BALLA COI LUPI - romanzo completo

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auroraageno
00venerdì 7 settembre 2007 14:17

BALLA COI LUPI - Romanzo di Michael Blake
Titolo dell’opera originale: “Dances with Wolves”
Traduzione di Liliana Bollini
Edizione Club su licenza Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
Prima ristampa febbraio 1992


Da questo libro è stato tratto il famoso film “Balla coi lupi” di, e con, Kevin Costner,
vincitore di sette premi Oscar.



1



Il tenente Dunbar non era realmente inghiottito. Ma quella fu la prima parola che gli
si fissò nella mente.
Tutto era immenso.
Quel vasto cielo azzurro senza una nube. Quell’oceano d’erba che ondeggiava al
vento. Null’altro, fino a dove riusciva a spingere lo sguardo. Non una pista, non una
traccia di solchi lasciati da altre ruote che il carro potesse seguire. Solo lo spazio,
assoluto e vuoto.
Si sentiva alla deriva. La sensazione gli faceva pulsare il cuore in un modo strano
e profondo.
Seduto sul largo e piatto sedile, il tenente Dunbar lasciò che il suo corpo fluttuasse
insieme con la prateria, i suoi pensieri concentrati sui battiti del suo cuore. Si sentiva
eccitato. Eppure, il suo sangue non scorreva più veloce. Lo sentiva fluire normalmente
per tutto il corpo e questa confusione faceva lavorare la sua mente in un modo piacevole.
Le parole continuavano a volteggiare nella sua testa mentre cercava di trovare delle
frasi o delle espressioni che potessero descrivere ciò che sentiva. Era difficile definirlo
con esattezza.
<< Tutto ciò ha del religioso >>, erano state le prime parole che la voce della mente
aveva formulato al terzo giorno della loro missione. E quella frase sembrava tuttora la
più giusta. Ma il tenente Dunbar non era mai stato religioso, così, anche se quella frase
gli sembrava appropriata, non sapeva che cosa dedurne.
Se non fosse stato così trasportato dalle emozioni, il tenente Dunbar sarebbe
probabilmente arrivato alla spiegazione, ma nelle sue fantasticherie la saltò a piè pari.
Il tenente Dunbar era innamorato. Si era innamorato di quella terra splendida e selvaggia
e di tutto ciò che vi era in lei. Era il genere d’amore che si sogna di provare con le altre
persone: privo di ogni egoismo e di ogni dubbio, reverente e duraturo. Il suo spirito era
stato gratificato e il suo cuore gli balzava in petto. Forse era per questo che l’attraente
tenente di cavalleria aveva pensato alla religione.
Di sottecchi intravide Timmons chinare la testa di lato e sputare per la millesima volta
nell’erba folta e alta fino alla cintola. Come spesso accadeva, lo sputo gli uscì dalla bocca
in un fiotto irregolare che lo costrinse a ripulirsi con il dorso della mano. Dunbar non disse
nulla, ma dentro di sé gli incessanti sputi di Timmons gli provocavano un senso di
ripugnanza.
Era un gesto innocuo, ma gli risultava comunque irritante, come l’essere costretto in
permanenza a guardare qualcuno che si ficcava le dita nel naso.
Erano rimasti seduti fianco a fianco tutta la mattinata, ma solo perché il vento spirava
nella direzione giusta. Sebbene non fossero distanti più di un passo o due l’uno dall’altro,
la brezza leggera ma tesa gli permetteva di non sentire l’odore di Timmons. Nei suoi scarsi
trent’anni di vita aveva sentito molte volte l’odore della morte, e non vi era niente di
peggiore.


(continua)
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auroraageno
00venerdì 7 settembre 2007 14:19
(segue)

Ma la morte veniva sempre aggirata, seppellita o scansata, e con Timmons non era possibile fare niente di questo. Quando l’aria cambiava direzione, il suo puzzo avvolgeva
il tenente Dunbar come una nuvola infetta e invisibile.
Così, quando la direzione del vento era sfavorevole, il tenente Dunbar scivolava via dal
sedile, andandosi a piazzare in cima alla montagna di provviste che si trovava nel retro del carro.. A volte se ne restava là per ore, altre volte balzava giù dal carro dentro l’erba alta,
slegava Cisco, il suo cavallo, e cavalcava davanti al carro per un miglio o due.
Volse gli occhi a guardarlo mentre arrancava legato per la briglia dietro al carro, il muso
affondato nella sacca del foraggio e il mantello color bruno fulvo che brillava ai raggi del
sole. Dunbar sorrise alla vista del suo cavallo e per un breve attimo desiderò che i cavalli
potessero vivere altrettanto a lungo degli uomini. Con un po’ di fortuna, Cisco avrebbe
campato per altri dieci o dodici anni. Ci sarebbero stati altri cavalli dopo di lui, ma questo
era uno di quegli animali che capitavano una sola volta nella vita. Una volta che se ne
fosse andato, non sarebbe stato possibile sostituirlo.
Mentre il tenente Dunbar lo osservava, il cavallo sollevò improvvisamente i suoi occhi
ambrati dall’orlo della sacca, quasi per controllare dove fosse il tenente e, rassicurato
da ciò che vide, tornò a masticare il suo foraggio.
Dunbar si raddrizzò sul sedile improvvisato, infilò una mano nella giubba e ne trasse un
foglio di carta ripiegato. Quel pezzo di carta dell’esercito lo preoccupava, perché vi erano
riportati i suoi ordini. Aveva fatto scorrere i suoi occhi scuri e senza pupille su quel foglio
una mezza dozzina di volte, da quando aveva lasciato Fort Hays, ma per quanto lo esaminasse, non riusciva a sentirsi meglio.
Avevano sbagliato a scrivere il suo nome due volte. Il maggiore dall’alito che puzzava di
liquore che aveva firmato il foglio, aveva maldestramente passato la manica sopra
l’inchiostro ancora fresco e la firma ufficiale era malamente sbavata. L’ordine non era
stato datato e il tenente Dunbar aveva apposto lui stesso la data quando già erano in
cammino. Ma aveva usato una matita e la data così tracciata contrastava nettamente
con i tratti a penna del maggiore e con i caratteri a stampa dell’intestazione del modulo.
Il tenente Dunbar sospirò: non aveva per niente l’aspetto di un foglio d’ordini dell’esercito.
Sembrava un pezzo di carta da buttare.
Osservandolo, si ricordò di come ne era venuto in possesso, e la cosa lo preoccupò
maggiormente. Quello con il maggiore dall’alito che puzzava di liquore fu uno strano
colloquio.
Nella sua impazienza di venire assegnato, dal deposito ferroviario si era diretto
immediatamente al quartier generale. Il maggiore era la prima e unica persona con la
quale aveva parlato, da quando era arrivato, fino al momento in cui, quello stesso pomeriggio, si era issato su quel carro per sedersi accanto al puzzolente Timmons.
Gli occhi striati di sangue del maggiore lo avevano osservato a lungo. Quando, infine,
aveva parlato, lo aveva fatto senza riguardi e con tono sarcastico.
<< Così, lei è uno che combatte gli indiani, eh? >>
<< Be’, non in questo momento, signore. Ma credo che potrei farlo. So combattere. >>
<< Un combattente, eh? >>
Il tenente Dunbar non aveva risposto. Erano rimasti a guardarsi in silenzio per quello che
era sembrato un lungo momento, prima che il maggiore iniziasse a scrivere. Aveva scritto
furiosamente, incurante dei rivoli di sudore che gli colavano giù dalle tempie. Dunbar
aveva notato che altre gocce di sudore dall’aspetto untuoso gli imperlavano la cima della
testa quasi calva. Intorno al cranio erano appiccicate delle strisce sudice dei pochi capelli
che gli restavano e che al tenente Dunbar davano l’impressione di qualcosa di malsano.
Il maggiore non smise di scribacchiare se non per tossire un grumo di catarro e sputarlo
in un lurido secchio a lato del tavolo. In quel momento, il tenente Dunbar desiderò che
l’incontro avesse termine. Tutto, in quell’uomo, lo faceva apparire come una persona
malata.


(continua)


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auroraageno
00venerdì 7 settembre 2007 14:20
(segue)

Il tenente Dunbar aveva visto più esattamente di quanto non sapesse, perché quell’uomo
per qualche tempo era rimasto appeso alla sanità mentale per un sottilissimo filo, e quel
filo si era alla fine spezzato dieci minuti prima che il tenente Dunbar entrasse nel suo
ufficio. Il maggiore era rimasto seduto tranquillamente alla sua scrivania, le mani
intrecciate appoggiate davanti a lui, e aveva dimenticato la sua vita intera. Era stata una
vita senza alcun potere, alimentata dalle pietose elemosine che vengono elargite a coloro
che servono ubbidienti ma che non diventeranno importanti. Ma tutti gli anni di vita che
aveva lasciato passare, tutti gli anni di scapolo solitario, tutti gli anni di lotta con la bottiglia
erano svaniti come per magia. La grigia oppressione dell’esistenza del maggiore
Fambrough era stata soppiantata da un avvenimento imminente e piacevole. Poco prima
dell’ora di cena, sarebbe stato incoronato re di Fort Hays.
Il maggiore terminò di scrivere e prese in mano il foglio.
<< Lei è assegnato a Fort Sedgewick; riferirà direttamente al capitano Cargill. >>
Il tenente Dunbar abbassò lo sguardo su quel disordinato modulo.
<< Sissignore. E come posso raggiungerlo, signore? >>
<< Crede forse che io lo sappia? >> disse il maggiore bruscamente.
<< No, signore. Certamente no. Soltanto, non so come arrivarci. >>
Il maggiore si appoggiò allo schienale della sedia, si strofinò le mani sul davanti dei
pantaloni e sorrise compiaciuto.
<< Oggi mi sento di essere generoso e le farò un favore. Un carro carico di provviste del
territorio lascia fra poco il forte. Trovi il bifolco che risponde al nome di Timmons e vada
con lui. >> Indicò il foglio che Dunbar teneva nella mano. << La mia firma vale come
salvacondotto entro le centocinquanta miglia di territorio aperto. >>
Fin dagli inizi della sua carriera il tenente Dunbar aveva imparato a non discutere le
eccentricità degli ufficiali da campo di grado superiore. Con un rapido << Sissignore >>,
aveva fatto il saluto regolamentare e aveva girato sui tacchi. Aveva rintracciato Timmons,
era tornato di corsa al treno a prendere Cisco e di lì a mezz’ora era in viaggio in direzione
di Fort Sedgewick.
E ora, mentre fissava il foglio con gli ordini dopo che avevano percorso un centinaio di
miglia, si trovò a pensare che forse tutto sarebbe andato a posto.
Sentì che il carro rallentava l’andatura. Timmons osservava qualcosa nell’erba lì vicino
a loro, mentre il carro si arrestava del tutto.
<< Guardi laggiù. >>
Una macchia di bianco spiccava nell’erba a non più di venti passi dal carro. Scesero
entrambi per andare a vedere.
Era uno scheletro umano, le ossa di un bianco abbagliante, le orbite vuote del teschio
che fissavano il cielo sopra di loro.
Il tenente Dunbar si inginocchiò accanto alle ossa. Fra le costole della gabbia toracica
erano cresciuti dei lunghi ciuffi d’erba e numerose frecce, almeno una ventina, spuntavano
come degli spilli conficcati in un cuscino. Dunbar ne estrasse una dal terreno e la rotolò
fra le mani.
Mentre faceva scorrere le dita lungo l’asta, sentì la voce petulante di Timmons al disopra
della sua spalla.
<< Qualcuno, su all’Est, si starà chiedendo perché non dà sue notizie. >>



(continua)


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auroraageno
00domenica 9 settembre 2007 18:00
(segue:)


Quella sera piovve a dirotto. Ma la pioggia arrivò a scrosci violenti e irregolari come
spesso accade con i temporali estivi, così che sembrò che fosse meno umido di quanto
non avvenisse in altri periodi dell’anno e i due viaggiatori dormirono comodamente sotto
il carro protetto da un telone che non lasciava passare l’acqua.
Il quarto giorno passò più o meno come gli altri, senza nulla di particolare, e così il quinto
e il sesto. Il tenente Dunbar era deluso dalla mancanza di bisonti. Non aveva avvistato
un solo animale. Timmons diceva che a volte le grosse mandrie sembravano scomparire
del tutto. Ma aveva aggiunto che non era il caso di preoccuparsi, perché quando fossero
apparsi, i bisonti sarebbero stati più numerosi delle locuste.
Non avevano visto nemmeno un indiano, e per questo fatto Timmons non aveva alcuna
spiegazione. Aveva soltanto detto che se avesse visto un altro indiano, sarebbe sempre
stato troppo presto, e che era molto meglio per loro non avere dei ladri e degli straccioni
alle calcagna.
Ma al settimo giorno Dunbar ormai prestava ascolto soltanto alla metà di quello che diceva
Timmons.
Mentre percorrevano le ultime miglia che restavano, pensava sempre di più al momento in
cui sarebbe arrivato a destinazione.


Il capitano Cargill si tastò con le dita l’interno della bocca, con gli occhi che fissavano un
punto verso l’alto mentre si concentrava. Un lampo di certezza, e un rapido aggrottare
delle sopracciglia.
Un altro dente che se ne sta andando, pensò. Al diavolo.
Con aria afflitta, il capitano fece scorrere lo sguardo da una all’altra delle umide pareti di
terriccio che formavano il suo alloggio. Non c’era assolutamente nulla da vedere. Era
come una cella.
Alloggio, pensò con sarcasmo. Un dannato alloggio.
Da più di un mese tutti usavano quel termine, persino il capitano. Lo faceva
sfrontatamente anche di fronte ai suoi uomini, e loro di fronte a lui. Ma non era qualcosa
di confidenziale, un modo cameratesco di scherzare: era una vera imprecazione.
Ed era un brutto momento.
Il capitano Cargill ritrasse la mano dalla bocca. Rimase seduto nell’oscurità del suo
dannato alloggio e ascoltò. Fuori, tutto era calmo, e quella calma gli spezzava il cuore.
In condizioni normali, l’aria sarebbe stata piena dei rumori degli uomini impegnati nei loro
compiti. Ma da molti giorni non vi era stato alcun compito di servizio. Persino quelli di
ordinaria amministrazione si erano persi lungo il cammino. E non c’era nulla che il
capitano potesse fare in proposito. Questo era ciò che lo faceva soffrire.
Mentre ascoltava il terribile silenzio del luogo, capì che non poteva aspettare oltre. Oggi
avrebbe dovuto prendere la decisione che aveva tanto temuto. Anche se questo significava il disonore, o la rovina della sua carriera. O peggio.
Respinse quel << peggio >> dalla sua mente e si alzò pesantemente dalla sedia. Mentre
si dirigeva verso la porta, per un momento armeggiò con un bottone allentato della sua
giubba. Il bottone si staccò dal filo e rimbalzò sul pavimento. Non si preoccupò di
raccoglierlo. Non c’era niente con cui poterlo riattaccare.
Quando fu all’esterno, nella vivida luce del sole, il capitano Cargill si concesse di
immaginare un’ultima volta che nel cortile vi fosse un carro arrivato da Fort Hays.
Ma non c’era nessun carro. Solo quel luogo lugubre, quel foruncolo sul terreno che
non meritava un nome.
Fort Sedgewick.


(continua)

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auroraageno
00domenica 9 settembre 2007 18:02
(segue:)


In piedi sulla porta della sua cella di terriccio, il capitano Cargill sembrava quasi ubriaco.
Era senza berretto ed era esausto, e stava valutando attentamente per un’ultima volta.
Il recinto non molto solido che fino a poco tempo prima aveva ospitato una cinquantina
di cavalli era vuoto. In due mesi e mezzo i cavalli erano stati rubati, rimpiazzati e
nuovamente rubati. I comanci si erano abbondantemente serviti fino all’ultimo cavallo.
Spostò lo sguardo verso il deposito dei rifornimenti dall’altra parte dello spiazzo di fronte
a lui. A parte quel suo dannato alloggio, era l’unica struttura che fosse rimasta in piedi
a Fort Sedgevick. Era stata una brutta faccenda fin dall’inizio. Nessuno aveva idea di
come costruire con il terriccio, e due settimane dopo essere stato terminato, buona parte
del tetto era sprofondato. Una delle pareti era talmente incurvata al centro che sembrava
impossibile che continuasse a reggere. Di certo sarebbe crollata presto.
Non ha importanza, pensò il capitano Cargill, soffocando uno sbadiglio.
Il deposito dei rifornimenti era vuoto. Era vuoto ormai da buona parte dell’ultimo mese.
Avevano tirato avanti con quello che era rimasto delle gallette e con quello che erano
riusciti a cacciare nella prateria, soprattutto conigli e galline faraone. Aveva desiderato
con tutte le sue forze che tornassero i bisonti. Persino ora, al pensiero di una spessa
bistecca si sentiva rimescolare tutto. Cargill serrò le labbra e scacciò le lacrime che
improvvisamente gli avevano riempito gli occhi.
Non c’era niente da mangiare.
Camminò per una cinquantina di metri sul terreno nudo e aperto fino al limite del
promontorio sul quale Fort Sedgewick era stato costruito e guardò in basso verso il corso
d’acqua che scorreva tranquillamente e senza alcun rumore a una trentina di metri sotto
di lui. Lungo le sue sponde era visibile uno strato di vari materiali di rifiuto, e persino in
assenza del vento l’odore disgustoso dei rifiuti umani impregnò le narici del capitano
Cargill. Rifiuti umani mescolati a qualsiasi altra cosa che stesse marcendo laggiù in
fondo.
Lo sguardo del capitano si spostò lungo il pendio del promontorio proprio mentre due
uomini emergevano da una delle buche scavate per dormirvi e che davano al terreno
l’aspetto della pelle butterata dal vaiolo. I due ammiccarono un attimo all’intensa luce
del sole. Guardarono in su verso il capitano, ma non fecero alcun gesto di riconoscimento.
E nemmeno Cargill lo fece. I due soldati si acquattarono nuovamente nelle loro buche,
come se la vista del loro comandante li avesse costretti a rientrarvi, lasciando il capitano
da solo sulla cima del promontorio.
Cargill pensò alla sparuta delegazione che i suoi uomini avevano inviato ai suoi alloggi
otto giorni prima. La loro richiesta era stata ragionevole. In effetti, era stata necessaria.
Ma il capitano si era rifiutato di prendere una decisione. Sperava ancora che arrivasse
un carro. Sentiva che era suo dovere sperare che arrivasse.
Da quel giorno, nessuno gli aveva più parlato, nemmeno una parola. A eccezione delle
sortite di caccia al pomeriggio, gli uomini se ne erano rimasti nei pressi delle loro buche,
senza comunicare, facendosi vedere raramente.
Il capitano Cargill si avviò per tornare al suo dannato alloggio, ma a metà strada si fermò.
Rimase fermo in mezzo allo spiazzo, fissando le punte consumate degli stivali.
<< Adesso >>, mormorò dopo aver riflettuto per qualche istante, e ritornò con decisione
sui propri passi.


