardare
negli occhi delle persone che vi stavano nel mezzo, tirò nuovamente le redini e fermò il cavallo.
Poi smontò, prendendo fra le braccia la donna, e fece un paio di passi piazzandosi davanti al
suo cavallo. Lì si fermò, con gli occhi chiusi, reggendo la ragazza ferita come uno strano viaggiatore
che portasse uno strano regalo.
Il tenente Dunbar ascoltò attentamente mentre il villaggio, gradatamente ma nel volgere di pochi
secondi, diventava stranamente calmo. La cortina di polvere cominciò a diradarsi e Dunbar
percepì con le orecchie che la massa di umanità che solo pochi momenti prima aveva sollevato
quel pauroso clamore ora stava lentamente muovendosi verso di lui. Nella calma irreale poteva
distinguere il suono metallico di qualche arnese, il fruscio dei passi, un cavallo che sbuffava mentre
scalpitava e si agitava nervosamente.
Aprì gli occhi per vedere che l'intera tribù si era riunita all'entrata del villaggio, i guerrieri e i giovani
davanti a tutti e dietro di loro le donne e i bambini. Era un sogno popolato di gente selvaggia,
vestiti di pelli e di tessuti colorati, una razza completamente diversa di esseri umani che lo
osservavano senza fiato a nemmeno cento metri da lui.
La ragazza era pesante fra le sue braccia. Quando Dunbar si mosse per cambiare posizione,
dalla folla si levò un brusio che si spense subito. Ma nessuno si mosse verso di lui.
Un gruppo di anziani, evidentemente degli uomini che avevano autorità, si misero a consultarsi
mentre la loro gente rimaneva in attesa, mormorando fra di loro in toni gutturali così estranei
all'orecchio del tenente che sembravano a malapena delle parole.
Lasciò che la sua attenzione vagasse durante quella pausa momentanea e, quando gettò lo
sguardo su un manipolo di una decina di guerrieri, gli occhi del tenente caddero su una faccia
familiare. Era lo stesso uomo, il guerriero che gli aveva abbaiato furiosamente delle frasi
il giorno dell'incursione a Fort Sedgewick. Vento-nei-capelli ricambiò lo sguardo con tale
intensità che Dunbar quasi si voltò per vedere se ci fosse qualcuno dietro di lui.
Le sue braccia erano di piombo e non era certo di riuscire a muoverle nuovamente ma, con lo
sguardo del guerriero sempre fisso su di lui, Dunbar sollevò la ragazza un po' più in alto, come
se volesse dire: << Ecco... prendila >>.


(continua)


auroraageno
00mercoledì 10 ottobre 2007 10:43
(segue)

Sconcertato per questo gesto improvviso e inaspettato, il guerriero esitò, lanciando
rapide occhiate alla folla, evidentemente chiedendosi se questo silenzioso scambio
fosse stato notato da qualcun altro. Quando tornò a guardarlo, il tenente teneva ancora
gli occhi su di lui, le braccia atteggiate nello stesso gesto.
Con un sospiro di sollievo dentro di sé, il tenente Dunbar vide Vento-nei-capelli balzare
giù dal pony e avanzare sul terreno sgombro, facendo oscillare leggermente l'ascia di
guerra che impugnava. Si stava avvicinando e se il guerriero provava della paura, questa
era ben mascherata, perché la sua faccia era ferma e risoluta, atteggiata, sembrava,
nell'espressione di chi elargisce una punizione.
Fra la folla riunita si fece improvvisamente il silenzio, mentre la distanza fra il tenente Dunbar
e il guerriero che avanzava a lunghi passi si riduceva fino a scomparire. Era troppo tardi per
impedire qualsiasi cosa che stesse per succedere. Tutti rimasero immobili a guardare.
Di fronte a ciò che stava venendo verso di lui, il tenente Dunbar non avrebbe potuto mostrare
maggiore coraggio. Rimase fermo dov'era senza battere ciglio e anche se la sua faccia non
mostrava dolore, non mostrava nemmeno paura.
Quando Vento-nei-capelli fu a pochi metri da lui e rallentò il passo, il tenente disse con voce
chiara e forte: << E' ferita >>.
Sollevò leggermente il suo carico mentre il guerriero guardava il viso della donna, e Dunbar
capì che l'aveva riconosciuta. La sorpresa di Vento-nei-capelli era così evidente, che per un
momento il pensiero che la donna potesse essere morta attraversò come un lampo la sua
mente. Anche il tenente abbassò lo sguardo su di lei.
In quel momento, la donna gli venne strappata dalle braccia. Con un solo, potente movimento,
era stata tolta dalla sua presa e prima che Dunbar se ne rendesse conto, il guerriero stava
dirigendosi con Mano Alzata verso il villaggio, trascinandola rudemente con sé come un cane
trascina un cucciolo.
Mentre camminava verso la folla, gridò qualcosa che suscitò una generale esclamazione di
sorpresa fra i comanci. Tutti si precipitarono incontro a lui.
Il tenente rimase immobile davanti al suo cavallo e mentre l'intero villaggio si ammassava
intorno a Vento-nei-capelli, sentì che ogni energia lo abbandonava. Questa non era la sua
gente. Non li avrebbe mai conosciuti. Era come se fosse distante migliaia di miglia da loro.
Desiderò di potersi fare piccolo, tanto piccolo da scomparire nel buco più piccolo e più
buio.
Che cosa si era aspettato da questa gente? Doveva aver pensato che si sarebbero precipitati
ad abbracciarlo, che avrebbero parlato la sua lingua, lo avrebbero invitato a cena e riso con
lui a un semplice salve! da parte sua. Come doveva essere solo. Come era pietoso, a nutrire
una qualsiasi aspettativa, afferrandosi anche a questa paglia remota per non affogare,
accarezzando delle speranze tanto vaste da non riuscire a essere onesto con se stesso. Si era
illuso di tutto, illuso di pensare che fosse qualcosa, quando invece non era niente.
Quei pensieri terribili gli attraversavano la mente come una scarica di scintille sconnesse e dove
ora si trovasse, di fronte a questo primitivo villaggio, non aveva la minima importanza. Il tenente
Dunbar stava per essere sopraffatto da una morbosa crisi personale. Come del gesso cancellato
con un solo gesto dalla lavagna, il suo coraggio e la sua speranza lo avevano abbandonato
nello stesso tempo. Da qualche parte, dentro di lui, era stato girato un interruttore e la luce del
tenente Dunbar si era spenta.
Dimentico di tutto all'infuori di quella sensazione di vuoto dentro di lui, l'infelice tenente balzò in
groppa a Cisco, afferrò le redini facendogli fare un giro su se stesso e si avviò ad andatura
sostenuta nella stessa direzione da cui era venuto. Avvenne in modo così poco ostentato che
i già indaffarati comanci non si resero conto che se ne stava andando finché non aveva già
percorso una buona distanza.
Due animosi adolescenti fecero per inseguirlo, ma vennero prontamente trattenuti dagli imperturbabili
anziani della cerchia di Dieci Orsi. Avevano abbastanza buon senso da sapere che era stata
compiuta una buona azione, che il soldato bianco aveva riportato uno di loro e che non vi era
nulla da guadagnare a dargli la caccia.


La cavalcata di ritorno verso il forte fu la più lunga e la più agonizzante del tenente Dunbar. Per
parecchie miglia cavalcò in uno stato di stordimento, con la mente agitata da migliaia di pensieri
sterili. Resistette alla tentazione di piangere nello stesso modo in cui si cerca di resistere ai
conati di vomito, ma l'autocommiserazione premeva incessantemente su di lui, un'ondata dopo
l'altra, e alla fine cedette.
Strinse le spalle e crollò in avanti, e le lacrime cominciarono a sgorgare senza un suono. Ma
quando cominciò ad aspirare con il naso, le dighe cedettero completamente. La sua faccia si
contorse in una smorfia grottesca e cominciò a gemere irrefrenabilmente come un isterico.
Mentre si abbandonava a queste convulsioni, allentò le redini a Cisco e mentre le miglia si
accumulavano senza che se ne rendesse conto, lasciò che il suo cuore sanguinasse
liberamente, singhiozzando pietosamente come un bambino inconsolabile.

Non vide il forte. Quando Cisco si fermò, il tenente alzò lo sguardo e vide che si trovavano
di fronte ai suoi alloggi. Ogni energia gli era stata tolta e per qualche secondo fu come se
tutto ciò che riuscisse a fare, fosse di restare in stato di abulia in groppa al suo cavallo.
Quando infine sollevò nuovamente la testa, vide Due Calzini, appostato nel solito punto sul
promontorio al di là del fiume. La vista del lupo, seduto in paziente attesa come un eccellente
cane da caccia, il suo muso così gradevolmente interrogativo, fece salire un nuovo groppo
di dolore alla gola del tenente. Ma aveva pianto tutte le sue lacrime.
Scese goffamente dal cavallo, tolse il morso dal muso di Cisco e si trascinò fino alla porta.
Lasciando cadere la briglia sul pavimento, si buttò sul giaciglio, si tirò una coperta fin sulla testa
e si raggomitolò.
Era talmente esausto da non riuscire a dormire. Per qualche motivo continuava a pensare a Due
Calzini, in paziente attesa là fuori. Con uno sforzo sovrumano si trascinò fuori dal letto, barcollò
fino alla soglia e lanciò un'occhiata al di là del fiume.
Il vecchio lupo era ancora seduto al suo posto, così il tenente camminò come un sonnambulo
fino al deposito e tagliò un grosso pezzo di pancetta. La portò fino al promontorio e, mentre
Due Calzini osservava con attenzione, la lasciò cadere sul terreno erboso vicino al ciglio.
Poi, pensando al sonno a ogni passo che faceva, buttò a Cisco un po' di fieno e si ritirò nei
suoi alloggi. Come un soldato colpito a morte, crollò in avanti sul pagliericcio e tirò su la
coperta coprendosi gli occhi.
Gli apparve il viso di una donna, un viso che emergeva dal passato e che conosceva bene.
Aveva un sorriso timido sulle labbra e i suoi occhi risplendevano di una luce che può venire
solamente dal cuore. Nei momenti difficili era sempre ricorso a quel viso, e il viso era sempre
venuto a confortarlo. C'era molto di più dietro quel viso, una lunga storia senza un lieto fine,
ma il tenente Dunbar non pensò a quello. Il viso e quello sguardo meraviglioso erano tutto ciò
che voleva ricordare, e vi si aggrappò con tenacia. Lo usava come un farmaco. Era il più
potente farmaco per scacciare il dolore che conoscesse. Non pensava spesso a lei, ma portava
il suo viso con sé, usandolo soltanto quando era sul punto di toccare il fondo.
Rimase sdraiato senza fare un movimento, come un fumatore di oppio, e alla fine l'immagine
che conservava nella mente cominciò a fare effetto. Stava già russando quando apparve
Venere, la prima di una lunga parata di stelle nel cielo infinito della prateria.



(continua)


auroraageno
00venerdì 12 ottobre 2007 16:54
(segue)


14



Pochi minuti dopo che l'uomo bianco se ne era andato, Dieci Orsi riunì nuovamente il
consiglio della tribù. A differenza delle altre riunioni, iniziate e finite nella confusione,
Dieci Orsi ora sapeva esattamente che cosa fare. Aveva deciso un piano prima ancora
che l'ultimo degli anziani si fosse messo a sedere nella sua tenda.
Il soldato bianco con la faccia sporca di sangue aveva riportato Mano Alzata e Dieci Orsi
era convinto che questa sorpresa fosse un ottimo auspicio. Da troppo tempo il problema
della razza bianca infastidiva i suoi pensieri. Da anni, non riusciva a vedere niente di buono
nel loro arrivo. Ma lo voleva disperatamente. Oggi aveva finalmente visto qualcosa di buono,
e adesso era deciso a non lasciar sfuggire quella che considerava un'occasione d'oro.
Il soldato bianco aveva dimostrato un notevole coraggio a venire da solo al loro accampamento.
Ed era ovviamente venuto con una sola intenzione... non per rubare o imbrogliare o attaccarli,
ma per restituire qualcosa che aveva trovato, qualcosa che apparteneva a loro. Questi
discorsi sugli dèi erano probabilmente sbagliati, ma una cosa era molto chiara a Dieci Orsi.
Per il bene di tutti, si doveva venirne a sapere di più su questo soldato. Un uomo che si
comportava come aveva fatto lui era destinato ad assumere una posizione importante fra i
bianchi. Era possibile che già possedesse grande autorità e influenza. Un uomo come lui
era qualcuno con cui potevano essere presi degli accordi. E senza accordi, sicuramente
sarebbero venute la guerra e molte sofferenze.
Così, Dieci Orsi si sentiva incoraggiato. Anche se si trattava di un evento isolato, il gesto di
apertura a cui aveva assistito quel pomeriggio gli appariva come una luce nella notte e,
mentre gli anziani prendevano posto nella sua tenda, pensava al modo migliore per mettere
in pratica il proprio piano.
Mentre ascoltava i preliminari, esprimendo qualche sporadico commento, Dieci Orsi esaminò
mentalmente una rosa di uomini affidabili, cercando di decidere quale di questi sarebbe stato
il più adatto per l'idea che aveva in mente.
Fu soltanto dopo l'arrivo di Uccello Saltellante, che era stato trattenuto per accudire Mano Alzata,
che il vecchio si rese conto che il suo non era un piano che richiedesse un solo uomo. Doveva
mandare due uomini. Una volta deciso questo particolare, individuò rapidamente coloro che
avrebbero dovuto essere prescelti. Doveva mandare Uccello Saltellante per le sue capacità
di osservazione e Vento-nei-capelli per la sua natura impetuosa. Il carattere di ciascun uomo
rappresentava lui e il suo popolo e i due uomini si completavano perfettamente a vicenda.
Dieci Orsi fece in modo che il consiglio fosse di breve durata. Non voleva che si verificasse
quel genere di discussioni prolungate che potevano provocare dell'indecisione. Quando venne
il momento giusto, fece un discorso eloquente e ben articolato, enumerando le molte storie a
proposito della superiorità numerica dei bianchi e dei mezzi di cui disponevano, specialmente
in termini di fucili e di cavalli. Concluse con l'affermazione che l'uomo al forte era sicuramente
un emissario e che la buona azione da lui compiuta doveva rappresentare un motivo per parlare,
non per combattere.
Alla fine del suo discorso vi fu un lungo silenzio. Tutti sapevano che aveva ragione.
Fu Vento-nei-capelli a parlare.
<< Non credo sia giusto che tu vada a parlare con questo uomo bianco >>, disse. << Non è un dio,
è soltanto un altro uomo bianco che a suo modo si è perduto. >>
Mentre rispondeva, negli occhi del vecchio balenò una scintilla.
<< Non sarò io ad andare, ma degli uomini valorosi. Uomini che possano far vedere che cos'è un
comanci. >>
Fece una pausa, chiudendo gli occhi per creare un effetto drammatico. Trascorse un minuto e
alcuni dei presenti pensarono che si fosse addormentato. Ma all'ultimo istante Dieci Orsi li socchiuse
quel tanto che bastava per dire a Vento-nei-capelli: << Sarai tu ad andare. Tu e Uccello Saltellante >>.
Poi richiuse gli occhi e si mise a sonnecchiare, ponendo fine al consiglio proprio al momento
giusto.


Il primo violento temporale della stagione arrivò quella notte, un fronte lungo quasi un miglio che
avanzava al sordo boato dei tuoni e al secco crepitio delle saette. Violenti scrosci spazzarono
la prateria come delle fitte cortine agitate dal vento, inducendo ogni cosa vivente a correre al
riparo.
Il rumore della pioggia svegliò Mano Alzata.
La pioggia batteva sulle pareti della tenda come il rumore attutito di un centinaio di fucili e per
alcuni momenti non si rese conto di dove si trovasse. C'era della luce e Mano Alzata si girò
lentamente sul fianco per guardare il piccolo fuoco che ardeva al centro della tenda. Nel cambiare
posizione, una delle sue mani sfiorò la ferita che aveva sulla coscia e sentì al tatto qualcosa di
estraneo. Tastò attentamente e si rese conto che il taglio era stato ricucito.
Allora, tutto le tornò alla mente.
Fece scorrere lo sguardo assonnato intorno a lei, chiedendosi chi vivesse in quella tenda. Sapeva
che non era la sua.
Si sentiva la bocca arida. Tolse una mano da sotto le coperte e tastò intorno a lei. La prima cosa
che le sue dita incontrarono fu una piccola ciotola riempita per metà d'acqua. Si sollevò su un
gomito e bevve qualche lunga sorsata, poi si sdraiò nuovamente.
Vi erano molte cose che voleva sapere, ma adesso era troppo difficile pensare. Sotto la coperta
si sentiva al caldo come in estate, le ombre del fuoco danzavano allegramente al disopra della
sua testa, la pioggia cantava la sua impetuosa ninnananna nelle sue orecchie, e lei era molto
debole.
Forse sto morendo, pensò, mentre le palpebre cominciavano ad abbassarsi, escludendo l'ultimo
chiarore del fuoco dai suoi occhi. Ma non è sgradevole, si disse, mentre si addormentava.
Ma Mano Alzata non stava morendo. Si stava riprendendo e ciò che aveva sofferto, una volta
sanato, l'avrebbe resa più forte che mai.
Dal male sarebbe venuto il bene. E il bene, in effetti, era già iniziato. Si trovava in un posto
confortevole, un posto che sarebbe stato la sua casa per molto tempo ancora.
Era nella tenda di Uccello Saltellante.



(continua)

auroraageno
00sabato 13 ottobre 2007 16:15
(segue)

Il tenente Dunbar dormì come un sasso, consapevole soltanto vagamente dello spettacolo
straordinario che stava avvenendo nel cielo al disopra di lui. La pioggia si accanì sulla
piccola baracca per ore, ma lui si sentiva così riparato e al sicuro sotto la pila di coperte
dell'esercito che il diavolo avrebbe anche potuto fargli visita senza che lui se ne accorgesse.
Durante il sonno non si mosse nemmeno una volta, e fu soltanto dopo il levar del sole, quando
il temporale era ormai passato, che lo spensierato e insistente canto di una stornella lo riportò
finalmente alla realtà. La pioggia aveva rinfrescato ogni centimetro della prateria e ne avvertì
il gradevole odore di umidità prima ancora che riuscisse ad aprire gli occhi. Sbattendo le
palpebre si rese conto di essere sdraiato sulla schiena e, quando gli occhi si aprirono del
tutto, la prima cosa che vide furono i suoi piedi in fondo al letto e la porta di entrata dietro di
loro.
Vi fu un rapido movimento, mentre qualcosa di basso e coperto di pelo si abbassava,
allontanandosi dalla porta. Il tenente si tirò su a sedere, battendo le palpebre. Un istante dopo,
gettò indietro le coperte e si diresse in punta di piedi all'entrata. Dall'interno, sbirciò con un
occhio intorno allo stipite della porta.
Due Calzini stava trotterellando fuori del riparo a tenda e si stava girando per sistemarsi al
sole nello spiazzo. Vide il tenente e si irrigidì. Si guardarono l'un l'altro per alcuni secondi.
Poi il tenente si sfregò gli occhi ancora assonnati e quando guardò nuovamente, vide che
Due Calzini si era accucciato, con il muso appoggiato sul terreno fra le zampe anteriori come
un cane fedele in attesa del padrone.
Sentì Cisco nitrire insistentemente dal recinto e il tenente voltò la testa in quella direzione.
Con l'angolo dell'occhio colse un simultaneo movimento e si girò in tempo per vedere Due
Calzini galoppare fuori vista lungo il promontorio. Poi, mentre volgeva nuovamente lo sguardo
al recinto, li vide.
Erano in groppa ai loro pony a meno di un centinaio di metri davanti a lui. Non li contò, ma erano
in otto.
Due uomini si fecero improvvisamente avanti. Dunbar non si mosse ma, a differenza degli incontri
precedenti, restò dov'era senza alcuna tensione. Era per il modo in cui stavano arrivando. Le
teste dei loro pony ciondolavano mollemente mentre avanzavano adagio, noncuranti come dei
lavoratori che ritornano a casa dopo una lunga e normale giornata di lavoro.
Il tenente era nervoso, ma il suo nervosismo aveva poco a che fare con la vita o con la morte.
Si stava chiedendo che cosa avrebbero detto e come avrebbe potuto eventualmente far loro
capire le sue prime parole.


Uccello Saltellante e Vento-nei-capelli si stavano chiedendo esattamente la stessa cosa. Il
soldato bianco era per loro più estraneo di qualunque cosa che avessero mai incontrato o
conosciuto e nessuno dei due sapeva come sarebbero potute andare le cose. Il vedere che
la faccia dell'uomo bianco era ancora sporca di sangue non li fece sentire meglio per quanto
riguardava l'incontro che stava per avvenire. In termini di ruoli, però, ognuno dei due uomini
era diverso dall'altro. Vento-nei-capelli avanzava con l'atteggiamento del guerriero, un combattivo
comanci. Era un momento importante della sua vita, della vita della tribù e della vita dell'intero
popolo comanci. Per Uccello Saltellante, un futuro completamente nuovo si stava schiudendo
e lui stava entrando a far parte della storia.


Quando i loro visi furono abbastanza vicini da poter essere distinti, il tenente Dunbar riconobbe
immediatamente il guerriero che gli aveva tolto la donna dalle braccia. C'era qualcosa di familiare
anche nell'altro uomo, ma non riusciva a collocarlo. Non ne ebbe il tempo.
Si erano fermati a mezzo metro da lui.
Sembravano sfavillare, alla luce brillante del sole. Vento-nei-capelli portava un pettorale di ossa
e Uccello Saltellante aveva al collo un largo disco di metallo che rifletteva i raggi del sole. Anche
i loro occhi scintillavano e i capelli neri e lucenti dei due uomini sembravano mandare dei bagliori.
Malgrado si fosse appena svegliato, vi era qualcosa di splendente anche nel tenente Dunbar,
anche se si trattava di qualcosa di molto più sottile dello splendore dei suoi visitatori.
La sua crisi era passata, lasciandolo come il temporale della notte prima aveva lasciato la prateria:
rinvigorito e pieno di energia.
Il tenente Dunbar si piegò leggermente in avanti, accennando un inchino e portò due dita alla tempia
in un gesto lento e deliberato di saluto.
Un momento dopo Uccello Saltellante restituì il suo gesto con uno strano movimento della mano,
girandola a mostrare il palmo.
Il tenente non sapeva che cosa significasse ma lo interpretò correttamente come un gesto amichevole.
Si guardò intorno, quasi per controllare che il posto fosse sempre lì, e disse: << Benvenuti a Fort
Sedgewick >>.
Che cosa significassero quelle parole era un mistero per Uccello Saltellante, ma, come aveva fatto il
tenente Dunbar, le interpretò come un qualche genere di saluto.
<< Siamo venuti dall'accampamento di Dieci Orsi per parlare di pace >>, disse, ottenendo dal
tenente uno sguardo attonito.
Poiché appariva evidente che nessuno dei due sarebbe stato in grado di conversare, fra i due
interlocutori cadde il silenzio. Vento-nei-capelli approfittò di questa pausa per esaminare i particolari
del luogo in cui viveva l'uomo bianco. Guardò attentamente e a lungo il riparo a tenda che ora
cominciava a ondeggiare al vento.
Uccello Saltellante rimase impassibile in groppa al suo pony mentre i secondi passavano
lentamente. Dunbar si lisciava il mento con la mano, battendo leggermente la punta dei piedi
sul terreno. A mano a mano che il tempo passava, diventava nervoso, e questo gli ricordò che aveva
saltato il suo caffè mattutino e quanto desiderasse berne una tazza. Aveva anche voglia di una sigaretta.
<< Caffè? >> chiese a Uccello Saltellante.
Lo stregone inclinò leggermente la testa con aria interrogativa.
<< Caffè? >> ripeté il tenente. Avvolse le mani attorno a un'immaginaria tazza e fece il gesto di bere.
<< Caffè? >>, disse nuovamente. << Volete bere? >>
Uccello Saltellante continuò a fissarlo. Vento-nei-capelli fece una domanda e Uccello Saltellante
gli rispose. Poi guardarono entrambi il loro ospite. Dopo quello che a Dunbar sembrò un'eternità,
Uccello Saltellante fece un cenno di assenso con il capo.
<< Bene, bene >>, disse il tenente, dandosi delle leggere pacche sulla coscia. << Allora, seguitemi. >>
Indicò loro con i gesti di smontare da cavallo e fece loro cenno di seguirlo mentre camminava al
disotto del riparo a tenda.
I comanci lo seguirono con circospezione. Tutto ciò che i loro occhi vedevano aveva un'aria misteriosa
e il tenente stava facendo una figura ridicola, agitandosi come qualcuno che fosse stato preso di
sorpresa dagli ospiti arrivati con un'ora di anticipo.
Il fuoco non era acceso, ma fortunatamente aveva già pronta abbastanza legna per far bollire il
caffè. Si acquattò accanto al mucchio di sterpi e cominciò a preparare il fuoco.
<< Vi prego, sedetevi >>, disse loro.
Ma gli indiani non capirono e dovette ripetere, mimando il gesto di sedersi mentre parlava.
Quando si furono seduti, si precipitò al deposito e ritornò altrettanto velocemente portando
con sé un sacco contenente due chili di grani di caffè e un macinino. Quando ebbe acceso
il fuoco, il tenente Dunbar versò i chicchi nell'imbuto del macinino e cominciò a girare la manovella.


(continua)



auroraageno
00domenica 14 ottobre 2007 16:21
(segue)

Mentre i chicchi sparivano giù per il cono metallico del macinino, vide che Uccello
Saltellante e Vento-nei-capelli si piegavano in avanti, incuriositi. Non si era reso
conto che qualcosa di così normale come un macinino del caffè sarebbe apparso loro
come un oggetto magico. Ma per Uccello Saltellante e Vento-nei-capelli lo era davvero.
Nessuno di loro aveva mai visto un macinino.
Il tenente Dunbar si sentiva eccitato dalla presenza di altre persone dopo tutto quel tempo
ed era ansioso che i suoi ospiti si fermassero un po', così sfruttò l'operazione di macinatura
il meglio che poté. Si arrestò bruscamente e spostò il macinino un po' più vicino ai due indiani,
in modo che potessero vedere meglio l'operazione. Macinò a gesti lenti, lasciando che
osservassero i grani scomparire via via dentro al macinino. Quando non ne furono rimasti
che un paio, terminò l'operazione in bellezza, dando un ultimo, energico e teatrale giro di
manovella. Poi fece una pausa, come un mago che avesse finito il suo numero, in attesa
delle reazioni del suo pubblico.
Era il macinino ad affascinare Uccello Saltellante. Fece scorrere le dita lungo uno dei bordi
di legno levigato. Coerentemente con la sua natura, era invece il meccanismo di frantumazione
dei grani a interessare maggiormente Vento-nei-capelli. Infilò una delle sue dita lunghe
e brune nell'imbuto del macinino e tastò il piccolo foro sul fondo, sperando di scoprire che cosa
fosse avvenuto dei chicchi.
Era il momento del finale e Dunbar interruppe queste ispezioni, sollevando una mano a mo' di
segnale di attesa. Girando il macinino dall'altro lato, prese fra due dita la piccola manopola
che si trovava alla base. Gli indiani piegarono la testa, più incuriositi che mai.
All'ultimo minuto e come se stesse scoprendo un favoloso gioiello, gli occhi del tenente Dunbar
si spalancarono, sulla faccia gli apparve un largo sorriso, ed ecco apparire il cassettino pieno
di grani macinati di fresco.
Entrambi i comanci ne furono enormemente impressionati. Ognuno di loro prese un po' dei chicchi
finemente macinati, portandoselo alle narici per annusare. Rimasero tranquillamente seduti
mentre il loro ospite metteva il bricco sul fuoco lasciando che l'acqua venisse a bollore, in attesa
di ulteriori sviluppi.
Dunbar servì il caffè, porgendo a ciascuno dei suoi ospiti una fumante tazza piena di nero liquido.
I due uomini assaporarono l'aroma che saliva loro in viso dalla tazza e si scambiarono degli
sguardi di approvazione. Odorava di buon caffè, molto migliore di quello che rubavano da molti
anni ai messicani. Molto più forte.
Dunbar rimase a osservarli mentre cominciavano a sorseggiare il contenuto delle loro tazze e fu
sorpreso quando li vide storcere la faccia. Qualcosa non andava, Parlarono entrambi contemporaneamente,
qualcosa che pareva una domanda.
Gli indiani tennero un breve, ma inconcludente, conciliabolo. Poi, Uccello Saltellante ebbe un'idea.
Atteggiò la mano a pugno, la tenne sollevata sopra la tazza e poi la aprì, come se stesse facendo
cadere qualcosa nel caffè. Fece il gesto di mescolare quello che aveva finto di versare.
Il tenente Dunbar disse qualcosa che lui non capiva, allora restò a osservare il tenente balzare in
piedi, dirigendosi verso il malridotto deposito, ritornare con un altro sacco e depositarlo accanto
al fuoco.
Uccello Saltellante guardò dentro al sacco e fece un grugnito di soddisfazione, quando vide i bruni
cristalli che conteneva.
Il tenente Dunbar vide un sorriso illuminare le facce dei due indiani e capì che aveva immaginato
giusto. Quello che volevano era lo zucchero.


(continua)



auroraageno
00lunedì 15 ottobre 2007 20:35
(segue)

Uccello Saltellante si sentì particolarmente stimolato dall'entusiasmo del soldato bianco.
Voleva conversare e, quando si erano presentati, Lu Ten Ant, come i due comanci
pronunciavano lieutenant, tenente, aveva chiesto i loro nomi più volte fino a che era
riuscito a pronunciarli esattamente. Appariva strano e faceva delle cose strane, ma
l'uomo bianco era ansioso di ascoltare e sembrava avere delle grosse riserve di energia.
Forse perché lui stesso era così incline alla pace, Uccello Saltellante apprezzava
moltissimo la forza e l'energia nelle altre persone.
L'uomo bianco parlava più di quanto Uccello Saltellante fosse abituato a fare. Quando ci
pensò, gli parve che non cessasse di parlare per tutto il tempo.
Ma era divertente. Eseguiva delle strane danze e faceva degli strani segnali con le mani
e la faccia. Faceva anche delle imitazioni che facevano ridere Vento-nei-capelli. Ed era
difficile riuscirvi.
A parte le sue impressioni generali, Uccello Saltellante aveva scoperto alcune cose. Lu Ten Ant
non poteva essere un dio. Era troppo umano. Ed era solo. Nessun altro viveva lì. Ma non
seppe perché fosse solo. Né seppe se altri uomini stessero venendo e quali avrebbero
potuto essere i loro piani. Uccello Saltellante era ansioso di avere delle risposte a queste
domande.
Vento-nei-capelli era davanti a lui. Cavalcavano l'uno dietro l'altro lungo un sentiero che si
snodava fra gli alberi vicino al fiume. Non si udiva che il tonfo soffocato degli zoccoli dei
cavalli sulla sabbia bagnata e Uccello Saltellante si chiese a che cosa stesse pensando.
Non si erano ancora scambiati le loro impressioni sull'incontro e questo lo preoccupava
un po'.
Uccello Saltellante non aveva bisogno di preoccuparsi, perché anche Vento-nei-capelli
era stato favorevolmente impressionato, e questo malgrado il fatto che l'idea di uccidere
l'uomo bianco gli fosse passata per la testa parecchie volte. Da tempo pensava che gli
uomini bianchi non erano altro che delle inutili seccature, dei coyote che si aggiravano
intorno alla carne. Ma più di una volta questo soldato aveva mostrato del coraggio. Era
anche amichevole. Ed era buffo. Molto buffo.
Uccello Saltellante abbassò lo sguardo sui due sacchi, uno con lo zucchero e l'altro con
il caffè, che sobbalzavano leggermente contro le spalle del suo cavallo, e nella sua mente
si affacciò l'idea che l'uomo bianco gli piaceva. Era un'idea strana e doveva pensarci.
Bene, e anche se fosse così? pensò alla fine lo stregone.
Sentì il suono soffocato di una risata. Sembrava che provenisse da Vento-nei-capelli. Di
nuovo vi fu una risata, questa volta chiara e distinta, e il rude guerriero si girò sul suo pony,
parlando da sopra la spalla.
<< E' stato davvero buffo >>, disse per metà parlando e per metà ridendo, << quando l'uomo
bianco ha fatto il bisonte. >>
Senza aspettare una risposta, si girò verso il sentiero. Ma Uccello Saltellante vedeva le sue
spalle sussultare mentre cercava di trattenere le risate.
Era stato buffo. Lu Ten Ant che si muoveva intorno sulle ginocchia, le mani aperte appoggiate
alle tempie a mo' di corna. E quella coperta, quella coperta che si era infilato sotto la camicia
per simulare una gobba.
No, sorrise fra sé Uccello Saltellante, niente è più strano di un uomo bianco.


Il tenente Dunbar stese la pesante pelliccia sul suo giaciglio e restò a guardarla affascinato.
Non aveva mai visto un bisonte, pensò con orgoglio, e già ne possedeva una pelle intera.
Poi si sedette quasi con reverenza sul bordo del letto, si lasciò cadere sulla schiena e fece
scorrere le mani sulla morbida, folta pelliccia. Sollevò uno degli orli che pendevano oltre il
bordo del giaciglio ed esaminò la concia. Premette la faccia contro la pelliccia e ne assaporò
l'odore selvaggio.
Come possono mutare in fretta le cose. Poche ore prima era stato scosso dalle sue fondamenta,
e ora era di nuovo a galla.
Aggrottò lievemente le sopracciglia. Con qualcuno dei suoi atteggiamenti, la faccenda del
bisonte per esempio, doveva avere esagerato. E sembrava che avesse parlato sempre lui,
forse troppo. Ma si trattava di piccoli dubbi. Mentre meditava disteso sulla splendida pelle,
non poteva fare a meno di sentirsi incoraggiato da questo suo primo, vero incontro.
Tutt'e due gli indiani gli piacevano. L'indiano dai modi pacati, dignitosi era quello che gli piaceva
di più. C'era in lui qualcosa di forte, qualcosa nel suo atteggiamento tranquillo e paziente, che
attraeva. Era pacato ma virile. L'altro, quello dal carattere irruente che gli aveva strappato la
ragazza dalle braccia, non era certo uno con cui si potesse scherzare. Ma era affascinante.
E la pelle di bisonte. Gliel'avevano data loro. Era veramente splendida.
Il tenente ripassò mentalmente altri particolari mentre si rilassava su quel magnifico regalo.
Con tutti quei pensieri nuovi che gli vorticavano per la mente non vi era né lo spazio per
esplorare la vera fonte della sua euforia, né la propensione a farlo.
Aveva fatto buon uso del suo tempo passato da solo; del tempo che aveva condiviso unicamente
con un cavallo e con un lupo. Aveva fatto un buon lavoro per quanto riguardava il forte. Tutto
questo era un punto a suo favore. Ma l'attesa e la preoccupazione si erano attaccate a lui come
del grasso dentro una ruga, e il peso di questo fardello era stato notevole.
Adesso se ne era andato, sollevato da due uomini primitivi di cui non parlava la lingua, i cui
simili non aveva visto e il cui intero modo di essere gli era estraneo.
Senza saperlo, la loro venuta aveva reso un grande servizio. L'origine dell'euforia del tenente
Dunbar poteva essere individuata nella liberazione da se stesso.
Non era più solo.



(continua)


auroraageno
00mercoledì 17 ottobre 2007 10:09
(segue)


15



17 maggio 1863
Da molti giorni non scrivo nulla in questo diario. Sono successe così tante cose, che
non so da dove cominciare.
Finora gli indiani sono venuti a farmi visita in tre occasioni e non ho dubbi che ve ne
saranno delle altre. Sempre gli stessi due con la loro scorta di sei o sette altri guerrieri.
(Sono stupito del fatto che tutte queste persone siano dei guerrieri. Non ho ancora visto
un uomo che non lo sia.)
I nostri incontri sono stati molto amichevoli, anche se resi notevolmente difficoltosi dalla
barriera della lingua. Qualsiasi cosa abbia imparato finora è così poco, in confronto a ciò
che potrei conoscere. Non so ancora quale genere di indiani siano, ma suppongo che
siano comanci. Credo di aver sentito più di una volta una parola che vi rassomigliava.
Conosco i nomi dei miei visitatori, ma non saprei come scriverli. Trovo che siano degli
uomini gradevoli e interessanti. Sono diversi come il giorno e la notte. Uno è oltremodo
focoso e senza dubbio è un guerriero con un ruolo di comando. Il suo fisico (che è qualcosa
di spettacolare) e il suo carattere torvo e sospettoso devono fare di lui un combattente
formidabile. Spero sinceramente di non doverlo mai affrontare, perché se si dovesse
arrivare a questo, mi troverei in difficoltà. Quest'uomo, i cui occhi sono piuttosto ravvicinati,
ma che si deve comunque definire attraente, desidera ardentemente il mio cavallo, e non
manca mai di impegnarmi in una conversazione a proposito di Cisco.
Parliamo a gesti, una specie di pantomima di cui entrambi gli indiani cominciano ad
afferrare il significato. Ma è un modo lento di comunicare, e finora il nostro punto d'incontro
è stato stabilito più sulla base del fallimento che non sul successo, per quanto riguarda la
comunicazione. L'indiano focoso versa una quantità incredibile di zucchero nel suo caffè.
Quella razione non ci metterà molto a finire. Fortunatamente, io non metto zucchero nel
caffè. Ah! Malgrado il suo comportamento taciturno, l'indiano focoso (come lo chiamo io)
è una persona che attrae, un po' come un capo di un gruppo di teppisti da strada che incute
rispetto a causa della sua forza fisica. Avendo io stesso passato un po' di tempo per le
strade, è questo rispetto che provo per lui.
Al di là di questo, vi è una chiara onestà e una volontà che mi piacciono. E' un tipo schietto.
L'altro indiano, l'indiano tranquillo come lo chiamo io, mi piace enormemente. A differenza
dell'indiano focoso, è paziente e curioso di sapere. Credo sia frustrato quanto me per le
difficoltà della lingua. Mi ha insegnato alcune parole del loro linguaggio e io ho fatto lo stesso
con lui. Conosco le parole comanci per testa, mano, cavallo, fuoco, caffè, casa e parecchie
altre, nonché salve e arrivederci. Ma non conosco ancora abbastanza per formare una
frase. Ci vuole molto tempo per capire esattamente i suoni. Non ho dubbi che sia difficile
anche per lui.
L'indiano tranquillo mi chiama Lu Ten Ant e per qualche motivo non usa Dunbar. Sono sicuro
che non si dimentica di usarlo (gliel'ho ricordato molte volte), quindi ci deve essere un'altra
ragione. Lu Ten Ant... ha sicuramente un suono particolare.
Mi sembra che sia dotato di un'intelligenza di prim'ordine. Ascolta con attenzione e sembra
notare tutto. Ogni mutare del vento, ogni grido di uccello attira la sua attenzione allo stesso
modo di qualcosa di molto più sensazionale. Senza la possibilità di un linguaggio sono
ridotto a interpretare le sue reazioni con i miei sensi ma, a quanto pare, è bendisposto
verso di me.
C'è stato un avvenimento riguardo a Due Calzini che lo conferma in modo adatto. E' successo
al termine della loro ultima visita. Avevamo bevuto una buona dose di caffè e avevo appena
iniziato i miei ospiti ai piaceri della pancetta affumicata. L'indiano tranquillo improvvisamente
ha notato Due Calzini sul promontorio al di là del fiume. Dopo aver detto qualche parola
all'altro, entrambi si sono messi a osservare il lupo. Ansioso di mostrare loro quello che conoscevo
di Due Calzini, ho preso il coltello e la pancetta, dirigendomi verso il ciglio del promontorio
dalla nostra parte del fiume.
L'indiano focoso era occupato a zuccherare il suo caffè e ad assaggiare la pancetta e osservava
da dove era seduto. Ma l'indiano tranquillo si è alzato e mi ha seguito. Di solito lascio a Due
Calzini dei pezzi di pancetta dalla mia parte del fiume, ma dopo che avevo tagliato il pezzo,
questa volta gliel'ho lanciato dall'altra parte. E' stato un bel lancio e la pancetta è atterrata a
pochi centimetri da lui. Restava là seduto, però, e per un po' ho pensato che non avrebbe
fatto nulla. Ma che io sia dannato se non si è alzato, ha annusato la pancetta e l'ha presa.
Non lo avevo mai visto prenderla prima, e mi sentivo fiero di lui mentre se ne trotterellava
via con il pezzo in bocca.
Per me non si trattava che di un felice avvenimento e nient'altro. Ma l'indiano tranquillo sembrava
estremamente colpito da quella scena. Quando mi sono girato verso di lui, la sua faccia
sembrava più serena che mai. Mi ha fatto dei cenni di assenso con il capo, poi mi si è
avvicinato e mi ha appoggiato la mano sulla spalla in un gesto di approvazione.
Quando siamo ritornati accanto al fuoco, ha fatto una serie di gesti che sono finalmente
riuscito a interpretare come un invito a visitare la sua tenda il giorno dopo. Ho accettato
subito e poco dopo se ne sono andati.
Mi sarebbe impossibile fornire un resoconto completo di tutte le mie impressioni sull'accampamento
comanci. Se dovessi farlo, dovrei scrivere per sempre. Ma cercherò di fare una descrizione sommaria,
nella speranza che le mie osservazioni possano risultare di qualche utilità nei futuri contatti
con questa gente.



(continua)
auroraageno
00giovedì 18 ottobre 2007 09:20
(segue)

Una piccola delegazione guidata dall'indiano tranquillo mi è venuta incontro a circa
un miglio dal villaggio. Abbiamo proseguito verso l'accampamento senza indugi.
La gente si era abbigliata nel modo migliore per venirci incontro. I colori e la bellezza
di questi costumi sono indescrivibili.
Il loro atteggiamento era stranamente sottomesso e, devo confessare, anche il mio
lo era. Alcuni dei bambini più piccoli hanno rotto le righe e sono corsi a toccarmi le
gambe dandomi dei leggeri colpetti con le dita. Tutti gli altri non si sono mossi.
Siamo smontati da cavallo di fronte a una delle tende a cono e vi è stato un breve
attimo di dubbio, quando un ragazzo di circa dodici anni si è avvicinato di corsa e ha
cercato di condurre via Cisco. C'è stato un breve tiro alla fune con la briglia, ma è
intervenuto l'indiano tranquillo. Mi ha appoggiato nuovamente la mano sulla spalla e
lo sguardo dei suoi occhi mi ha fatto capire che non avevo nulla da temere. Ho lasciato
che il ragazzo conducesse via Cisco. Cisco sembrava felicissimo di andare con lui.
Poi l'indiano tranquillo mi ha fatto entrare nella sua tenda. L'interno era buio ma non
triste. Odorava di fumo e di carne. (L'intero villaggio ha un suo odore caratteristico che
non trovo sgradevole. Per come posso descriverlo, è l'odore di una vita primitiva.)
Dentro la tenda vi erano due donne e due bambini. L'indiano tranquillo mi ha invitato
a sedere e le donne hanno portato delle ciotole con del cibo. Subito dopo se ne sono
andati tutti, lasciandoci soli.
Abbiamo mangiato per un po' in silenzio. Pensavo di fare qualche domanda riguardo alla
ragazza che ho trovato nella prateria. Non l'avevo vista e non sapevo se fosse ancora
viva. (Non lo so tuttora.) Ma sembrava un argomento troppo complicato, considerando
le limitazioni poste dal problema del linguaggio, così abbiamo parlato come meglio
abbiamo potuto del cibo (una specie di mangiare dal sapore dolce che ho trovato ottimo).
Finito di mangiare mi sono arrotolato una sigaretta e l'ho fumata mentre l'indiano tranquillo
sedeva di fronte a me. La sua attenzione era continuamente dirottata verso l'entrata
della tenda. Ero sicuro che stessimo aspettando qualcuno o qualcosa. La mia supposizione
era esatta, perché di lì a non molto la pelle che fungeva da copertura all'entrata è stata
scostata e sono apparsi due indiani. Hanno detto qualcosa all'indiano tranquillo e questo
si è alzato immediatamente, facendomi segno di seguirlo.
Fuori della tenda vi era un folto numero di persone in attesa che si accalcavano intorno a noi
mentre procedevamo fra le tende fino a fermarci davanti a una di queste, decorata con la
figura di un grosso orso a colori uniformi. Qui, l'indiano tranquillo mi ha sospinto gentilmente
a entrare.
Vi erano altri cinque uomini, seduti in un cerchio approssimativo attorno al fuoco, ma il mio
sguardo è caduto immediatamente sul più anziano di loro. Era un uomo dalla corporatura
possente che ritengo abbia superato la sessantina, anche se ancora con un fisico in ottime
condizioni. La sua casacca di pelle era adornata con delle guarnizioni di perline di intricata
bellezza, con dei disegni precisi e multicolori. Appesa a una ciocca dei capelli grigi aveva
un'enorme zanna che, a giudicare dalla figura dipinta sull'esterno della tenda, ho dedotto
essere in precedenza appartenuta a un orso.
Lungo le maniche pendevano a tratti dei capelli e mi sono reso conto un attimo dopo che
dovevano essere degli scalpi. Uno di questi era di colore castano chiaro. Questo era
inquietante.
Ma la caratteristica più rilevante era il suo viso. Non ne avevo mai visto uno simile. Il suo
sguardo era così brillante che come paragone si potrebbe soltanto pensare a degli occhi
febbricitanti. I suoi zigomi erano molto alti e arrotondati e il suo naso era ricurvo come un
becco. La mascella era molto quadrata. La faccia era così fittamente solcata di linee che
definirle rughe appare improprio. Erano piuttosto simili a delle fessure. Su un lato della
fronte appariva un incavo, probabilmente il risultato di una ferita riportata in combattimento
molto tempo prima.
Nell'insieme, era una sorprendente immagine di vecchia saggezza e di forza. Ma nonostante
tutto questo non mi sono mai sentito minacciato durante la mia breve visita nella sua tenda.
Sembrava chiaro che ero io il motivo di quella riunione. Ero certo di essere stato condotto
lì al solo scopo di consentire al vecchio di studiarmi da vicino.
E' comparsa una pipa e gli uomini hanno cominciato a fumare. Era una pipa dal cannello
molto lungo e da ciò che ho potuto capire, il tabacco era una miscela indigena molto aspra,
perché ero l'unico a essere escluso dal fumarla.
Ero ansioso di fare una buona impressione e avendo desiderio di una delle mie sigarette,
ho cavato la borsa del tabacco e le cartine e le ho offerte al vecchio. L'indiano tranquillo gli
ha detto qualcosa e il vecchio capo ha allungato una delle sue mani nodose, prendendo la
borsa e le cartine. Le ha esaminate accuratamente, poi mi ha guardato cautamente con quei
suoi occhi dall'aria piuttosto crudele sotto le pesanti palpebre e me le ha restituite. Non sapendo
se la mia offerta era stata accettata, mi sono comunque arrotolato una sigaretta. Mentre lo
facevo, il vecchio sembrava interessato.
Ho allungato la sigaretta verso di lui e l'ha presa. Di nuovo, l'indiano tranquillo ha detto qualcosa
e il vecchio me l'ha restituita. Con i gesti, l'indiano tranquillo mi ha chiesto di fumare e ho aderito
alla sua richiesta.
Mentre tutti stavano a osservare, ho acceso la sigaretta, ho aspirato e ho soffiato fuori il fumo.
Prima che potessi tirare un'altra boccata, il vecchio aveva allungato la mano. Gliel'ho data.
L'ha guardata dapprima con sospetto, poi ha aspirato come avevo fatto io. E, come me, ha
soffiato fuori il fumo. Poi ha portato la sigaretta vicino alla faccia.
Con mio dispiacere, ha cominciato ad arrotolarla fra le dita con rapidi movimenti. La cenere
accesa si è staccata ed è uscito tutto il tabacco. Ha accartocciato con la mano la cartina e
l'ha gettata nel fuoco.
Ha cominciato a sorridere e l'uno dopo l'altro anche tutti gli uomini intorno stavano ridendo.
Forse ero stato offeso, ma il loro buonumore era tale che ne sono stato contagiato.
Dopo, sono stato accompagnato fino al mio cavallo e scortato fino a circa un miglio dal
villaggio, dove l'indiano tranquillo mi ha fatto un breve cenno di saluto.
Queste sono le note essenziali della mia prima visita all'accampamento indiano. Non so
che cosa stiano pensando adesso.
E' stato bello rivedere Fort Sedgewick. E' la mia casa. Eppure, penso con piacere a quando
visiterò nuovamente i miei << vicini >>.
Quando guardo l'orizzonte a Est mi chiedo sempre se laggiù vi sarà una colonna di fumo.
Posso solo sperare che la mia presenza qui e i miei << negoziati >> con i selvaggi abitanti
delle pianure daranno, nel frattempo, dei frutti.

Ten. John J. Dunbar, USA



(continua)
auroraageno
00sabato 20 ottobre 2007 15:15
(segue)

16



Poche ore dopo la prima visita del tenente Dunbar al villaggio, Uccello Saltellante e
Dieci Orsi tennero un incontro ad alto livello. Fu breve e strettamente in argomento.
A Dieci Orsi piaceva il tenente Dunbar. Gli piaceva lo sguardo nei suoi occhi e Dieci Orsi
attribuiva grande importanza a ciò che vedeva negli occhi di un uomo. Gli piacevano
anche i modi del tenente. Era umile e cortese, e Dieci Orsi teneva in gran conto queste
caratteristiche. La faccenda della sigaretta era stata divertente. Come si potesse fumare
da qualcosa di così piccolo e con così poca sostanza sfuggiva a ogni logica, ma non ne
faceva una colpa al tenente Dunbar e concordava con Uccello Saltellante che, come fonte
per poter ottenere delle informazioni, valeva la pena di conoscere l'uomo bianco.
Il vecchio capo approvò tacitamente l'idea di Uccello Saltellante per abbattere la barriera
della lingua. Ma vi erano delle condizioni. Uccello Saltellante doveva orchestrare le sue mosse
in modo non ufficiale. Lui sarebbe stato responsabile di Lu Ten Ant, e soltanto lui. Al villaggio
già si diceva che in qualche modo era colpa del tenente se la selvaggina era scarsa. Nessuno
sapeva come avrebbe potuto reagire la gente, se il tenente fosse venuto ripetutamente a
visitare il villaggio. Avrebbero potuto scagliarsi contro di lui. Era del tutto possibile che
qualcuno lo uccidesse.
Uccello Saltellante accettò le condizioni, rassicurando Dieci Orsi che avrebbe fatto tutto ciò
che era in suo potere per condurre il piano in modo discreto.
Stabilito questo, passarono a un argomento più importante.
I bisonti tardavano ad arrivare.
Gli esploratori avevano battuto il territorio in lungo e in largo per giorni interi, ma finora non
avevano avvistato che un solo bisonte. Era un vecchio bisonte solitario che un branco di
lupi stava facendo a pezzi. Era valsa a stento la pena di riportarne la carcassa.
Il morale della tribù stava calando di pari passo con le sue esigue riserve di cibo e non
sarebbero passati molti giorni prima che la penuria diventasse critica. Avevano vissuto
della carne dei cervi del luogo, ma questa fonte di cibo si stava esaurendo rapidamente.
Se i bisonti non fossero arrivati presto, la promessa di un'estate piena di abbondanza
sarebbe stata rotta dal pianto dei bambini affamati.
I due uomini decisero che, oltre a mandare altri esploratori, vi era urgente bisogno di una
danza. Doveva essere organizzata entro una settimana.
Uccello Saltellante sarebbe stato incaricato dei preparativi.