(continua)


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auroraageno
00domenica 9 settembre 2007 18:05
(segue:)

Dovette chiamare il caporale Guest tre volte, prima che qualcosa si muovesse davanti a
una delle buche. Dapprima apparvero due spalle ossute, chiuse in una giubba priva di
maniche, poi una faccia dall’espressione tetra si sollevò a guardare in alto verso il ciglio
del promontorio. L’uomo fu improvvisamente bloccato per un attimo da un attacco di tosse
e Cargill aspettò che passasse, prima di parlare.
<< Riunisca gli uomini davanti ai miei dannati alloggi entro cinque minuti. Tutti, anche
quelli inabili al servizio. >>
Il soldato portò stancamente due dita all’altezza della tempia e scomparve dentro la buca.
Venti minuti dopo gli uomini di Fort Sedgewick, il cui aspetto li faceva assomigliare più
a una banda di prigionieri ai quali fossero stati inflitti i peggiori maltrattamenti che non a
dei soldati, erano riuniti sullo spiazzo davanti all’orrenda baracca di Cargill.
Erano in diciotto. Diciotto dei cinquanta che erano stati in precedenza. Trentatrè di loro
avevano disertato, rischiando qualunque cosa li aspettasse là fuori nella prateria. Cargill
aveva mandato una pattuglia di sette uomini a cavallo a inseguire il gruppo di disertori più
numeroso. Forse erano morti, o forse avevano disertato anche loro. Non erano più tornati.
E ora, non rimanevano che diciotto uomini, distrutti e in condizioni pietose.
Il capitano Cargill si schiarì la gola.
<< Sono fiero di tutti voi per essere rimasti >>, esordì.
La piccola parata di zombi non disse nulla. << Riunite le vostre armi e tutto quanto vi
interessi portar via di qui. Non appena sarete pronti, ci metteremo in marcia verso Fort
Hays. >>
Prima ancora che avesse finito la frase, i diciotto si stavano già muovendo, correndo
disordinatamente come degli ubriachi verso le loro buche al di sotto del promontorio,
come se avessero paura che il capitano Cargill avrebbe potuto cambiare idea, se non
si fossero sbrigati in fretta.
In meno di un quarto d’ora era tutto finito. Il capitano Cargill e il suo spettrale reparto
iniziarono rapidamente la loro marcia attraverso la prateria, dirigendosi a est per affrontare
le centocinquanta miglia che li separava da Fort Hays.
Quando se ne furono andati dal forte, un silenzio totale calò su quel simbolo dell’esercito
diventato ormai inutile. Dopo cinque minuti un lupo solitario apparve sulla riva al di là
del fiume. Si fermò ad annusare il leggero vento che soffiava nella sua direzione. Decise
che era meglio lasciar perdere quel luogo di morte e se ne trotterellò via.
E così l’abbandono del più lontano avamposto dell’esercito, l’avanguardia di un grandioso
schema per portare la civiltà all’interno dei territori della frontiera dell’Ovest, divenne
totale.
L’esercito lo avrebbe considerato unicamente un insuccesso, un rinvio dell’espansione
dei territori che avrebbe dovuto attendere fino a che la guerra civile non avesse fatto il suo
corso, ma, per il momento, la storia ufficiale di Fort Sedgewick si era miseramente
interrotta. Il capitolo mancato della storia di Fort Sedgewick, e il solo che avrebbe mai
potuto aspirare alla gloria, stava per iniziare.


(continua)


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auroraageno
00lunedì 10 settembre 2007 14:18
(segue)


Fu con impazienza che il tenente Dunbar vide l’alba spuntare. Stava già pensando a
Fort Sedgewick mentre ancora batteva le palpebre, cercando di svegliarsi completamente
e di mettere a fuoco le assi del carro al disopra della sua testa. Pensava al capitano
Cargill e ai suoi uomini, e a come sarebbe stato il posto e come sarebbe stato il suo
primo servizio di pattuglia, e a un migliaio di altre cose che gli vorticavano con eccitazione
nella testa.
Quello era il giorno in cui sarebbe arrivato a destinazione, realizzando il sogno coltivato
da tempo di essere assegnato in servizio alla frontiera dell’Ovest.
Buttò di lato la coperta che gli aveva fatto da giaciglio e rotolò fuori da sotto il carro.
Rabbrividendo nella prima luce dell’alba, si infilò gli stivali e cominciò a muoversi
impaziente attorno al carro.
<< Timmons >>, sussurrò, chinandosi per guardare sotto il carro.
Avvolto nel suo sgradevole odore, il conducente dormiva profondamente. Il tenente lo
toccò con la punta dello stivale.
<< Timmons. >>
<< Sì? Che cosa c’è? >> mormorò il conducente con la voce impastata di sonno e
tirandosi su a sedere, allarmato.
<< Muoviamoci. >>


La colonna del capitano Cargill aveva continuato ad avanzare e alle prime ore del
pomeriggio aveva coperto poco meno di dodici miglia.
Anche l’umore aveva fatto progressi. Gli uomini cantavano rinfrancati, mentre
procedevano in ordine sparso per la prateria. Il suono delle voci sollevò oltremodo
il morale del capitano Cargill. Sentire i suoi uomini cantare gli conferiva una grande
risolutezza d’animo. L’esercito poteva metterlo davanti a un plotone di esecuzione,
se voleva, e lui avrebbe comunque fumato la sua ultima sigaretta con un sorriso.
Aveva preso la decisione giusta. Nessuno poteva convincerlo del contrario.
E mentre procedeva attraverso l’ampia distesa erbosa, sentì rifluire in lui una
soddisfazione da tempo perduta. La soddisfazione del comando. Stava di nuovo
pensando come un comandante. Desiderò che si trattasse di una vera marcia,
una marcia con una colonna di soldati a cavallo.
In questo momento avrei dei drappelli sui fianchi della colonna, distaccati da un buon
miglio a nord e a sud.
E mentre ci pensava, guardò veramente verso sud.
Poi Cargill distolse lo sguardo, ignaro che se un drappello si fosse trovato in avanscoperta
a sud in quello stesso momento, avrebbe trovato qualcosa.
Avrebbero trovato due viaggiatori che avevano sostato per dare un’occhiata ai rottami
bruciati di un carro rovesciato in un burrone poco profondo.
Uno, con uno strano puzzo che gli aleggiava intorno; l’altro, un giovane dall’aspetto
decisamente attraente con indosso l’uniforme.
Ma non vi erano drappelli in avanscoperta, così passarono inosservati.
La colonna del capitano Cargill proseguì risolutamente la sua marcia, aprendosi cantando
la strada verso est, in direzione di Fort Hays.
E dopo la loro breve sosta, il giovane tenente e il conducente del carro ripresero posto
sul sedile, spingendosi a Ovest verso Fort Sedgewick.


(continua)

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auroraageno
00mercoledì 12 settembre 2007 08:37
(segue)

2



Al secondo giorno dopo che avevano abbandonato il forte, gli uomini del capitano
Cargill abbatterono una femmina di bisonte da una piccola mandria di dodici capi
e si dedicarono con energia per alcune ore a festeggiare alla maniera indiana con
quella carne deliziosa. Gli uomini avevano insistito per arrostire una grossa fetta
tagliata dalla gobba dell’animale per il loro capitano, e gli occhi del comandante
brillavano di piacere mentre affondava nella carne i denti che ormai gli rimanevano
e faceva sciogliere in bocca quel cibo paradisiaco.
La fortuna continuò ad arridere alla colonna del capitano Cargill e verso mezzogiorno
del quarto giorno si imbatterono in un grosso reparto dell’esercito in missione di
perlustrazione. Il maggiore al comando del reparto poté leggere la storia di quello che
avevano passato nelle condizioni degli uomini del capitano Cargill e la sua compassione
fu immediata.
Con una mezza dozzina di cavalli a prestito e un carro per chi non era in grado di
cavalcare, la colonna del capitano Cargill proseguì speditamente arrivando a Fort Hays
quattro giorni dopo.



A volte succede che le cose che si temono maggiormente alla fine si rivelino il minore dei
mali, e così fu per il capitano Cargill. Non venne arrestato per aver abbandonato Fort
Sedgewick: tutt’altro. I suoi uomini, che solo pochi giorni prima erano stati pericolosamente
vicini all’insubordinazione raccontarono la loro storia di privazioni a Fort Sedegewick e non
un solo soldato mancò di descrivere il capitano Cargill come un superiore nel quale
riponevano la massima fiducia. Fino all’ultimo uomo testimoniarono tutti che senza il
capitano Cargill nessuno di loro ce l’avrebbe fatta.
L’esercito della frontiera dell’Ovest, le sue risorse e il suo morale, ne furono oltremodo
impressionati, e fu con estremo compiacimento che vennero ascoltate tutte queste
testimonianze.
Vennero prese immediatamente due misure. Il comandante dell’avamposto fece un
rapporto completo dell’abbandono di Fort Sedgewick al generale Tide presso il quartier
generale territoriale di St. Louis, concludendo con il suggerimento di rinunciare a
rioccupare Fort Sedgewick, almeno fino a nuovo ordine. Il generale Tide si dichiarò
completamente d’accordo e di lì a pochi giorni Fort Sedgewick cessò di avere qualsiasi
collegamento con il governo degli Stati Uniti. Diventò un posto inesistente.
La seconda misura riguardò il capitano Cargill. Venne trattato come un vero eroe e gli
vennero conferite, in rapida successione, la medaglia al valore e la promozione al grado
di maggiore. Alla mensa ufficiali venne organizzata in suo onore una << cena della
vittoria >>.
Fu mentre la cena volgeva al termine che il capitano Cargill venne a conoscenza di una
curiosa storia che era stata al centro dei commenti a Fort Hays poco prima del suo
trionfale arrivo.
Il vecchio maggiore Fambrough, un amministrativo di medio livello con uno stato di
servizio non particolarmente brillante, era impazzito. Un pomeriggio si era messo al
centro dello spiazzo della parata, blaterando in modo sconnesso del suo regno e
chiedendo che gli venisse data la sua corona. Il poveretto era stato rispedito all’Est
solo pochi giorni prima.
Mentre ascoltava i particolari di questo bizzarro avvenimento, il capitano naturalmente non
poteva immaginare che con la triste partenza del maggiore Fambrough se ne fosse anche
andata qualsiasi traccia del tenente Dunbar. Ufficialmente, il giovane ufficiale esisteva
soltanto negli ormai svaniti meandri del cervello malato del maggiore Fambrough.
Cargill venne anche a sapere che, per ironia della sorte, lo stesso, sfortunato maggiore
aveva fatto mandare un carro carico di provviste, destinato a Fort Sedgewick.
Probabilmente, il carro e la sua colonna dovevano essersi superati durante la marcia
di ritorno. Il capitano Cargill e il suo interlocutore si fecero una bella risata, immaginandosi
il conducente del carro che arrivava in quell’orrido luogo deserto e si chiedeva che cosa
diavolo fosse successo. Cercarono anche di immaginare che cosa avrebbe fatto il
conducente e conclusero che se avesse avuto buon senso avrebbe proseguito verso
Ovest, vendendo le provviste allo spaccio delle varie stazioni di posta lungo il percorso.
Cargill si diresse barcollando semiubriaco ai suoi alloggi quando mancavano poche ore
all’alba. Lasciò cader e la testa sul cuscino con il meraviglioso pensiero che Fort Sedgewick, ora, era soltanto un ricordo.
Accadde così che non restasse che una sola persona al mondo che sapesse dove si
trovava il tenente Dunbar, o persino che esisteva.
E quella persona era un civile, scapolo e dall’aspetto misero e trasandato di cui non
importava niente a nessuno.
Timmons.



(continua)



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auroraageno
00mercoledì 12 settembre 2007 08:41
(segue)

3



L'unico segno di vita era il lacero pezzo di tela che sbatteva leggermente all'entrata
del deposito dei rifornimenti in rovina. Il vento del tardo pomeriggio spezzava
l'immobilità dell'aria, ma l'unica cosa che si muovesse era quel brandello di tela.
Se non fosse stato per quelle lettere rozzamente intagliate nella trave sopra quello
che era stato l'alloggio del capitano Cargill, il tenente Dunbar non avrebbe creduto
che il posto fosse quello. Ma il nome sulla trave non lasciava dubbi.
<< Fort Sedgewick >>
I due uomini rimasero seduti in silenzio sul carro, facendo scorrere lo sguardo sulle
misere rovine che rappresentavano la loro destinazione finale.
Finalmente, il tenente Dunbar saltò giù dal carro e con circospezione si avviò verso
la porta dell'alloggio di Cargill. Ne uscì dopo pochi secondi e guardò Timmons,
che era rimasto sul sedile del carro.
<< Sembra proprio che non ci sia molta vita qui attorno >>, gli gridò Timmons da
dove si trovava.
Il tenente non gli rispose. Si diresse al deposito dei rifornimenti, tirò di lato il lembo
di tenda e si chinò per dare un'occhiata all'interno. Non c'era niente da vedere e un
momento dopo stava tornando nuovamente verso il carro.
Timmons guardò in giù verso di lui e scosse la testa.
<< Possiamo cominciare a scaricare. >>
<< E perché, tenente? >>
<< Perché siamo arrivati. >>
Timmons si agitò sul sedile. << Ma qui non c'è anima viva >>, disse con voce rauca.
Il tenente Dunbar si guardò intorno.
<< No, non per il momento. >>
Ci fu un attimo di silenzio fra di loro, un silenzio che faceva presagire la tensione di
un confronto. Dunbar era immobile, le braccia tese lungo i fianchi, mentre Timmons
si passava le redini fra le dita. Sputò di fianco al carro.
<< Se ne sono andati... o sono stati uccisi tutti. >> Guardava fisso il tenente, come se
ne avesse avuto abbastanza di quella faccenda. << Tanto vale che giriamo il carro e
ce ne torniamo da dove siamo venuti. >>
Ma il tenente Dunbar non aveva alcuna intenzione di tornare indietro. Qualunque cosa
fosse successa a Fort Sedgewick, doveva scoprirlo. Forse se ne erano andati tutti
o forse erano tutti morti. Forse vi erano dei sopravissuti, soltanto a un'ora di distanza
da lì, che cercavano disperatamente di raggiungere il forte.


(continua)


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auroraageno
00mercoledì 12 settembre 2007 08:45
(segue)

E c'era un motivo più profondo per restare, qualcosa che andava al di là del suo stretto
senso del dovere. Vi sono dei momenti in cui una persona desidera qualcosa così
fortemente che il prezzo o la condizione per averla non rappresentano più un ostacolo.
Il tenente John J. Dunbar aveva voluto essere assegnato ai territori della frontiera
dell'Ovest più di ogni altra cosa. E adesso era lì. Come Fort Sedgewick apparisse o
che cosa fosse successo e perché, a lui non importava. Era ciò che aveva ardentemente
desiderato da anni.
Quando parlò, non vi era alcuna esitazione nei suoi occhi e la sua voce era piatta e ferma.
<< Sono stato assegnato a questo avamposto e quelle sono le sue provviste. >>
Si fissarono nuovamente. La bocca di Timmons si allargò in un sorriso, poi scoppiò in
una risata.
<< Ti ha dato di volta il cervello, giovanotto? >>
Timmons lo aveva detto perché capiva che il tenente era un ragazzo, che probabilmente
non era mai stato in combattimento in vita sua, che non era mai stato all'Ovest e che non
aveva vissuto abbastanza a lungo per sapere tutto. << Ti ha dato di volta il cervello,
giovanotto? >> Era come se le parole fossero uscite dalla bocca di un padre che aveva
perso la pazienza.
Si sbagliava.
Il tenente Dunbar non era un ragazzo. Era educato e rispettoso e a volte mite. Ma non era
un ragazzo.
Aveva combattuto per buona parte della sua vita, e se l'era cavata egregiamente perché
possedeva una dote rara. Dunbar possedeva un senso innato, una sorta di sesto senso,
che gli diceva quando ricorrere alla forza. E quando questo momento critico arrivava,
qualcosa nella sua psiche scattava, e il tenente Dunbar diventava una macchina letale e
priva di ragione che non poteva essere fermata. Non fino a quando non avesse raggiunto
il suo obiettivo. Quando si trattava o di spingere o di farsi spingere indietro, era il tenente
che spingeva in avanti per primo. E quelli che lo contrastavano rimpiangevano di averlo fatto.
Le parole << ti ha dato di volta il cervello, giovanotto? >> avevano innescato il meccanismo,
e il sorriso di Timmons cominciò a sparire lentamente, mentre vedeva gli occhi del tenente
incupirsi. Un istante dopo, Timmons vide la mano del tenente sollevarsi, lentamente e
deliberatamente. Vide il palmo della mano destra posarsi lievemente sul calcio della grossa
pistola in dotazione alla marina che portava al fianco. Vide il dito indice scivolare attraverso
il ponticello dell'arma.
<< Solleva le natiche da quel carro e aiutami a scaricare. >>
Il tono di quelle parole ebbe un notevole effetto su Timmons. Quel tono gli diceva che sulla
scena era improvvisamente comparsa la morte. La sua morte.
Timmons non batté ciglio, né replicò.. Quasi muovendosi contemporaneamente, legò le redini
al freno, saltò giù dal sedile, andò velocemente sul retro del carro, tolse la traversa posteriore
e sollevò la prima cosa che gli capitò sotto le mani.