Fu una settimana strana, una settimana in cui, per lo stregone, il tempo fu caotico. Quando
aveva bisogno di tempo, le ore volavano, e quando invece voleva che il tempo passasse,
i minuti trascorrevano lentissimi. Cercare di mantenere tutto in equilibrio fu una vera lotta.
Vi era una miriade di delicati dettagli da considerare per preparare la danza. Doveva
rappresentare un'invocazione, quindi molto sacra, e l'intera tribù vi avrebbe preso parte.
La programmazione e gli incarichi da affidare per un evento di quella importanza costituivano
un lavoro a tempo pieno.
In più, vi erano gli abituali doveri di essere un marito per due mogli, un padre per quattro
figli e una guida per la figlia da poco adottata. Oltre a questi, vi erano i soliti problemi e le
solite sorprese che si presentavano ogni giorno: le visite agli ammalati, le riunioni improvvisate
del consiglio della tribù con dei visitatori che capitavano al villaggio e la preparazione delle
sue medicine.
Uccello Saltellante era il più indaffarato degli uomini.
E c'era qualcos'altro, qualcosa che lo distoglieva costantemente dalla sua concentrazione.
Come un persistente, fastidioso mal di testa, il tenente Dunbar gli rodeva la mente. Avvolto
com'era nel presente, Lu Ten Ant rappresentava il futuro e Uccello Saltellante non riusciva
a resistere al suo richiamo. Il presente e il futuro occupavano lo stesso spazio nella giornata
dello stregone. Il suo tempo era affollato.
Avere Mano Alzata d'intorno non gli rendeva le cose più facili. Lei era la chiave del piano
e Uccello Saltellante non riusciva a guardarla senza pensare a Lu Ten Ant, cosa che
inevitabilmente conduceva la sua mente a vagare per nuovi sentieri fitti di congetture e di
interrogativi. Ma doveva tenerla d'occhio. Era importante affrontare la questione al momento
e nel luogo giusto.
Stava guarendo rapidamente e ora si muoveva senza problemi e si era adattata al ritmo di
vita della sua tenda. Era la favorita dei bambini e lavorava a lungo e sodo come chiunque
altro nell'accampamento. Quando veniva lasciata da sola era chiusa in se stessa, ma era
comprensibile. In effetti, era sempre stata la sua natura.
A volte, dopo averla osservata per un po', Uccello Saltellante tirava un nascosto sospiro. In
quei momenti si tratteneva dal porsi delle domande, la più importante delle quali era se
Mano Alzata fosse veramente una di loro. Ma non poteva pretendere una risposta e,
comunque, una risposta non lo avrebbe aiutato. Solo due cose importavano. Lei era lì e lui
aveva bisogno di lei.
Quando arrivò il giorno della danza, non era ancora riuscito a trovare l'occasione di parlare
con lei nel modo in cui voleva. Quel mattino si svegliò con la determinazione che lui, Uccello
Saltellante, doveva mettere in azione il suo piano, se voleva che la cosa avvenisse.
Inviò tre giovani a Fort Sedgewick. Era troppo occupato per andarci lui stesso e mentre
questi si recavano al forte avrebbe trovato il modo per parlare con Mano Alzata.
A Uccello Saltellante venne risparmiata la fatica di dover ricorrere a qualche maneggio
quando l'intera famiglia lasciò la tenda per recarsi al fiume a metà mattinata, lasciando Mano
Alzata a occuparsi della concia della pelle di un cervo appena abbattuto.
Uccello Saltellante la osservò dall'interno della tenda. Mano Alzata teneva lo sguardo
abbassato, mentre il coltello si muoveva veloce nella sua mano, raschiando il cuoio con la
stessa facilità con cui la carne tenera si stacca dall'osso. Aspettò fino a che non smise di
lavorare per un momento, per guardare un gruppo di bambini che giocavano a rincorrersi
davanti alla tenda di fronte.
<< Mano Alzata >>, disse piano, chinandosi attraverso l'entrata della tenda.
Lei alzò lo sguardo su di lui, guardandolo attentamente, ma non disse nulla.
<< Vorrei parlare con te >>, disse Uccello Saltellante, sparendo nell'oscurità della tenda.
Lei lo seguì.



(continua)

auroraageno
00martedì 23 ottobre 2007 05:34
(segue)

Nella tenda l'atmosfera era tesa. Uccello Saltellante stava per dire delle cose che lei
probabilmente non avrebbe voluto sentire, e questo lo faceva sentire a disagio.
Mentre Mano Alzata rimaneva in piedi davanti a lui, Uccello Saltellante provò quel
genere di presentimento che spesso precede le domande. Lei non aveva fatto nulla
di male, ma la sua vita era diventata qualcosa da vivere alla giornata. Mano Alzata
non sapeva mai che cosa le sarebbe arrivato il momento dopo e, dalla morte del
marito, non se l'era sentita di affrontare dei problemi. Lei traeva conforto dall'uomo
che ora le stava davanti. Era rispettato da tutti e l'aveva accolta come se facesse
parte della famiglia. Se vi era qualcuno di cui Mano Alzata aveva fiducia, questo era
Uccello Saltellante.
Ma sembrava nervoso.
<< Siediti >>, le disse ed entrambi si accovacciarono sul pavimento. << Come va la
ferita? >> cominciò lui.
<< Sta guarendo >>, rispose lei, con gli occhi che lo guardavano a malapena.
<< Il dolore è passato? >>
<< Sì. >>
<< Hai riacquistato le forze. >>
<< Mi sento più forte ora; riesco a lavorare bene. >>
Mano Alzata grattava distrattamente con le dita la terra ai suoi piedi facendone un
mucchietto, mentre Uccello Saltellante cercava di trovare le parole che voleva. Non
gli piaceva fare le cose in fretta, ma nemmeno voleva essere interrotto, e in qualsiasi
momento avrebbe potuto arrivare qualcuno.
Lei alzò improvvisamente gli occhi a guardarlo, e Uccello Saltellante fu colpito dalla
tristezza sul viso di lei.
<< Tu non sei felice qui >>, disse.
<< No. >> Scosse la testa. << Ma ne sono contenta. >>
Mano Alzata giocherellò con la terra, spazzando via il mucchietto con le dita.
<< Sono triste, senza mio marito. >>
Uccello Saltellante pensò per un attimo e lei ricominciò a costruire un altro mucchietto
di terra.
<< Ora lui se ne è andato >>, disse lo stregone, << ma tu sei qui. Il tempo va avanti e tu
vai avanti con lui, anche se infelicemente. Qualcosa succederà. >>
<< Sì >>, disse lei, increspando le labbra, << ma non mi interessa molto ciò che succederà. >>
Dal suo punto di osservazione, rivolto verso l'entrata, Uccello Saltellante vide alcune ombre
profilarsi davanti alla tenda e poi proseguire.
<< Stanno arrivando gli uomini bianchi >>, disse d'improvviso. << Ogni anno ne arriveranno
sempre di più nella nostra terra. >>
Un brivido corse lungo la schiena di Mano Alzata, diffondendosi fino alle spalle. Il suo sguardo
si indurì e le sue mani involontariamente si serrarono a pugno.
<< Non andrò con loro >>, disse.
Uccello Saltellante sorrise. << No >>, disse, << tu non andrai. Non c'è un solo guerriero fra noi
che non combatterebbe per impedirti di andare. >>
Udendo queste parole d'incoraggiamento, la donna con i capelli color rosso scuro si piegò
leggermente in avanti, ora incuriosita.
<< Ma verranno >>, continuò lui. << Sono una strana razza per quanto riguarda le loro abitudini
e ciò in cui credono. E' difficile sapere che cosa fare. Si dice che siano numerosi, e questo
mi preoccupa. Verranno come l'acqua di un fiume in piena; dovremo fermarli. Allora, perderemo
molti dei nostri uomini valorosi, degli uomini come tuo marito. Vi saranno molte altre vedove
con il viso triste. >>
Mentre Uccello Saltellante si avvicinava al vero argomento, Mano Alzata chinò la testa, riflettendo
sulle sue parole.
<< Quest'uomo bianco, l'uomo che ti ha portato qui. Io l'ho visto. Ho visto dove vive, giù lungo
il fiume, ho bevuto il suo caffè e ho parlato con lui. A modo suo, è strano. Ma l'ho osservato e
penso che il suo cuore sia buono... >>
Lei sollevò la testa e gli gettò un rapido sguardo.
<< Quest'uomo bianco è un soldato. Fra i bianchi, può essere una persona autorevole... >>
Uccello Saltellante si fermò. Un passero era entrato attraverso la pelle che fungeva da chiusura
all'entrata e che era rimasta sollevata, e svolazzava per la tenda. Sapendo di trovarsi intrappolato,
il piccolo uccello sbatteva freneticamente le ali, urtando e rimbalzando contro le pareti.
Uccello Saltellante osservò l'uccello salire in alto, avvicinarsi al foro in cima alla tenda che
serviva come uscita per il fumo e scomparire d'improvviso verso la libertà.
Guardò nuovamente Mano Alzata. Aveva ignorato l'intrusione e stava fissandosi le mani intrecciate
in grembo. Lo stregone pensò, cercando di riprendere il filo del suo monologo. Ma prima che
potesse riprendere, sentì nuovamente il soffice rumore di un frullare d'ali.
Guardando verso l'alto, vide il passero che si librava appena all'interno del foro per il fumo. Seguì
il suo volo mentre scendeva deliberatamente verso il pavimento, andando a fermarsi con una
leggiadra picchiata sulla testa color rosso ciliegia. La donna non si mosse e l'uccellino cominciò
a liscirarsi le penne con il becco come se si fosse trovato sul ramo di un albero. Lei passò una
mano distratta al disopra della testa e come un bambino che salta alla corda il passero si
sollevò in aria e atterrò nuovamente. Mano Alzata rimase seduta, ignara, mentre il passero
arruffava le ali, buttava in fuori il petto e decollava velocemente puntando dritto verso l'entrata.
In un batter d'occhi era sparito.
Se ne avesse avuto il tempo, Uccello Saltellante avrebbe tratto alcune conclusioni circa l'importanza
e il significato dell'arrivo del passero e del ruolo di Mano Alzata in quel suo comportamento. Non
c'era tempo per fare una passeggiata e rimuginarvi sopra, ma in qualche modo Uccello Saltellante
si sentì rassicurato da ciò che aveva visto.
Prima che potesse parlare di nuovo, Mano Alzata sollevò il capo.
<< Che cosa vuoi da me? >> chiese.
<< Voglio sentire le parole del soldato bianco, ma le mie orecchie non riescono a comprenderle. >>
Era fatta. Il viso di Mano Alzata perse di colpo ogni espressione.
<< Ho paura di lui >>, disse.
<< Cento soldati bianchi che arrivano su cento cavalli con cento fucili... questo è qualcosa di cui
aver paura. Ma lui è un uomo solo. Noi siamo in molti e questa è la nostra terra. >>
Lei sapeva che aveva ragione, ma questo comunque non la rassicurava. Cambiò posizione,
sentendosi a disagio.
<< Non mi ricordo la lingua dei bianchi >>, disse esitante. << Sono una comanci. >>
Uccello Saltellante annuì ncon il capo.
<< Sì, tu sei comanci. Non ti chiedo di diventare qualcosa d'altro. Ti chiedo di lasciare alle spalle
le tue paure e di mettere il tuo popolo davanti a tutto. Incontra l'uomo bianco. Cerca di ritrovare
la lingua dei bianchi con lui e quando ci sarai riuscita, noi tre parleremo di qualcosa che sarà
di utilità per tutti. E' da molto tempo che penso a questo. >>
Smise di parlare e l'intera tenda diventò silenziosa.
Mano Alzata si guardò intorno, lasciando indugiare lo sguardo qua e là come se avesse dovuto
passare molto tempo prima che potesse vederlo nuovamente.
Non doveva andarsene da nessuna parte, ma nella sua mente Mano Alzata stava compiendo
un altro passo verso la rinuncia a quella vita che amava così teneramente.
<< Quando lo vedrò? >> chiese.
Il silenzio riempì nuovamente la tenda.
Uccello Saltellante si levò in piedi.
<< Va' in un luogo tranquillo >>, le disse, << lontano dal nostro accampamento. Rimani là per
un po' e cerca di richiamare alla tua mente le parole della tua vecchia lingua. >>
Con il mento abbassato sul petto, Mano Alzata si lasciò accompagnare fino all'entrata della tenda.
Uccello Saltellante non sapeva se avesse udito il suo ultimo suggerimento. Non si era voltata
verso di lui e ora si stava allontanando.



(continua)

auroraageno
00mercoledì 24 ottobre 2007 01:30
(segue)

Mano Alzata fece come le era stato chiesto.
Con un orcio vuoto appoggiato sul fianco, si diresse lungo il sentiero che portava al fiume.
Era quasi mezzogiorno e l'intenso andirivieni del mattino, gente che attingeva l'acqua e che
lavava, cavalli e bambini schiamazzanti, si era diradato. Camminava lentamente, osservando
a ogni lato per individuare un qualche sentiero laterale poco battuto che la conducesse a un
luogo dove restare in solitudine. Il suo cuore accelerò i battiti quando notò un passaggio
coperto di vegetazione che si dipartiva dal sentiero principale e proseguiva attraverso il
terrapieno a un centinaio di metri dal fiume.
Non c'era nessuno intorno, ma stette ad ascoltare per controllare se stesse arrivando
qualcuno. Non sentì nulla, così nascose l'ingombrante orcio sotto un pruno e si inoltrò per il
piccolo sentiero proprio mentre dalla sponda del fiume salivano delle voci.
Si mise a camminare velocemente attraverso il groviglio di arbusti che ricopriva il passaggio
e fu sollevata quando, dopo soli pochi metri, questo si allargò in un sentiero vero e proprio.
Adesso procedeva con facilità e presto le voci lungo il sentiero principale si affievolirono.
Il tempo era bellissimo. Un leggero vento faceva ondeggiare i salici come se danzassero,
il cielo sereno era di un azzurro brillante e gli unici suoni erano quelli di un occasionale coniglio
o di una lucertola, spaventati dai suoi passi. Era una giornata per sentirsi felici, ma non vi era
alcuna gioia nel cuore di Mano Alzata. Era solcato da lunghe vene di amarezza e a mano a mano
che rallentava il passo, la giovane donna bianca dei comanci cedette all'odio.
Parte di quest'odio era rivolto al soldato bianco. Lo odiava per essere venuto nella sua terra,
per essere un soldato, per essere nato. Odiava Uccello Saltellante per averle chiesto di fare
tutto questo sapendo che non avrebbe potuto rifiutare. E odiava il Grande Spirito per la sua
crudeltà. Il Grande Spirito le aveva spezzato il cuore. Ma spezzare il cuore a qualcuno non
era abbastanza.
Perché continui a farmi del male? chiese. Io sono già morta.
Lentamente la sua mente cominciò a calmarsi. Ma l'amarezza non diminuì; si era solidificata
in qualcosa di freddo e precario.
Si rese conto che era stanca di essere una vittima, e questo la fece andare in collera.
Tu vuoi la mia lingua di donna bianca, pensò in comanci. Credi che per questo io valga qualcosa?
Allora, lo scoprirò. E se per fare questo dovrò diventare nessuno, sarò la più grande di tutti i
nessuno. Sarò un nessuno da ricordare.
Mentre i suoi mocassini strusciavano leggermente sul sentiero coperto di ciuffi d'erba, cominciò
a tornare indietro con la mente, cercando di trovare un punto dal quale cominciare, un punto
dal quale potesse cominciare a ricordare le parole.
Ma tutto era vuoto. Per quanto si concentrasse, non le veniva in mente nulla e per parecchi
minuti avvertì il terribile senso di frustrazione di avere un intero linguaggio sulla punta della
lingua. Invece di sollevarsi le brume del passato erano calate su di lei avvolgendola come la
nebbia.
Quando giunse a un piccolo spiazzo fra la vegetazione che arrivava fino al fiume, a un miglio
dal villaggio, era esausta. Era un luogo di rara bellezza, una veranda erbosa ombreggiata
da uno splendido pioppo e isolata su tre lati da degli schermi naturali. Il fiume in quel punto
era largo e poco profondo, con dei banchi di sabbia sparsi lungo la riva sui quali crescevano
dei folti canneti. Nei giorni passati sarebbe stata felice di scoprire un luogo come quello.
Mano Alzata aveva sempre amato la bellezza.
Ma oggi lo notò appena. Voleva soltanto riposare e si sedette pesantemente ai piedi del
pioppo, appoggiando la schiena al tronco. Incrociò le gambe sotto di sé alla maniera indiana
e sollevò la tunica che indossava lasciando che la fresca aria che veniva dal fiume fluttuasse
attorno alle sue cosce. Infine chiuse gli occhi e si impose di ricordare.
Ma non riusciva a ricordare nulla. Mano Alzata digrignò i denti. Sollevò le mani e si passò i palmi
sugli occhi stanchi.
Fu mentre si strofinava gli occhi che venne l'immagine.
La colpì come una luminosa macchia di colore.

Le immagini le erano venute alla mente l'estate precedente, quando venne scoperto che vi erano
dei soldati bianchi nelle vicinanze. Un mattino, mentre era sdraiata sul giaciglio, sulla parete
le era apparsa la sua bambola. Durante una danza, aveva visto sua madre. Ma entrambe le
immagini erano sbiadite.
Quelle che vedeva ora erano vive e si muovevano come in un sogno. Sentiva parlare la lingua
dei bianchi. E capiva ogni parola.
La chiarezza della prima immagine che era apparsa l'aveva stupita. Era l'orlo strappato di un
vestito di percalle azzurro. Vi era una mano che si muoveva attorno all'orlo. Mentre guardava
attraverso gli occhi chiusi, l'immagine si ingrandì. La mano apparteneva a una ragazzina nei
primi anni dell'adolescenza. Era in piedi in una stanza dall'aspetto sommario arredata soltanto
con un letto piccolo e rigido, un piccolo mazzo di fiori incorniciato appeso vicino all'unica finestra
e una credenza al disopra della quale pendeva uno specchio con una grossa scheggiatura su
un lato.
Il viso della ragazza era rivolto da un'altra parte, chinato verso la mano che tratteneva l'orlo mentre
ispezionava lo strappo.
Nel farlo, l'abito era stato sollevato abbastanza da mettere in mostra le gambe corte e magre
della ragazzina.
D'improvviso, da fuori della stanza, si udì una voce chiamare: << Christine... >>
La testa della ragazzina si girò e d'impeto Mano Alzata riconobbe quella che era lei una volta.
Il suo viso di allora ascoltava, poi la bocca di allora disse le parole: << Vengo, mamma >>.
Mano Alzata aprì gli occhi. Era spaventata da ciò che aveva visto ma, come qualcuno che stia
ascoltando delle favole e vorrebbe che il narratore non smettesse di raccontare, voleva continuare.
Chiuse nuovamente gli occhi e dal ramo di una quercia, attraverso una massa di foglie che
frusciavano al vento, apparve un luogo. Una casa fatta con mattoni e zolle di terra dalla lunga
facciata, ombreggiata da due pioppi, costruita sull'argine dell'alveo di un torrente asciutto.
Davanti alla casa vi era un tavolo rudimentale fatto con alcune assi di legno e sedute al tavolo
vi erano quattro persone adulte, due uomini e due donne. I quattro parlavano fra di loro e Mano
Alzata riusciva a capire ogni parola.
Più lontano, sullo spiazzo davanti alla casa, tre bambini giocavano a mosca cieca e le donne
li tenevano d'occhio, mentre chiacchieravano fra loro a proposito della febbre che uno dei
bambini aveva da poco superato.
Gli uomini fumavano la pipa. Sul tavolo, di fronte a loro, erano sparpagliati i residui di un pranzo
domenicale: una ciotola di patate bollite, alcuni piatti di verdure, una pila di pannocchie di
granturco prive di chicchi, la carcassa di un tacchino e una brocca di latte semipiena. Gli uomini
parlavano della probabilità che venisse la pioggia.
Mano Alzata ne riconobbe uno. Era alto e muscoloso. Le guance erano incavate e con gli zigomi
pronunciati. I capelli erano lisci e tirati all'indietro sulla testa. Una corta barba a ciuffi gli copriva
la mascella. Era suo padre.
In alto, sopra di loro, distinse due figure sdraiate sull'erba che spuntava sul tetto. Dapprima non
capì chi fossero, ma d'improvviso l'immagine si fece più vicina e poté vederle chiaramente.
Era con ragazzo all'incirca della sua stessa età. Il suo nome era Willy. Era magro e pallido. Erano
sdraiati sulla schiena fianco a fianco e si tenevano per mano, mentre guardavano una fila di alte
nubi nel fantastico cielo sopra di loro.
Parlavano del giorno in cui si sarebbero sposati.
<< Vorrei che non ci fosse nessuno >>, disse Christine con aria sognante. << Mi piacerebbe che
tu venissi alla mia finestra una notte e mi portassi via. >>
Gli strinse leggermente la mano, ma lui non restituì il gesto. Osservava con attenzione le nuvole.
<< Non so come potrebbero prendere la faccenda. >>
<< Che cosa vuoi dire? >>
<< Potremmo passare dei guai. >>
<< Da parte di chi? >>
<< Dei nostri genitori. >>


(continua)
auroraageno
00giovedì 25 ottobre 2007 01:44
(segue)

Christine girò il viso a guardarlo e sorrise della sua espressione preoccupata.
<< Ma saremmo sposati. Sarebbero affari nostri e di nessun altro. >>
<< Suppongo di sì >>, disse lui, con le sopracciglia ancora aggrottate.
Non aggiunse nient'altro e Christine tornò a osservare il cielo con lui.
Alla fine, il ragazzo tirò un sospiro. La guardò di sottecchi e lei sbirciò lui.
<< Penso che non mi importerà se faranno delle storie... purché ci sposiamo. >>
<< Nemmeno a me >>, disse lei.
Senza abbracciarsi, i loro visi si stavano avvicinando l'uno all'altro mentre le labbra si
preparavano a un bacio. All'ultimo minuto, Christine cambiò idea.
<< Non possiamo >>, sussurrò.
Negli occhi di Willy apparve la delusione.
<< Ci vedranno >>, sussurrò nuovamente lei. << Filiamo via di qui. >>
Willy sorrise, vedendola scivolare un po' più in giù dalla parte posteriore del tetto. Prima
di seguirla, gettò un'occhiata dietro di sé alle persone nello spiazzo di sotto.
Vide degli indiani che si stavano avvicinando dalla prateria. Erano una dozzina, tutti a cavallo.
In cima alla testa, i capelli erano tagliati a foggia della corta criniera di un cavallo e le facce
erano dipinte di nero.
<< Christine >>, chiamò con voce soffocata, afferrandola per una mano.
Strisciarono sul ventre per avvicinarsi all'orlo del tetto e poter vedere meglio. Mentre allungavano
il collo, Willy tirò vicino a sé il fucile che usava per gli scoiattoli.
Le donne e i bambini dovevano essere già dentro la casa, perché suo padre e l'amico erano
da soli. Tre indiani si erano avvicinati fino a loro, gli altri rimanevano a rispettosa distanza.
Il padre di Christine cominciò a parlare a gesti con uno dei tre emissari, un grosso indiano
pawnee con un'espressione minacciosa sulla faccia. Capì immediatamente che qualcosa non
andava. L'indiano continuava a fare dei cenni in direzione della casa, facendo il gesto di bere.
Il padre di Christine continuava a scuotere la testa in segno di rifiuto.
Gli indiani erano venuti altre volte e il padre di Christine aveva sempre diviso con loro ciò che aveva
a disposizione. Questi pawnee volevano qualcosa che lui non aveva... o qualcosa che non voleva
dividere con loro.
Willy avvicinò la bocca al suo orecchio.
<< Sembrano irritati... >> le sussurrò. << Forse vogliono del whisky. >>
Forse era così, pensò lei. Suo padre disapprovava l'alcol sotto qualsiasi forma e, guardandolo,
Christine vide che stava diventando impaziente. E la pazienza era una delle sue principali
caratteristiche.
Fece loro segno di andarsene, ma gli indiani non si mossero. Sollevò allora di scatto le mani
in aria e al gesto i pony agitarono le teste. Ma ancora gli indiani non si muovevano. Tutti e tre
ora lo guardavano con aria minacciosa.
Il padre di Christine disse qualcosa all'amico che stava in piedi di fianco a lui e, girando la
schiena agli indiani, si mossero in direzione della casa.
Nessuno ebbe il tempo di gridare un avvertimento. Prima che il padre di Christine avesse
completamente girato la schiena, la scure del pawnee stava già disegnando un arco nell'aria.
Lo colpì al disotto delle spalle, conficcandosi profondamente per tutta la lunghezza della lama.
Lui emise un grugnito come se tutta l'aria gli fosse stata spinta fuori dai polmoni e barcollò
di lato attraverso lo spiazzo. Aveva a malapena mosso qualche passo e già il pawnee era su
di lui, menando furiosi colpi d'ascia mentre lo gettava a terra.
L'altro bianco cercò di fuggire, ma le frecce lo colpirono prima che potesse raggiungere la
porta della casa.
Dei suoni spaventosi invasero le orecchie di Christine. Dall'interno della casa provenivano
delle grida di disperazione e dagli indiani che erano rimasti a distanza si levavano delle
furiose grida di guerra, mentre si lanciavano al galoppo verso la casa. Qualcuno le gridò
qualcosa sul viso. Era Willy.
<< Scappa, Christine... scappa! >>
Willy le mise un piede sulla schiena e la fece rotolare giù fino al punto dove terminava il tetto
e aveva inizio la prateria. Lei guardò indietro e vide l'ossuto ragazzino in piedi sull'orlo del
tetto con il fucile piantato in giù verso lo spiazzo. Sparò, e per un momento Willy rimase
immobile. Poi voltò il fucile dall'altra parte reggendolo come una mazza, spiccò un salto e
scomparve.
Allora lei si mise a correre, folle di paura, con le sue magre gambe di quattordicenne che si
arrampicavano freneticamente su per il letto del torrente dietro la casa come le ruote dentate
di una macchina.
Aveva il sole negli occhi e cadde parecchie volte, spellandosi le ginocchia. Ma ogni volta si
rialzava in un baleno, spinta da una paura di morire che superava il dolore. Se dal letto del
torrente si fosse improvvisamente alzato un muro di mattoni, vi si sarebbe scagliata contro.
Sapeva che non avrebbe potuto continuare a lungo e anche se vi fosse riuscita, gli indiani
l'avrebbero inseguita a cavallo, così quando il letto del torrente cominciò a curvare e le pareti
diventarono più ripide, cercò un posto per nascondersi.
La sua frenetica ricerca non aveva dato risultati e i polmoni cominciavano a dolerle quando
individuò un'apertura parzialmente nascosta da fitti ciuffi di erba a metà del pendio sulla sua
sinistra.
Piangendo e respirando affannosamente, si arrampicò su per l'argine disseminato di pietre
e come un topo che corre al riparo si buttò nell'apertura. La testa riuscì a entrare, ma non le
spalle. Era troppo stretta. Arretrò, appoggiandosi sulle ginocchia, e si mise a battere con i pugni
contro i bordi dell'apertura. La terra era cedevole e cominciò a staccarsi. Christine scavò
forsennatamente e dopo qualche momento vi fu spazio sufficiente per entrare.
Era una sistemazione molto angusta. Christine si raggomitolò a palla e di colpo provò la
spiacevole sensazione di essersi quasi tappata all'interno di una bottiglia. Con l'occhio
destro, oltre l'orlo dell'apertura riusciva a vedere per qualche centinaio di metri il letto del
torrente. Non veniva nessuno. Ma dalla direzione della casa si alzava del fumo nero. Portò
le mani alla gola e incontrò il piccolo crocifisso che portava sin da quando riuscisse a ricordare.
Lo strinse fra le dita e attese.


(continua)

auroraageno
00giovedì 25 ottobre 2007 14:56
(segue)

Quando il sole cominciò a tramontare dietro di lei, le sue speranze aumentarono. Aveva
temuto che uno di loro l'avesse vista fuggire, ma con il passare delle ore le sue probabilità
miglioravano. Pregò perché scendesse la notte. Con il buio, per loro sarebbe stato
praticamente impossibile trovarla.
Un'ora dopo il calar del sole, trattenne il fiato, sentendo dei cavalli passare giù in fondo,
lungo il letto del torrente. Era una notte senza luna e non riuscì a distinguere con chiarezza.
Le sembrò di udire un bambino piangere. I tonfi degli zoccoli dei cavalli lentamente diventarono
più distanti e non ritornarono.
La sua gola era così secca da farle male quando deglutiva, e il dolore pulsante delle ginocchia
scorticate sembrava diffondersi in tutto il corpo. Avrebbe dato qualunque cosa per potersi
distendere. Ma non poteva muoversi che di un centimetro o due. Non poteva girarsi e il
fianco sinistro, quello su cui era appoggiata, era intorpidito.
Mentre la sua lunghissima notte passava lentamente, il suo sconforto aumentava, erompendo
a tratti come una febbre violenta, e doveva ricorrere a tutte le sue forze per respingere le
improvvise ondate di terrore. Se vi avesse ceduto, lo choc avrebbe potuto ucciderla, ma ogni
volta Christine riusciva a ricacciare questi attacchi di isteria. La sua salvezza fu di non pensare
a ciò che era successo alla sua famiglia e agli amici. Ogni tanto riudiva l'orrendo suono che
era uscito dalla bocca di suo padre mentre il pawnee infieriva con l'ascia su di lui. Ma ogni
volta che lo sentiva, riusciva a fermarsi in tempo, escludendo tutto il resto dalla sua mente.
Era sempre stata una ragazzina dal carattere tenace, e fu questa tenacia a salvarla.
Verso mezzanotte si addormentò, per svegliarsi pochi minuti dopo con un pauroso attacco
di claustrofobia. Come il nodo scorsoio di una corda, più si agitava e più il già angusto spazio
si restringeva.
Le sue grida lacrimevoli risuonarono lungo il letto del torrente.
Alla fine, non fu più in grado di gridare e si lasciò andare a un lungo pianto purificatore. Quando
anche il pianto cessò, era calma, debole ed esausta come un animale che si è dibattuto per ore
in una trappola.
Rinunciò a uscire dalla buca e si concentrò invece su alcuni piccoli accorgimenti che la potessero
far sentire meglio. Agitò le dita dei piedi avanti e indietro, contando ogni dito soltanto quando
riusciva a muoverlo separatamente dagli altri. Le mani erano abbastanza libere, così si mise
a premere i polpastrelli della dita gli uni contro gli altri in ogni possibile combinazione che le
venisse in mente. Si contò i denti. Recitò il paternostro, sillabando ogni parola. Compose una
lunga canzone su di lei lì nella buca. Poi la cantò.

Quando apparve il chiarore dell'alba cominciò nuovamente a piangere, sapendo che non sarebbe
riuscita a superare il giorno che stava arrivando. Non resisteva più. E quando udì arrivare dei
cavalli lungo il letto del torrente la prospettiva di morire per mano di qualcuno le sembrò molto
migliore di quella di morire nella buca.
<< Aiuto >>, gridò. << Aiutatemi. >>
Sentì il rumore degli zoccoli cessare bruscamente. Qualcuno stava salendo su per l'argine e si
udiva il rumore dei sassi che venivano smossi sotto i piedi. Il rumore cessò e la faccia di un
indiano si profilò davanti alla buca. Non riusciva a tollerare di guardarlo, ma le era impossibile
voltare la testa da un'altra parte. Chiuse gli occhi davanti allo stupito comanci.
<< Per favore... fatemi uscire >>, mormorò.
Prima che se ne rendesse conto, delle mani robuste la stavano tirando fuori verso la luce del
giorno. Non riusciva a stare in piedi e restò seduta sul terreno, distendendo le gambe gonfie
un centimetro alla volta, mentre gli indiani si consultavano fra di loro.
Erano divisi sulla questione. La maggioranza non vedeva alcuna utilità a prenderla con loro.
Dicevano che era troppo magra, piccola e debole. E se avessero portato con loro quel piccolo
fagotto di sofferenza, avrebbero potuto essere incolpati di ciò che i pawnee avevano fatto ai
bianchi che vivevano nella casa fatta di terra.
L'indiano che era a capo del gruppo argomentò che la casa di terra era troppo lontana dagli
altri bianchi della zona perché la gente che vi viveva venisse scoperta subito. Per allora, loro
sarebbero stati lontani. La tribù in quel momento aveva solo due prigionieri, entrambi messicani,
e i prigionieri potevano sempre servire. Se la ragazza fosse morta durante il lungo percorso
di rientro al villaggio, l'avrebbero abbandonata lungo la pista e nessuno ne avrebbe saputo niente.
Se fosse sopravvissuta, sarebbe stata utile per lavorare o come merce di scambio in caso di
necessità. E il capo ricordò agli altri che per consuetudine i prigionieri diventavano dei buoni
comanci, e vi era sempre bisogno di qualche buon comanci in più.
La questione venne risolta abbastanza rapidamente. Quelli che erano a favore della soluzione di
ucciderla sul posto disponevano forse di ragioni più valide, ma l'uomo che voleva risparmiarla
era un giovane guerriero in rapida ascesa e con un futuro davanti a sé, e nessuno era desideroso
di contrastarlo.

La ragazza sopravvisse e superò tutti i patimenti, in gran parte grazie all'atteggiamento benevolo
del giovane guerriero con un futuro, il cui nome, come venne a sapere in seguito, era Uccello
Saltellante.
Con il tempo arrivò ad accettare il fatto che quella gente era la sua gente e che erano enormemente
diversi da quelli che avevano massacrato la sua famiglia e gli amici. I comanci diventarono il suo
mondo e lei li amava con la stessa intensità con la quale odiava i pawnee. Ma mentre l'odio per
gli uccisori rimaneva, i ricordi della sua famiglia scomparivano rapidamente, come qualcosa che
venisse inghiottito dalle sabbie mobili. Alla fine, i ricordi scomparvero del tutto dalla sua vista.
Fino a quel giorno; il giorno in cui aveva dissotterrato il suo passato.
Anche se i ricordi erano riapparsi in modo così vivido, Mano Alzata non pensava a loro quando si
alzò da dove si trovava, ai piedi del pioppo, e stancamente raggiunse il fiume entrando nell'acqua.
Non pensava a sua madre e a suo padre quando si accovacciò nell'acqua spruzzandosene un
po' sul viso. Se ne erano andati da molto tempo e il ricordo di loro non era nulla che le potesse
servire.
Mentre i suoi occhi scrutavano la riva opposta, pensava soltanto ai pawnee, chiedendosi se
quell'estate avrebbero fatto delle scorrerie in territorio comanci.
Segretamente, sperava che lo avrebbero fatto. Voleva un'altra occasione di vendetta.
Ve n'era stata una, molte estati prima, e lei ne aveva approfittato al massimo. Si era presentata
sotto forma di un enorme guerriero che era stato catturato vivo a scopo di riscatto.
Mano Alzata e un gruppo di altre donne erano andate incontro agli uomini che rientravano con
lui, al limitare dell'accampamento. Era stata lei a scatenare il feroce assalto che il gruppo di
guerrieri di ritorno dalla missione di guerra non era stato in grado di respingere. Lo avevano
trascinato giù dal cavallo e lo avevano fatto a pezzi con i loro coltelli. Mano Alzata era stata la
prima ad affondare il coltello nel corpo del pawnee e aveva continuato a infierire su di lui fino
a che lei e le altre donne non lo ebbero ridotto a brandelli. Il fatto di essersi potuta finalmente
vendicare le aveva dato un profondo senso di soddisfazione, ma non abbastanza da non desiderare
con regolarità che vi fosse un'altra occasione.
Visitare il suo passato aveva prodotto un effetto tonificante e lei si sentiva più comanci che mai,
mentre ripercorreva il piccolo sentiero poco frequentato. Camminava a testa alta e il suo cuore
era pieno di forza.
Ora, il soldato bianco le sembrava una cosa di poco conto. Stabilì che, se mai avesse parlato con lui,
non sarebbe stato che per quel tanto che bastava ad accontentare Uccello Saltellante.




(continua)

auroraageno
00sabato 27 ottobre 2007 18:08
(segue)


17



L'arrivo di tre giovani indiani sui loro pony li colse di sorpresa. Il loro atteggiamento schivo
e rispettoso faceva supporre che fossero dei messaggeri, ma il tenente Dunbar stava
molto in guardia. Non aveva ancora imparato a distinguere una tribù dall'altra e al suo
occhio inesperto avrebbero potuto essere chiunque. Reggendo il fucile con la canna
appoggiata alla spalla, camminò per circa trecento passi da dove si erano fermati, dietro
il deposito dei rifornimenti, per incontrarli. Quando uno dei giovani indiani fece lo stesso
gesto di saluto che gli aveva rivolto l'indiano tranquillo, Dunbar rispose con il solito breve
inchino.
Il dialogo a gesti fu semplice e breve. Gli chiesero di andare con loro al villaggio e il tenente
accettò. Rimasero ad attenderlo mentre lui metteva la briglia a Cisco, parlando a voce
bassa del piccolo cavallo, ma il tenente Dunbar prestò loro poca attenzione.
Era ansioso di scoprire di che cosa si trattasse e fu contento quando lasciarono il forte
al galoppo.

Si trattava della stessa donna e sebbene fosse seduta lontano da loro, verso il fondo della
tenda, gli occhi del tenente continuavano a vagare nella sua direzione. Il vestito di pelle di
daino le copriva le ginocchia e Dunbar non avrebbe potuto dire se la sua ferita alla gamba
fosse guarita.
Fisicamente, sembrava che stesse bene, ma la sua espressione non lasciava intendere
nulla. Sul suo viso vi era una leggera sfumatura di ostilità, ma per il resto era completamente
inespressivo. Il tenente continuava a guardarla perché era certo fosse lei la ragione per la
quale era stato convocato al villaggio. Desiderò che si arrivasse subito al dunque, ma la sua
scarsa esperienza in fatto di indiani gli aveva già insegnato ad essere paziente.
Così attese, mentre lo stregone caricava meticolosamente la sua pipa. Il tenente gettò
nuovamente uno sguardo a Mano Alzata. Per un breve istante i suoi occhi incontrarono quelli
del tenente e questo gli fece ricordare di come fossero più chiari in confronto agli occhi marrone
scuro di tutti gli altri. Poi si ricordò di quando aveva detto << no >>, quel giorno nella prateria.
D'improvviso, i capelli color rosso ciliegia assunsero per lui un nuovo significato e cominciò
a sentire un formicolio alla base del collo.
Oh, mio Dio, pensò, questa donna è una bianca.
Dunbar si accorse che Uccello Saltellante era più che consapevole della presenza della donna
seduta nell'ombra della tenda. Quando offrì per la prima volta la pipa al suo visitatore speciale,
lo fece gettando uno sguardo di lato verso di lei.
Il tenente Dunbar aveva bisogno di assistenza per riuscire a fumare la pipa e Uccello Saltellante
cortesemente lo aiutò a posizionare correttamente le mani sul lungo cannello e a regolare
l'angolatura. Il sapore del tabacco era aspro come il suo odore, ma il tenente Dunbar lo trovò
ricco di aroma. Una buona fumata. La pipa era fantastica. Pesante quando l'aveva presa in
mano, diventò straordinariamente leggera non appena cominciò a fumare, come se avesse
potuto sfuggirgli se avesse allentato la presa.
Si scambiarono la pipa per alcuni minuti. Poi, Uccello Saltellante la depositò con cura di fianco
a lui. Guardò apertamente Mano Alzata e con un breve movimento del polso le fece cenno di
venire avanti.
Lei esitò per un momento, poi appoggiò una mano per terra e fece per alzarsi. Gentiluomo
come sempre, il tenente Dunbar scattò in piedi e, con questo suo gesto, scatenò un tumulto.
Tutto avvenne con violenta rapidità. Dunbar non vide il coltello fino a che lei non aveva già
percorso metà della distanza che li separava. L'unica cosa di cui si rese conto subito dopo
fu l'avambraccio di Uccello Saltellante che lo colpiva violentemente al petto, facendolo cadere
all'indietro. Mentre cadeva a terra, vide la donna avanzare chinata in avanti verso di lui, sibilando
delle parole e fendendo convulsamente l'aria con il coltello che teneva in mano.
Uccello Saltellante fu altrettanto rapido. Con una mano le afferrò il polso e glielo torse facendole
mollare il coltello, e con l'altra la gettò a terra. Mentre il tenente si rialzava, Uccello Saltellante
si girò verso di lui. Nello sguardo dello stregone vi era un'espressione di furore.
In un disperato tentativo di disinnescare la situazione esplosiva, Dunbar saltò su in piedi e agitò
avanti e indietro le mani distese davanti a lui sottolineando il gesto con la parola << no >> per
più volte. Poi fece uno dei piccoli inchini che aveva usato come cenno di saluto quando gli indiani
erano venuti a Fort Sedgewick. Indicò la donna sul pavimento e s'inchinò nuovamente.
Allora, Uccello Saltellante capì. L'uomo bianco stava solo cercando di essere cortese. Non
intendeva fare niente di male. Disse qualche parola a Mano Alzata mentre questa si stava
nuovamente rialzando. Lei tenne gli occhi fissi sul pavimento, evitando qualsiasi contatto con
l'uomo bianco.
Per un attimo, tutti e tre rimasero immobili.
Il tenente Dunbar attese e restò a guardare Uccello Saltellante che si strofinava lentamente il
lato del naso con una delle sue dita lunghe e brune, pensando alla faccenda. Poi l'indiano disse
qualcosa a voce bassa a Mano Alzata e la donna sollevò lo sguardo. I suoi occhi sembravano
ancora più chiari di prima, e più assenti. Adesso, fissavano direttamente quelli di Dunbar.
Con dei gesti Uccello Saltellante chiese al tenente di mettersi nuovamente a sedere. Si
accoccolarono come avevano fatto prima, l'uno di fronte all'altro. Uccello Saltellante disse
nuovamente qualcosa a Mano Alzata e lei si avvicinò, sedendosi leggera come una piuma a
brevissima distanza da Dunbar.
Uccello Saltellante guardò entrambi con aria di attesa. Si appoggiò un dito sulle labbra, sollecitando
con questo segno il tenente fino a che Dunbar capì che gli veniva chiesto di parlare, di dire qualcosa
alla donna seduta accanto a lui.
Il tenente chinò leggermente la testa nella sua direzione e attese finché non scorse una piccola
parte dell'occhio di lei.
<< Hello >>, disse.
Lei batté le palpebre.
<< Hello >>, ripeté lui.
Mano Alzata si ricordava quella parola. Ma la sua lingua di bianca era arrugginita come il vecchio
cardine di una porta. Aveva paura di ciò che avrebbe potuto uscire dalle sue labbra e il suo
subconscio opponeva ancora resistenza all'idea stessa di questo colloquio. Fece qualche muto
tentativo, prima di riuscire a pronunciarla.
<< Hulo >>, rispose, chinando rapidamente il mento.
La soddisfazione di Uccello Saltellante fu tale che, con un gesto del tutto insolito per lui, si diede
delle pacche sulla gamba. Si sporse in avanti e batté dei colpetti sul dorso della mano di Dunbar,
incitandolo a continuare.
<< Parlare? >> chiese il tenente, ricorrendo contemporaneamente al gesto con le dita sulle labbra
che aveva usato Uccello Saltellante. << Parlare inglese? >>
Mano Alzata si batté leggermente la tempia con la punta di un dito per indicargli che le parole erano
nella sua testa. Posò due dita sulle labbra e scosse il capo, cercando di dirgli della difficoltà che
aveva a parlare.
Il tenente non capiva bene. L'espressione di lei era ancora passivamente ostile, ma ora la calma
che vi era nei suoi gesti gli dava l'impressione che volesse comunicare.
<< Io sono... >> esordì lui, puntandosi un dito contro la giubba, << io sono John. Io sono John >>.
Gli occhi inespressivi della donna erano fissi sulle sue labbra.
<< Io sono John >>, disse nuovamente lui.
Mano Alzata mosse silenziosamente le labbra, cercando di ripetere. Quando finalmente parlò,
il suono le uscì dalle labbra perfettamente chiaro. La parola la sconvolse, e sconvolse il tenente
Dunbar.
Disse: << Willie >>.
Uccello Saltellante capì che qualcosa aveva fatto cilecca quando vide l'espressione sbigottita
del tenente. Confuso, restò a guardare Mano Alzata mentre questa si agitava disordinatamente.
La donna si coprì gli occhi e si strofinò il viso. Si portò le mani al naso come se cercasse di
tapparlo per non sentire un odore e scosse forsennatamente la testa. Alla fine, appoggiò i palmi
delle mani sul terreno e tirò un profondo sospiro, sillabando delle mute parole con le labbra.
In quel momento l'animo di Uccello Saltellante cedette. Forse aveva preteso troppo a mettere
in atto questo esperimento.
Nemmeno il tenente Dunbar riusciva a capirla. Pensava che, probabilmente, la lunga prigionia
della donna avesse influito sulle sue condizioni mentali.
Ma l'esperimento di Uccello Saltellante, anche se terribilmente difficile, non era troppo. E Mano
Alzata non era pazza. Le parole del soldato bianco, i suoi ricordi e la confusione della sua lingua
erano caoticamente mescolati nella sua mente. Sciogliere quel groviglio era come cercare di
disegnare a occhi chiusi. Lottava per controllarlo, mentre fissava nel vuoto con le palpebre
abbassate.
Uccello Saltellante fece per dire qualcosa, ma lei lo zittì bruscamente con una raffica di parole
in comanci.
I suoi occhi rimasero chiusi ancora per qualche istante. Quando li riaprì, guardò il tenente Dunbar
attraverso la cortina dei capelli arruffati e lui vide che la loro espressione si era ammorbidita. Con
un gesto pacato della mano, lei gli chiese in comanci di parlare nuovamente.
Dunbar si schiarì la gola.
<< Io sono John >>, disse, pronunciando attentamente le parole. << John... John. >>
Ancora una volta le labbra di lei si mossero, ripetendo silenziosamente le parole, e ancora una
volta cercò di pronunciarle.
<< Jun. >>
<< Sì >>, assentì Dunbar, estatico. << John. >>
<< Jun >>, disse lei nuovamente.
Il tenente Dunbar rovesciò la testa all'indietro. Era un dolce suono per le sue orecchie, il suono
del suo nome. Non lo sentiva dire da mesi.
Involontariamente, Mano Alzata sorrise. Di recente la sua vita era stata così piena di tristezza.
Era bello avere qualcosa, anche se piccolo, per cui sorridere.
Entrambi guardarono Uccello Saltellante.
Sulla sua bocca non vi era alcun sorriso, ma nei suoi occhi, sebbene fosse a malapena percettibile,
vi era una luce lieta.


(continua)
auroraageno
00domenica 28 ottobre 2007 02:19
(segue)


Quel pomeriggio, nella tenda di Uccello Saltellante, le cose si svolsero con estrema
lentezza. Il tempo venne completamente assorbito dai diligenti tentativi di Mano Alzata
di ripetere le parole e le semplici frasi del tenente Dunbar. A volte, era necessario che
ripetesse una dozzina di volte, tutte terribilmente tediose, prima di ottenere una sola
parola composta da un'unica sillaba. E anche allora la pronuncia era tutt'altro che perfetta.
Non era certo ciò che si potrebbe definire << parlare >>.
Ma Uccello Saltellante si sentiva enormemente incoraggiato. Mano Alzata gli aveva detto
che ricordava bene le parole della lingua dei bianchi. Aveva solo delle difficoltà a dirle.
Lo stregone sapeva che l'esercizio avrebbe ridato scioltezza alla sua lingua arrugginita e
la sua mente galoppava, anticipando il momento in cui la conversazione fra loro si sarebbe
svolta senza problemi e vi sarebbe stato un proficuo scambio di informazioni.
Provò una punta di irritazione quando uno dei suoi assistenti arrivò con la notizia che fra breve
avrebbero avuto bisogno di lui per sovrintendere ai preparativi finali per la danza di quella
sera.
Ma Uccello Saltellante sorrise, quando prese la mano del tenente e lo salutò con le parole
degli uomini con la faccia coperta di peli.
<< Hulo, Jun. >>


Era difficile afferrare che cosa fosse successo. L'incontro aveva avuto termine così bruscamente.
E, per quanto ne sapeva, era andato bene. Qualcosa doveva aver avuto la precedenza.
Dunbar rimase in piedi all'esterno della tenda di Uccello Saltellante e guardò lungo il sentiero
che passava tra le file di tende. Sembrava che in fondo a quella rudimentale strada alcune persone
si stessero raggruppando in uno spazio aperto davanti al tepee che aveva un orso come insegna.
Voleva restare per vedere che cosa stesse per accadere.
Ma l'indiano tranquillo era già scomparso in mezzo alle persone già assembrate e che stavano
via via aumentando di numero. Scorse la donna, così piccola in mezzo agli indiani già piuttosto
bassi di statura, ma osservandone la figura mentre si allontanava, il tenente poteva distinguere
nel suo comportamento le due persone: la bianca e l'indiana.
Cisco stava venendo verso di lui e Dunbar fu sorpreso di vedere che il ragazzo con il perenne
sorriso sulla faccia lo stava cavalcando. Il ragazzo fermò il cavallo, scivolò a terra, gli batté
affettuosamente sul collo e cicalò qualcosa che Dunbar interpretò correttamente come un elogio
delle doti del suo cavallo.
Dell'altra gente si stava ora ammassando nello spiazzo e nessuno prestava attenzione all'uomo
in uniforme. Il tenente pensò nuovamente di restare ma, per quanto lo desiderasse, sapeva che
senza un invito formale non sarebbe stato il benvenuto. E non vi era stato alcun invito.
Il sole stava calando e il suo stomaco vuoto cominciava a brontolare. Se voleva arrivare al forte
prima che facesse buio ed evitare di doversi muovere a tentoni giusto per mettere insieme una
cena, doveva sbrigarsi. Balzò in groppa a Cisco, gli fece compiere una giravolta e si avviò al
piccolo trotto fuori del villaggio.
Mentre superava l'ultima delle tende si imbatté in una strana adunanza. Una dozzina di uomini
erano riuniti dietro una delle ultime tende. Erano abbigliati con ogni genere di ornamenti e i loro
corpi erano dipinti a disegni vivaci. Ognuno di loro aveva il capo coperto da una testa di bisonte,
completa di corna e del tipico pelo ricciuto. Sotto quegli strani copricapi, soltanto gli occhi e il naso
erano visibili.
Dunbar sollevò una mano mentre passava oltre. Alcuni di loro gettarono uno sguardo nella sua
direzione, ma nessuno restituì il cenno e il tenente proseguì per la strada.