Stiparono tutto ciò che poterono nel deposito dei rifornimenti semidiroccato e piazzarono il
resto negli ex alloggi di Cargill.


(continua)


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auroraageno
00giovedì 13 settembre 2007 10:40
(segue)


4


Dicendo che quella notte ci sarebbe stata la luna e che voleva guadagnare tempo,
Timmons partì al tramonto.
Il tenente Dunbar si mise a sedere sul terreno, si arrotolò una sigaretta e osservò
il carro diventare sempre più piccolo a mano a mano che si allontanava. Il sole
se ne andò quasi nello stesso momento in cui il carro sparì dalla vista, e il tenente
rimase a lungo seduto nell'oscurità, lieto di avere la compagnia del silenzio. Dopo
un'ora i muscoli irrigiditi cominciarono a dolergli; si sollevò da terra e si diresse
faticosamente verso la baracca del capitano Cargill.
Improvvisamente stanco, si lasciò cadere completamente vestito sul letto improvvisato
che si era preparato in mezzo alle provviste e appoggiò la testa.
Quella notte le sue orecchie erano all'erta. Il sonno stentava ad arrivare. Ogni più piccolo
rumore nel buio domandava una spiegazione che Dunbar non era in grado di fornire.
Di notte, in quel luogo vi era qualcosa di insolito che durante il giorno non aveva
avvertito.
Proprio mentre stava per scivolare nel sonno, lo spezzarsi improvviso di un ramo, o
il lontano rumore di qualcosa che cadeva nell'acqua del fiume lo faceva risvegliare di
colpo. Andò avanti così per parecchio tempo e finì per logorare la resistenza del
tenente Dunbar. Era stanco, e più era stanco, più era inquieto, e le due cose insieme
spalancarono la porta a un visitatore indesiderato. Attraverso la porta del sonno senza
riposo del tenente Dunbar si insinuò il dubbio. Quella prima notte, il dubbio lo mise a
dura prova, sussurrando cose terribili nelle sue orecchie. Aveva sbagliato tutto. Non
valeva niente. Tanto valeva che fosse morto. Quella notte, il dubbio lo portò sull'orlo
delle lacrime. Il tenente Dunbar cercò di respingerlo, tentando di ritrovare la calma con
dei pensieri gradevoli. Lottò con se stesso fino al mattino e, quando l'alba era ormai
prossima, finalmente scacciò il dubbio dalla sua mente e si addormentò.


Si erano fermati.
Erano in sei.
Erano indiani pawnee, la più temibile di tutte le tribù. I capelli tagliati a spazzola come
la criniera di un cavallo, la pelle precocemente raggrinzita e con una disposizione
mentale generale paragonabile a quella stessa macchina in cui poteva a volte trasformarsi
il tenente Dunbar. Ma non vi era niente di occasionale nel modo in cui i pawnee vedevano
le cose. I loro, erano occhi che semplicemente guardavano, ma con spietata efficienza,
e che quando si fissavano su un oggetto, decidevano in un istante se dovesse vivere o
morire. E se era deciso che la cosa dovesse cessare di vivere, i pawnee provvedevano
alla sua morte con una precisione maniacale. Quando si trattava della morte, i pawnee
agivano automaticamente, e tutti gli indiani delle pianure li temevano più di ogni altro.
I sei pawnee si erano fermati perché avevano visto qualcosa. Ora erano fermi, in groppa
ai loro magri cavalli, e osservavano dall'alto un terreno ondulato interrotto da alcuni burroni.
A circa mezzo miglio di distanza una sottile spirale di fumo saliva nell'aria del mattino.
Dal loro punto di osservazione potevano vederla chiaramente. La fonte era nascosta in
mezzo all'ultimo dei burroni, e siccome non potevano vedere tutto quello che volevano,
avevano cominciato a discutere fra loro con toni bassi e gutturali del fumo e di che cosa
potesse trattarsi. Se si fossero sentiti più forti vi si sarebbero diretti immediatamente,
ma erano lontani dal loro villaggio da parecchio tempo e avevano avuto parecchie disavventure.
All'inizio erano in undici, diretti a sud per rubare dei cavalli ai comanci. Dopo aver cavalcato
per una settimana, erano stati sorpresi al guado di un fiume da un nutrito gruppo di kiowa.
Erano stati abbastanza fortunati da riuscire a fuggire con un solo guerriero morto e uno
ferito.
Il ferito aveva resistito una settimana con un polmone trapassato da una freccia, rallentando
notevolmente la loro andatura. Quando, alla fine, era morto e i nove pawnee rimasti avevano
potuto riprendere la loro ricerca, non avevano avuto altro che sfortuna. Le tribù dei comanci
si spostavano in continuazione davanti ai disgraziati pawnee, e per due settimane non
trovarono altro che le tracce del loro passaggio.
Alla fine, localizzarono un grosso accampamento con un gran numero di cavalli e si rallegrarono
che la cattiva sorte che li aveva perseguitati così a lungo se ne fosse andata. Ma quello che i
pawnee non sapevano era che la loro fortuna non era per niente cambiata. In effetti, era il
peggior genere di fortuna quello che li aveva portati a quel villaggio, perché quella tribù di
comanci solo pochi giorni prima era stata assalita in forze dagli ute, che avevano ucciso
molti valorosi guerrieri e se ne erano andati con un bottino di trenta cavalli.
L'intero villaggio comanci stava all'erta ed era di umore bellicoso e vendicativo. I pawnee
vennero scoperti nel momento stesso in cui si stavano infiltrando nel villaggio, e con metà
dell'accampamento alle costole erano fuggiti sui loro esausti pony, incespicando
nell'oscurità ostile. Fu solo nella ritirata che ebbero fortuna. Avrebbero dovuto morire
tutti quella notte, ma, alla fine, persero soltanto altri tre guerrieri.
E ora questi sei scoraggiati guerrieri, appostati su quell'altura solitaria, i loro magri pony
troppo stanchi per fare il minimo movimento sotto di loro, si chiedevano che cosa fare a
proposito di quella sottile striscia di fumo a mezzo miglio da loro.
Discutere i vantaggi di un'eventuale attacco era tipicamente indiano, Ma discutere per
mezz'ora su un sottile filo di fumo era una cosa del tutto diversa, e indicava a quale livello
fosse scesa la sicurezza di questi pawnee. I sei erano divisi: una parte di loro era favorevole
a lasciar perdere, l'altra insisteva per andare a controllare. Mentre la discussione era
proseguita infruttuosamente, solo uno di loro, il più risoluto, era rimasto fermo nella sua
decisione. Voleva precipitarsi immediatamente sul luogo dal quale proveniva il fumo
e mentre gli altri continuavano a ciarlare, la sua irritazione aumentava.
Dopo trenta minuti si staccò dai compagni e silenziosamente cominciò a discendere lungo
l'altura. Gli altri cinque gli si affiancarono chiedendogli che cosa intendesse fare.
Con tono caustico il guerriero rispose loro che non erano dei pawnee e che lui non poteva
più cavalcare con delle donnicciole. Disse che avrebbero dovuto mettersi la coda fra le
gambe e tornarsene indietro. Non erano dei pawnee, disse nuovamente, e lui preferiva
morire piuttosto che discutere con degli uomini che non erano uomini.
Spronò il cavallo in direzione del fumo.
Gli altri lo seguirono.


(continua)

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Amarganta
00giovedì 13 settembre 2007 10:43


....leggo.....

[SM=x832000]
auroraageno
00venerdì 14 settembre 2007 08:09


...ne sono felice! [SM=x832000]


[SM=x831996] [SM=x832013]

auroraageno
00venerdì 14 settembre 2007 11:53
(segue)



Allo stesso modo in cui detestava cordialmente gli indiani, Timmons non conosceva
praticamente nulla delle loro abitudini. Da molto tempo il territorio era sicuro, ma
lui non era che un uomo solo senza alcuna possibilità di difendersi, e avrebbe dovuto
saperne abbastanza da accendere un fuoco senza fare fumo.
Ma quella mattina era rotolato fuori dalle sue puzzolenti coperte con una gran fame.
Il pensiero della pancetta affumicata e del caffè erano state le sole cose che gli avessero
sfiorato la mente e si era messo di lena a preparare un bel fuoco con della legna
verde.
Era il fumo di Timmons che aveva attirato l'attenzione degli insidiosi pawnee.
Stava accovacciato davanti al fuoco, le dita attorno al manico della padella per
friggere, quando una freccia lo colpì. La freccia si conficcò profondamente nella
natica destra e la violenza dell'impatto lo catapultò dall'altra parte del fuoco.
Sentì le grida di guerra prima ancora di vedere qualcuno e fu assalito dal panico.
Saltellando, si buttò nel burrone e senza fermarsi si arrampicò su per la pendenza,
la freccia pawnee decorata di piume a colori vivaci che gli spuntava dalla natica.
Vedendo che si trattava di un solo uomo, i pawnee presero le cose con calma.
Mentre gli altri saccheggiavano il carro, il guerriero che aveva svergognato i compagni
per indurli all'azione pigramente galoppò in direzione di Timmons.
Lo raggiunse mentre questi era quasi giunto in cima al pendio che portava fuori dal
burrone. Improvvisamente, Timmons inciampò e cadde in ginocchio, e quando alzò la
testa udì il rumore degli zoccoli di un cavallo.
Ma non vide mai né il cavallo né chi lo montava. Per un breve istante vide l'ascia di
guerra, poi questa gli colpì il cranio con tanta violenza che la testa di Timmons si
aprì in due.

I pawnee rovistarono fra le provviste, prendendo tutto ciò che potevano portare con
loro. Staccarono il tiro di cavalli dell'esercito, diedero fuoco al carro e si allontanarono,
passando oltre il corpo mutilato di Timmons senza degnarlo di uno sguardo. Avevano
preso da lui tutto quello che volevano. Lo scalpo del conducente del carro pendeva
dalla punta della lancia del suo uccisore.
Il corpo rimase per tutto il giorno nell'erba alta, in attesa che i lupi lo scoprissero
quando fosse scesa la notte. Ma la morte di Timmons aveva più importanza del solo
fatto che una vita si fosse spenta. Con la sua morte, un insolito cerchio di circostanze
si era chiuso.
Il cerchio si era chiuso intorno al tenente John J. Dunbar.
Nessun uomo poteva essere più solo di lui.


(continua)


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auroraageno
00venerdì 14 settembre 2007 13:23
(segue)


5


Anche lui, quel mattino, aveva acceso un fuoco, ma molto prima di quanto non avesse
fatto Timmons. Un'ora prima che il conducente del carro venisse ucciso, il tenente
stava finendo di bere la sua prima tazza di caffè.
Nel manifesto di carico erano state incluse due sedie da campo. Ne aprì una davanti
alla baracca di Cargill e rimase seduto a lungo con una coperta dell'esercito attorno
alle spalle, tenendo fra le mani una grossa tazza di fornitura regolamentare dell'esercito,
guardando il suo primo giorno a Fort Sedgewick schiudersi davanti ai suoi occhi. Presto
i suoi pensieri ritornarono a quello che doveva fare, e il dubbio nuovamente si insinuò
nella sua mente.
D'improvviso, il tenente si sentì sopraffatto. Non sapeva da dove cominciare, né qual era
il suo compito e neppure come dovesse considerarsi. Non aveva nessuna mansione,
nessun programma da seguire e non aveva una condizione propria. A mano a mano
che il sole si alzava dietro di lui, Dunbar si ritrovò alla fredda ombra della baracca. Si
riempì nuovamente la tazza e spostò la sedia da campo sullo spiazzo illuminato dal
sole.
Si stava sistemando sulla sedia quando vide il lupo. Era fermo sul promontorio dall'altra
parte del forte, al di là del fiume.
La prima reazione istintiva del tenente fu quella di spaventarlo sparando un paio di colpi,
ma più osservava il suo visitatore e meno sensata gli appariva l'idea.. Anche a distanza
poteva rendersi conto che l'animale era soltanto incuriosito. E in qualche modo senza
che questo si rivelasse apertamente nei suoi pensieri, fu lieto di quel poco di compagnia.
Sentì Cisco agitarsi nel recinto e di colpo si ricordò di lui. Si era completamente
dimenticato del suo cavallo. Mentre si dirigeva al deposito dei rifornimenti, si girò
brevemente a guardare da sopra la spalla e vide che il suo visitatore mattutino se ne
era andato e stava scomparendo sotto l'orizzonte al di là del promontorio.

Il pensiero gli attraversò la mente mentre si trovava nel recinto, intento a versare il foraggio
di Cisco. Era una soluzione semplice e ancora una volta ributtò indietro ogni dubbio.
Per il momento avrebbe inventato le sue incombenze.
Dunbar ispezionò velocemente la baracca di Cargill, il deposito dei rifornimenti, il recinto
e il fiume. Poi si mise al lavoro, cominciando con i mucchi di rifiuti che intasavano le sponde
del piccolo corso d'acqua.
Sebbene non fosse schizzinoso per natura, il terreno per lo scarico dei rifiuti gli apparve di
una sporcizia vergognosa. Bottiglie e spazzatura di ogni genere erano sparse dappertutto.
Nel terreno delle sponde erano incrostati arnesi e materiali vari, ma la cosa peggiore erano
le carcasse, a vari stadi di decomposizione, che erano state disseminate con noncuranza
lungo il fiume. La maggior parte erano carcasse di selvaggina di piccole dimensioni,
conigli e galline faraone. C'era un'antilocapra intera e parte di un'altra.
Vedendo quello squallore, Dunbar arrivò a farsi una prima idea di ciò che poteva essere
successo a Fort Sedgewick. Era chiaro che era diventato un luogo di cui nessuno andava
fiero. Poi, senza saperlo, arrivò quasi alla verità.
Forse si trattava del cibo, pensò. Forse stavano soffrendo la fame.
Lavorò alacremente, con indosso solo la lunga maglia che portava sotto la camicia, un
paio di calzoncini male in arnese e un vecchio paio di stivali, setacciando metodicamente
i mucchi di rifiuti lungo il fiume.
Trovò altre carcasse sul fondo del fiume, e il suo stomaco era in preda alla nausea mentre
trascinava i corpi grondanti degli animali fuori dal fango fetido dell'acqua bassa.
Impilò tutto quanto su un grosso pezzo di tela, e quando ve ne fu abbastanza per un carico,
legò insieme i lembi della tela in modo da formare un grosso sacco. Poi, con Cisco che
forniva la forza necessaria trainarono quell'orribile carico fino in cima al promontorio.
A metà pomeriggio il fiume era stato sgombrato e, anche se non ne era sicuro, il tenente
avrebbe giurato che stesse scorrendo più rapidamente. Si arrotolò una sigaretta e si
riposò per un po', guardando l'acqua del fiume passare. Liberato dai suoi luridi parassiti,
ora aveva nuovamente l'aspetto di un vero fiume, e il tenente sentì un certo orgoglio per
quello che aveva fatto.
Mentre si rialzava, sentì la schiena irrigidirsi. Non era abituato a quel genere di lavoro,
eppure trovò che quel dolore non era sgradevole. Significava che aveva compiuto qualcosa.
Dopo aver raccolto gli ultimi rimasugli, risalì in cima al promontorio e studiò la pila di
rifiuti alta quasi fino alla sua spalla. Versò un gallone di petrolio sul mucchio e gli diede
fuoco.
Per un momento restò a osservare la densa colonna di fumo nero salire verso il cielo
sgombro di nubi. Ma di colpo il cuore gli balzò in petto, quando si rese conto di quello
che aveva fatto. Non avrebbe mai dovuto accendere il fuoco. Da quelle parti, un fuoco
di quelle dimensioni era come accendere una torcia in una notte senza luna. Era come
aver mandato un enorme e vivido segnale d'invito a Fort Sedgewick.
Qualcuno sarebbe stato attirato dalla colonna di fumo, e quel qualcuno con molta
probabilità sarebbero stati degli indiani.


(continua)


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auroraageno
00venerdì 14 settembre 2007 13:26
(segue)


Il tenente Dunbar rimase seduto di fronte alla baracca fino al crepuscolo, sorvegliando
costantemente l'orizzonte in ogni direzione.
Non venne nessuno.
Si sentì sollevato. Ma a mano a mano che il pomeriggio trascorreva con un fucile
Springfield e la sua grossa pistola pronti al tiro, il suo senso di isolamento si era
fatto più profondo. A un certo punto la parola "abbandonato" gli attraversò la mente,
facendolo rabbrividire. Sapeva che era la parola giusta. E sapeva che avrebbe dovuto
restare solo ancora per del tempo a venire. In un certo modo, profondamente e
segretamente, desiderava essere solo, ma l'essere abbandonato non aveva niente a
che vedere con l'euforia che aveva provato durante il viaggio con Timmons.
Questo smorzava ogni entusiasmo.
Mangiò una misera cena e stese il rapporto del suo primo giorno. Il tenente Dunbar se
la cavava bene con la scrittura, il che gli faceva provare meno antipatia per il lavoro
burocratico della maggior parte dei soldati. Era anche deciso a tenere uno scrupoloso
resoconto del suo soggiorno a Fort Sedgewick, soprattutto in considerazione della
strana situazione in cui si trovava.


12 aprile 1863
Ho trovato Fort Sedgewick completamente sguarnito. Il luogo sembra sia stato lasciato
marcire per un po' di tempo. Se vi era un contingente prima che io arrivassi, deve
essere marcito anche lui.
Non so che cosa fare.
Fort Sedgewick è l'avamposto a cui sono stato assegnato, ma non c'è nessuno a cui
riferire. Ogni comunicazione può aver luogo soltanto lasciando il forte, e io non voglio
abbandonare il mio posto.
Le provviste sono abbondanti.
Mi sono assegnato dei compiti di ripulitura. Cercherò di riparare e rinforzare il deposito
dei rifornimenti, ma non so se un uomo solo potrà farcela.
Qui alla frontiera dell'Ovest tutto è calmo.