Le visite di Due Calzini non si limitavano più al tardo pomeriggio o al mattino presto. Adesso,
capitava che comparisse in qualsiasi momento e, quando succedeva, il vecchio lupo si
comportava con familiarità, girovagando per gli stretti confini del mondo del tenente Dunbar
come se fosse il cane di un accampamento. A mano a mano che la sua confidenza con il luogo
aumentava, si teneva sempre meno a distanza. Il più delle volte si fermava dieci metri dal tenente,
mentre questo era occupato con i suoi piccoli lavori. Quando Dunbar si metteva a scrivere le sue
annotazioni nel diario, Due Calzini era solito stiracchiarsi e accucciarsi, rimanendo a osservarlo
con quei suoi occhi gialli che ammiccavano curiosamente mentre la penna scorreva grattando
sul foglio.
La cavalcata di ritorno era stata solitaria. L'intempestiva interruzione del suo incontro con la donna
che era due persone e la misteriosa eccitazione che aveva animato il villaggio (di cui lui non era
parte in causa) gli facevano nuovamente sentire il peso della sua vecchia nemesi, la cupa
sensazione di essere escluso. Per tutta la sua vita era stato desideroso di partecipare e, come
per ogni altro essere umano, la solitudine era qualcosa che doveva essere costantemente
affrontata. Nel caso del tenente, la solitudine era diventata la caratteristica dominante della sua
vita, così fu rassicurante vedere la sagoma di Due Calzini spuntare da sotto il riparo a tenda
quando arrivò al forte, al crepuscolo.
Il lupo trotterellò sullo spiazzo e si mise seduto a osservare mentre il tenente scendeva da cavallo.
Dunbar notò subito che per terra, sotto la tenda c'era qualcos'altro. Era un volatile, un grosso
tetraone delle praterie. Era morto e quando Dunbar si chinò a osservarlo, notò che era stato
ucciso da poco. Il sangue sul collo era ancora appiccicoso. Ma a parte i segni di qualcosa di
appuntito che gli aveva forato la gola, il volatile non aveva niente fuori posto, nemmeno una piuma.
Era un enigma per il quale non vi era che una soluzione e il tenente guardò esplicitamente
Due Calzini.
<< E' tuo? >> disse a voce alta.
Il lupo alzò gli occhi e batté le palpebre, mentre il tenente Dunbar esaminava ancora il volatile.
<< Bene. Allora >>, disse scrollando le spalle, << immagino che sia nostro. >>

Due Calzini restò a guardare con i suoi stretti occhi gialli il tenente mentre il volatile veniva spiumato,
svuotato delle interiora e arrostito sul fuoco. Mentre cuoceva sullo spiedo seguì il tenente al
recinto e aspettò pazientemente mentre questo versava con parsimonia la sua razione di granaglie
a Cisco, poi nuovamente quando tornò accanto al fuoco, in attesa del festino.
Il volatile era buono, tenero e con molta carne. Il tenente mangiò lentamente, staccando una striscia
di carne soda alla volta e gettandone un pezzo a Due Calzini fra un boccone e l'altro. Quando
ebbe mangiato a sazietà, lanciò la carcassa sullo spiazzo e il vecchio lupo la raccolse, scomparendo
nella notte.
Il tenente Dunbar si sistemò su una delle sedie da campo e fumò una sigaretta, lasciando che i suoni
della notte lo intrattenessero. Pensava a come erano straordinariamente cambiate le cose in così
breve tempo. Fino a non molto tempo prima quegli stessi suoni lo avevano tenuto con i nervi a fior di
pelle, rubandogli il sonno. Ora erano così familiari da essere confortanti.
Ripensò al giorno appena trascorso e concluse che era stata una buona giornata. Mentre il fuoco
finiva di ardere e lui fumava la sua seconda sigaretta, si rese conto di quanto fosse eccezionale
per lui il fatto di trattare da solo e direttamente con gli indiani. Si concesse un'immaginaria pacca
sulla schiena, pensando che fino a quel momento aveva svolto un compito degno di fede come
rappresentante degli Stati Uniti d'America. E senza alcuna direttiva o linea guida da seguire, per
giunta.
Improvvisamente, pensò alla Grande guerra. Era possibile che lui non fosse più un rappresentante
degli Stati Uniti. Forse la guerra era finita. Gli Stati Confederati d'America... gli riusciva impossibile
immaginarlo. Ma poteva essere. Era ormai da parecchio tempo che non aveva notizie.
Queste riflessioni gli richiamarono alla mente la sua carriera e dentro di sé ammise che aveva pensato
sempre meno all'esercito. Il fatto che si trovasse nel mezzo di una grande avventura aveva senz'altro
avuto una parte importante in questa sua negligenza, ma mentre sedeva accanto al fuoco che si
stava spegnendo e ascoltava il guaito dei coyote giù lungo il fiume, lo colpì il pensiero che forse si
era imbattuto in una vita migliore. Una vita dove erano poche le cose che gli mancavano.
Cisco e Due Calzini non erano degli esseri umani, ma la loro incrollabile lealtà era gratificante come
non lo erano mai stati i rapporti umani. Con loro, era felice.
Poi, naturalmente, c'erano gli indiani. Si sentiva nettamente attratto da loro. Se non altro, costituivano
degli ottimi vicini, di buone maniere, aperti e partecipi. Sebbene lui fosse troppo bianco per le
abitudini dei nativi, si sentiva più a suo agio con loro. C'era in loro qualcosa di sapiente. Forse era
questo che lo aveva attirato sin dall'inizio. Il tenente non era mai stato una persona che amasse
imparare e conoscere. Era sempre stato un uomo d'azione, a volte troppo. Ma intuiva che questo
aspetto della sua personalità si stava modificando.
Sì, pensò, si tratta di questo. C'è qualcosa da imparare da loro. Conoscono molte cose. Se l'esercito
non dovesse arrivare, non credo che sarebbe una grossa perdita.
Dunbar si sentì improvvisamente indolente. Sbadigliando, buttò il mozzicone della sigaretta nelle
braci che ardevano ai suoi piedi e stiracchiò le braccia.
<< A dormire >>, si disse ad alta voce. << Adesso dormirò come un sasso fino a domattina. >>



(continua)
auroraageno
00domenica 28 ottobre 2007 02:21
(segue)


Il tenente Dunbar si svegliò allarmato nel buio delle prime ore del mattino. La sua baracca
di terriccio stava tremando. Anche la terra tremava e nell'aria si sentiva il rumore di un
rombo soffocato. Si gettò fuori dal letto e restò ad ascoltare. Il rombo proveniva da un punto
non molto lontano, proprio lungo il fiume.
Si infilò i pantaloni e gli stivali e uscì all'esterno, il rumore era ancora più forte e riempiva
la prateria come un'enorme, risonante eco.
Si sentì piccolo, lì in mezzo.
Il rumore non avanzava verso di lui e senza sapere esattamente perché, escluse mentalmente
che quella possente energia fosse causata da qualche scherzo della natura, un terremoto o la
piena di un fiume. Era qualcosa di vivo a produrre quel suono. Qualcosa che viveva stava
facendo tremare la terra e lui doveva vedere che cosa fosse.
La luce della lanterna sembrava minuscola, mentre camminava verso la fonte di quel sordo
rumore da qualche parte davanti a lui. Aveva appena percorso un centinaio di metri lungo il
promontorio, quando alla debole luce che reggeva in mano scorse qualcosa. Era polvere:
un'enorme parete di polvere che si sollevava nella notte.
Il tenente avanzò lentamente.Di colpo si rese conto che erano degli zoccoli a produrre quel
rumore di tuono e che la polvere veniva sollevata da degli animali in movimento, degli animali
di dimensioni tali che non avrebbe mai creduto a ciò che i suoi stessi occhi stavano ora
vedendo.
I bisonti.
Uno di loro scartò bruscamente all'esterno della nuvola di polvere. E un altro, e un altro ancora.
Riusciva soltanto a intravederli mentre correvano fra il rombo provocato dagli zoccoli, ma la loro
vista era talmente magnifica che avrebbero anche potuto essere fissi e immobili. E in quell'attimo
si fissarono per sempre nella memoria del tenente Dunbar.
In quel momento, tutto solo con la sua lanterna, capì che cosa significassero per il mondo in cui
vivevano. Erano ciò che l'oceano significava per i pesci, il cielo per gli uccelli, l'aria per un paio
di polmoni umani.
Erano la vita della prateria.
E si riversavano a migliaia sulla sponda e dentro al fiume, attraversandolo con la stessa indifferenza
con cui un treno passerebbe attraverso una pozzanghera. Poi risalivano dall'altra parte alla ricerca
di praterie, una massa tonante di animali diretti a un luogo conosciuto solo a loro, un torrente di
zoccoli, di corna che penetrava nella prateria con una potenza che superava ogni immaginazione.
Dunbar lasciò cadere la lanterna lì dove si trovava e si mise a correre. Non si fermò a prendere
niente, se non la briglia di Cisco, nemmeno una camicia. Poi saltò in groppa al cavallo e lo spronò
al galoppo. Si tenne basso sulla sella in modo da tenere il petto nudo vicino al collo del cavallo
e gli allentò le redini, lasciandolo correre.

Il villaggio era illuminato dai fuochi quando il tenente Dunbar irruppe al galoppo nell'avallamento
del terreno lungo il fiume dove erano piantate le tende, proseguendo fino al sentiero principale
che attraversava l'accampamento. Ora poteva scorgere le fiamme del fuoco più grande e la
gente riunita lì intorno. Distingueva i danzatori con la testa di bisonte e sentiva il rullare ininterrotto
dei tamburi e il suono ritmico dei canti che lo accompagnava.
Ma si rendeva appena conto dello spettacolo che si offriva ai suoi occhi, proprio come si era
malapena reso conto della folle cavalcata che lo aveva condotto lì, correndo al galoppo sfrenato
per delle miglia attraverso la prateria. Non era conscio del sudore che ricopriva Cisco dalla testa
alla coda. Mentre risaliva al galoppo il sentiero del villaggio non aveva in mente che una sola cosa...
la parola comanci per bisonti. Continuava a ripeterla mentalmente, cercando di ricordare l'esatta
pronuncia.
Adesso, la stava gridando. Ma con il rullo dei tamburi e i canti non lo avevano ancora sentito
arrivare. Mentre si avvicinava al grosso fuoco centrale, cercò di far rallentare Cisco, ma il cavallo
era troppo lanciato e non rispose al morso.
Irruppe come una furia nel mezzo dei danzatori, provocando un fuggi fuggi di comanci in ogni
direzione. Con uno sforzo estremo il tenente si attaccò alle redini e cercò di fermare Cisco.
Le zampe posteriori del cavallo si piegarono facendogli toccare il terreno, mentre il collo e la
testa si sollevavano bruscamente e le zampe anteriori scalciavano a vuoto nell'aria. Dunbar
non riuscì a mantenersi in groppa. Scivolò all'indietro lungo la schiena madida di sudore del
cavallo e atterrò con un sonoro tonfo.
Prima che potesse muoversi, una mezza dozzina di furibondi guerrieri gli balzarono addosso.
Un uomo solo con un'ascia avrebbe potuto mettere fine a tutto, ma i sei uomini si erano buttati
su di lui come un sol uomo e nel viluppo nessuno riuscì a colpirlo.
Si rotolarono caoticamente sul terreno. Dunbar urlò la parola << bisonti >>, lottando contro i
pugni e i calci, ma nessuno riuscì a capire che cosa stesse gridando e qualche colpo stava
ora arrivando a segno.
Poi si rese confusamente conto che il peso della massa di corpi su di lui diminuiva. Qualcuno
gridava al disopra del tumulto e la voce gli suonava familiare.
Improvvisamente si trovò senza più nessuno addosso, steso per terra da solo a fissare semistordito
una moltitudine di facce indiane intorno a lui. Una delle facce si chinò verso di lui. Era Uccello
Saltellante.
<< Bisonti >>, disse il tenente.
Ansimava, cercando affannosamente di respirare, e la sua voce non era stata che un sussurro.
Uccello Saltellante grugnì e scosse la testa. Chinò la testa fino ad avvicinare l'orecchio alla
bocca di Dunbar e il tenente ripeté la parola, lottando con tutte le sue forze per dirla con l'esatta
pronuncia.
<< Bisonti. >>
Adesso, gli occhi di Uccello Saltellante guardavano nuovamente quelli del tenente.
<< Bisonti? >>
<< Sì >>, disse Dunbar, mentre un debole sorriso gli illuminava il volto. << Sì... bisonti... bisonti. >>
Esausto, chiuse gli occhi per un momento e udì la voce di Uccello Saltellante rompere il silenzio
con il fragore di un tuono mentre gridava quella parola.
Come un ruggito, dalla gola di ogni comanci esplose in risposta un urlo di gioia e per un istante
il tenente pensò che quella forza lo stesse travolgendo. Batté le palpebre e attraverso gli occhi
appannati si rese conto che delle robuste braccia lo stavano risollevando da terra.
Quando fu in piedi e riuscì a mettere a fuoco lo sguardo, venne salutato da un gran numero di
facce raggianti. Si stavano tutti accalcando intorno a lui.



(continua)
auroraageno
00lunedì 29 ottobre 2007 18:30
(segue)


18



Andarono tutti.
L'accampamento vicino al fiume venne lasciato praticamente deserto, quando l'imponente
carovana si mosse all'alba.
Vennero mandati degli esploratori in ogni direzione. Il grosso dei guerrieri a cavallo
procedeva in testa alla colonna. Dietro, venivano le donne e i bambini, alcuni a cavallo,
altri a piedi. Quelli che procedevano a piedi marciavano al fianco dei pony che trainavano
delle portantine cariche di arnesi vari. I più vecchi erano trasportati su delle rozze slitte,
anch'esse trainate dai pony. L'enorme branco dei pony chiudeva la colonna.
Tutto era sorprendente. Le dimensioni della colonna, la velocità con la quale procedeva,
l'incredibile frastuono che faceva, la meravigliosa organizzazione che dava a ognuno un
suo posto e un suo compito.
Ma ciò che il tenente Dunbar trovava più straordinario di tutto era il trattamento che gli veniva
riservato. Dalla sera alla mattina era passato dalla condizione di qualcuno al quale la tribù
guardava con sospetto o indifferenza a quella di una persona con una precisa connotazione.
Adesso, le donne gli sorridevano apertamente e i guerrieri arrivavano persino a scherzare
con lui. I bambini, e ve ne erano molti, cercavano costantemente la sua compagnia, diventando
a volte una seccatura.
Trattandolo in questo modo, i comanci rivelavano un aspetto di sé completamente nuovo,
capovolgendo l'atteggiamento impassibile e guardingo che gli avevano mostrato in passato.
Ora erano delle persone senza alcun timore o disagio per la sua presenza ed estremamente
cordiali, e lo stesso avveniva per il tenente Dunbar.
L'arrivo dei bisonti avrebbe risollevato il morale degli avviliti comanci in ogni caso, ma mentre
la colonna avanzava rapida attraverso la prateria il tenente capì che la sua presenza dava un
certo lustro all'impresa, e cavalcò un po' più eretto a questo pensiero.
Molto prima che raggiungessero Fort Sedgewick, gli esploratori riferirono di aver trovato una
grossa pista che segnalava il passaggio dei bisonti là dove aveva indicato il tenente e altri
uomini vennero subito mandati a localizzare la zona di pascolo della mandria più grossa.
Ciascun esploratore lasciò la colonna tirandosi dietro per le briglie alcuni cavalli freschi. Avrebbero
cavalcato fino a che non avessero trovato la mandria, poi sarebbero tornati alla colonna per
riferire sulla sua entità e a quante miglia di distanza si trovasse. Avrebbero anche riferito
l'eventuale presenza di nemici appostati nelle vicinanze dei terreni di caccia comanci.
Mentre la colonna proseguiva, Dunbar fece una breve sosta al forte. Raccolse una piccola
provvista di tabacco, la pistola e il fucile, una giubba e una razione di granaglie per Cisco e di
lì a pochi minuti era nuovamente a fianco di Uccello Saltellante e dei suoi assistenti.
Quando ebbero attraversato il fiume, Uccello Saltellante gli fece cenno di avanzare e i due
uomini cavalcarono oltre la testa della colonna. Fu allora che Dunbar vide per la prima volta
la pista dei bisonti: una gigantesca striscia di terreno smosso e calpestato larga mezzo miglio
che tagliava la prateria come una specie di immensa autostrada disseminata di escrementi
di animali.
Con i gesti, Uccello Saltellante gli stava descrivendo qualcosa che il tenente non riuscì ad
afferrare quando, all'orizzonte, videro sollevarsi della polvere. Gradatamente, i nugoli di polvere
diventarono degli uomini a cavallo. Due esploratori stavano tornando.
Conducendo le cavalcature di scorta, arrivarono al galoppo e si fermarono direttamente di
fronte al gruppo di Uccello Saltellante per fare il loro rapporto.
Uccello Saltellante si fece avanti per conferire con loro e Dunbar, non sapendo che cosa si
stessero dicendo, osservò attentamente lo stregone, sperando di indovinare qualcosa dalla
sua espressione.
Ciò che vide non gli fu di molto aiuto. Se avesse conosciuto la loro lingua avrebbe capito che
la mandria si era fermata a pascolare in una grande vallata circa dieci miglia a sud dell'attuale
posizione della colonna, un luogo che potevano facilmente raggiungere prima che scendesse
la notte.
La conversazione divenne improvvisamente animata e il tenente si piegò per azione riflessa
in avanti, come se volesse ascoltare. Gli esploratori facevano degli ampi gesti, indicando
prima a sud e poi verso Est. I volti di chi li ascoltava si incupirono notevolmente e, dopo aver
interrogato gli esploratori per qualche altro minuto, senza scendere dai loro cavalli Uccello
Saltellante e i suoi più stretti consiglieri tennero un consiglio.
Dopo breve tempo, due di loro si staccarono dal gruppo dirigendosi al galoppo lungo la
colonna. Mentre questi si allontanavano, Uccello Saltellante si girò brevemente a guardare
il tenente, e Dunbar conosceva il suo viso abbastanza bene da capire che la sua espressione
significava che non tutto andava come avrebbe dovuto.
Sentì un rumore di cavalli dietro di lui e Dunbar si voltò per vedere una dozzina di guerrieri che
arrivavano al galoppo in direzione del fronte della colonna. A capo del gruppo vi era l'indiano
focoso.
Si fermarono accanto a Uccello Saltellante e ai suoi consiglieri, si consultarono brevemente e,
prendendo con loro uno degli esploratori, partirono veloci verso Est.
La colonna si rimise in marcia. Uccello Saltellante tornò al suo posto accanto al soldato bianco.
Vide che gli occhi del tenente erano pieni di domande, ma non era possibile dargli una
spiegazione, dirgli di questo cattivo auspicio.
Nelle vicinanze erano stati individuati dei nemici, dei nemici misteriosi provenienti da un altro
mondo. Con i loro atti si erano dimostrati degli uomini senza valore e senz'anima, gente che
massacrava spietatamente gli animali senza alcun rispetto per i diritti dei comanci. Era
importante che venissero puniti.
Così Uccello Saltellante evitò gli occhi interrogativi del tenente. Volse invece lo sguardo verso
la nuvola di polvere del gruppo di Vento-nei-capelli che si allontanava verso Est e disse
silenziosamente una preghiera per il successo della loro missione.


(continua)

auroraageno
00martedì 30 ottobre 2007 10:29
(segue)


Nello stesso momento in cui vide le gobbe di colore roseo profilarsi a distanza, capì che
stava andando incontro a qualcosa di spiacevole. Vi erano delle macchie nere sulle gobbe
rosate e a mano a mano che la colonna si avvicinava, riuscì a vedere che le gobbe si stavano
muovendo. Persino l'aria improvvisamente sembrò più vicina e il tenente si slacciò un altro
bottone della giubba.
Uccello Saltellante lo aveva portato alla testa della colonna con uno scopo. Ma la sua intenzione
non era di infliggere una punizione, bensì di istruire. E vedere sarebbe servito allo scopo meglio
di qualsiasi discorso. L'impatto sarebbe stato maggiore sul fronte della colonna. Maggiore
per entrambi: anche per Uccello Saltellante era la prima volta che quella vista si presentava
ai suoi occhi.
Come dal mercurio di un termometro, un orribile miscuglio di disgusto e di repulsione salì su
per la gola del tenente Dunbar. Dovette continuamente deglutire per trattenerlo, mentre lui e
Uccello Saltellante guidavano la colonna attraverso il centro del terreno dove era avvenuto il
massacro.
Contò ventisette bisonti. E sebbene non riuscisse a contarli, arguì che i corvi che si accanivano
sopra ogni carogna fossero almeno altrettanti. In alcuni casi le teste dei bisonti erano completamente
ricoperte di questi uccelli neri che si disputavano fra loro gli occhi dell'animale fra furiose grida
e agitare d'ali. Gli animali i cui occhi erano già stati strappati fungevano da ospiti a degli sciami
più numerosi che beccavano voracemente mentre saltellavano da un punto all'altro della carcassa,
defecando di quando in quando quasi a sottolineare l'abbondanza del loro festino.
I lupi stavano facendo la loro comparsa da tutte le direzioni. Non appena la colonna fosse passata,
si sarebbero avventati a dilaniare le spalle, i posteriori e i ventri degli animali.
Ma ve ne sarebbe stato più che a sufficienza per ogni lupo e ogni corvo nel raggio di parecchie
miglia. Il tenente fece un calcolo approssimativo e arrivò a una cifra di almeno ventidue tonnellate.
Ventidue tonnellate di carne morta che si decomponeva al calore del sole pomeridiano.
Tutto questo lasciato lì a marcire, pensò chiedendosi se qualche acerrimo nemico dei suoi amici
indiani non lo avesse fatto intenzionalmente come un macabro avvertimento.
I ventisette bisonti erano stati completamente scuoiati. Passando accanto ad alcune delle bestie
di maggiori dimensioni, vide che dalle grosse bocche aperte era stata tolta la lingua. Anche altri
animali erano privi della lingua. Ma solo di questa. Tutto il resto era stato lasciato.
In tenente Dunbar pensò improvvisamente all'uomo anziano morto nel vicolo. Come questi
bisonti, anche lui era sdraiato sul fianco. La pallottola che lo aveva colpito alla base del cranio
gli aveva asportato il lato destro della mascella, uscendo dall'altra parte.
Allora era soltanto John Dunbar, un ragazzo di quattordici anni. Negli anni seguenti aveva visto
moltissimi altri morti: uomini con la faccia completamente asportata, uomini con il cervello che
fuoriusciva dal cranio spargendosi come una poltiglia sul terreno. Ma l'uomo anziano, il primo
morto che avesse visto, era quello che ricordava meglio. Soprattutto a causa delle sue dita.
Si trovava alle spalle del poliziotto quando venne scoperto che al morto erano state tagliate
le dita. Il poliziotto si era guardato intorno e aveva commentato: << L'hanno ammazzato per
prendergli gli anelli >>.
E adesso vi erano questi bisonti, morti lì sul terreno con le interiora sparse per tutta la prateria
solo perché qualcuno voleva le loro lingue e le loro pelli. A Dunbar sembrava lo stesso tipo
di crimine.
Quando vide un vitello non ancora nato sporgere a metà dell'addome squarciato della madre,
la stessa prima parola che aveva udito quella sera nel vicolo gli si formò di colpo nella mente
come un segnale luminoso.
Assassinio.
Lanciò uno sguardo a Uccello Saltellante. Lo stregone stava fissando lo scempio del piccolo
di bisonte: la sua faccia incupita era una maschera di tristezza.
Il tenente Dunbar allora distolse gli occhi da lui e guardò la colonna dietro di loro. Stavano
procedendo aprendosi la strada in mezzo alla carneficina. Affamati com'erano dopo settimane
di scarsità di cibo, nessuno si era fermato a servirsi di quell'abbondanza sparsa tutt'intorno
a loro. Le voci rauche che erano risuonate per tutta la mattinata, ora tacevano e lui poteva
scorgere sui volti la malinconia che provocava in loro il constatare che una buona pista
improvvisamente si era rivelata infausta.


Quando raggiunsero i terreni di caccia, i cavalli disegnavano già delle lunghe ombre sul terreno.
Mentre le donne e i bambini si mettevano al lavoro per piantare l'accampamento temporaneo
a ridosso del fianco di una collina, la maggior parte degli uomini proseguì a cavallo per
individuare la mandria prima che cadesse la notte.
Il tenente Dunbar andò con loro.
A circa un miglio dal nuovo accampamento si incontrarono con tre esploratori che si erano
accampati per proprio conto a un centinaio di metri dall'imbocco dell'alveo di un largo torrente
asciutto.
Sessanta guerrieri comanci e un uomo bianco smontarono dai loro cavalli e si inerpicarono
silenziosamente sul pendio occidentale che portava fuori del letto del torrente. Quando furono
vicini alla cresta, si gettarono a terra e avanzarono strisciando per gli ultimi metri.
Il tenente lanciò uno sguardo di aspettativa a Uccello Saltellante. L'indiano accennò un sorriso,
indicando qualcosa davanti a loro e appoggiandosi poi un dito sulle labbra. Dunbar capì che
erano arrivati.
Oltre i pochi centimetri di terreno di fronte a lui non vi era altro che il cielo e si rese conto che
avevano superato il dorso di un promontorio. Sollevò la testa, sbirciando in direzione dell'ampio
avvallamento che si estendeva sotto di loro e sentì sul volto il vento pungente della prateria.
Era una grandiosa vallata concava, larga quattro o cinque miglia e lunga almeno dieci,
lussurreggiante di erba di ogni varietà che fluttuava mossa dalla brezza.
Ma il tenente notò a malapena la distesa d'erba, o la vallata o le sue dimensioni. Persino il
cielo, che ora si stava coprendo di nubi, e il sole che stava calando con il suo miracoloso
spettacolo non potevano reggere il confronto con l'enorme, vivente coltre di bisonti che
ricopriva il fondo della vallata.
Che delle creature esistessero in tale quantità e che tutte si trovassero contemporaneamente
a occupare il medesimo spazio, gli faceva vorticare nella mente delle cifre incalcolabili.
Cinquanta, settanta, centomila? Forse di più? Il suo cervello si tirava indietro davanti a questa
enormità.
Non gridò, né saltò, né sussurrò qualcosa fra sé per lo stupore. L'assistere a ciò che aveva
davanti annullava tutto, tranne ciò che stava vedendo. Non avvertiva le piccole rocce dalla forma
bizzarra che gli premevano dolorosamente contro il corpo. Quando una vespa gli si appoggiò
sulla punta della mascella, non la scacciò. Non riusciva a fare altro che guardare meravigliato
quell'incredibile manto che ricopriva la prateria e che gli colmava la vista.
Stava assistendo a un miracolo.
Quando Uccello Saltellante gli batté sulla spalla, si accorse di essere rimasto con la bocca
spalancata per tutto il tempo. Il vento della prateria gliel'aveva completamente inaridita.
Dondolò leggermente la testa come per scuotersi dal torpore e guardò in giù lungo il pendio.
Gli indiani avevano cominciato a scendere.


(continua)


auroraageno
00martedì 30 ottobre 2007 18:29
(segue)


Avevano cavalcato nell'oscurità per mezz'ora quando apparvero i fuochi, come dei
puntini luminosi in lontananza. Era così strano da sembrare un sogno.
A casa, pensò. Siamo a casa.
Come poteva essere? Un provvisorio accampamento di fuochi in una lontana pianura,
popolato da duecento indigeni la cui pelle era diversa dalla sua, il cui linguaggio era
un groviglio di grugniti e di grida, le cui credenze erano ancora misteriose e probabilmente
avrebbero continuato a rimanere tali.
Ma quella notte era molto stanco. Quella notte, l'accampamento prometteva il conforto
di un luogo natio. Era il calore della propria casa e lui fu lieto di vederlo.
Anche gli altri, il gruppo di uomini seminudi con cui aveva cavalcato per le ultime miglia,
erano lieti di vederlo. Avevano ripreso a parlare. E i cavalli ne sentivano l'odore. Adesso,
procedevano impazienti, cercando di rompere l'andatura e di mettersi a trottare.
Desiderò di individuare Uccello Saltellante in mezzo alle indistinte sagome intorno a lui.
Lo stregone diceva molte cose con i suoi occhi e lì, fuori nell'oscurità insieme con quel
gruppo compatto di uomini selvaggi che si dirigevano al loro selvaggio accampamento,
lui si sentiva sperduto senza i suoi occhi rivelatori.
Erano a circa mezzo miglio dall'accampamento quando distinsero le voci e il suono dei
tamburi. Dagli uomini che cavalcavano tutto intorno a lui si sollevò un brusio e di colpo
i cavalli si misero a correre. Galopparono talmente vicini fra loro e così veloci che, per un
momento, il tenente Dunbar sentì di far parte di una forza irrefrenabile, una possente ondata
fatta di uomini e di cavalli alla quale nessuno avrebbe osato opporsi.
Gli uomini lanciavano alte grida acute, come dei coyote, e Dunbar, preso dall'eccitazione,
si lasciò andare anche lui a qualche urlo.
Riusciva a scorgere le fiamme dei fuochi e le figure delle persone che si muovevano per
l'accampamento. Ora si erano accorti degli uomini a cavallo che stavano ritornando e
qualcuno stava correndo verso la prateria per andare loro incontro.
L'accampamento gli dava una strana sensazione, una sensazione che gli diceva che vi era
un'agitazione insolita, che durante la loro assenza era successo qualcosa al di fuori
dell'ordinario. A mano a mano che si avvicinava spalancò gli occhi, cercando di cogliere
qualche segno che gli indicasse che cosa vi fosse di differente.
Poi vide il carro, fermo ai margini del fuoco più grande, altrettanto fuori luogo di una splendida
carrozza che galleggi sulla superficie del mare.
Vi erano degli uomini bianchi all'accampamento.
Tirò con forza le redini e fermò il cavallo, lasciando che gli altri guerrieri continuassero la loro
corsa mentre lui rimaneva indietro a raccogliere i suoi pensieri.
Il carro gli appariva rozzo, qualcosa di sgradevole. Mentre Cisco si agitava nervosamente
sotto di lui, il tenente si stupì dei suoi stessi pensieri. Quando immaginò le voci che erano
arrivate con il carro, non volle sentirle. Non voleva vedere quei volti di uomini bianchi che
sarebbero stati così curiosi di vedere il suo. Non voleva rispondere alle loro domande. Non
voleva udire le notizie che da tempo non conosceva.
Ma sapeva di non avere scelta. Non vi era nessun altro posto in cui andare. Allentò un poco
le redini e Cisco si mosse, avanzando adagio.
Quando fu a cinquanta metri, si fermò nuovamente. Gli indiani si agitavano vivacemente attorno
agli uomini che avevano localizzato la mandria, mentre questi balzavano a terra dai loro pony.
Aspettò che i pony venissero allontanati, poi scrutò attentamente tutti i volti che erano nel suo
campo visivo.
Non vi era nessun bianco.
Lui e Cisco si avvicinarono maggiormente e di nuovo Dunbar si fermò, controllando attentamente
con lo sguardo l'accampamento.
Nessun bianco.
Individuò l'indiano focoso e gli uomini del suo gruppo che si erano staccati da loro nel pomeriggio.
Sembravano essere al centro dell'attenzione. Era molto di più di un saluto. Era una sorta di
festeggiamento. Si passavano dall'uno all'altro dei lunghi bastoni, lanciando grida acute. Anche
la gente dell'accampamento che si era riunita attorno a loro lanciava delle grida di incitamento.
Lui e Cisco avanzarono di lato avvicinandosi ancora di più a loro e il tenente vide subito che si
era sbagliato. Non erano dei bastoni quelli che si stavano passando di mano in mano. Erano
delle lance. Una di queste ritornò a Uccello Saltellante e Dunbar lo vide sollevarla per aria. Non
stava sorridendo, ma era sicuramente felice. Mentre l'indiano lanciava un lungo, vibrante
ululato, Dunbar intravide i capelli legati in prossimità della punta della lancia.
Nello stesso istante, si rese conto che era uno scalpo. Uno scalpo tolto da poco tempo. I capelli
erano neri e ricciuti.
I suoi occhi si spostarono fulminei sulle altre lance. Altre due di loro avevano degli scalpi, uno era
castano chiaro e l'altro biondo rossiccio. Guardò rapidamente il carro e vide ciò che non aveva
visto prima. Dalle traverse laterali del carro si intravedeva un carico di pelli di bisonte, accatastate
l'una sull'altra.
D'improvviso, tutto gli apparve chiaro come un cielo senza nubi.
Le pelli appartenevano ai bisonti uccisi e gli scalpi appartenevano agli uomini autori del massacro,
uomini che quello stesso pomeriggio erano ancora vivi. Uomini bianchi. Il tenente era inebetito
dalla confusione. Non poteva prender parte a tutto questo, non poteva nemmeno stare a guardare.
Doveva andarsene.
Mentre si stava allontanando, scorse per un attimo Uccello Saltellante. Lo stregone sorrideva
apertamente, ma quando vide il tenente Dunbar nelle ombre oltre la luce del fuoco, il suo sorriso
svanì. Poi, come se volesse risparmiargli una situazione imbarazzante, voltò la schiena.
Dunbar voleva credere che, nel suo animo, Uccello Saltellante fosse con lui, che in qualche modo
vago sapesse della sua confusione. Ma ora non riusciva a pensare. Doveva andarsene da solo.
Costeggiò l'accampamento e all'estremo lato individuò il suo equipaggiamento, poi si diresse
con Cisco verso la prateria. Si allontanò fino a che non vide più i fuochi. Prese la coperta
arrotolata, la distese sul terreno e si sdraiò, guardando le stelle sopra di sé e cercando di credere
che gli uomini che erano stati uccisi erano gente malvagia e meritavano di morire. Ma non
serviva. Non poteva esserne sicuro e anche se lo fosse stato... be', gli era difficile dirlo. Cercava
di credere che Vento-nei-capelli e Uccello Saltellante, e tutta l'altra gente che aveva preso parte
all'uccisione, non fossero poi così lieti di averlo fatto. Ma lo erano.
Più di ogni altra cosa voleva credere che lui non si trovasse in quella situazione. Voleva credere
che stesse galleggiando verso le stelle. Ma non era così.
Sentì Cisco adagiarsi nell'erba con un pesante sospiro. Poi tutto fu quieto e Dunbar rivolse i suoi
pensieri a se stesso. O, piuttosto, alla sua mancanza di una identità. Non apparteneva agli indiani.
Non apparteneva ai bianchi. E per lui non era il momento di appartenere alle stelle.
Apparteneva a dove si trovava in quel momento. Non apparteneva a niente.
Un singhiozzo gli salì su per la gola. Dovette trattenersi per soffocarlo. Ma i singhiozzi continuavano
a salire e non passò molto tempo prima che si convincesse che cercare di trattenerli non aveva
alcun senso.


Qualcosa lo stava urtando leggermente. Mentre si svegliava, pensò che il piccolo colpo che aveva
avvertito alla schiena lo aveva sognato. La coperta era pesante e umida di rugiada. Doveva
essersela tirata fin sopra la testa durante la notte.
Sollevò l'orlo della coperta e sbirciò la brumosa luce del mattino. Cisco era lì nell'erba, davanti a
lui. Aveva rizzato le orecchie.
Ed eccolo nuovamente, qualcosa che lo stava colpendo leggermente nella schiena. Il tenente
Dunbar buttò indietro la coperta e vide la faccia di un uomo ritto in piedi accanto a lui. Era
Vento-nei-capelli. Il volto arcigno era dipinto con delle strisce color ocra. Una delle sue mani
brune reggeva un fucile nuovo fiammante. Cominciò a muovere il fucile e il tenente trattenne
il fiato. Forse era arrivata la sua ora. Si figurò i suoi capelli, appesi alla sua lancia.
Ma mentre sollevava il fucile, Vento-nei-capelli sorrise. Toccò il fianco del tenente con la punta
del piede e disse qualche parola in comanci. Il tenente Dunbar rimase immobile e Vento-nei-
capelli puntò il fucile verso il basso, come se mirasse a dell'immaginaria selvaggina. Poi si ficcò
un immaginario boccone di cibo in bocca e come un amico che inciti allegramente un altro, gli
solleticò nuovamente le costole con la punta del suo mocassino.



(continua)

auroraageno
00mercoledì 31 ottobre 2007 09:52
(segue)

Arrivarono tenendosi sottovento, ogni singolo uomo della tribù in grado di cacciare,
avvicinandosi a cavallo in un'enorme formazione a mezzaluna, una mezzaluna in
movimento larga mezzo miglio. Avanzarono lentamente, facendo attenzione a non
spaventare i bisonti fino all'ultimo minuto, fino a che non fosse stato il momento di
lanciarsi avanti.
Come un profano fra degli esperti, il tenente Dunbar era completamente assorbito
dal tentativo di collegare fra loro le fasi strategiche della caccia a mano a mano che
questa si svolgeva. Dalla sua posizione vicino al centro della formazione poteva
vedere che si stavano muovendo per isolare una piccola parte della gigantesca mandria.
Gli uomini che componevano il lato destro della mezzaluna erano quasi riusciti a chiudere
fuori il gruppo di animali dal resto della mandria, mentre il centro premeva alle spalle.
Lontano, alla sua sinistra, la formazione di caccia stava ruotando per formare una linea
perpendicolare.
Era un accerchiamento.
Dunbar si trovava abbastanza vicino da udire dei suoni: il pianto di qualche piccolo, il
muggito delle madri e l'occasionale sbuffare di uno dei maschi dalle proporzioni
massicce. Davanti a lui vi erano migliaia di animali.
Il tenente gettò uno sguardo di fianco. Vento-nei-capelli era il secondo alla sua destra
ed era tutt'occhi, mentre avanzavano da ogni lato verso la mandria. I suoi occhi acuti
erano dappertutto allo stesso tempo: sui cacciatori, sulla preda e sul terreno che andava
diminuendo fra di loro. Se fosse stato possibile vedere l'aria, ne avrebbe notato anche il
più impercettibile mutamento di direzione. Era come un uomo che stesse ascoltando il
ticchettio del conteggio alla rovescia di un invisibile orologio.
Persino il tenente Dunbar, così inesperto di quel genere di cose, riusciva a sentire la
tensione crescere attorno a lui. L'aria era diventata completamente inerte. Non arrivava
nessun suono. Non udiva più il rumore degli zoccoli dei pony dei cacciatori. Persino la
mandria era diventata improvvisamente silenziosa. La morte stava calando sulla prateria
con la certezza di una nube discendente.
Quando Dunbar fu a un centinaio di metri, quattro o cinque delle bestie si girarono tutte
insieme verso di lui. Sollevarono le loro grosse teste, annusando l'aria immobile in cerca
di una traccia di ciò che le loro orecchie avevano sentito, ma i loro occhi deboli non
riuscivano ancora a distinguere. Rizzarono le code, arrotolandole al disopra dei posteriori
come delle bandierine. L'animale più grosso raspò l'erba con le zampe, scrollò la testa
e sbuffò minacciosamente, sfidando l'intrusione degli uomini a cavallo che si stavano
avvicinando.
Dunbar comprese che per ogni cacciatore l'uccisione che stava per avere luogo non
sarebbe stato un fatto scontato, che non si trattava semplicemente di tendere un'imboscata,
che per infliggere la morte a quegli animali ciascun uomo stava rischiando la propria vita.
Lungo il fianco destro, alla punta della mezzaluna, scoppiò un'agitazione improvvisa.
I cacciatori avevano attaccato.
Con stupefacente velocità il primo attacco diede il via a una reazione a catena che sorprese
Dunbar allo stesso modo in cui un'ondata oceanica si abbatte sull'ignaro bagnante che
sguazza a riva.
I bisonti maschi che erano rivolti verso di lui si girarono e fuggirono. Nello stesso momento,
i pony indiani balzarono in avanti. Accadde così velocemente che Cisco quasi corse via
da sotto di lui. Dunbar gettò una mano all'indietro per afferrare il berretto che stava schizzando
via, ma gli sfuggì dalle dita. Non importava. Non c'era modo di fermarsi, adesso, neanche
se avesse fatto ricorso a tutta la sua forza. Il piccolo cavallo dal manto bruno fulvo era
lanciato in avanti, divorando il terreno come se delle fiamme gli solleticassero le calcagna,
come se dovesse correre o morire.
Dunbar guardò la fila di uomini a cavallo alla sua destra e alla sua sinistra e fu inorridito di
vedere che non c'era nessuno. Gettò uno sguardo da sopra la spalla e li vide, chini sulle
schiene dei loro pony tesi sotto lo sforzo dell'andatura. Correvano quanto più velocemente
potevano, ma in confronto a Cisco erano dei ronzini e lottavano disperatamente per non
rimanere indietro. A ogni secondo che passava perdevano terreno e d'improvviso il
tenente si trovò a occupare uno spazio tutto per lui. Era fra i cacciatori che lo seguivano e i
bisonti in fuga.
Diede uno strattone alle redini ma, se Cisco lo avvertì, non vi fece caso. Il collo era proiettato
completamente in avanti, le orecchie erano appiattite, le narici dilatate al massimo che
ingollavano il vento che dava ai suoi polmoni l'elemento indispensabile per avvicinarsi
sempre di più alla mandria.
Il tenente Dunbar non aveva tempo per pensare. La prateria scorreva velocemente sotto
di lui, il cielo sembrava rotolasse sopra la sua testa e fra questi, sparsi su una lunga linea
di fronte a lui, vi era un muro di bisonti spaventati in fuga.
Ora era abbastanza vicino da vedere i muscoli dei loro quarti posteriori. Poteva vedere i
loro zoccoli. Fra qualche secondo sarebbe stato abbastanza vicino da poterli toccare.
Stava correndo verso un incubo mortale, un uomo in una barca trascinato inesorabilmente
verso il bordo di una cascata. Il tenente non gridò, non disse una preghiera né si fece il
segno della croce. Ma chiuse gli occhi. Gli apparvero di colpo i volti di sua madre e di
suo padre. Stavano facendo qualcosa che non li aveva mai visti fare. Si baciavano
appassionatamente. Tutto intorno a loro vi era un enorme fragore, un sordo e intenso
rullare di un migliaio di tamburi. Il tenente aprì gli occhi e si ritrovò in un paesaggio quasi
da sogno, una vallata piena di giganteschi macigni marrone e neri che si precipitavano
con assordante rumore in un'unica direzione.
Lui e Cisco stavano correndo con la mandria.
Lo spaventoso rombo di decine di migliaia di zoccoli fessi aveva il curioso silenzio di
un diluvio e per alcuni momenti Dunbar andò serenamente alla deriva nella folle quiete
della massa di animali in fuga.
Tenendosi saldamente in groppa a Cisco guardò intorno a sé quell'imponente tappeto in
movimento di cui ora faceva parte e immaginò che, se avesse voluto, avrebbe potuto
scivolare giù per la schiena del suo cavallo e raggiungere la salvezza del terreno sgombro
saltando da una gobba all'altra, come un ragazzo che attraversi un ruscello rimbalzando sui
sassi.
Il fucile scivolò e quasi gli cadde dalle mani sudate, e in quel mentre il bisonte maschio che
correva alla sua sinistra a meno di un passo virò bruscamente verso di lui. Con un colpo
della testa pelosa cercò di incornare Cisco. Ma il cavallo era troppo svelto. Scartò di lato
con un balzo e il corno gli sfiorò soltanto il collo. Nella mossa repentina, il tenente Dunbar
venne quasi disarcionato. Sarebbe stata la sua morte, ma i bisonti erano talmente ammassati
intorno a lui che rimbalzò contro la schiena di un bisonte che correva sull'altro lato di Cisco
e in qualche modo riuscì a raddrizzarsi.
Terrorizzato, il tenente abbassò la canna del fucile e sparò al bisonte che aveva cercato di
incornare Cisco. Non fu un buon tiro, ma la pallottola frantumò una delle zampe anteriori
dell'animale. Le ginocchia si piegarono di colpo e Dunbar sentì lo schiocco secco del collo
che si spezzava mentre la bestia rotolava su di sé.
D'improvviso, intorno a lui si fece il vuoto. Alla detonazione i bisonti avevano scartato
bruscamente e si erano allontanati. Tirò con forza le redini e il cavallo rispose al comando.
Di lì a un momento si fermarono. Il rombo della mandria stava diminuendo.
Mentre guardava la mandria ritirarsi davanti a lui, vide che i cacciatori l'avevano raggiunta.
La vista degli uomini nudi in groppa ai loro cavalli che correvano con tutti quegli animali,
sobbalzando in quella marea come dei turaccioli sulla cresta delle onde, lo lasciò
affascinato per alcuni minuti. Riusciva a vedere i loro archi che si tendevano e nugoli di
polvere che si sollevavano dal terreno a mano a mano che i bisonti l'uno dopo l'altro venivano
abbattuti.
Ma non passarono molti minuti prima che si voltasse a guardare dietro di sé. Voleva vedere
con i suoi occhi l'animale che aveva ucciso. Voleva la conferma di ciò che sembrava troppo
fantastico per essere vero.
Tutto era accaduto in minor tempo di quanto occorresse per radersi la barba.



(continua)

auroraageno
00giovedì 1 novembre 2007 04:28
(segue)


Era un animale di grosse proporzioni, ma nella morte, immobile e da solo in mezzo
all'erba bassa, sembrava ancora più grande.
Come un visitatore a una esposizione, Dunbar camminò lentamente in cerchio attorno
al corpo. Si fermò accanto alla mostruosa testa del bisonte, prese in mano uno dei
corni e gli diede uno strattone. La testa pesava parecchio. Fece scorrere il palmo
della mano lungo tutto il corpo della bestia: dalla gobba coperta di fitto pelo lanuginoso
fino al posteriore nettamente inclinato. Tenne fra le dita la coda con dei corti ciuffi di pelo.
Sembrava ridicolmente piccola.
Tornando sui suoi passi, il tenente si accovacciò di fronte alla testa del bisonte e strinse
fra le dita la lunga barba nera che pendeva dalla mascella della bestia. Gli ricordava il
pizzetto di un generale e si domandò se anche quel bisonte era stato un membro di alto
rango della mandria.
Poi si alzò in piedi e arretrò di un passo o due, sempre attratto dalla vista del bisonte
morto. Come potesse semplicemente esistere una di queste straordinarie creature era
un meraviglioso mistero. E ve ne erano migliaia.
Forse ve ne sono milioni, pensò.
Non sentiva alcun orgoglio per averlo privato della vita, ma non provava nemmeno alcun
rimorso. A parte un forte senso di rispetto, non provava alcun sentimento. Sentiva, però,
qualcosa di fisico. Poteva sentire il suo stomaco che si torceva. Lo sentiva brontolare.
La bocca aveva cominciato a riempirsi di saliva. Da giorni i suoi pasti erano magri e
ora, guardando questa massa di carne, era acutamente consapevole della sua fame.
Erano passati non più di dieci minuti dalla furiosa carica e già la caccia era finita. La
mandria era svanita, lasciando i suoi morti dietro di sé. I cacciatori attorniavano le bestie
che avevano ucciso, in attesa, mentre le donne e gli anziani si riversavano nella pianura
trascinandosi dietro i loro arnesi per la macellazione. Le loro voci risuonavano eccitate
e a Dunbar venne fatto di pensare che fosse iniziata una specie di festa.
Vento-nei-capelli si avvicinò al galoppo con due guerrieri suoi amici. Eccitato per il
successo, fece un largo sorriso mentre balzava agilmente a terra dal suo ansimante pony.
Il tenente notò un brutto sfregio proprio al disotto del ginocchio del guerriero.
Ma Vento-nei-capelli non vi fece caso. Sorrideva ancora di soddisfazione quando si
affiancò al tenente, dandogli una possente pacca sulla schiena a mo' di ben intenzionato
saluto che lo mandò per terra a gambe levate.
Ridendo spontaneamente, Vento-nei-capelli lo aiutò a rimettersi in piedi e gli ficcò in mano
un coltello dalla spessa lama. Disse qualcosa in comanci e indicò il bisonte morto.
Dunbar esitò con aria goffa, fissando impacciato il coltello che aveva in mano. Sorrise con
aria sperduta e scosse la testa. Non sapeva che cosa fare.
Vento-nei-capelli borbottò qualcosa che fece ridere i suoi amici, battè una mano sulla spalla
del tenente e riprese il coltello. Poi si piegò su un ginocchio accanto al ventre del bisonte
di Dunbar.
Con la disinvoltura di un esperto intagliatore, affondò il coltello nel torace dell'animale e,
impugnandolo con entrambe le mani, praticò un taglio per tutta la lunghezza, aprendogli
il ventre. Mentre le interiora fuoriuscivano, Vento-nei-capelli infilò una mano all'interno
della cavità, tastando come qualcuno che stia cercando qualcosa nell'oscurità.
Trovò ciò che voleva, diede un paio di energici strattoni e si rialzò in piedi con un fegato
talmente grosso che debordava da entrambe le mani mentre lo reggeva. Imitando il ben
noto inchino del soldato bianco, offrì quel premio all'ammutolito tenente. Con circospezione,
Dunbar accettò l'organo ancora fumante, ma non avendo idea di che cosa fare, ricorse al
suo fidato inchino e, il più cortesemente possibile, glielo restituì.
Di norma, Vento-nei-capelli avrebbe interpretato il gesto come un'offesa, ma si ricordò che
<< Jun >> era un bianco e quindi inesperto. Fece un altro inchino, si ficcò in bocca una delle
estremità del fegato ancora caldo e ne staccò un grosso pezzo.
Il tenente restò a guardare incredulo, mentre il guerriero passava il fegato ai suoi amici. Anche
loro affondarono i denti nella carne cruda. La mangiavano avidamente, come se si trattasse
di una torta di mele appena tolta dal forno.
Nel frattempo una piccola folla, alcuni a cavallo, altri a piedi, si era riunita attorno al bisonte
di Dunbar. C'erano anche Uccello Saltellante e Mano Alzata. Lei e alcune altre donne avevano
già iniziato a scuoiare l'animale.
Ancora una volta Vento-nei-capelli gli offrì il fegato e ancora una volta Dunbar lo prese, reggendolo
in silenzio mentre si guardava intorno in cerca di un'indicazione o di un segno da parte di
qualcuno lì attorno che lo tirasse fuori dai guai.
Non gli venne alcun aiuto. Lo osservavano in silenzio, in attesa, e lui si rese conto che sarebbe
stato di una stupidità lampante cercare di ripassarlo nuovamente. Anche Uccello Saltellante
stava aspettando.
Allora, Dunbar portò il fegato alla bocca, dicendosi che dopotutto era facile, non più difficile
che buttar giù una cucchiaiata di qualcosa che detestava, come un certo tipo di fagioli, per esempio.
Sperando che non gli venisse un conato di vomito, affondò i denti nel fegato.
La carne era incredibilmente tenera. Gli si scioglieva in bocca. Masticò con gli occhi fissi verso
l'orizzonte e per un momento il tenente Dunbar si dimenticò del suo silenzioso pubblico, mentre
le sue papille gustative inviavano un sorprendente messaggio al suo cervello.
La carne era deliziosa.
Senza pensarci, ne morse un altro pezzo. Un sorriso spontaneo gli attraversò il volto e sollevò
in alto, al disopra della testa, ciò che restava della carne.
I suoi compagni di caccia salutarono quel gesto con un coro di grida entusiastiche.