Ten. John J. Dunbar, USA


Quella sera, mentre era sul pun to di addormentarsi, gli venne l'idea del riparo per la
baracca. Una lunga tenda che riparasse dal sole che si estendeva dall'entrata. Un
posto per stare seduto o per lavorare nei giorni in cui il caldo all'interno della baracca
diventava insopportabile. Un'aggiunta al forte.
E una finestra, praticando un'apertura nella parete di terriccio. Una finestra avrebbe
fatto una grossa differenza. Poteva restringere il recinto per i cavalli e usare le pertiche
per altri lavori di costruzione. Forse, dopotutto, si poteva fare qualcosa con il deposito
dei rifornimenti.
Dunbar si addormentò prima di aver catalogato tutte le possibilità per tenersi occupato.
Fu un sonno profondo e fece dei sogni molto reali.
Era in un ospedale da campo in Pennsylvania. Ai piedi del suo letto erano riuniti una
mezza dozzina di medici, i lunghi camici bianchi imbrattati del sangue di altri << casi >>.
Discutevano se dovessero amputargli il piede alla caviglia oppure al ginocchio. La
discussione degenerò in una disputa che si fece sempre più accesa e mentre il
tenente Dunbar guardava inorridito, cominciarono a picchiarsi.

Si colpivano l'un l'altro con gli arti che avevano asportato nelle precedenti amputazioni,
e mentre si inseguivano per tutto l'ospedale agitando le loro grottesche mazze, i
pazienti che avevano perso i loro arti balzavano o si trascinavano fuori dai loro giacigli,
frugando disperatamente fra quello che i medici avevano lasciato, alla ricerca delle
loro braccia o delle loro gambe.
Nel mezzo del parapiglia il tenente era fuggito, zoppicando follemente fino all'uscita
sul suo piede maciullato.
Saltellando e incespicando si inoltrò in un prato di un verde brillante, disseminato di
cadaveri di soldati confederati e dell'Unione. Come un gioco del domino alla rovescia,
i cadaveri si tirarono su a sedere mentre correva in mezzo a loro, e gli puntarono contro
le pistole.
Si ritrovò in mano una rivoltella e prima che potessero premere il grilletto, sparò addosso
a ciascun cadavere. Sparava velocemente e ogni pallottola centrava una testa. E ogni
testa si spappolava all'impatto del colpo. Sembrava una lunga fila di meloni che
esplodevano l'uno dopo l'altro schizzando dalle spalle dei cadaveri.
Il tenente Dunbar poteva vedere se stesso come appariva da lontano: una folle figura con
la camicia da notte dell'ospedale imbrattata di sangue che correva zoppicando in mezzo
a una moltitudine di cadaveri, con le teste che volavano in aria al suo passaggio.
Improvvisamente, non vi furono più cadaveri e colpi di pistola. Ma dietro di lui qualcuno
lo stava chiamando. Una voce dolcissima.
<< Tesoro... tesoro. >>
Dunbar si girò a guardare da sopra la spalla.
Dietro di lui una donna arrivava correndo, una donna bellissima, con un viso dagli zigomi
alti, dei folti capelli biondi e degli occhi così densi di passione che poteva sentire il proprio
cuore accelerare i battiti. Indossava unicamente dei pantaloni da uomo e correva tenendo
nella mano tesa un piede inzuppato di sangue, come in un gesto di offerta.
Il tenente abbassò lo sguardo sul suo piede ferito e vide che non c'era più. Stava correndo
su un bianco moncone di osso.
Si svegliò rizzandosi a sedere, sconvolto, cercando furiosamente a tastoni il suo piede al
fondo del letto. Era là.
Le coperte erano madide di sudore. Annaspò sotto il letto per cercare la sua borsa del
tabacco e frettolosamente si arrotolò una sigaretta. Poi scostò con un calcio le coperte
appiccicaticce, si appoggiò con le spalle al cuscino e aspirò delle lunghe boccate di fumo,
aspettando che facesse chiaro.
Sapeva esattamente che cosa aveva ispirato il sogno. Gli elementi principali erano accaduti
realmente. Dunbar lasciò che la sua mente ritornasse a quegli avvenimenti.
Era stato ferito a un piede. Schegge di granata. Era stato per un po' di tempo in un ospedale
da campo e avevano parlato di amputargli il piede. Non era riuscito a sopportare il pensiero
dell'amputazione ed era fuggito. Nel mezzo della notte, fra i lamenti dei feriti che echeggiavano
nel reparto in cui si trovava, era scivolato fuori dal letto e aveva rubato qualche indumento a caso.
Si era cosparso il piede di polvere antisettica, lo aveva fasciato con delle bende e in qualche
modo era riuscito a infilarlo nello stivale.
Era uscito di soppiatto da una porta laterale, aveva rubato un cavallo e, non avendo altro
posto in cui andare, all'alba aveva raggiunto la sua unità, raccontando la frottola di una ferita
leggera all'alluce.
Dopo due giorni il dolore era così lancinante che il tenente non desiderava altro se non morire.
Quando l'occasione si presentò, la colse.
Separate fra loro da trecento metri di campo spoglio, due unità avversarie si erano fronteggiate
per tutto un pomeriggio, sparando al riparo dei muri di pietra che delimitavano i due lati opposti
del campo, ciascuna delle due incerta sulla forza dell'altra, ciascuna esitante a passare alla
carica.
L'unità del tenente Dunbar aveva lanciato un pallone di osservazione ma i ribelli sudisti lo
avevano abbattuto immediatamente.
Si era a un punto morto e quando, nel tardo pomeriggio, la tensione giunse al culmine, anche
il tenente Dunbar giunse al proprio limite di sopportazione personale. I suoi pensieri si
concentrarono sul fermo proposito di mettere fine alla sua vita.
Si offrì volontario per fare una sortita a cavallo e attirare il fuoco nemico.
Il colonnello al comando del reggimento non era adatto alla guerra. Era debole di stomaco
e di mente ottusa.
Normalmente non avrebbe mai acconsentito a una cosa del genere, ma quel pomeriggio
era decisamente sotto pressione. Il pover'uomo era completamente disorientato e per
qualche inspiegabile motivo, nella sua mente continuava a insinuarsi il pensiero di una
grossa coppa di gelato alla pesca.
Per rendere le cose ancora peggiori, il generale Tipton e i suoi aiutanti avevano da poco
occupato una posizione di osservazione in cima a una collina verso Ovest. La sua condotta
veniva osservata, tuttavia era impossibilitato ad agire.
Chi aveva delle qualità di prim'ordine era questo giovane tenente dalla faccia esangue,
che gli diceva in tono concitato di voler andare ad attirare il fuoco nemico. I suoi occhi
spiritati e senza pupille gli incutevano timore.
L'inetto comandante acconsentì al piano.
Poiché il suo cavallo tossiva malamente, a Dunbar venne concesso di sceglierne un altro
fra quelli di riserva. Prese un piccolo ma robusto cavallo dal mantello bruno fulvo di nome
Cisco e cercò di issarsi sulla sella senza gridare di dolore, mentre l'intera unità stava a
osservare.
Mentre si dirigeva con il cavallo al passo verso il basso muro di pietra, dall'altra parte del
campo si udì il suono secco di qualche colpo di fucile, ma per il resto vi era un silenzio
mortale e il tenente Dunbar si chiese se il silenzio fosse reale, o se invece non succedesse
sempre così prima che un uomo morisse.


(continua)


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auroraageno
00venerdì 14 settembre 2007 13:28
(segue)


Spronò Cisco con un deciso colpo di talloni nei fianchi, superò il muro con un salto
e si precipitò attraverso il campo, puntando diritto al centro del muro di pietra che
nascondeva il nemico. Per un momento i ribelli rimasero troppo sconcertati per
sparare, e il tenente coprì i primi cento metri in un vuoto privo di suoni.
Poi aprirono il fuoco. Le pallottole riempivano l'aria intorno a lui come degli spruzzi
d'acqua da un rubinetto. Il tenente non si preoccupò di rispondere al fuoco. Si
mantenne eretto sulla sella in modo da costituire un migliore bersaglio e spronò
nuovamente Cisco. Il cavallo abbassò le orecchie e si lanciò verso il muro. Per
tutto il tempo, Dunbar aspettò che una delle pallottole lo colpisse.
Ma non accadde, e quando fu abbastanza vicino da riuscire a vedere gli occhi del
nemico, lui e Cisco scartarono a sinistra, correndo a nord in linea retta, a cinquanta
metri dal muro. Cisco galoppava con tanta forza che dietro i suoi zoccoli posteriori
la terra si sollevava in aria come la scia della ruota a pale di un battello. Il tenente
continuò a mantenersi ritto sulla sella, e questo si rivelò irresistibile per i confederati.
Si alzarono dal loro appostamento come delle sagome in una sala da tiro rovesciando
una cortina di fuoco sul solitario cavaliere mentre questo sfrecciava oltre.
Non riuscirono ad abbatterlo.
Il tenente Dunbar sentì il fuoco cessare. La fila di fucilieri aveva scaricato i fucili. Mentre
si allontanava, avvertì un bruciore al braccio e scoprì che una pallottola gli aveva scalfito
il bicipite. Quel senso di bruciante calore lo fece rientrare in sé per un breve momento.
Gettò uno sguardo verso la linea che aveva appena superato e vide che i confederati
giravano in tondo disordinatamente dietro il muro in uno stato di incredulità.
Di colpo, le sue orecchie ritornarono a funzionare e poté udire le grida di incoraggiamento
che provenivano dalle sue linee al di là del campo. Poi, ancora una volta, fu consapevole
del suo piede, che pulsava dolorosamente come una sorta di pompa dentro allo stivale.
Tirò con forza le redini per fare dietro front e mentre Cisco piegava la testa di lato dietro
la sollecitazione del morso, cambiando direzione, il tenente Dunbar udì le grida di evvviva
provenire come un boato da dietro le sue linee. Guardò oltre il campo. I suoi fratelli d'armi
erano tutti in piedi al di là del muro.
Diede un colpo di talloni a Cisco e si buttarono in avanti, ritornando al galoppo nella stessa
direzione da cui erano venuti, questa volta per saggiare l'altro fianco della linea confederata.
Gli uomini davanti ai quali era già passato vennero colti in contropiede, e il tenente riuscì
a vederli mentre ricaricavano freneticamente i fucili al suo passaggio.
Ma davanti a lui, giù lungo il fianco che non aveva ancora saggiato, poté vedere dei
fucilieri che si stavano alzando in piedi, il calcio del fucile saldamente appoggiato alla
spalla.
Deciso a non venir meno a se stesso, d'improvviso e impulsivamente il tenente lasciò
andare le redini e sollevò in aria entrambe le braccia. Poteva anche assomigliare a
uno di quei cavalieri che si esibivano nei circhi ma quello che sentiva era definitivo.
Aveva alzato le braccia in un gesto finale di addio alla sua vita. Ma chiunque lo avesse
visto, avrebbe potuto fraintenderlo. Avrebbe potuto sembrare un gesto di trionfo.
Con quel gesto il tenente Dunbar non intendeva naturalmente dare un segnale a chicchessia.
Voleva soltanto morire. Ma i suoi camerati degli stati dell'Unione avevano già il cuore in
gola, e quando videro le braccia del tenente sollevarsi in aria, fu più di quanto riuscissero
a sopportare.
Si lanciarono in massa oltre il muro, una marea spontanea di uomini che volevano combattere,
urlando e avanzando con uno slancio che gelò il sangue ai soldati confederati.
I ribelli si sbandarono e si diedero alla fuga come un sol uomo, correndo disordinatamente
verso il folto degli alberi dietro di loro.
Quando il tenente Dunbar fermò il cavallo, i soldati dell'Unione dalle uniformi blu avevano
già superato il muro, inseguendo i ribelli fin dentro al bosco.
La sua testa, improvvisamente, diventò più leggera.
Il mondo intorno a lui cominciò a vorticare.
Il colonnello e i suoi aiutanti si stavano avvicinando da una direzione, il generale Tipton e
i suoi da un'altra. Entrambi lo avevano visto vacillare e cadere privo di sensi dalla sella
e in quel momento avevano affrettato il passo. Correndo verso il punto del campo dove
si trovava Cisco, fermo accanto alla sagoma informe che giaceva vicino alle sue zampe,
il colonnello e il generale Tipton provavano le stesse emozioni, emozioni che erano rare
per degli ufficiali di grado elevato, soprattutto in tempo di guerra.
Ciascuno di loro era sinceramente e profondamente preoccupato per un singolo individuo.
Dei due, era il generale Tipton a essere maggiormente commosso. In vent'anni di
carriera militare aveva assistito a numerosi atti di coraggio, ma niente era paragonabile
a ciò che aveva visto quel pomeriggio.
Quando Dunbar riprese i sensi, il generale era inginocchiato al suo fianco con il fervore
di un padre accanto al figlio caduto in battaglia.
E quando scoprì che quel coraggioso tenente aveva cavalcato per quel campo pur essendo
già ferito, il generale abbassò il capo come per pregare e fece qualcosa che non aveva
fatto sin da quando era un ragazzo. Sulla sua barba grigia colarono delle lacrime.
Il tenente Dunbar non era in condizioni di poter parlare molto, ma si sforzò di pronunciare
una richiesta. La ripeté più volte.
<< Non amputatemi il piede. >>
Il generale Tipton lo udì e prese nota della richiesta come se si trattasse di un comandamento
divino. Il tenente Dunbar venne caricato sull'ambulanza personale del generale, trasportato
al quartier generale del reggimento e, una volta laggiù, venne posto sotto la supervisione
diretta del medico personale del generale.
Vi fu una breve scena al loro arrivo. Il generale Tipton ordinò al suo medico di salvare il
piede del giovane ufficiale, ma dopo un rapido esame il medico rispose che con molta
probabilità avrebbe dovuto amputare.
Il generale Tipton trasse il medico da parte e gli disse:
<< Se non salva il piede di quel ragazzo, la farò destituire per incompetenza. La farò
destituire, dovesse anche essere l'ultima cosa che farò >>.
La guarigione del tenente Dunbar diventò un'ossessione per il generale.
Ogni giorno trovava il tempo per passare a trovare il giovane tenente e, allo stesso tempo,
tenere d'occhio il medico, il quale non smise mai di sudare per tutt'e due le settimane
che ci vollero per salvare il piede del tenente Dunbar.
Durante le sue visite il generale non parlava molto. Esprimeva soltanto una paterna
preoccupazione. Ma quando il piede finalmente fu fuori pericolo, un pomeriggio entrò
nella tenda, trasse una sedia vicino al letto e cominciò a parlare con calma di qualcosa
che aveva preso forma nella sua mente.
Dunbar ascoltò ammutolito per la sorpresa, mentre il generale esponeva la sua idea.
Voleva che per il tenente Dunbar la guerra fosse finita perché le sue gesta sul campo,
gesta alle quali il generale stava ancora pensando, erano abbastanza per un solo uomo
in una sola guerra.
E voleva che il tenente gli chiedesse qualcosa perché, e qui il generale abbassò la voce,
<< Siamo tutti in debito con lei. Io sono in debito con lei >>. Il tenente si concesse un
lieve sorriso. << Be'... ho il mio piede, signore >>, disse.
Il generale Tipton non restituì il sorriso.
<< Che cosa vuole? >> chiese.
Dunbar chiuse gli occhi e pensò.
Alla fine disse: << Ho sempre desiderato essere assegnato alla frontiera dell'Ovest >>.
<< Dove? >>
<< Dovunque... purché all'Ovest >>.
Il generale si alzò dalla sedia. << D'accordo >>, disse, e fece per avviarsi fuori della tenda.
<< Signore? >>
Il generale si fermò e quando guardò verso il letto, lo fece con un affetto che era disarmante.
<< Vorrei tenere il cavallo... Posso farlo? >>
<< Certo che può tenerlo. >>
Il tenente Dunbar aveva pensato al colloquio con il generale per tutto il resto del pomeriggio.
Aveva provato un senso di eccitazione per la nuova, improvvisa aspettativa che gli si apriva.
Ma aveva anche provato un leggero senso di colpa al pensiero dell'affetto che aveva letto
sul viso del generale. Non aveva detto a nessuno che aveva solo cercato di suicidarsi.
Ma ora sembrava che fosse troppo tardi. Quel pomeriggio decise che non lo avrebbe mai
detto.
E ora, in quelle coperte umide di sudore, Dunbar si arrotolò la sua terza sigaretta in mezz'ora,
ripensando ai misteriosi armeggi del destino che lo avevano infine condotto a Fort Sedgewick.
La stanza stava diventando meno cupa, e anche l'umore del giovane tenente. Distolse i
pensieri dal passato e li riportò al presente. Con lo zelo dell'uomo soddisfatto del posto in
cui si trova, cominciò a pensare alla fase della campagna di ripulisti per quel giorno.