(continua)


auroraageno
00giovedì 1 novembre 2007 17:27
(segue)

19



Come molte altre persone, il tenente Dunbar aveva passato gran parte della sua vita
a far da spettatore, osservando anziché partecipare. Le volte in cui aveva partecipato,
lo aveva fatto agendo in maniera nettamente indipendente e molto simile al suo
comportamento durante la guerra.
Rimanere sempre da parte era frustrante.
Qualcosa, di questa sua inveterata abitudine di tutta una vita, cambiò quando sollevò
entusiasticamente in aria il fegato del bisonte, il simbolo dell'animale che aveva ucciso,
e udì le grida di incitamento dei suoi compagni.
Allora, provò la soddisfazione di appartenere a qualcosa il cui tutto era più importante
di ogni sua singola parte. Fu una sensazione che lo colpì profondamente sin dall'inizio.
E nei giorni che passò sulla pianura di caccia e nelle notti che trascorse nell'accampamento
provvisorio, la sensazione si rinsaldò.
L'esercito aveva incessantemente esaltato le virtù della dedizione, del sacrificio individuale
nel nome di Dio o della patria o di entrambi. Il tenente aveva fatto del proprio meglio per
accettare questo credo, ma il senso della dedizione all'esercito era rimasto perlopiù
confinato nella sua mente. Non era penetrato nel suo animo. Non era mai andato al di là
della fievole, vuota retorica del patriottismo.
I comanci erano differenti.
Erano un popolo primitivo. Vivevano in un mondo vasto, solitario ed estraneo che la sua
stessa gente liquidava come niente di più di centinaia di inutili miglia da attraversare.
Ma gli aspetti della loro vita erano diventati sempre più importanti per lui. Erano un popolo
che viveva e prosperava tramite la dedizione. Era in questo modo che controllavano il
fragile destino delle loro vite. Prestare aiuto, lealmente e senza lagnarsi, era una semplice,
bellissima essenza del modo in cui vivevano e il tenente Dunbar trovava in questo una pace
che era di suo gradimento.
Non si illudeva. Non pensava di diventare un indiano. Ma sapeva che fintanto che fosse
rimasto con loro, avrebbe agito con lo stesso spirito.
Fu una rivelazione che lo rese un uomo più felice.


Scuoiare e macellare le bestie fu un'impresa di proporzioni colossali.
Vi erano forse settanta bisonti abbattuti, sparsi come delle gocce di cioccolato su una vasta
area di terreno, e accanto a ogni corpo le famiglie impiantarono delle fabbriche portatili che
lavoravano a una velocità sorprendente, trasformando gli animali in prodotti utilizzabili.
Il tenente non riusciva a credere a tutto il sangue che vedeva. Colava impregnando il terreno
di caccia come della salsa versata su una tovaglia. Copriva le braccia, le facce e gli indumenti
di chi lavorava. Gocciolava dai pony e dalle slitte al traino che trasportavano la carne verso
l'accampamento.
Presero tutto: pelli, carne, interiora, zoccoli, code, teste. Nello spazio di poche ore era tutto
finito, lasciando la prateria con l'aspetto di una gigantesca tavola da banchetto appena
sparecchiata.
Mentre gli animali venivano macellati, il tenente Dunbar indugiò nei dintorni con gli altri
guerrieri. Erano tutti di ottimo umore. Solo due uomini avevano riportato delle ferite, nessuno
dei due in modo grave. Un pony veterano della caccia al bisonte si era spezzato una zampa,
ma era una piccola perdita in confronto all'abbondanza che i cacciatori avevano procurato.
Erano allegri e soddisfatti e questo stato d'animo traspariva chiaramente dai loro volti mentre
chiacchieravano amichevolmente fra loro, fumando e mangiando e scambiandosi delle
storielle. Dunbar non capiva le parole ma le storielle erano abbastanza facili da afferrare.
Erano racconti di avventure scampate per un pelo e di archi che si erano spezzati e di quelli
che si erano dati alla fuga.
Quando il tenente fu invitato a raccontare la sua storia, mimò con i gesti la sua avventura con
una teatralità che fece sbellicare i guerrieri dalle risate. Diventò il personaggio più ricercato
del giorno e fu obbligato a ripetere la scena una mezza dozzina di volte. Ogni volta, il risultato
era lo stesso. Non appena arrivava a metà della storia i suoi ascoltatori si congratulavano,
cercando a fatica di trattenersi dallo scoppiare in matte risate.
Al tenente Dunbar non dispiaceva. Anche lui rideva. E non gli dispiaceva la parte giocata
dalla fortuna nella sua impresa, perché sapeva che era autentica. E sapeva che tramite questa
aveva realizzato qualcosa di meraviglioso.
Era diventato << uno di loro >>.


La prima cosa che vide quando ritornarono all'accampamento, quella sera, fu il suo berretto.
Era piazzato sulla testa di un uomo di mezza età che non conosceva.
Vi fu un breve momento di tensione quando il tenente si diresse a grandi passi verso di lui,
indicò con un dito il berretto, che all'uomo in questione fra l'altro non calzava bene, e disse
in tono pratico: <<Quello è mio >>.
Il guerriero lo guardò con curiosità e si tolse il berretto. Lo rigirò fra le mani e se lo piazzò
nuovamente in testa. Poi sfilò il coltello dalla cintura, lo porse al tenente e proseguì per la
sua strada senza proferire parola.
Dunbar guardò il suo berretto scomparire dalla vista e abbassò gli occhi sul coltello che
aveva in mano. Il fodero ornato di perline aveva l'aspetto di un tesoro. Si incamminò per
rintracciare Uccello Saltellante, convinto che il baratto fosse stato esageratamente a suo
favore.
Si muoveva liberamente per l'accampamento e dovunque andasse, si trovava a essere
oggetto di allegri segni di saluto.
Gli uomini facevano dei cenni con il capo in segno di riconoscimento, le donne gli sorridevano
e frotte di bambini schiamazzanti e ridenti trotterellavano dietro di lui. La tribù era in grande
eccitazione per la prospettiva della grande festa che stava per avere luogo e la presenza
del tenente era un motivo in più per essere lieti. Senza una proclamazione formale o un
consenso generale erano giunti a considerarlo come un talismano portafortuna vivente.
Uccello Saltellante lo portò subito alla tenda di Dieci Orsi, dove si stava tenendo una piccola
cerimonia di ringraziamento. Il vecchio era ancora notevolmente in forma ed era la gobba
del bisonte che aveva ucciso quella che stavano arrostendo per prima. Quando fu pronta,
Dieci Orsi stesso ne tagliò via un pezzo. Rivolse qualche parola al Grande Spirito e onorò
il tenente porgendogli il primo pezzo.
Dunbar fece il suo breve inchino, diede un morso e galantemente restituì il pezzo di carne
a Dieci Orsi, un gesto che impressionò notevolmente il vecchio. Accese la sua pipa e onorò
nuovamente il tenente offrendogli la prima boccata di fumo.
La pipa fumata davanti alla tenda di Dieci Orsi segnò l'inizio di una folle notte. Tutti avevano
un fuoco acceso e sopra ogni fuoco arrostiva della carne fresca: gobbe, costolette e tutta
una serie di altri tagli di carne scelta.


(continua)
auroraageno
00giovedì 1 novembre 2007 17:30
(segue)

Illuminato come una piccola città, il villaggio provvisorio baluginò a lungo nella notte,
con il fumo dei suoi fuochi che saliva verso il cielo buio portando con sé un aroma
che poteva essere sentito per delle miglia.
La gente mangiò come se non ci fosse un domani. Quando erano completamente
sazi facevano delle brevi pause, riunendosi in piccoli gruppi per chiacchierare o per
divertirsi con dei giochi d'azzardo. Ma non appena lo stomaco si era un po' alleggerito
dell'ultimo pasto, tornavano di nuovo ai fuochi a ingozzarsi.
Molto prima che fosse notte inoltrata il tenente Dunbar si sentiva già come se avesse
mangiato un bisonte intero. Aveva fatto il giro dell'accampamento con Vento-nei-capelli
e a ogni fuoco i due venivano trattati in modo regale.
Erano diretti verso un altro gruppo di festeggiatori, quando il tenente si fermò al buio dietro
una tenda e disse a gesti a Vento-nei-capelli che lo stomaco gli doleva e che voleva
andare a dormire.
Ma in quel momento Vento-nei-capelli lo ascoltava distrattamente. La sua attenzione era
attirata dalla giubba del tenente. Dunbar abbassò lo sguardo sul petto e sulla fila di
bottoni di bronzo, poi guardò nuovamente il suo compagno di caccia. Gli occhi del
guerriero erano lievemente appannati mentre sporgeva un dito e lo appoggiava su uno
dei bottoni.
<< Vuoi questa? >> chiese il tenente, e al suono della sua voce gli occhi di Vento-nei-
capelli tornarono normali.
Il guerriero non disse nulla. Si guardò il polpastrello per vedere se dai bottoni fosse venuto
via qualcosa.
<< Se la vuoi >>, disse il tenente, << puoi prenderla. >>
Slacciò i bottoni, si tolse la giubba e la porse al guerriero.
Vento-nei-capelli capì che gliela stava offrendo, ma non la prese subito. Cominciò invece
a slacciare il magnifico pettorale fatto di sottili ossa che portava legato attorno al collo
e alla vita. Con una mano lo tese a Dunbar e con l'altra prese la giubba.
Il tenente lo aiutò ad allacciare i bottoni della giubba e quando l'ebbe indosso, vide che
Vento-nei-capelli era felice come un bambino la mattina del giorno di Natale.
Dunbar fece il gesto di restituirgli lo splendido pettorale, ma incontrò un rifiuto. Vento-nei-
capelli scosse violentemente la testa e agitò le mani. Con i gesti, disse all'uomo bianco di
indossarlo.
<< Non posso prenderlo >>, balbettò il tenente. << Questo non è... non è uno scambio equo...
Mi capisci? >>
Ma Vento-nei-capelli non ne voleva sapere. Per lui, lo scambio era più che giusto. I pettorali
di ossa avevano un grande potere e farli richiedeva del tempo. Ma la giubba era una cosa
assolutamente unica.
Fece voltare Dunbar di schiena, gli sistemò il pettorale e allacciò saldamente i legacci.
Così venne fatto lo scambio e ciascuno dei due uomini fu contento. Vento-nei-capelli
grugnì un saluto e si avviò verso il fuoco più vicino. Il nuovo acquisto gli stava stretto e gli
pizzicava la pelle. Ma questo era di scarsa importanza. Era sicuro che la giubba si sarebbe
rivelata un'ottima aggiunta alla sua riserva di amuleti. Con il tempo avrebbe potuto dimostrare
di possedere dei forti poteri magici, soprattutto i bottoni di bronzo e le insegne dorate sulle
spalle.

Ansioso di evitare il cibo che sapeva gli sarebbe stato appioppato se fosse passato attraverso
l'accampamento, il tenente Dunbar uscì di soppiatto dall'accampamento e lo aggirò per intero
camminando ai margini della prateria, sperando di riuscire a individuare la tenda di Uccello
Saltellante e di andarsene subito a dormire.
Al secondo giro che compì intravide la tenda contraddistinta dalla figura di un orso e sapendo
che il tepee di Uccello Saltellante era piazzato nelle vicinanze, rientrò all'interno dell'accampamento.
Non aveva fatto molta strada quando un suono lo fece esitare. Si fermò dietro una tenda non meglio
identificata. Un fuoco spandeva della luce intorno al terreno proprio di fronte a lui ed era da
quel fuoco che giungeva il suono. Era un canto, alto e ripetitivo e le voci erano chiaramente
femminili.
Rimanendo accostato alle pareti della tenda il tenente Dunbar sbirciò davanti a lui alla maniera
di un guardone.
Una dozzina di giovani donne, lasciati da parte per il momento i doveri domestici, danzavano
e cantavano in un cerchio irregolare vicino al fuoco. Da quanto poteva giudicare, non si trattava
di alcunché di rituale. Il canto era sottolineato da leggere risate e lui concluse che la danza
era improvvisata, intesa esclusivamente come divertimento.
Lo sguardo gli cadde per caso sul pettorale. Adesso era illuminato dal riverbero arancione
del fuoco e non riuscì a trattenersi dal passare una mano sulla doppia fila di ossa tubolari
che ora gli ricopriva interamente il petto e lo stomaco. Che cosa straordinaria era vedere
una tale bellezza e una tale forza riunite nello stesso luogo e allo stesso tempo. Lo faceva
sentire speciale.
Lo terrò per sempre, pensò con aria sognante.
Quando sollevò nuovamente lo sguardo, alcune delle giovani danzatrici si erano staccate
dal cerchio per formare un piccolo crocchio di donne sorridenti e che mormoravano fra di
loro, il cui oggetto di conversazione del momento era evidentemente l'uomo bianco con
indosso il pettorale di ossa. Lo guardavano in modo diretto e, anche se lui non lo notò, vi
era una punta di malizia nei loro occhi.
Poiché il tenente da molte settimane rappresentava un perenne argomento di conversazione,
le donne lo conoscevano molto bene: come un possibile dio, come un tipo buffo che faceva
ridere, come un eroe e come uno che era causa di mistero. A sua insaputa, il tenente aveva
assunto una posizione rara nella cultura comanci, che forse veniva maggiormente apprezzata
dalle donne.
Era una celebrità.
E ora, agli occhi delle donne la sua celebrità e il suo aspetto decisamente attraente venivano
intensificati dall'aggiunta del fantastico pettorale di ossa.
Dunbar accennò un inchino e, con fare un po' impacciato, uscì da dietro la tenda alla luce del
fuoco, con l'intenzione di passare oltre senza interrompere ulteriormente il loro divertimento.
Ma mentre stava passando, una delle donne allungò un braccio e gli prese delicatamente
una mano fra le sue. Al contatto, Dunbar si fermò di botto. Guardò le donne che ora stavano
ridacchiando nervosamente, e si chiese se per caso non stessero per giocargli qualche scherzo.
Due o tre di loro cominciarono a cantare e, mentre la danza riprendeva, alcune donne lo
tirarono per le braccia. Lo stavano invitando a unirsi a loro.
Non c'era molta gente nelle vicinanze. Non avrebbe avuto degli spettatori curiosi dietro alle
spalle.
E inoltre, si disse, un po' di moto lo avrebbe aiutato a digerire.
La danza era lenta e semplice. Alzare un piede, tenerlo sospeso, rimetterlo giù. Alzare l'altro
piede, tenerlo sospeso, rimetterlo giù. Si unì al cerchio e provò i passi. Li afferrò rapidamente
e in men che non si dica era perfettamente sincronizzato con le donne che danzavano con
lui, ricambiando cordialmente i loro sorrisi e divertendosi moltissimo.
Non aveva mai avuto difficoltà con il ballo. Era uno dei suoi sfoghi preferiti. A mano a mano
che la musica delle voci femminili lo trasportava, sollevò i piedi ancora più in alto, alzandoli
e lasciandoli ricadere con un nuovo stile inventato lì per lì. Cominciò a far volteggiare le braccia
come delle ruote lasciandosi trascinare sempre più dal ritmo. Alla fine, quando stava andando
veramente bene, il tenente chiuse gli occhi, perdendosi nell'estasi dei movimenti.
Questo gli impedì di accorgersi che il cerchio aveva cominciato a restringersi. Fu soltranto
quando urtò le natiche di una donna davanti a lui che il tenente si rese conto di come si
trovassero a distanza ravvicinata. Gettò un'occhiata preoccupata alle donne nel cerchio, ma
queste lo rassicurarono con dei larghi sorrisi. Dunbar continuò a danzare.
Adesso sentiva dei seni, inconfondibilmente morbidi, toccargli ogni tanto la schiena. Il suo
stomaco incontrava regolarmente il sedere della donna davanti a lui. Quando cercava di
tirarsi indietro i seni lo sospingevano nuovamente.
Niente di tutto questo era provocante, quanto era sorprendente. Non sentiva il tocco di un
corpo femminile da così tanto tempo che sembrava qualcosa di assolutamente nuovo,
troppo nuovo per sapere che cosa fare.
Non vi era nulla di manifesto sui volti delle donne a mano a mano che il cerchio si faceva
più stretto. Continuavano a sorridere allo stesso modo. E allo stesso modo continuava la
pressione delle natiche e dei seni.
Dunbar adesso non sollevava più i piedi. Lui e le donne erano talmente pigiati che non poteva
fare altro che saltellare a piedi uniti.
Il cerchio si ruppe e le donne si buttarono su di lui. Le loro mani lo toccarono gioiosamente,
giocavano con la sua schiena, il suo stomaco e le sue natiche. Tutt'a un tratto, stavano
sfiorando il suo punto più privato, sul davanti dei pantaloni.
Ancora un secondo e il tenente se la sarebbe data a gambe, ma prima che potesse fare
una mossa, le donne si erano dileguate.
Le vide scappare nell'oscurità come delle scolarette colte in fallo. Allora si girò a guardare
che cosa le avesse spaventate.
Era ritto in piedi, da solo, al margine del fuoco, splendente e minaccioso con una testa di gufo
come copricapo. Uccello Saltellante gli grugnì qualcosa, ma il tenente non avrebbe saputo dire
se fosse contrariato o no.
Lo stregone voltò le spalle al fuoco e, come un cucciolo che non credeva di fare niente di male
ma pensa che verrà comunque punito, il tenente Dunbar lo seguì.


(continua)
auroraageno
00giovedì 1 novembre 2007 17:32
(segue)

Per come andarono le cose, il suo incontro con le donne che danzavano non ebbe
alcuna ripercussione. Ma, con suo sgomento, Dunbar trovò il fuoco davanti alla
tenda di Uccello Saltellante attorniato di gente che stava ancora festeggiando.
Insistettero perché assaggiasse per primo le costolette arrostite appena tolte dal
fuoco.
Così il tenente rimase seduto con loro per un po', crogiolandosi nel buonumore della
gente attorno a lui mentre rimpinzava con dell'altra carne il suo stomaco già gonfio.
Un'ora dopo riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti e, quando incontrò lo
sguardo di Uccello Saltellante, lo stregone si alzò da dove si trovava. Portò il soldato
bianco dentro la tenda e lo condusse a un giaciglio che era stato appositamente
preparato per lui contro una parete.
Il tenente Dunbar si lasciò cadere sulle pelli e cominciò a sfilarsi gli stivali. Era così
assonnato che non pensò di dire buonanotte e riuscì soltanto a intravedere la schiena
dello stregone mentre questo stava già uscendo dalla tenda.
Dunbar lasciò cadere con noncuranza gli stivali sul terreno e si sistemò sul giaciglio.
Si coprì gli occhi con un braccio e fluttuò verso il sonno. Nei momenti indistinti che
precedono lo stato d'incoscienza, la sua mente cominciò a riempirsi di un flusso
continuo di immagini piacevoli, sfocate e vagamente sessuali. Delle donne si muovevano
intorno a lui. Non riusciva a distinguere i volti, ma sentiva il mormorio delle loro morbide
voci. Vedeva le loro figure passare vicino a lui e turbinare come le pieghe di un vestito
che danzava nel vento.
Poteva sentire che lo toccavano leggermente e mentre si lasciava trasportare, sentì la
pressione della carne nuda sulla sua pelle.

Udì qualcuno ridergli sommessamente nell'orecchio, ma non riusciva ad aprire gli occhi.
Erano troppo pesanti. Ma le risatine continuavano e a un certo punto il suo naso percepì
un odore. La pelle di bisonte. Adesso riusciva a sentire che il riso sommesso non era
nel suo orecchio. Ma era lì vicino. Era nella tenda.
Con uno sforzo aprì gli occhi e girò la testa nella direzione del suono. Non riusciva a vedere
nulla e si sollevò leggermente. La tenda era silenziosa, le sagome indistinte dei famigliari
di Uccello Saltellante erano immobili. Sembrava che tutti stessero dormendo.
Poi, udì nuovamente ridere. Il tono era acuto e dolce, sicuramente la risata di una donna,
e veniva da un punto della parte opposta del pavimento. Il tenente si sollevò ancora un poco,
abbastanza da riuscire a vedere oltre il fuoco quasi spento al centro della stanza.
La donna rise nuovamente e la voce di un uomo, bassa e mite, arrivò fino a lui. Poteva
vedere lo strano fagotto che pendeva sempre al disopra del giaciglio di Uccello Saltellante.
I suoni provenivano da lì.
Dunbar non riusciva a capire che cosa stesse succedendo e, strofinandosi velocemente gli
occhi, si tirò ancora più su.
Adesso distingueva le sagome di due persone, le teste e le spalle sporgevano dal giaciglio
e i loro vivaci movimenti sembravano fuori posto a quell'ora così tarda. Il tenente restrinse
gli occhi, cercando di penetrare l'oscurità.
I loro corpi cambiarono all'improvviso posizione. Uno salì sopra all'altro, formandone uno
solo. Vi fu un momento di silenzio assoluto prima che un gemito lungo e sommesso, come
se qualcuno avesse espirato, gli riempisse le orecchie, e Dunbar capì che stavano facendo
l'amore.
Sentendosi ridicolo, si lasciò ricadere velocemente sul giaciglio, sperando che nessuno dei
due avesse visto la sua faccia guardarli con aria stupita dall'altra parte del pavimento.
Ora più sveglio che addormentato, rimase sdraiato sulla pelle di bisonte, ascoltando i suoni
regolari e insistenti che provenivano da loro. I suoi occhi si erano abituati al buio e riuscì a
distinguere la forma della persona addormentata più vicina a lui.
La coperta che si alzava e si abbassava con movimenti regolari gli diceva che si trattava di
un sonno profondo. Giaceva sdraiata su un fianco, con la schiena girata verso di lui. Ma
Dunbar riconobbe la forma della testa e i capelli arruffati color ciliegia.
Mano Alzata dormiva da sola e lui cominciò a pensare a lei. Poteva anche avere il sangue
di una bianca nelle vene, ma per tutto il resto apparteneva a quella gente. Parlava il loro
linguaggio come se fosse la sua lingua madre. L'inglese le era estraneo. Non si comportava
come se fosse sottoposta a qualche coercizione. Non vi era nulla in lei che facesse pensare
a una prigioniera. Sembrava essere in tutto e per tutto uguale a qualsiasi altro appartenente
alla tribù. Dedusse, correttamente, che fosse stata presa quando era ancora giovanissima.
Mentre cercava di riaddormentarsi, i fili degli interrogativi sulla donna che era due persone
gradualmente assunsero una trama ben definita, fino a che non ne rimase uno soltanto.
Chissà se questa vita la rende felice, si chiese.
La domanda rimase sospesa nella sua mente, mescolandosi pigramente con i suoni di
Uccello Saltellante e della moglie che facevano l'amore.
Poi, senza alcuno sforzo, la domanda cominciò a vorticare, dapprima lentamente per acquistare
poi velocità a ogni giro che compiva. Girò sempre più velocemente fino a che, alla fine, non
riuscì più a vederla, e il tenente Dunbar si addormentò nuovamente.




(continua)
auroraageno
00lunedì 5 novembre 2007 20:44
(segue)


20




Passarono meno di tre mesi interi all'accampamento temporaneo, e tre giorni sono
un tempo breve per subire dei cambiamenti su vasta scala.
Ma è ciò che accadde.
Il corso della vita del tenente Dunbar mutò.
Non avvenne a causa di un unico, altisonante evento. Non ebbe delle visioni mistiche.
Dio non gli apparve. Non lo nominarono guerriero comanci.
Non vi fu un momento preciso, nessuna traccia di evidenza alla quale qualcuno
potesse fare riferimento per dire che era successo qui oppure là, in questo o in quel
momento.
Fu come se qualche bellissimo, misterioso virus del risveglio, rimasto a lungo in
incubazione, prendesse finalmente il sopravvento nella sua vita.
Il mattino dopo la caccia si svegliò con la mente perfettamente lucida. Non si sentiva
intorpidito dal sonno e il tenente pensò a quanto tempo era passato da quando gli
era successo di svegliarsi così. Non gli capitava da quando era ragazzo.
Si sentiva i piedi umidicci, così raccolse i suoi stivali e passò cautamente accanto
alle persone addormentate nella tenda, sperando di trovare un posto all'esterno dove
poterseli sciacquare. Lo trovò non appena si trovò fuori del tepee. La prateria ricoperta
di erba era bagnata di rugiada per miglia e miglia.
Lasciò gli stivali vicino alla tenda e si incamminò verso Est, sapendo che il branco dei
pony era là fuori da qualche parte. Voleva dare un'occhiata a Cisco.
Le prime strisce di rosa dell'alba che sorgeva avevano cominciato ad apparire e il
tenente camminò nell'erba osservando stupito quei colori, dimentico della rugiada
che gli stava già inzuppando il fondo dei calzoni.
Ogni giorno inizia con un miracolo, pensò d'improvviso.
Le strisce stavano diventando più grandi, cambiando colore a ogni secondo che
passava.
Qualunque cosa Dio possa essere, ringrazio Dio per questo giorno.
Le parole gli piacquero talmente che le disse a voce alta.
<< Qualunque cosa Dio possa essere, ringrazio Dio per questo giorno. >>
In lontananza apparvero le prime teste dei cavalli, le orecchie ritte che si profilavano
sullo sfondo della luce dell'alba. Riusciva a scorgere anche la testa di un indiano.
Probabilmente era quel ragazzo che sorrideva sempre.
Individuò Cisco senza difficoltà. Il piccolo cavallo nitrì, sentendolo arrivare, e il cuore
del tenente si allargò un poco. Cisco appoggiò il soffice muso contro il petto del
tenente e i due restarono così per qualche momento, lasciando che la frescura del
mattino incombesse su di loro. Dolcemente, il tenente sollevò con le mani la mascella
di Cisco e gli alitò sulle narici.
Mossi dalla curiosità, gli altri cavalli cominciarono ad accalcarsi attorno a loro e, prima
che potessero diventare fastidiosi, il tenente Dunbar infilò una briglia sulla testa di Cisco
e si avviò con lui verso l'accampamento.
Il cammino di ritorno offriva uno spettacolo altrettanto impressionante di quello dell'andata.
Il villaggio provvisorio era perfettamente sintonizzato sull'orologio della natura e, come
il giorno, stava lentamente nascendo.
Erano già stati accesi alcuni fuochi e nel breve tempo in cui era stato assente sembrava
quasi che tutti si fossero alzati. A mano a mano che la luce aumentava d'intensità, come
se venisse gradualmente accesa una lampada, anche le figure che si muovevano
nell'accampamento acquistavano luminosità.
<< Quale armonia >> disse piano il tenente, camminando con un braccio appoggiato di
traverso sui garresi di Cisco.
Poi si immerse in una profonda e complessa linea di pensiero astratto sulle virtù
dell'armonia che non lo abbandonò fin dopo che ebbe fatto colazione.