(continua)

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auroraageno
00lunedì 17 settembre 2007 04:16
(segue)

6


Come un ragazzino che salterebbe volentieri le verdure per passare subito al dolce,
il tenente Dunbar preferì tralasciare il difficile lavoro di puntellare il deposito dei
rifornimenti a favore della più piacevole possibilità di costruire il riparo.
Frugando fra le provviste trovò un gruppo di tende da campo che avrebbero fornito
la tela, ma per quanto cercasse, non riuscì a scovare nulla che potesse servire per
il lavoro di cucitura e desiderò di non essere stato così precipitoso nel bruciare le
carcasse.
Ispezionò le sponde del fiume per buona parte della mattina, prima di trovare un
piccolo scheletro dal quale trasse parecchie schegge di osso che potevano essere
usate per cucire.
Di ritorno al deposito dei rifornimenti trovò un pezzo di corda sottile. La dipanò fino
a ottenere il filo che pensava facesse allo scopo. Il cuoio sarebbe stato molto più
resistente, ma mentre apportava tutte queste migliorie, al tenente Dunbar piaceva
l'idea di dare al lavoro un carattere di provvisorietà. Mantenere il forte, pensò,
sogghignando fra sé. Mantenere il forte finché non fosse tornato a nuova vita con
l'arrivo di un nuovo contingente.
Sebbene stesse molto attento a non lasciarsi andare alle aspettative, era sicuro che,
prima o poi, qualcuno sarebbe arrivato.
Il lavoro di cucito fu tremendo. Per il resto del tempo del secondo giorno cucì
caparbiamente la tela, facendo buoni progressi. Ma quando mise da parte il lavoro,
a pomeriggio inoltrato, le sue mani erano così gonfie e doloranti che riuscì a fatica
a prepararsi il caffè serale.
Al mattino le sue dita erano di pietra, troppo irrigidite per lavorare di ago. Fu
comunque tentato di provarci, perché gli mancava poco per terminare, ma non lo
fece.
Rivolse invece la sua attenzione al recinto. Dopo averlo esaminato attentamente,
asportò quattro delle pertiche più alte e più robuste. Non erano state infisse
profondamente nel terreno e non gli ci volle molto tempo per tirarle fuori.
Cisco non sarebbe andato da nessuna parte e il tenente per un momento accarezzò
l'idea di lasciare aperto il recinto. Alla fine, però, decise che un recinto che non era
affatto un recinto avrebbe violato lo spirito della campagna di ripulisti, così passò
un'ora a risistemare la palizzata.
Poi stese le tele davanti alla baracca e conficcò le pertiche, pressando come meglio
poteva il terreno duro intorno alla base.
Aveva cominciato a fare caldo, e quando ebbe finito con il lavoro il tenente si trovò
a camminare faticosamente verso l'ombra dell'interno della baracca. Si sedette sul
bordo del letto e si appoggiò alla parete. I suoi occhi si stavano appesantendo. Si
sdraiò sul giaciglio per riposare un momento e subito cadde in un profondo, delizioso
sonno.

Si svegliò eccitato per il piacere quasi sensuale dell'essersi arreso completamente,
in questo caso a un sonnellino. Stiracchiandosi fiaccamente, lasciò cadere una mano
oltre il bordo del letto e come un bambino immerso in fantasticherie, lasciò che le sue
dita giocherellassero sul pavimento di terra.
Si sentiva meravigliosamente bene, sdraiato là senza nulla da fare e gli venne in mente
che, oltre a inventare i suoi compiti, poteva anche decidere da solo quando farli. Per
il momento, comunque, decise che, allo stesso modo in cui si era arreso al sonnellino,
si sarebbe concesso un più largo margine anche per altre cose piacevoli. Poteva
benissimo regalarsi qualche momento di inattività, pensò.
Attraverso la porta, le ombre strisciavano verso l'interno della baracca. Curioso di
sapere quanto avesse dormito, Dunbar infilò una mano nei pantaloni e cavò il vecchio,
semplice orologio da tasca che era stato di suo padre. Quando lo avvicinò al viso,
vide che si era fermato. Per un momento pensò di caricarlo a un'ora approssimativa,
ma poi si appoggiò il vecchio e consumato orologio sullo stomacò e si lasciò andare
a meditare.
Che importanza aveva il tempo per lui, ora? Che cosa importava, dopotutto? Be',
forse era necessario per regolare il movimento delle cose, uomini e materiali, per
esempio. Per cuocere i cibi nel modo giusto. Per le scuole, i matrimoni e le funzioni
religiose e per andare al lavoro.
Ma lì, che cosa importava?
Il tenente Dunbar si preparò una sigaretta e appese il ricordo di famiglia a mezzo metro
al di sopra del letto. Rimase a fissare i numeri sul quadrante dell'orologio mentre fumava,
pensando a come sarebbe stato molto più logico ed efficiente lavorare quando se ne
aveva voglia, mangiare quando si aveva fame e dormire quando si aveva sonno.
Aspirò una lunga boccata e, piegando con soddisfazione le braccia dietro la testa,
soffiò un fiotto di fumo azzurrognolo.
Come sarebbe bello vivere senza tempo per un po', pensò.
Improvvisamente, all'esterno ci fu un rumore di passi pesanti. Avanzavano e si arrestavano,
poi avanzavano nuovamente. Un'ombra in movimento si profilò all'entrata della baracca
e un momento dopo la grossa testa di Cisco comparve attraverso la porta. Sembrava
un bambino che invadesse la santità della camera da letto dei suoi genitori una domenica
mattina.
Il tenente Dunbar scoppiò a ridere rumorosamente. Il cavallo lasciò ricadere le orecchie
e scrollò più volte la lunga testa, quasi volesse far credere che quel piccolo incidente non
era accaduto. I suoi occhi scrutarono la stanza con aria distaccata. Poi guardò apertamente
il tenente, battendo con lo zoccolo per terra come fanno i cavalli quando vogliono scacciare
le mosche.
Dunbar sapeva che voleva qualcosa.
Probabilmente, una cavalcata.
Non si muoveva da due giorni.

Il tenente Dunbar non era un cavaliere provetto. Non era mai stato addestrato alle sottigliezze
dell'equitazione e il suo fisico snello, ingannevolmente robusto, non aveva mai conosciuto
un regolare allenamento.
Ma c'era qualcosa per quanto riguardava i cavalli. Li amava sin da quando era ragazzo:
forse, la ragione era questa. Ma la ragione non aveva importanza. Ciò che importava è
che quando Dunbar montava sul dorso di un cavallo, accadeva qualcosa di straordinario,
soprattutto se si trattava di un cavallo eccezionale come Cisco.
Fra i cavalli e il tenente Dunbar si instaurava un dialogo. Aveva la capacità di decifrare il
linguaggio di un cavallo. E una volta appreso, non aveva limite. Aveva appreso il linguaggio
di Cisco quasi subito, e c'era poco che non potessero fare. Quando cavalcavano, lo
facevano con la grazia di un corpo di ballo.
E più era puro il loro modo di cavalcare, e meglio era. Dunbar aveva sempre preferito
cavalcare a pelo anziché usare la sella, ma nell'esercito, naturalmente, una cosa simile non
era permessa. Gli uomini potevano farsi male e in ogni caso era fuori questione per le
campagne di lunga durata.
Così, quando il tenente entrò nel deposito dei rifornimenti quasi buio, la sua mano si
diresse automaticamente verso la sella appoggiata in un angolo.
Si trattenne. Lì, l'unico esercito era lui, e il tenente Dunbar sapeva che non si sarebbe fatto
male.
Erano a meno di venti metri dal recinto quando vide nuovamente il lupo. Lo stava fissando
dallo stesso punto dove si trovava il giorno prima sul bordo del promontorio oltre il fiume.
Il lupo aveva cominciato a muoversi, ma quando vide Cisco fermarsi si immobilizzò,
indietreggiò nella posizione di prima e si mise di nuovo a fissare il tenente. Si trattava
dello stesso lupo, con due macchie bianche sulle zampe anteriori che le facevano
assomigliare a dei calzini. Era grosso e robusto ma qualcosa di lui dava a Dunbar
l'impressione che non fosse più nel fiore degli anni. Il suo pelo era malmesso e al tenente
sembrò di vedere una linea frastagliata lungo il muso, probabilmente una vecchia cicatrice.
Aveva un atteggiamento vigile e attento che denotava l'età. Saggezza, fu la parola che
venne in mente al tenente Dunbar. La saggezza era il premio per essere sopravvissuto
molti anni, e il vecchio lupo dal pelo fulvo e con gli occhi guardinghi era sopravvissuto
più di quanto gli spettasse.
Buffo che sia ritornato, pensò il tenente:
Diede un leggero colpo di gambe e Cisco si mosse in avanti. In quello stesso momento,
l'occhio di Dunbar colse un movimento. Guardò al di là del fiume. Anche il lupo si stava
muovendo.
In effetti, stava tenendo il loro stesso passo. Continuò così per un centinaio di metri prima
che il tenente fermasse di nuovo il cavallo.
Anche il lupo si fermò.
D'impulso, il tenente fece fare a Cisco un quarto di giro, fronteggiando il bordo del
promontorio. Ora guardava il lupo fisso negli occhi e il tenente fu certo di potervi leggere
qualcosa. Qualcosa come una voglia intensa.
Stava cominciando a pensare di quale voglia potesse trattarsi quando il lupo fece uno
sbadiglio e si allontanò. Dunbar mise Cisco al trotto e se ne andò.


13 aprile 1863
Anche se le provviste non mancano, ho deciso comunque, di razionarle. La guarnigione
o quella di rimpiazzo dovrebbero arrivare da un momento all'altro. Ormai non credo che
debba mancare molto.
In ogni caso, sto sforzandomi di consumare le provviste come farei se facessi parte
dell'avamposto invece che dell'intera faccenda. Sarà dura per quanto riguarda il caffè,
ma farò del mio meglio.
Ho iniziato la tenda di riparo. Se le mie mani, che in questo momento sono in condizioni
pietose, domani mattina saranno migliorate, potrei riuscire a installarla per domani
pomeriggio.
Oggi ho fatto un breve giro di ricognizione. Nulla da riferire.
C'è un vecchio lupo che sembra interessato a ciò che avviene qui. Non sembra rappresentare
un pericolo, però, e a parte il mio cavallo è l'unico visitatore che ho avuto. Ha fatto la sua
comparsa ogni pomeriggio negli ultimi due giorni. Se domani si farà rivedere, lo chiamerò
Due Calzini. Ha le zampe anteriori macchiate di bianco a foggia di calzino.

Ten. John J. Dunbar, USA



(continua)


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auroraageno
00martedì 18 settembre 2007 10:44
(segue)


7



I giorni immediatamente seguenti passarono tranquillamente.
Le mani del tenente Dunbar tornarono quelle di prima e la tenda venne issata.
Venti minuti dopo averla sollevata, quando si stava rilassando sotto l'ampia
ombra, chinato su un barile ed intento ad arrotolarsi una sigaretta, si alzò il vento
e la tenda crollò.
Sentendosi ridicolo, cercò di uscire a tentoni da sotto la tenda, studiò per qualche
minuto il suo fallimento e gli balenò l'idea dei fili guida come soluzione. Usò della
corda per i fili e prima che il sole tramontasse, Dunbar era di nuovo all'ombra, a
occhi chiusi, godendosi un'altra sigaretta fatta a mano, mentre ascoltava il
piacevole rumore della tenda che sbatteva leggermente sopra di lui.
Usando una baionetta, aprì un'ampia finestra nella parete di terra della baracca
e vi sistemò sopra un brandello di tela.
Lavorò sodo e a lungo al deposito dei rifornimenti, ma salvo che asportare buona
parte della parete incurvata, fece pochi progressi. Il risultato finale fu un enorme
foro. Le zolle di terreno originali crollavano ogni volta che cercava di rimetterle su,
così il tenente Dunbar coprì il foro con un altro pezzo di tela, lavandosi le mani del
resto. Sin dall'inizio il deposito era stato un affare in perdita.
Sdraiato sul suo giaciglio, sul finire del pomeriggio, Dunbar ripensò più volte al
problema del deposito, ma, a mano a mano che i giorni passavano, ci pensò
sempre meno. Il tempo era stato bellissimo, senza nessuna delle violente piogge
primaverili. Non faceva né troppo caldo né troppo freddo, l'aria era leggera e il
debole vento che gonfiava la finestra a tenda sopra la sua testa in quei pomeriggi
era gradevole.
I piccoli problemi quotidiani sembravano più facili da risolvere a mano a mano che
il tempo passava e quando il lavoro era finito il tenente si sdraiava sul suo giaciglio
con la sua sigaretta, meravigliandosi della pace che provava. Invariabilmente gli
occhi si facevano pesanti e prese l'abitudine di sonnecchiare per un'ora prima
di cena.
Anche Due Calzini divenne un'abitudine. Faceva la sua comparsa al suo solito
posto ogni pomeriggio e dopo due o tre giorni il tenente Dunbar cominciò a dare
per scontate le sue apparizioni. A volte si accorgeva di lui quando il lupo,
trotterellando lungo il promontorio, appariva alla vista, ma il più delle volte accadeva
che il tenente sollevasse lo sguardo da qualche piccolo lavoro e lo vedesse, seduto
sulle zampe posteriori, che osservava da oltre il fiume con quello sguardo curioso
ma inequivocabilmente voglioso.
Una sera, mentre Due Calzini stava guardando, depose un grosso pezzo di cotenna
di pancetta sul proprio lato del fiume. La mattina dopo non vi era traccia della pancetta
e sebbene non ne avesse la prova, Dunbar era sicuro che l'avesse presa Due Calzini.

Vi erano alcune cose di cui il tenente Dunbar sentiva la mancanza. Gli mancava la
compagnia delle persone. Gli mancava il piacere di un robusto whisky. Soprattutto,
gli mancavano le donne, o meglio, una donna. Il pensiero del sesso gli passava a
malapena per la testa, ma quello di qualcuno con cui condividere si affacciava spesso
nella sua mente. Più si adattava e si abituava al facile stile di vita senza problemi
di Fort Sedgewick, più sentiva il desiderio di dividerlo con qualcun altro e quando
pensava a questo elemento mancante, il tenente chinava il mento e fissava tetramente
nel vuoto.
Fortunatamente, questi momenti passavano presto. Ciò che gli poteva mancare era
nulla, in confronto a ciò che aveva. La sua mente era libera. Non c'era divisione fra
dovere e piacere. Tutto era uguale e non lo trovava per niente noioso. Era separato
ed era tutt'uno, allo stesso tempo. Era una sensazione meravigliosa.
Gli piacevano le cavalcate quotidiane di perlustrazione senza sella. Ogni giorno lui e
Cisco prendevano una direzione diversa, a volte allontanandosi anche cinque o sei
miglia dal forte. Non vide nessun bisonte e nessun indiano. Ma non era una grande
delusione. La prateria era magnifica, splendente di una miriade di fiori selvatici e
ricca di selvaggina. Ma la cosa più bella era l'erba, viva come un oceano che si
increspava in lunghe onde mosse dal vento, fin dove poteva arrivare lo sguardo.
Sapeva che non si sarebbe mai stancato di quella visione.
Il pomeriggio precedente a quello che il tenente Dunbar dedicava al bucato, lui e
Cisco avevano cavalcato per circa mezzo miglio quando, per caso, guardando
da sopra la spalla aveva visto Due Calzini seguirli con la sua andatura trotterellante
poco dietro di loro.
Il tenente Dunbar fermò il cavallo e il lupo rallentò.
Ma non si fermò.
Fece un largo giro, riprendendo a trotterellare. Quando fu alla loro altezza, il vecchio
lupo si fermò nell'erba alta, a poca distanza alla sinistra del tenente, e si sedette sulle
zampe posteriori, quasi aspettando un segnale per ripartire.
Si inoltrarono nella prateria e Due Calzini andò con loro. La curiosità di Dunbar lo
indusse a fermarsi e ripartire più volte lungo il percorso. Ogni volta Due Calzini, con i
suoi occhi gialli sempre vigili, lo imitava.
Persino quando Dunbar cambiò direzione, zigzagando qua e là, il lupo ne seguì i
movimenti, sempre mantenendo la stessa distanza.
Quando spinse Cisco al piccolo galoppo, il tenente fu sbalordito nel vedere Due Calzini
passare anche lui a un'andatura più veloce.
Quando si fermarono, il tenente guardò l'animale che lo aveva fedelmente seguito fin lì
e cercò di trovare una spiegazione. Di certo l'animale aveva già avuto occasione di
conoscere l'uomo. Forse era per metà un cane. Ma quando gli occhi del tenente
spaziarono sulla sconfinata distesa selvaggia tutt'intorno a lui, non riuscì a immaginare
che Due Calzini non potesse essere altro che un lupo.
<< D'accordo >>, gli gridò.
Il lupo rizzò le orecchie.
<< Andiamo. >>
I tre percorsero un altro miglio prima di sorprendere un piccolo branco di antilocapre.
Il tenente osservò gli animali con la groppa posteriore bianca spostarsi per la prateria
finché furono quasi fuori vista.
Quando si voltò a controllare la reazione di Due Calzini, non lo vide più.
Il lupo se n'era andato.
Verso Ovest si stavano accumulando delle grosse nubi scure e poté scorgere qualche
lampo. Mentre si avviavano per ritornare, Dunbar tenne d'occhio il fronte del temporale.
Si stava spostando verso di loro e la prospettiva della pioggia fece incupire il viso del
tenente.
Doveva proprio fare il bucato.
Le coperte avevano cominciato a puzzare come dei calzini sporchi.


(continua)


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auroraageno
00mercoledì 19 settembre 2007 08:36
(segue)

8


Il tenente Dunbar stava al passo con la venerabile tradizione di prevedere il tempo.
Si sbagliò.
Il minaccioso temporale passò su Fort Sedgewick durante la notte senza lasciar cadere
una sola goccia di pioggia e il giorno che spuntò il mattino dopo era di un purissimo
azzurro pastello, con l'aria che assomigliava a qualcosa che si potesse bere e il sole
che scaldava tutto ciò che toccava senza inaridire un solo filo d'erba.
Mentre beveva il caffè, il tenente rilesse i suoi rapporti ufficiali dei giorni addietro e
cocncluse che aveva compiuto un buon lavoro nell'esporre i fatti. Riesaminò per un po'
i commenti soggettivi che vi aveva incluso e più di una volta raccolse la penna per
cancellare una riga, ma alla fine non cambiò nulla.
Stava versando una seconda tazza di caffè quando notò una strana nube in lontananza
verso Ovest. Era marrone, una nuvola color marrone scuro che si profilava bassa e
piatta sulla linea dell'orizzonte.
Era troppo caliginosa per poter essere una nuvola. Sembrava piuttosto del fumo
proveniente da un incendio. I lampi della notte precedente dovevano aver colpito
qualcosa. Forse avevano incendiato la prateria. Prese nota mentalmente di tener
d'occhio la nuvola di fumo e di fare la sua cavalcata pomeridiana in quella direzione,
se fosse durata.

Erano giunti il giorno prima, poco prima del crepuscolo, e a differenza del tenente
Dunbar avevano avuto la pioggia.
Ma l'acqua non aveva minimamente smorzato il loro spirito. L'ultimo tratto del lungo
trasferimento da un accampamento invernale nel lontano sud era terminato. Questo,
e l'arrivo della primavera, rappresentavano il momento più felice. I loro pony diventavano
più grassi e più forti ogni giorno che passava, la marcia aveva rinvigorito tutti dopo
mesi di relativa inattività e i preparativi per le cacce estive sarebbero iniziati subito.
Tutto ciò li rendeva ancora più felici, felici soprattutto nel profondo del ventre di
ciascuno di loro. Stavano arrivando i bisonti. Fra poco, si sarebbe festeggiato.
E dato che questo era un accampamento per l'estate da generazioni, la gioia di
questo ritorno a casa riempiva il cuore di ciascuno di loro, di tutti i centosettantadue
fra uomini, donne e bambini.
L'iverno era stato mite e la tribù lo aveva superato senza difficoltà. Oggi, il primo giorno
del loro ritorno, nell'accampamento regnava l'allegria. I ragazzini giocavano chiassosamente
in mezzo ai pony, i guerrieri si scambiavano racconti e le donne erano affaccendate
a preparare il cibo con maggior gaiezza del solito.
Erano comanci.
La nuvola di fumo che il tenente Dunbar pensava fosse un incendio nella prateria
veniva dai loro fuochi per cuocere il cibo.
Erano accampati sullo stesso fiume, otto miglia a Ovest da Fort Sedgewick.


Dunbar raccolse tutto ciò che riuscì a trovare e che avesse bisogno di essere lavato
e lo stipò in un sacco, poi si gettò sulle spalle le coperte sudicie, scovò un pezzo di
sapone e si diresse verso il fiume.
Mentre tirava fuori il bucato dal sacco, accosciato vicino all'acqua, pensò che anche
quello che aveva indosso aveva bisogno di essere lavato.
Ma non ci sarebbe stato niente da mettersi addosso mentre il tutto si asciugava.
C'era la mantella.
Ma che stupido, disse fra sé, e con una risata aggiunse a voce alta: << Non ci sono
che io, e la sola prateria >>.
Stare nudo era una sensazione piacevole. Per essere maggiormente in spirito con
la cosa, si tolse persino il berretto da ufficiale.
Quando si piegò verso l'acqua con le braccia cariche di indumenti, si vide riflesso
sulla superficie, la prima volta che si vedeva in più di due settimane. Restò a osservarsi.
I capelli erano diventati più lunghi. La sua faccia sembrava più affilata, persino con
la barba che gli era spuntata. Era senza dubbio dimagrito. Ma il tenente pensò che aveva
un buon aspetto. I suoi occhi erano acuti come non li aveva mai visti e, come se stesse
confessando il suo affetto per qualcuno, sorrise fanciullescamente all'immagine
riflessa.
Più osservava la barba e meno gli piaceva. Corse indietro a cercare il suo rasoio.
Il tenente non pensava alla sua pelle mentre si radeva.Era sempre stata la stessa.
Gli uomini bianchi non hanno tutti la medesima carnagione. Alcuni sono bianchi
come la neve.
Il tenente Dunbar era abbastanza bianco da cavare gli occhi.


Uccello Saltellante aveva lasciato l'accampamento prima dell'alba. Sapeva che nessuno
avrebbe fatto domande. Non doveva rispondere dei suoi movimenti, e raramente di
ciò che faceva. A meno che non agisse malamente, il che poteva rivelarsi una
sciagura.
In effetti, se l'era cavata bene. Per due volte aveva operato due piccoli miracoli. I miracoli
gli facevano piacere, ma gli faceva altrettanto piacere occuparsi dell'aspetto più ordinario
del suo mestiere, badare al benessere quotidiano della tribù. Sbrigava una miriade di
incombenze di carattere amministrativo, assisteva alle discussioni su questioni di vasta
portata, praticava la medicina e sedeva con gli anziani negli interminabili consigli
quotidiani della tribù. Oltre a provvedere a due mogli e a quattro figli. E faceva tutto
con un occhio e un orecchio ben drizzati verso il Grande Spirito, sempre in ascolto,
sempre attento a cogliere il minimo suono o il più debole segno.
Uccello Saltellante sbrigava i suoi molti compiti onorevolmente, e tutti lo sapevano.
Lo sapevano perché lo conoscevano.
Qualcuno fra quelli che, come lui, si erano alzati all'alba avrebbero potuto domandarsi
dove andasse quella prima mattina, ma non si sarebbero mai sognati di chiederlo.
Uccello saltellante non era in missione speciale. Aveva cavalcato nella prateria per
schiarirsi le idee. Detestava i grandi spostamenti: dall'inverno all'estate, dall'estate
all'inverno. Il trambusto e il rumore che li accompagnava lo distraevano. Distraevano
l'occhio e l'orecchio che teneva puntati al Grande Spirito e sapeva che quella mattina
il frastuono per organizzare l'accampamento sarebbe stato più di quanto potesse
sopportare.
Così aveva preso il suo pony migliore, un baio castano dall'ampia schiena e si era
allontanato verso il fiume, seguendolo per parecchie miglia fino a un'altura che conosceva
sin da quando era ragazzo.
Là attese che la prateria gli si rivelasse e, quando accadde, Uccello Saltellante ne fu lieto.
Non gli era mai apparsa migliore di come la vedeva adesso. Tutti i segni facevano pensare
che l'estate sarebbe stata propizia e ricca di cibo. Ci sarebbero stati dei nemici, certamente,
ma la tribù ora era forte. Uccello saltellante non riuscì a reprimere un sorriso. Era sicuro
che quella sarebbe stata una stagione prospera.
Dopo un'ora, la sua eccitazione non era diminuita. Voglio cavalcare in questa magnifica terra,
si disse, e spronò il suo pony verso il sole che stava sorgendo.



(continua)


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auroraageno
00mercoledì 19 settembre 2007 08:39
(segue)


Aveva immerso entrambe le coperte nell'acqua quando si ricordò che il bucato andava
battuto. Non c'era una sola roccia in vista.
Serrando le coperte gocciolanti e il resto degli indumenti contro il petto, il tenente Dunbar,
novello lavandaio, cominciò a discendere il fiume, camminando cautamente a piedi
nudi.
Dopo circa mezzo miglio trovò un affioramento superficiale che poteva servire da ripiano.
Inumidì il sapone fino a fare una bella schiuma e lo strofinò alquanto esitante su una
delle coperte.
A mano a mano che procedeva acquistò abilità, insaponando, battendo e sciacquando
con sempre maggior sicurezza a ogni nuovo indumento, e verso la fine il tenente Dunbar
svolgeva rapidamente il suo lavoro con la decisione, se non con la precisione, di una
provetta lavandaia.
In due sole settimane passate laggiù aveva coltivato una nuova passione per i dettagli e,
sapendo che i primi pezzi del bucato erano stati lavati in modo un po' raffazzonato,
li rilavò.
A metà del pendio vi era una quercia stentata e appese il suo bucato ai rami. Era un
buon posto, esposto al sole e non troppo ventoso. Ma ci sarebbe comunque voluto un
po' perché si asciugasse il tutto e lui aveva dimenticato la sua borsa di tabacco.
Il nudo tenente decise di non aspettare.
Si incamminò per tornare al forte.


Uccello Saltellante aveva udito delle storie sconcertanti circa il loro numero. In più di una
occasione aveva sentito dire che erano più numerosi degli uccelli, e questo gli creava
una sgradevole sensazione nel fondo della mente.
Eppure, sulla base di quanto lui stesso aveva visto, gli uomini con la faccia coperta di peli
ispiravano soltanto pietà.
Sembravano una razza triste.
Quei poveri soldati del forte, così ricchi di cibo e di cose e così poveri di tutto il resto. Usavano
male i loro fucili, cavalcavano male i loro cavalli grossi e lenti. Avrebbero dovuto essere
i guerrieri dell'uomo bianco, ma non erano né svelti né agili. E si spaventavano facilmente.
Prendere i loro cavalli era stato facilissimo, come cogliere delle more da un cespuglio
di rovi.
Per Uccello Saltellante, questi uomini bianchi erano un grande mistero. Non riusciva a pensare
a loro senza che la sua mente si confondesse.
I soldati del forte, per esempio, vivevano senza le loro famiglie e vivevano senza i loro grandi
capi.. Il Grande Spirito era evidente dappertutto, perché tutti lo potessero vedere, e loro
adoravano delle cose scritte sulla carta. Ed erano anche sporchi. Non si tenevano neanche
puliti.
Uccello Saltellante non riusciva a immaginare come potessero provvedere a se stessi
persino per un anno. Eppure, si diceva che prosperavano. Non lo capiva.
Stava facendo queste considerazioni quando pensò di avvicinarsi al forte: Era certo che
se ne fossero andati, ma avrebbe comunque dato un'occhiata. E ora, in groppa al suo
pony, guardando attraverso la prateria, poteva notare al primo sguardo che il posto aveva
un aspetto migliore. Il forte dell'uomo bianco era pulito. Un grosso riparo di stoffa ondeggiava
al vento. Nel recinto vi era un cavallo: un bel cavallo. Non vi era nessun movimento, nemmeno
un rumore. Il posto avrebbe dovuto essere morto. Ma qualcuno lo aveva mantenuto vivo.
Uccello saltellante avanzò lentamente con il suo pony.
Doveva vedere più da vicino.


Mentre ritornava camminando lungo il fiume, il tenente Dunbar indugiò. C'erano tante cose
da guardare.
Stranamente e ironicamente si sentiva molto meno vistoso senza i suoi vestiti. Forse era
così. Ogni piccola pianta, ogni insetto che ronzava sembrava attirare la sua attenzione.
Ogni cosa era straordinariamente viva.
Vide un falco dalla coda rossa volare davanti a lui, con uno scoiattolo che gli pendeva fra
gli artigli.
A metà percorso sostò all'ombra di un pioppo per osservare un tasso che scavava la sua
tana poco più sopra della linea dell'acqua. Ogni tanto, il tasso lanciava una rapida occhiata
al tenente, ma continuava a scavare.
In vicinanza del forte, Dunbar si fermò nuovamente per osservare gli intrecci di due innamorati.
Un paio di serpenti d'acqua si avvoltolavano estaticamente nelle pozze di acqua bassa del
fiume e, come tutti gli amanti, ignari di tutto ciò che li circondava, persino quando l'ombra
del tenente passò sopra l'acqua.
Risalì estasiato il pendio, sentendosi forte come qualunque altra cosa laggiù, sentendosi
come un vero abitante della vasta prateria.
Nello stesso istante scorse la figura che scivolava nell'ombra sotto il riparo a tenda.
Un secondo dopo la figura riapparve alla luce del sole e Dunbar si acquattò, infilandosi in
una fenditura subito al disotto del bordo del promontorio.
Rimase accovacciato con le gambe diventate improvvisamente molli, le orecchie tese come
una corda, talmente concentrato ad ascoltare che l'udito sembrava essere il solo senso che
possedesse.
La sua mente galoppava. Negli occhi chiusi del tenente ballavano delle immagini fantastiche.
Pantaloni frangiati. Mocassini ornati di perline. Una scure da cui pendeva del pelame. Un
pettorale di lucide ossa. I capelli folti e lucenti che arrivavano a metà schiena. Gli occhi
scuri e infossati. Il grosso naso. Pelle del colore della terracotta. La penna mossa dal vento
dietro la sua testa.
Sapeva che si trattava di un indiano, ma non si era mai aspettato niente di così selvaggio e
la sorpresa lo aveva intontito come se avesse ricevuto una botta in testa.
Dunbar restò accucciato al disotto del bordo, con le natiche che sfioravano il terreno e con
la fronte imperlata di gocce di sudore. Non riusciva a comprendere ciò che aveva visto e
aveva paura di guardare nuovamente.
Sentì un cavallo nitrire e, raccogliendo il coraggio, sbirciò lentamente al disopra del bordo.
L'indiano era nel recinto. Si stava avvicinando a Cisco. In mano aveva un pezzo di corda
con un cappio.
A quella vista, lo stato di paralisi del tenente Dunbar svanì di colpo. Smise completamente
di pensare, balzò in piedi e scavalcò l'orlo del promontorio. Lanciò un urlo, rompendo il
silenzio come un secco colpo di fucile.
<< Fermo! >>


Uccello Saltellante balzò letteralmente in aria.
Quando si girò in direzione della voce che lo aveva spaventato a morte, lo stregone comanci
si trovò faccia a faccia con la cosa più strana che avesse mai visto.
Un uomo nudo. Un uomo nudo che marciava deciso attraverso lo spiazzo con i pugni chiusi,
la mascella serrata e con una pelle così bianca da far male agli occhi.
Uccello Saltellante incespicò all'indietro, guardando con orrore quella visione, si raddrizzò
e invece di saltare la palizzata del recinto vi si scagliò direttamente contro, uscendo
dall'altra parte. Attraversò correndo lo spiazzo, saltò sul suo pony e partì al galoppo come
se avesse il diavolo alle calcagna.
Non si voltò a guardare nemmeno una volta.


(continua)


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auroraageno
00lunedì 24 settembre 2007 15:31
(segue)

9



27 aprile 1863
Prima presa di contatto con un indiano selvaggio.
E' venuto al forte e ha cercato di rubare il mio cavallo. Quando sono apparso si è
spaventato ed è fuggito. Non so quanti altri possano esservi nelle vicinanze, ma
ritengo che dove ce n'è uno di sicuro devono esservene degli altri.
Sto prendendo le misure necessarie per prepararmi a un'altra visita. Non sono in
grado di organizzare una difesa adeguata ma cercherò di creare una grossa
impressione quando verranno di nuovo.
Sono sempre solo, però, e se la truppa non dovesse arrivare presto, tutto potrebbe
andare perduto.
L'uomo che ho incontrato era di aspetto straordinario.

Ten. John J. Dunbar, USA


Dunbar passò i due giorni successivi a fare preparativi, molti di questi intesi a dare
un'impressione di forza e di solidità. Un uomo solo che cercava di prepararsi
all'assalto da parte di innumerevoli nemici poteva apparire del tutto folle, ma il
tenente possedeva una certa forza di carattere che gli faceva supplire con il lavoro duro
alla mancanza di cose. Era una dote positiva e contribuiva a farne un buon soldato.
Si dedicò ai preparativi come se fosse semplicemente un altro soldato della guarnigione.
Il primo era quello di nascondere le provviste. Fece una cernita accurata tenendo da
parte quelle più essenziali, seppellendo il resto con grande cura in alcune buche attorno
al forte.
Ficcò gli arnesi, l'olio da lampada, parecchi barilotti di chiodi e altri materiali vari di
carpenteria in una delle vecchie buche per dormire. Vi mise sopra un pezzo di tela,
vi buttò parecchi metri di terriccio e dopo ore di meticoloso lavoro il nascondiglio
era assolutamente indistinguibile dal resto del pendio.
Trasportò due casse di fucili e mezza dozzina di barilotti di polvere da sparo e di
cartucce sul terreno erboso. Con un badile, scalzò dei quadrati di terra ed erba insieme.
Nel punto così sgombrato scavò una grossa buca e vi seppellì il materiale di artiglieria.
Al termine del pomeriggio vi aveva rimesso sopra i quadrati di terra ed erba, pressandoli
così accuratamente che nemmeno l'occhio più esperto avrebbe potuto notare la minima
irregolarità o differenza con il resto del terreno. Segnò il punto con una costola di bisonte
sbiancata dal sole, che conficcò ad angolo nel terreno a qualche metro dal luogo segreto.
Nel deposito trovò un paio di bandiere degli Stati Uniti e usando due dei pali del recinto
come asta le issò, una sul tetto del deposito e l'altra sul tetto dei suoi alloggi.
Le cavalcate pomeridiane vennero ridotte a dei brevi giri di perlustrazione intorno al
forte, sempre tenendosi a distanza visiva dall'avamposto.
Due Calzini fece come al solito la sua comparsa al di là del fiume, ma Dunbar era troppo
occupato per prestargli attenzione.
Cominciò a indossare l'uniforme per tutto il tempo, badando che gli stivali fossero sempre
lucidi e il berretto non impolverato e rasandosi regolarmente. Non andava da nessuna parte,
nemmeno al fiume, senza un fucile, una pistola e un cinturone di munizioni.
Dopo due giorni di febbrile attività sentì che era pronto come meglio non avrebbe potuto
essere.

29 aprile 1863
La mia presenza qui deve essere stata riferita ormai.
Ho fatto tutti i preparativi che mi possano venire in mente.
Aspetto.

Ten. John J. Dunbar, USA



Ma la presenza del tenente Dunbar a Fort Sedgewick non era stata riferita.
Uccello Saltellante aveva tenuto l'Uomo-che-brilla-come-la-neve ben celato nei suoi pensieri.
Per due giorni lo stregone rimase chiuso in se stesso, profondamente turbato da ciò che
aveva visto, sforzandosi di trovare un significato a ciò che dapprima aveva creduto essere
una spaventosa allucinazione.
Dopo aver molto riflettuto, però, confessò a se stesso che ciò che aveva visto era reale.
In qualche modo, questa conclusione creava nuovi problemi. Aveva vita. Era là. Uccello
Saltellante arrivò anche a concludere che l'Uomo-che-brilla-come-la-neve doveva avere
in qualche modo relazione con il destino della tribù. Altrimenti, il Grande Spirito non si sarebbe
scomodato a fargli avere questa visione.
Si era assunto il compito di scoprire il significato di tutto ciò ma per quanto si sforzasse,
non ci riusciva. L'intera faccenda lo turbava come non gli era mai accaduto.
Le sue mogli avevano capito che vi era qualcosa che non andava non appena era ritornato
da quella fatidica cavalcata a Fort Sedgewick. Potevano vedere distintamente che l'espressione
nei suoi occhi era cambiata. Ma, all'infuori del prestare maggiori attenzioni al loro marito,
le donne non dissero nulla e continuarono il loro lavoro.