(continua)

auroraageno
00martedì 6 novembre 2007 09:55
(segue)


Quella mattina uscirono nuovamente, e Dunbar uccise un altro bisonte. Questa volta
tenne saldamente Cisco sotto controllo durante la carica e invece di piombare in
mezzo alla mandria, controllò ai lati di questa per individuare un probabile animale
e puntò su di lui. Sebbene mirasse con molta cura, il primo colpo fu alto e dovette
spararne un secondo per finire il lavoro.
La femmina di bisonte che aveva abbattuto era grossa e venne complimentato per
la buona scelta da un gruppo di guerrieri che lo avevano raggiunto per vedere la sua
preda. Non vi fu lo stesso senso di eccitazione che aveva contraddistinto il primo
giorno di caccia. Quel giorno non mangiò del fegato fresco ma, sotto ogni aspetto,
si sentì più esperto.
Ancora una volta, le donne e i bambini si riversarono nella pianura per macellare le
bestie e nel tardo pomeriggio l'accampamento temporaneo traboccava di carne.
Come dei grossi funghi dopo un'acquazzone, per tutto l'accampamento spuntarono
innumerevoli cavalletti costruiti con rami d'albero, piegati sotto il peso della carne
appesa ad essiccare, e vi furono altri festeggiamenti a base di ghiottonerie arrostite
sul fuoco.
Poco dopo il loro rientro all'accampamento, i guerrieri più giovani e un gruppo di ragazzi
non ancora pronti per scendere sul sentiero di guerra organizzarono una gara di corsa
con i cavalli. Faccia Sorridente ci teneva molto a gareggiare con Cisco. Avanzò la sua
richiesta con una tale deferenza che il tenente non poté rifiutare ed erano già state
corse parecchie gare prima che si rendesse conto, con orrore, che ai vincitori venivano
dati in premio i cavalli dei perdenti. Tenendo le dita incrociate, riuscì a scovare Faccia
Sorridente. Fortunatamente per il tenente, il ragazzo aveva vinto tutt'e tre le sue corse.
Più tardi ci furono i giochi d'azzardo e Vento-nei-capelli invitò il tenente a unirsi a uno di
questi. A parte il fatto che veniva giocato con dei dadi, il gioco non li era familiare e
impararne i segreti gli costò l'intera provvista di tabacco. Alcuni dei giocatori erano
interessati ai calzoni con le strisce gialle ai lati, ma avendo già barattato il berretto e la
giubba il tenente pensò di dover almeno mantenere qualche parvenza di essere in
uniforme.
Inoltre, a giudicare da come stavano andando le cose, avrebbe perso i pantaloni e non
avrebbe avuto niente da mettersi addosso.
Erano molto interessati anche al pettorale di ossa, ma anche quello era fuori questione.
Dunbar offrì loro il vecchio paio di stivali che portava, ma per gli indiani non avevano
alcun pregio. Alla fine, il tenente mostrò loro il suo fucile, e i giocatori lo accettarono
all'unanimità.
Scommettere il fucile aveva creato una grossa agitazione e il gioco divenne subito una
faccenda seria: la posta era decisamente alta e questo richiamò numerosi osservatori.
Adesso, il tenente sapeva che cosa stava facendo e a mano a mano che il gioco andava
avanti, i dadi lo presero in simpatia. Infilò una sequenza di tiri fortunati e al termine della
sua volata non solo continuava a conservare il fucile, ma adesso era il nuovo padrone di
tre ottimi pony.
I perdenti gli consegnarono i loro tesori con tale garbo e buonumore che Dunbar si sentì
indotto a a rispondere nello stesso modo. Fece immediatamente dono delle sue vincite.
Diede a Vento-nei-capelli il più alto e più robusto dei tre pony. Poi, con un codazzo di
curiosi dietro di lui, condusse gli altri due pony attraverso l'accampamento e, arrivato
alla tenda di Uccello Saltellante, porse le redini allo stregone.
Uccello Saltellante era compiaciuto ma sconcertato. Quando qualcuno gli spiegò da dove
erano venuti i cavalli, si guardò intorno, intravide Mano Alzata e la chiamò, facendole
cenno che voleva che parlasse per lui.
Lei si avvicinò. Era una vista raccapricciante, con il volto, le braccia e il grembiule cosparsi
del sangue dei bisonti uccisi.
Dapprima, addusse a pretesto l'ignoranza, scuotendo la testa in segno di diniego, ma
Uccello Saltellante insistette e la piccola adunanza davanti alla tenda si fece silenziosa,
in attesa di vedere se sarebbe stata in grado di dire nella lingua dell'uomo bianco ciò
che Uccello Saltellante aveva chiesto.
Mano Alzata abbassò lo sguardo sui propri piedi e mosse alcune volte le labbra.
<< Ghe-zia >>, disse.
<< Come? >> rispose lui, sforzandosi di sorridere.
<< Ga-zi. >>
Puntò un dito contro il braccio del tenente e con l'altra mano fece un ampio gesto in
direzione dei pony.
<< Ca-val-lo. >>
<< Grazie? >> indovinò il tenente. << A me? >>
Mano alzata fece cenno di sì con la testa.
<< Sì >>, disse chiaramente.
Il tenente Dunbar allungò la mano per stringere quella di Uccello Saltellante ma lei lo
fermò. Non aveva finito. Tenendo un dito della mano sollevato, si piazzò fra i due pony.
<< Ca-val-lo >>, disse, indicando il tenente con l'altra mano. Ripeté la parola e quindi
indicò Uccello Saltellante.
<< Uno per me? >> chiese il tenente, usando gli stessi gesti della mano, << e uno per
lui? >>
Mano Alzata emise un sospiro di contentezza e, rendendosi conto che lui capiva, sorrise
debolmente.
<< Sì >>, disse, e senza pensare un'altra vecchia parola, pronunciata perfettamente,
le uscì dalle labbra. << Esatto. >>
Quella parola, austera e appropriata, suonò così strana che il tenente Dunbar scoppiò
in una sonora risata. Come una scolara che abbia detto qualcosa di sciocco, Mano
Alzata si coprì la bocca con la mano.
Stavano scherzando fra loro. Lei sapeva che la parola le era sfuggita di bocca come
un involontario singhiozzo e anche il tenente lo sapeva. Per azione riflessa, guardarono
entrambi Uccello Saltellante e gli altri. I volti degli indiani erano però privi di espressione
e quando gli occhi dell'ufficiale di cavalleria e della donna che era due persone tornarono
nuovamente a incontrarsi, esprimevano il riso per qualcosa di intimo che soltanto loro
potevano condividere. Non vi era modo di spiegarlo adeguatamente agli altri. Non era
abbastanza buffo perché si dessero la pena di farlo.
Il tenente Dunbar non tenne l'altro pony. Lo condusse invece alla tenda di Dieci Orsi e,
senza saperlo, con questo gesto elevò ulteriormente il suo rango. La tradizione comanci
richiedeva che i ricchi distribuissero la loro ricchezza fra coloro che erano meno fortunati.
Ma Dunbar invertiva quel principio e il vecchio pensò che quell'uomo bianco era
veramente straordinario.
Quella notte, mentre sedeva attorno al fuoco di Uccello Saltellante e ascoltava una
conversazione che non capiva, vide per caso Mano Alzata. Era accovacciata non molto
distante da loro e lo guardava. Teneva la testa inclinata e i suoi occhi sembravano pieni
di curiosità. Prima che lei potesse distogliere lo sguardo, Dunbar fece un breve cenno
del capo in direzione del guerriero e del suo monologo, atteggiò la faccia a un'espressione
seria e appoggiò una mano a lato della bocca.
<< Esatto >>, sussurrò a voce alta.
Lei volse rapidamente lo sguardo dall'altra parte. ma mentre lo faceva, il tenente udì
distintamente il suono di una risatina.




(continua)
auroraageno
00martedì 6 novembre 2007 18:05
(segue)


Rimanere per dell'altro tempo sarebbe stato inutile. Avevano tutta la carne che erano
in grado di trasportare. Subito dopo l'alba, l'accampamento provvisorio era stato
completamente smontato e tutto era stato caricato. A metà mattino, la colonna era
in marcia. Con il peso del carico, il viaggio di ritorno richiese il doppio del tempo
e quando raggiunsero Fort Sedgewick stava già facendo buio.
Una portantina carica di parecchie centinaia di chili di strisce di carne essiccate al
sole venne portata all'interno e scaricata nel deposito dei rifornimenti. Seguì un
fermento di saluti. Dalla soglia della sua baracca di terriccio, il tenente Dunbar rimase
a osservare la carovana mentre questa riprendeva la sua marcia diretta all'accampamento
permanente a monte del fiume.
Senza premeditazione, i suoi occhi scrutarono nella semioscurità che circondava la
lunga e rumorosa colonna cercando di scorgere Mano Alzata.
Non riuscì a vederla.

Trovarsi di nuovo al forte gli suscitava dei sentimenti contrastanti.
Riconosceva il forte come la sua casa e questo era rassicurante. Era bello sfilarsi gli
stivali, sdraiarsi sul giaciglio e stiracchiarsi inosservato. Con gli occhi semichiusi
osservò lo stoppino che tremolava nella lampada e si lasciò pigramente trasportare
dalla quiete che circondava la baracca. Ogni cosa era al suo posto, e anche lui lo era.
Non erano passati molti minuti, però, quando si accorse che il suo piede destro si
stava agitando di qua e di là con un'energia immotivata.
Che cosa stai facendo? si chiese, e immobilizzò il piede. Non sei nervoso.
Non passò un minuto e si ritrovò con le dita della mano destra che tamburellavano
impazienti sul petto.
Non era nervoso. Era annoiato. Annoiato e solo.
In passato avrebbe allungato la mano per prendere la borsa del tabacco, avrebbe
arrotolato una sigaretta e si sarebbe tenuto occupato fumandola. Ma non c'era più
tabacco.
Potrei andare a dare un'occhiata al fiume, pensò, e con questo si infilò nuovamente
gli stivali e uscì all'aperto.
Si fermò, pensando al pettorale che per lui era così prezioso. Era appoggiato sopra
la sella regolamentare dell'esrcito che aveva portato dal deposito dei rifornimenti.
Tornò dentro, con l'intenzione di guardarlo soltanto.
Persino alla debole luce della lampada, risplendeva vivacemente. Il tenente Dunbar
vi fece scorrere sopra la mano. Il pettorale sembrava di vetro. Lo raccolse e,
sfiorandosi fra loro, le ossa che lo componevano fecero udire un secco tintinnio. Gli
piaceva il loro freddo, duro contatto sul petto nudo.
L' << occhiata al fiume >> si trasformò in una lunga camminata. Era di nuovo quasi
plenilunio e non aveva bisogno della lanterna mentre camminava con passo leggero
lungo il promontorio che dava sul fiume.
Fece le cose con calma e sostò spesse volte a guardare il fiume, oppure un ramo che
si piegava nella brezza notturna, o un coniglio che rosicchiava un arbusto. Ogni cosa
era indifferente alla sua presenza.
Si sentiva invisibile. Era una sensazione che gli piaceva.
Dopo circa un'ora cambiò direzione e si incamminò verso la baracca. Se qualcuno
fosse stato lì a guardarlo mentre passava, avrebbe visto che nonostante la leggerezza
della sua andatura e l'attenzione concentrata su tutto fuorché se stesso, il tenente non
era per nulla invisibile.
Resistendo alla tentazione, si fermava a guardare verso la luna. Poi sollevava la testa,
si girava in modo che il suo corpo venisse a trovarsi nel pieno del suo magico chiarore,
e il pettorale brillava di una luce bianchissima, come una stella che stesse avvicinandosi
alla Terra.

Il giorno seguente accadde una cosa strana.
Dunbar passò il mattino e parte del pomeriggio cercando di fare qualche lavoro lì intorno:
smistare nuovamente ciò che era rimasto delle provviste, bruciare qualcosa che non serviva,
trovare un modo per conservare al sicuro la carne e fare qualche annotazione sul diario.
Fece tutto di malavoglia. Pensò di puntellare nuovamente il recinto ma concluse che non
sarebbe stato altro che inventarsi del lavoro per conto proprio. Aveva già fatto troppi
lavori da sé. Lo faceva sentire senza guida.
Quando il sole stava ormai calando, si trovò a desiderare di fare un'altra passeggiata
nella prateria. Era stata una giornata rovente. Lavorando, aveva sudato copiosamente
e il sudore era filtrato attraverso i pantaloni e gli provocava un fastidioso pizzicore alle
cosce. Non c'era alcun motivo perché questa sensazione sgradevole lo accompagnasse
nella sua passeggiata. Così, Dunbar si diresse verso la prateria senza nulla indosso,
sperando di poter magari incontrare Due Calzini.
Allontanandosi dal fiume, cominciò a camminare verso l'immensa distesa erbosa che
ondeggiava lievemente in ogni direzione, animata da una propria forza vitale.
L'erba aveva ormai raggiunto l'apice della crescita e in alcuni punti arrivava a sfiorargli
i fianchi. Sopra di lui, il cielo era pieno di bianche nuvole fioccose che spiccavano
contro l'azzurro puro come delle figure ritagliate.
Su una piccola altura a un miglio dal forte, Dunbar si sdraiò nell'erba. Con una protezione
frangivento su tutti i lati, restò ad assorbire l'ultimo calore del sole, fissando vagamente
le nuvole che lentamente si spostavano nel cielo.
Il tenente si girò sul ventre per esporre la schiena al sole e quando si mosse nell'erba,
fu inondato da una sensazione improvvisa, una sensazione che non conosceva da così
tanto tempo che, dapprima, non fu sicuro di ciò che stava provando.
Attorno a lui l'erba frusciava, mossa dalla brezza. Il sole si posava sulla sua schiena
come un manto di calore asciutto. La sensazione divenne sempre più intensa e Dunbar
vi si arrese.
La sua mano scivolò verso il basso e, in quel momento, il tenente smise di pensare.
Non vi era niente a guidare il suo atto: nessuna visione, o parole, o ricordi. Solo la
sensazione, e nient'altro.
Quando tornò di nuovo in sé, guardò il cielo e vide la terra girare allo stesso modo delle
nuvole. Si girò sulla schiena, allungò le braccia lungo i fianchi alla maniera di un cadavere
e galleggiò ancora un po' sul suo letto di erba e di terra.
Poi chiuse gli occhi e sonnecchiò per mezz'ora.



(continua)
auroraageno
00mercoledì 7 novembre 2007 15:31
(segue)

Quella notte si agitò e si rigirò sul suo giaciglio, con la mente che si spostava velocemente
da un soggetto all'altro come se stesse ispezionando una lunga sequela di stanze
per trovare un luogo per riposare.
Ogni stanza era chiusa oppure inospitale, finché alla fine arrivò dove, in fondo alla sua
mente, aveva sempre saputo di essere diretto.
La stanza era piena di indiani.
L'idea gli parve così giusta che pensò di mettersi in viaggio verso l'accampamento di
Dieci Orsi, all'istante. Ma gli sembrò troppo impulsivo.
Mi sveglierò presto, pensò. Forse, questa volta rimarrò un paio di giorni.
Si svegliò prima dell'alba. Non vedeva l'ora di partire, ma si costrinse a non alzarsi,
resistendo all'idea di correre a precipizio al villaggio. Voleva andarci senza delle
aspettative avventate e restò a letto fino a quando spuntò l'alba.
Quando ebbe indosso tutto tranne la camicia, la raccolse e infilò il braccio in una delle
maniche. Si fermò e guardò attraverso la finestra della baracca per controllare il tempo.
Nella stanza faceva già caldo e fuori, probabilmente, era ancora più caldo.
Sarà una giornata torrida, pensò, mentre liberava il braccio dalla manica della camicia.
Il pettorale adesso era appeso a un piolo e, mentre allungava la mano per prenderlo,
il tenente si rese conto che era quello che aveva voluto indossare dall'inizio,
indipendentemente dal tempo.
Infilò dunque la camicia in una bisaccia, per ogni evenienza.

Due Calzini stava aspettando all'esterno.
Quando vide il tenente Dunbar avvicinarsi alla porta, fece due rapidi passi indietro,
compì una specie di giravolta su se stesso, si spostò leggermente di lato e si accucciò,
ansimando come un cucciolo.
Dunbar piegò la testa di lato, con fare interrogativo.
<< Che cosa ti prende? >>
Alla voce del tenente, il lupo sollevò la testa. Aveva uno sguardo così penetrante che
Dunbar si mise a ridere fra sé.
<< Vuoi venire con me? >>
Due Calzini saltò su ritto sulle zampe e fissò il tenente senza muovere un muscolo.
<< Bene, allora andiamo. >>

Uccello Saltellante si svegliò pensando a << Jun >>, laggiù al forte dell'uomo bianco.
<< Jun. >> Che nome strano. Cercò di pensare a che cosa potesse significare. Giovane
Cavaliere, forse. O Cavaliere Veloce. Probabilmente aveva qualcosa a che fare con
l'andare a cavallo.
Era bello sapere che la prima caccia della stagione era stata portata a termine. Con
l'arrivo dei bisonti il problema del cibo era stato finalmente risolto e questo significava
che lui poteva ritornare al suo piccolo progetto con una certa regolarità. Lo avrebbe
ripreso quel giorno stesso.
Lo stregone andò alle tende di due dei suoi consiglieri più fidati e chiese loro se volevano
recarsi al forte con lui. Fu sorpreso di constatare quanto fossero desiderosi di andarci,
ma lo interpretò comunque come un buon segno. Nessuno aveva più paura. In effetti,
la gente sembrava a suo agio con il soldato bianco. Nei discorsi che aveva udito negli
ultimi giorni vi erano persino delle espressioni di amabilità nei suoi confronti.
Uccello Saltellante lasciò l'accampamento sentendosi molto bendisposto verso il giorno
che stava per cominciare.
Per quanto riguardava le prime fasi del suo piano, tutto era andato bene. Il terreno era
stato ormai preparato. Adesso, poteva passare alla vera questione: indagare sulla
razza bianca.



(continua)
auroraageno
00mercoledì 7 novembre 2007 19:33
(segue)

Il tenente Dunbar calcolò che doveva aver percorso circa quattro miglia. Aveva pensato
che, dopo le prime due, il lupo se ne sarebbe già andato. Al terzo miglio aveva cominciato
a meravigliarsi. Adesso, dopo quattro miglia, era decisamente perplesso.
Erano entrati in un basso avvallamento erboso incuneato fra due alture e il lupo era
sempre dietro di lui. Non lo aveva mai seguito fino a quella distanza.
Il tenente smontò agilmente da cavallo e restò a guardare Due Calzini: come era sua
abitudine, anche il lupo si era fermato. Mentre Cisco si metteva tranquillamente a
mangiare l'erba lì intorno, Dunbar si avviò in direzione di Due Calzini, pensando che,
vedendolo arrivare, il lupo sarebbe scappato. Ma la testa e le orecchie che sopravanzavano
l'erba non si mossero e quando il tenente si fermò, il lupo era a meno di un metro da lui.
Due Calzini inclinò leggermente la testa, in attesa, ma per il resto rimase immobile
quando Dunbar si acquattò davanti a lui.
<< Non credo che sarai il benvenuto, là dove sto andando >>, disse il tenente a voce
alta, come se stesse chiacchierando confidenzialmente con un suo simile.
Gettò una rapida occhiata in direzione del sole. << Farà parecchio caldo. Perché non
te ne torni a casa? >>
Il lupo ascoltava con attenzione, ma ancora non si muoveva.
<< Forza, Due Calzini >>, disse con tono irritato, << tornatene a casa. >>
Fece un gesto brusco con le mani per cacciarlo via e Due Calzini si scostò velocemente
di lato.
Dunbar fece di nuovo sciò per allontanarlo e il lupo spiccò un breve balzo, ma era
evidente che Due Calzini non aveva intenzione di tornarsene a casa.
<< D'accordo, allora >>, disse Dunbar con tono enfatico, << non tornare indietro. Però
resta. Restatene qui. >>
Sottolineò le parole puntando decisamente un dito in direzione del terreno e fece
dietrofront. Si era appena girato quando udì l'ululato. Non a gola spiegata, ma sommesso,
lamentoso e ben definito.
Un ululato.
Il tenente voltò di colpo la testa ed ecco Due Calzini con il muso rivolto verso l'alto, gli
occhi puntati sul tenente Dunbar, che gemeva come un bambino che mette il broncio.
A un osservatore imparziale sarebbe sembrata un'esibizione straordinaria, ma per il tenente,
che lo conosceva molto bene, si trattava semplicemente dell'ultima goccia.
<< Tornatene a casa! >> ruggì Dunbar, avventandosi verso di lui. Come un figlio che abbia
abusato della pazienza di suo padre, il lupo appiattì le orecchie e batté in ritirata,
filando via di corsa con la coda fra le zampe.
Allo stesso tempo, Dunbar si mise a correre nella direzione opposta, pensando di
saltare in groppa a Cisco, partire al galoppo e seminare Due Calzini.
Stava correndo in mezzo all'erba pensando al suo piano, quando apparve Due Calzini,
saltellando gioiosamente al suo fianco.
<< Tornatene a casa >>, ringhiò il tenente, e virò di colpo verso il suo inseguitore. Due
Calzini spiccò un balzo come un coniglio spaventato, annaspando con le zampe sul terreno
nella fretta di scappare. Quando riuscì a raddrizzarsi, il tenente era a un passo dietro di lui.
Dunbar allungò una mano, lo afferrò per la base della coda e strinse. Il lupo schizzò in
avanti come se sotto di lui fosse scoppiato un mortaretto e Dunbar scoppiò a ridere
così sonoramente che dovette smettere di correre.
Due Calzini corse via per un po' e poi si fermò, girando la testa a guardare il tenente
dietro di lui con un'espressione talmente sconcertata che il tenente non poté fare a meno
di sentirsi dispiaciuto per lui.
Dunbar gli fece un cenno di saluto e, sempre ridacchiando, si voltò e vide che Cisco stava
girovagando nella direzione da cui erano venuti, in cerca dell'erba migliore.
Il tenente montò in groppa e si avviò a un leggero trotto, incapace di trattenere le risate
rivedendo la scena di Due Calzini che scappava al contatto della sua mano.
Ebbe un sobbalzo quando qualcosa gli afferrò la caviglia e poi la lasciò andare. Si girò
di colpo, pronto ad affrontare lo sconosciuto assalitore.
Due Calzini era lì, ansimante come un pugile fra un round e l'altro dell'incontro.
Il tenente Dunbar lo fissò per alcuni secondi.
Due Calzini gettò uno sguardo indifferente in direzione di casa, come se pensasse che
il gioco stesse per arrivare a una conclusione.
<< D'accordo, allora >>, disse a bassa voce il tenente. << Puoi venire, oppure puoi
restare. Ho già perso abbastanza tempo con questa faccenda. >>
Forse si trattò di un piccolo rumore o di qualcosa portato dal vento. Qualunque cosa fosse,
Due Calzini l'avvertì. Si voltò di scatto e fissò su per la pista con il pelo ritto.
Dunbar guardò anche lui e subito vide Uccello Saltellante con altri due uomini. Erano lì
vicino, sul fianco di un'altura, che osservavano.
Il tenente agitò con foga una mano e gridò un << salve >>, mentre Due Calzini se la filava
di soppiatto.

Uccello Saltellante e i suoi amici erano rimasti a osservare per un po' di tempo, abbastanza
a lungo da vedere tutta la scena. Si erano divertiti moltissimo. Uccello Saltellante sapeva
anche di aver assistito a qualcosa di prezioso, qualcosa che aveva fornito la soluzione
a una delle perplessità che riguardavano l'uomo bianco... il problema di quale nome dargli.
Un uomo dovrebbe avere un vero nome, pensò, mentre scendevano lungo il pendio per
andare incontro al tenente Dunbar, soprattutto quando si tratta di un uomo bianco che si
comporta come fa lui.
Si ricordò dei vecchi nomi, come Uomo-che-brilla-come-la-neve, e qualcuno dei nuovi
nomi di cui aveva sentito parlare al villaggio, come Colui-che-trova-i-bisonti. Nessuno
gli si adattava veramente. Sicuramente, non Jun.
Era sicuro che si trattasse del nome giusto. Era appropriato alla personalità del soldato
bianco. La gente lo avrebbe ricordato per questo. E lo stesso Uccello Saltellante, con
due testimoni a sostenerlo, era presente nel momento in cui il Grande Spirito lo aveva
rivelato.
Lo disse tra sé alcune volte mentre scendeva lungo il pendio. Era un buon nome e anche
il suo suono era gradevole.
Danza-con-i-lupi.




(continua)

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