Vi era un ristretto gruppo di uomini che, come Uccello Saltellante, avevano una grande autorità
nella tribù. Nessuno era più influente di Dieci Orsi. Era il più venerato e, a sessant'anni, la
forza, la saggezza e la mano notevolmente salda con cui guidava la tribù erano superate
soltanto dalla sua portentosa capacità di sapere in quale direzione i venti della fortuna, grande
o piccola che fosse, si sarebbero spostati.
Dieci Orsi vide alla prima occhiata che a Uccello Saltellante, che considerava un membro
autorevole del consiglio della tribù, era successo qualcosa. Ma anche lui non disse nulla.
Era sua abitudine, e gli tornava molto utile, aspettare e osservare.
Ma al termine del secondo giorno a Dieci Orsi parve evidente che a Uccello Saltellante
poteva essere successo qualcosa di grave, e nel tardo pomeriggio si recò in visita alla
sua tenda.
Per venti minuti fumarono in silenzio il tabacco dello stregone prima di passare a delle
chiacchiere su questioni di nessuna importanza.
Al momento giusto Dieci Orsi diede una svolta alla conversazione con una domanda generica.
Chiese a Uccello Saltellante quali credeva che fossero, da un punto di vista spiritico, le
prospettive per l'estate.
Senza entrare in dettagli, lo stregone gli disse che i segni erano buoni. Uno sciamano che
trascura di approfondire i particolari del proprio lavoro per Dieci Orsi era decisamente
rivelatore. C'era qualcosa che non voleva dire.
Allora, con l'abilità di un consumato diplomatico, Dieci Orsi chiese a proposito di eventuali
segni negativi.
Gli occhi dei due uomini si incontrarono. Dieci Orsi lo aveva intrappolato nel modo più
delicato.
<< Ve n'è uno >>, disse Uccello Saltellante.
Non appena lo ebbe detto, Uccello Saltellante sentì un senso di liberazione, come se le sue
mani fossero state slegate, e venne fuori tutto: la cavalcata, il forte, il magnifico cavallo dal
pelo color bruno fulvo e l'Uomo- che-brilla-come-la-neve.
Quando ebbe terminato, Dieci Orsi riaccese la pipa e trasse pensierosamente delle lunghe
boccate di fumo prima di deporla in mezzo a loro.
<< Aveva l'aspetto di un dio? >> chiese.
<< No. Sembrava un uomo >>, rispose Uccello Saltellante. << Camminava come un uomo,
aveva la voce di un uomo. La sua forma era quella di un uomo. Persino il suo sesso era quello
di un uomo. >>
<< Non ho mai sentito di un uomo bianco senza vestiti >>, disse Dieci Orsi, e la sua espressione
tornò a farsi sospettosa. << La sua pelle rifletteva davvero la luce del sole? >>
<< Faceva dolere gli occhi. >>
Fra i due uomini cadde di nuovo il silenzio.
Dieci Orsi si alzò in piedi.
<< Ci penserò. >>



(continua)

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auroraageno
00martedì 25 settembre 2007 17:13
(segue)



Dieci Orsi fece uscire tutti dalla sua tenda e rimase seduto da solo per più di un'ora,
pensando a ciò che Uccello Saltellante gli aveva detto.
Era una cosa difficile a cui pensare.
Aveva visto gli uomini bianchi solo poche volte e come Uccello Saltellante non riusciva
a comprendere il loro comportamento. Dato che erano così numerosi avrebbero dovuto
essere osservati e tenuti in qualche modo sotto controllo, ma fino a quel momento non
avevano rappresentato altro che una seccatura per la mente.
A Dieci Orsi non era mai piaciuto pensare a loro.
Come poteva una razza essere così sconclusionata? pensò.
Ma stava divagando e dentro di sé Dieci Orsi si rimproverò per questo modo disordinato
di pensare. Che cosa sapeva veramente del popolo degli uomini bianchi? Quasi niente...
Questo, doveva ammetterlo.
Quello strano essere che si trovava al forte. Forse era uno spirito. Forse era un genere
diverso di uomo bianco. Era possibile, ammise Dieci Orsi, che l'essere che Uccello
Saltellante aveva visto fosse il primo di una nuova razza di persone.
Il vecchio capo sospirò, mentre il suo cervello si riempiva fino a traboccare. C'era tanto
da fare con le cacce dell'estate. E adesso questo.
Non riuscì ad arrivare a una conclusione.
Dieci Orsi decise di riunire il consiglio della tribù.


La riunione ebbe inizio prima che il sole tramontasse, ma durò fino a sera inoltrata, abbastanza
a lungo da attrarre l'attenzione dell'intero villaggio, soprattutto dei giovani guerrieri, che si
riunivano in piccoli gruppi per fare supposizioni su che cosa stessero discutendo gli anziani.
Dopo una buona ora di preliminari, vennero al dunque. Uccello Saltellante riferì la sua storia.
Quando ebbe finito, Dieci Orsi chiese agli anziani di esprimere le loro opinioni.
Erano molte e abbracciavano un vasto campo.
Vento-nei-capelli era il meno anziano fra loro, un guerriero impulsivo ma con notevole esperienza.
Pensava che avrebbero dovuto mandare subito un gruppo di guerrieri a scagliare delle frecce
all'uomo bianco. Se era un dio, le frecce non avrebbero avuto alcun effetto. Se era un mortale,
avrebbero avuto un uomo bianco in meno di cui preoccuparsi. Vento-nei-capelli sarebbe stato
lieto di guidare i guerrieri.
Il suo suggerimento venne respinto dagli altri. Se questa persona era un dio, non sarebbe stata
una buona idea quella di scagliargli delle frecce. E quanto ad ammazzare un uomo bianco, la
cosa doveva essere presa con una certa delicatezza: un uomo bianco morto poteva dar luogo
a parecchi altri uomini bianchi vivi.
Corno-di-toro era notoriamente conservatore. Nessuno avrebbe osato mettere in discussione
il suo coraggio, ma era anche vero che solitamente optava per la discrezione nella maggior
parte delle questioni. Il suo suggerimento fu semplice. Mandare una delegazione a parlamentare
con l'Uomo-che-brilla-come-la-neve.
Vento-nei-capelli attese che Corno-di-toro terminasse di parlare, poi si lanciò in un violento
attacco verbale contro l'idea. La sostanza del suo discorso metteva definitivamente in chiaro
un punto che nessuno osò contestare. I comanci non mandavano dei guerrieri valorosi a chiedere
le intenzioni di un solo, sparuto uomo bianco che usurpava la loro terra.
Nessuno disse più nulla e quando ricominciarono a parlare, i discorsi scivolarono su altri argomenti
come i preparativi per la caccia e l'eventualità di scendere sul sentiero di guerra contro altre
tribù. Per un'altra ora discussero di alcune voci e dicerie in generale che erano state riferite e
che potevano avere qualche attinenza con il buon andamento e il benessere dell'accampamento.
Quando infine ritornarono alla spinosa questione riguardo a che cosa fare con l'uomo bianco,
gli occhi di Dieci Orsi si stavano chiudendo e la sua testa cominciava a ciondolare. Per quella
sera, era inutile continuare. Quando lasciarono la tenda, il vecchio stava già russando sommessamente.
La questione rimaneva irrisolta.
Ma questo non voleva dire che non si sarebbe agito.
In qualsiasi comunità di piccole dimensioni dove tutti vivono a stretto contatto è molto difficile
riuscire a mantenere dei segreti e più tardi, quella notte, il figlio quattordicenne di Corno-di-toro
udì suo padre mormorare quanto era stato discusso durante il consiglio a uno zio venuto in visita
alla loro tenda. Lo sentì parlare del forte e dell'Uomo-che-brilla-come-la-neve. E udì dello splendido
cavallo dal mantello bruno fulvo, il piccolo e robusto animale che Uccello Saltellante nella sua
descrizione diceva che equivalesse a dieci pony. La sua fantasia si accese.
Il figlio di Corno-di-toro non riuscì a dormire dopo quanto aveva sentito, e a notte inoltrata scivolò
fuori dalla sua tenda per andare a riferire ai suoi due migliori amici la grossa occasione che gli
era capitata.
Come aveva immaginato, dapprima Dorso-di-rana e Faccia Sorridente si tirarono indietro.
Si trattava di un solo cavallo. Come potevano dividere un solo cavallo in tre? Non era molto.
E poi c'era la possibilità di quel dio bianco che si aggirava laggiù. C'erano parecchie cose da
considerare.
Ma il figlio di Corno-di-toro aveva previsto le loro reazioni. Aveva pensato a tutto. Il dio bianco
era appunto la parte migliore della faccenda. Quello che tutti loro desideravano non era forse
scendere sul sentiero di guerra? E quando fosse venuto il momento, non avrebbero forse dovuto
accompagnare dei guerrieri veterani con poche probabilità di partecipare direttamente all'azione
e di potersi distinguere nel combattimento?
Ma affrontare un dio bianco. Tre ragazzi contro un dio. Questo sì sarebbe stato un gesto valoroso.
La loro gente avrebbe composto dei nuovi canti sulla loro impresa. Se l'avessero realizzata,
c'erano molte probabilità che tutti e tre sarebbero scesi sul sentiero di guerra insieme con i
guerrieri, invece di far loro da seguito.
E il cavallo. Be', il figlio di Corno-di-toro ne sarebbe stato il padrone, ma gli altri due avrebbero
potuto cavalcarlo. Gareggiare con altri cavalli, se volevano.
Ora, chi poteva dire che non fosse un piano grandioso?
Muovendosi furtivamente e con il cuore che martellava loro in petto, i ragazzi attraversarono il
fiume e presero tre pony dal branco. A piedi, condussero i cavalli lontano dal villaggio
descrivendo un ampio cerchio per aggirarlo.
Quando furono finalmente al sicuro, i ragazzi spronarono i loro pony al galoppo e cantando
per darsi coraggio si inoltrarono nel buio della prateria, seguendo il fiume che li avrebbe
condotti direttamente a Fort Sedgewick.


(continua)

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auroraageno
00mercoledì 26 settembre 2007 10:50
(segue)


Per due notti il tenente Dunbar fu soltanto un soldato, dormendo con un orecchio aperto.
Ma i giovani indiani che vennero al forte non erano dei burloni in cerca di un’avventura
eccitante. Erano dei ragazzi comanci ed erano impegnati nell’impresa più seria delle
loro giovani vite.
Il tenente Dunbar non li sentì arrivare.
Furono il rumore di zoccoli di cavalli al galoppo e le grida di guerra dei ragazzi a svegliarlo,
ma quando arrivò incespicando alla porta della baracca, non erano ormai che dei suoni
che svanivano nella vastità della notte della prateria.


I ragazzi galopparono veloci come il vento. Tutto era andato alla perfezione. Era stato
facile prendere il cavallo e, ancora meglio, non avevano neanche visto il dio bianco.
Ma non volevano correre rischi. Gli dei potevano fare delle cose fantastiche, soprattutto
quando erano incolleriti. I ragazzi non si fermarono certo ad aspettare che qualcuno
desse loro una pacca sulle spalle. Continuarono a galoppare decisi a non rallentare
finché non avessero raggiunto il villaggio e non fossero stati al sicuro.
Non erano però nemmeno a due miglia dal forte, quando Cisco decise di far valere la
propria idea. E la sua idea era di non voler andare con quei ragazzi.
Erano in piena corsa quando Cisco scartò bruscamente di lato, allontanandosi da loro.
Il figlio di Corno-di-toro venne strappato dal suo pony come se fosse stato disarcionato
da un ramo basso.
Dorso-di-rana e Faccia Sorridente cercarono di buttarsi all’inseguimento, ma Cisco continuò
a correre, trascinando dietro di lui la lunga corda che lo aveva trattenuto. Era molto veloce
e quando la velocità veniva meno, era la sua resistenza a subentrare.
I pony indiani non lo avrebbero raggiunto nemmeno se fossero stati freschi.


Il tenente Dunbar aveva appena preparato il bricco del caffè e stava seduto assorto presso
il fuoco quando Cisco apparve trotterellando nella luce tremolante.
Il tenente fu più sollevato che sorpreso. Essersi fatto rubare il cavallo lo aveva reso furioso,
ma Cisco era già stato rubato altre volte, due per l’esattezza, e come un cane fedele
aveva sempre trovato il modo per ritornare.
Il tenente Dunbar raccolse la corda comanci che era servita a trattenerlo, controllò che il
cavallo non fosse ferito e mentre il cielo a Est si stava tingendo di rosa, lo condusse giù
per il pendio per abbeverarlo al fiume.
Mentre sedeva sulla riva, il tenente Dunbar osservò la superficie dell’acqua. I piccoli pesci
che sguazzavano nel fiume cominciavano a catturare i minuscoli insetti che si posavano
sull’acqua, e improvvisamente il tenente si sentì inerme come una effimera.
Gli indiani avrebbero potuto ucciderlo con la stessa facilità con cui gli avevano rubato
il cavallo.
L’idea di morire lo disturbava. Potrei essere morto entro questo pomeriggio, pensò.
Ciò che lo disturbava ancora di più era la prospettiva di morire come un insetto.
Decise lì per lì che, se doveva morire, non sarebbe certo stato mentre era a letto.
Sapeva che qualcosa stava per succedere, qualcosa che lo rendeva vulnerabile a tal punto
da fargli sentire un brivido gelato lungo la spina dorsale. Poteva essere un abitante della
prateria, ma questo non significava che fosse stato accettato. Era il nuovo scolaro della
classe. Tutti gli occhi sarebbero stati puntati su di lui.
Sentiva ancora dei fremiti lungo la schiena, mentre riconduceva Cisco su per il pendio.


Il figlio di Corno-di-toro si era spezzato un braccio.
Venne affidato a Uccello Saltellante non appena il terzetto di futuri guerrieri, sporchi e
sudati per la lunga cavalcata, arrivarono al villaggio.
I ragazzi avevano cominciato a preoccuparsi dal momento in cui il figlio di Corno-di-toro
si era reso conto di non poter muovere il braccio. Se nessuno si fosse ferito, avrebbero
potuto tenere segreta la loro incursione. Ma subito ci furono delle domande e i ragazzi,
anche se avrebbero potuto essere propensi a mascherare i fatti, erano comanci. E ai
comanci riusciva parecchio difficile mentire. Persino a dei ragazzi comanci.
Mentre Uccello Saltellante si occupava del suo braccio e suo padre e Dieci Orsi stavano
ad ascoltare, il figlio di Corno-di-Toro raccontò la verità su quanto era realmente successo.
Non era insolito che un cavallo rubato sfuggisse a chi l’aveva catturato e tornasse a casa,
ma poiché era possibile che avessero a che fare con uno spirito, la faccenda del cavallo
assumeva grande importanza e gli anziani interrogarono a fondo il ragazzo.
Quando disse loro che il cavallo non si era spaventato, ma che si era allontanato
volontariamente, sui visi degli anziani comparve un’espressione preoccupata.
Venne nuovamente riunito il consiglio della tribù.
Questa volta tutti sapevano di che cosa si trattasse, perché la storia della disavventura
dei ragazzi si era sparsa per l’intero accampamento e tutti ne parlavano. Qualcuno fra
i più impressionabili del villaggio si fece prendere dalla paura quando apprese che nelle
vicinanze poteva aggirarsi uno strano dio bianco, ma quasi tutti continuarono ad occuparsi
delle loro faccende con la convinzione che il consiglio di Dieci Orsi avrebbe escogitato
qualcosa.
Tuttavia erano tutti preoccupati.
Solo una persona, fra loro, era veramente terrorizzata.


(continua)


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auroraageno
00giovedì 27 settembre 2007 10:00
(segue)

10



Aveva provato del terrore l’estate prima, quando venne scoperto che nel territorio
erano arrivati dei soldati bianchi. La tribù non aveva mai incontrato gli uomini con
la faccia coperta di peli, se non per ucciderne alcuni in casi isolati. Aveva sperato
che non li avrebbero mai incontrati.
Quando, l’estate scorsa, erano stati rubati i cavalli degli uomini bianchi, aveva avuto
paura ed era fuggita. Era sicura che i soldati bianchi sarebbero venuti al villaggio.
Ma non vennero.
Tuttavia, era rimasta sulle spine fino a che non era stato concluso che, senza i loro
cavalli, i soldati bianchi erano praticamente impotenti. Era riuscita a tranquillizzarsi
un po’, ma la nube di paura che continuava a seguirla non si allontanò fino a che non
ebbero tolto l’accampamento e non furono in movimento per la migrazione invernale.
Ora era di nuovo estate e durante tutto il cammino dell’accampamento per l’inverno
aveva pregato ardentemente perché gli uomini bianchi se ne fossero andati. Le sue
preghiere non erano state esaudite e ancora una volta i suoi giorni furono pieni di
ansia, ora dopo ora.
Il suo nome era Mano Alzata.
Lei sola, fra tutti i comanci, sapeva che l’uomo bianco non era un dio. La storia
dell’incontro di Uccello Saltellante, però, la sconcertava. Un solo uomo bianco nudo?
Laggiù? Nella terra dei comanci? Non aveva senso. Ma non importava. Senza sapere
esattamente perché, sapeva che non era un dio. Qualcosa le diceva che non era così.
Sentì la storia quella mattina, mentre si stava avviando, come avveniva una volta al mese,
alla tenda appositamente riservata per le donne durante il loro periodo mestruale.
Stava pensando a suo marito. Non le piaceva recarsi alla tenda per le donne, perché
avrebbe sentito la mancanza della sua compagnia. Era un uomo meraviglioso, coraggioso,
bello ed eccezionale. Un marito modello. Non l’aveva mai picchiata e anche se i loro
due bambini erano morti entrambi (uno al momento del parto, l’altro a poche settimane
di distanza), si era caparbiamente rifiutato di prendersi un’altra moglie.
La gente della tribù aveva insistito perché prendesse una seconda moglie. Persino
Mano Alzata lo aveva suggerito. Ma lui aveva semplicemente detto: << Tu mi basti >>,
e lei non ne aveva più parlato. Nel segreto del suo cuore era orgogliosa che lui fosse
felice con lei sola.
E ora, le mancava terribilmente.
Prima che togliessero l’accampamento invernale, lui era sceso sul sentiero di guerra
contro gli ute con un gruppo di guerrieri. Era passato quasi un mese senza che avessero
notizie di lui o degli altri guerrieri. Ma poiché era già separata da lui, andare alla tenda
per le donne quella volta le era sembrato meno difficile del solito.
Quella mattina, mentre si preparava a lasciare la sua tenda, la giovane comanci era
confortata dal fatto che una o due delle sue migliori amiche sarebbero rimaste segregate
con lei, delle donne con cui il tempo sarebbe passato agevolmente.
Ma mentre si dirigeva verso la tenda, sentì la strana storia di Uccello Saltellante. Poi sentì
la storia della stupida incursione fatta dai tre ragazzi.
Il mattino era di colpo esploso in faccia a Mano Alzata. Ancora una volta, il terrore era
calato sulle sue spalle squadrate e diritte come una coperta di ferro, e quando entrò
nella tenda per le donne era sconvolta.
Ma era molto forte. I suoi splendidi occhi marrone chiaro, degli occhi che brillavano
d’intelligenza, non rivelarono nulla, mentre cuciva e chiacchierava con le amiche per il
resto della mattina.
Conoscevano il pericolo. L’intera tribù lo conosceva. Ma non serviva a nessuno parlarne.
Così, nessuno lo fece.
Per tutto il pomeriggio, la sua figura minuta ma robusta si mosse per la tenda, senza
mostrare nulla del pesante fardello che l’opprimeva.
Mano Alzata aveva ventisei anni.
Per quasi dodici anni era stata una comanci.
Prima, era stata una bianca.
Prima, era stata… qual era il nome?
Pensava al nome soltanto in quelle rare occasioni in cui poteva fare a meno di pensare
ai bianchi. Allora, per qualche inspiegabile ragione, il nome le veniva improvvisamente
alla mente.
Oh, sì, pensò in dialetto comanci, lo ricordo. Prima, ero Christine.
Poi, pensava a prima, ed era sempre lo stesso. Era come passare attraverso una cortina
nebbiosa e i due mondi diventavano uno solo, il vecchio che si fondeva con il nuovo.
Mano Alzata era Christine e Christine era Mano Alzata.
Con il passare degli anni la sua carnagione era diventata più scura e tutto, nel suo
aspetto, aveva un’impronta distintamente primitiva e selvaggia. Ma nonostante due
gravidanze portate a termine, la sua figura era quella di una donna bianca. E i suoi
capelli, che si rifiutavano di crescere oltre le spalle e di rimanere lisci, conservavano
ancora un’accesa sfumatura color rosso ciliegia. E, naturalmente, c’erano quei suoi
occhi marrone chiaro.
I timori di Mano Alzata erano ben fondati. Non poteva sperare di riuscire a sfuggirvi.
Agli occhi di un uomo bianco ci sarebbe sempre stato qualcosa di strano, in quella
donna nella tenda isolata dalle altre. Qualcosa che non era completamente indiano.
E anche agli occhi della sua stessa gente, persino dopo tutto quel tempo, c’era
qualcosa di non completamente indiano.
Era un peso terribile, ma Mano Alzata non ne parlava mai, e tanto meno se ne lamentava.
Lo sopportava in silenzio e con grande coraggio ogni giorno della sua vita indiana, e lo
sopportava per un motivo di enorme importanza.
Mano Alzata voleva restare dov’era.
Era molto felice.


(continua)


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auroraageno
00venerdì 28 settembre 2007 13:41
(segue)

11



Il consiglio della tribù convocato da Dieci Orsi terminò senza aver preso alcuna decisione;
ma questo non era un fatto insolito.
Il più delle volte un consiglio riunito per discutere questioni cruciali finiva infruttuosamente,
dando così il segnale di avvio per una fase completamente nuova della vita politica della
tribù.
Era in quei momenti che, se lo avesse voluto, la gente agiva in maniera indipendente.

Vento-nei-capelli aveva fatto notevoli pressioni affinché venisse adottato un altro piano.
Andare al forte e prendere il cavallo senza far del male all'uomo bianco. Ma questa volta,
invece che dei ragazzi, mandare dei guerrieri. Il consiglio respinse questa seconda idea,
ma Vento-nei-capelli non era in collera con nessuno.
Aveva ascoltato apertamente tutte le opinioni e offerto la sua soluzione. La soluzione non
era stata adottata, ma le argomentazioni sollevate non avevano convinto Vento-nei-capelli
che il suo piano non fosse valido.
Era un guerriero onorato e, come ogni guerriero onorato, serbava un diritto supremo.
Poteva fare ciò che voleva.
Se il consiglio fosse stato irremovibile, o se avesse messo in atto il suo piano e questo
fosse fallito, c'era la possibilità che venisse scacciato dalla tribù.
Vento-nei-capelli aveva già preso in considerazione tutto questo. Il consiglio non era stato
irremovibile; era stato confuso e stordito. E quanto a lui... be'... Vento-nei-capelli non aveva
mai fallito.
Così, quando il consiglio ebbe termine, si diresse lungo uno dei sentieri che passavano per
l'accampamento, facendo una breve visita ad alcuni amici e ponendo la stessa domanda
a ogni tenda.
<< Vado a rubare quel cavallo. Vuoi venire? >>
Ognuno degli amici rispondeva alla domanda con un'altra domanda.
<< Quando? >>
E Vento-nei-capelli aveva la stessa risposta per tutti.
<< Adesso. >>

Era un piccolo gruppo. Cinque uomini.
Lasciarono il villaggio e si diressero verso la prateria cavalcando a un'andatura studiata.
Non avevano fretta. Ma questo non significava che fossero allegri.
Cavalcavano con un'aria cupa, con le facce senza espressione di chi si sta recando al
funerale di un lontano parente.
Vento-nei-capelli aveva detto loro che cosa fare quando erano andati a prendere i loro
pony.
<< Prenderemo il cavallo. Tenetelo d'occhio sulla strada del ritorno. Cavalcategli intorno.
Se c'è un uomo bianco, non colpitelo, a meno che lui non spari. Se cerca di parlare, non
rispondete. Prenderemo il cavallo e vedremo che cosa succede. >>
Vento-nei-capelli non lo avrebbe ammesso con nessuno, ma sentì un'ondata di sollievo
quando furono in vista del forte.
C'era un cavallo nel recinto, un bel cavallo.
Ma non c'era nessun uomo bianco.


L'uomo bianco andò a dormire molto prima che fosse mezzogiorno. Dormì per parecchie
ore. Si svegliò verso metà pomeriggio, compiaciuto che la sua nuova idea funzionasse.
Il tenente Dunbar aveva deciso di dormire durante il giorno e di rimanere sveglio con un
fuoco acceso durante la notte. Quelli che avevano rubato Cisco erano venuti all'alba, e le
storie che aveva sentito raccontare avevano sempre indicato l'alba come l'ora preferita
per l'attacco. In questo modo, quando fossero venuti, sarebbe stato sveglio.
Si sentiva un po' stordito dopo il lungo sonnellino. E aveva sudato parecchio. Si sentiva tutto
appiccicoso. Questo era il momento più indicato per fare il bagno.
Fu per questo che, quando udì i cinque uomini a cavallo arrivare al galoppo con il rombo di
un tuono lungo il promontorio, si trovava immerso fino alle spalle nell'acqua del fiume con
la testa piena di schiuma di sapone.
Uscì dibattendosi dall'acqua e allungò istintivamente la mano verso i pantaloni. Armeggiò
con i pantaloni prima di buttarli da parte per prendere invece la pistola. Poi si precipitò a
carponi su per il pendio.
Lo videro mentre stavano allontanandosi con Cisco.
Era in piedi sull'orlo del promontorio. Il corpo era grondante d'acqua. La testa era ricoperta
di qualcosa di bianco. Aveva una pistola nella mano. Fu quanto videro gettando un rapido
sguardo da sopra la spalla. Ma niente più di questo.
Tutti ricordavano le istruzioni di Vento-nei-capelli. Con un guerriero che tratteneva Cisco con
una corda e il resto del gruppo stretto intorno a lui, si allontanarono dal forte in formazione
serrata.
Vento-nei-capelli rimase dietro.
L'uomo bianco non si era mosso. Rimaneva immobile e diritto sul ciglio del promontorio, la
mano che tratteneva la pistola abbassata lungo il fianco.
A Vento-nei-capelli non importava niente dell'uomo bianco. Ma gli importava moltissimo di
ciò che l'uomo bianco rappresentava. Era il costante nemico di ogni guerriero. L'uomo bianco
rappresentava la paura. Una cosa era ritirarsi dal campo di battaglia dopo un duro combattimento,
ma lasciare che la paura lo schernisse e non fare nulla... Vento-nei-capelli sapeva che non
poteva lasciare che succedesse.
Riprese il controllo del suo pony, cambiò bruscamente direzione e si lanciò al galoppo verso il
tenente.



(continua)

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auroraageno
00venerdì 28 settembre 2007 13:42
(segue)


Mentre risaliva freneticamente il pendio, il tenente Dunbar era tutto ciò che un soldato
doveva essere. Stava correndo incontro al nemico. Nella sua mente non vi erano altri
pensieri al di fuori di quello.
Ma tutto questo sparì nel momento stesso in cui superò il promontorio.
Si era preparato a dover affrontare dei criminali, una banda di violatori della legge, dei
ladri che dovevano essere puniti.
Ciò che invece si era trovato davanti era uno spettacolo straordinario, una dimostrazione
di azione da far restare senza fiato, e come un bambino che assiste alla sua prima
parata, il tenente non riuscì a fare altro che stare lì in piedi a vederla svolgere.
La frenetica corsa dei pony mentre si allontanavano. I loro mantelli lucidi, le penne
attaccate alle briglie, alla criniera e alla coda che svolazzavano nel vento della corsa,
le pitture sui posteriori. E gli uomini in groppa a loro, che cavalcavano con la scioltezza
di bambini che si dondolano sui loro cavallucci di legno.
Le loro pelli scure e untuose, le linee dei muscoli vigorosi che spiccavano chiaramente.
I capelli lucidi e intrecciati, l'arco, le frecce e lance e fucili, con delle linee marcate dipinte
sulla faccia e lungo le braccia.
E tutto in un'armonia perfetta. Insieme, uomini e cavalli sembravano come la grossa lama
di un aratro che avanzava veloce attraverso il paesaggio, il solco che intaccava appena
la superficie del terreno.
Era tutto di un colore, di una rapidità e di uno stupore come non aveva mai immaginato.
Era la gloria celebrata della guerra catturata in un unico quadro vivente, e Dunbar rimase
pietrificato.
Era immerso in una profonda nebbia e questa aveva appena cominciato a dissiparsi,
quando Dunbar si rese conto che uno di loro stava tornando.
Come se stesse dormendo e sognando, lottò per svegliarsi. Il suo cervello cercava di
impartire dei comandi ma la comunicazione continuava a interrompersi. Non riusciva
a muovere un muscolo.
L'uomo a cavallo arrivava velocemente, galoppando direttamente su di lui. Il tenente
Dunbar non pensò che sarebbe stato travolto. Non pensò di morire. Aveva perso ogni
capacità di pensare. Restò immobile, lo sguardo fisso come in uno stato di trance
sulle narici dilatate del pony.


Quando Vento-nei-capelli fu a una decina di metri dal tenente, si fermò così bruscamente
che, per un momento, il suo cavallo si sedette letteralmente sul terreno. Con una poderosa
spinta, il cavallo si sollevò nuovamente sulle zampe, cominciando a scartare e a scalpitare
in tondo. Per tutto il tempo Vento-nei-capelli trattenne saldamente la briglia, quasi ignaro
dei volteggi che avvenivano sotto di lui.
Guardava l'uomo bianco. La nuda figura era assolutamente immobile. Vento-nei-capelli
non vide neanche un battito di ciglia. Vedeva però il petto bianco e luccicante sollevarsi
e abbassarsi lentamente. L'uomo era vivo.
Sembrava non avesse paura. Vento-nei-capelli apprezzava la mancanza di paura nell'uomo
bianco, ma allo stesso tempo lo innervosiva. L'uomo avrebbe dovuto avere paura. Come
poteva non averne? Vento-nei-capelli sentì tornare la propria paura. Gli faceva formicolare
la pelle.
Sollevò il fucile in alto sopra la testa e gridò tre frasi.
<< Sono Vento-nei-capelli! >>
<< Lo vedi che non ho paura di te? >>
<< Lo vedi? >>
L'uomo bianco non rispose e Vento-nei-capelli improvvisamente si sentì soddisfatto. Era
venuto a porsi di fronte a questo possibile nemico. Aveva sfidato l'uomo bianco nudo e
l'uomo bianco non aveva fatto nulla. Questo bastava.
Fece compiere una giravolta al suo pony, allentò le redini e partì al galoppo per raggiungere
i suoi amici.


Il tenente Dunbar restò a guardare con aria sbalordita mentre il guerriero si allontanava. Le
parole gli echeggiavano ancora nella testa. Il suono delle parole, in ogni caso, come
l'abbaiare di un cane. Sebbene non avesse alcuna idea del loro significato, i suoni erano
sembrati un'affermazione, come se il guerriero gli stesse dicendo qualcosa.
A poco a poco ritornò completamente in sé. La prima cosa che sentì fu la pistola nella sua
mano. Era straordinariamente pesante. La lasciò cadere a terra.
Poi si piegò lentamente sulle ginocchia e si lasciò cadere seduto sul terreno. Rimase così
a lungo, sentendosi esausto come mai gli era successo, debole come un cucciolo appena
nato.
Per un po' pensò che non sarebbe mai riuscito a muoversi, ma alla fine si tirò in piedi e
camminò faticosamente fino alla baracca. Fu solo con un enorme sforzo che riuscì ad
arrotolarsi una sigaretta. Ma era troppo debole per fumarla e dopo due o tre boccate il
tenente si addormentò.


La seconda fuga aveva un paio di espedienti diversi rispetto alla prima, ma, in generale,
le cose andarono nello stesso modo della volta precedente.
A circa due miglia dal forte i cinque comanci rallentarono l'andatura. Due guerrieri cavalcavano
a ciascun lato di Cisco e un altro lo seguiva, così il cavallo prese l'unica strada che gli avevano
lasciato.
Davanti a lui.
Gli uomini avevano appena cominciato a scambiare qualche parola quando Cisco fece un
balzo come se fosse stato punto sul posteriore e scattò in avanti.
L'uomo che reggeva la corda che lo tratteneva volò al disopra della testa del suo pony. Per
qualche fuggevole secondo Vento-nei-capelli ebbe la possibilità di afferrare la corda che
scorreva sul terreno, ma si mosse un istante troppo tardi. La corda gli scivolò fra le dita.
Dopo ciò, non restava che l'inseguimento. Non fu una cosa allegra per i comanci. L'uomo
che era stato disarcionato non aveva nessuna probabilità, e i quattro inseguitori che
restavano non ebbero fortuna.
Un uomo perse il proprio cavallo quando questo finì con la zampa dentro la tana di un cane
della prateria, spezzandosela. Cisco fu agile come un gatto quel pomeriggio, e altri due
uomini vennero disarcionati mentre cercavano di indurre i loro pony a imitare i suoi fulminei
zigzag.
Restò soltanto Vento-nei-capelli. Riuscì a mantenere la sua andatura per parecchie centinaia
di miglia, ma quando il suo cavallo cominciò a cedere, non aveva ancora guadagnato terreno
e decise che non valeva la pena di correr rischi fino a farlo scoppiare per qualcosa che non
riusciva a prendere.
Mentre il pony riprendeva fiato, Vento-nei-capelli osservò il cavallo dal mantello bruno fulvo
abbastanza a lungo da vedere che stava prendendo la direzione che portava al forte e la
sua frustrazione venne mitigata dal pensiero che forse Uccello Saltellante aveva ragione.
Poteva essere un cavallo magico, qualcosa che apparteneva a una persona magica.
Mentre tornava, incontrò gli altri. Era ovvio che Vento-nei-capelli aveva fallito e nessuno
chiese dettagli.
Nessuno disse una parola.
Compirono il lungo percorso di ritorno al villaggio in silenzio.


(continua)


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auroraageno
00lunedì 1 ottobre 2007 12:52
(segue)


12



Vento-nei-capelli e gli altri uomini ritornarono per trovare il villaggio in lutto.
Il gruppo di guerrieri che era stato assente così a lungo per combattere gli ute era infine
tornato.
E le notizie non erano buone.
Avevano rubato soltanto sei cavalli, non abbastanza per coprire le loro stesse perdite.
Dopo tutto quel tempo lontani dal villaggio, i guerrieri erano a mani vuote.
Con loro vi erano quattro guerrieri gravemente feriti, e soltanto uno di loro sarebbe
sopravvissuto. Ma la vera tragedia era rappresentata dai sei uomini che erano stati
uccisi. Sei valorosi guerrieri. E, peggio ancora, c'erano soltanto quattro corpi avvolti
nelle coperte sulle rudimentali portantine tirate a strascico dai cavalli.
Non erano riusciti a recuperare due dei morti e, tristemente, i nomi di quegli uomini non
sarebbero stati mai più pronunciati.
Uno di loro era il marito di Mano Alzata.


Poiché si trovava nella tenda per le donne, la notizia dovette esserle trasmessa dall'esterno
da due degli amici di suo marito.
Dapprima sembrò accogliere impassibilmente la notizia, rimanendo seduta e immobile
come una statua sul pavimento della tenda, le mani incrociate sul grembo, la testa
leggermente abbassata. Rimase seduta in quel modo per gran parte del pomeriggio,
lasciando che il dolore si diffondesse lentamente in tutto il suo corpo, mentre le altre donne
badavano alle loro faccende.
La osservavano, però, in parte perché sapevano quanto Mano Alzata e suo marito fossero
stati uniti. Ma era una donna bianca, e questo, più di ogni altro, era il motivo per sorvegliarla.
Nessuna di loro sapeva come la mente di una donna bianca avrebbe reagito a un frangente
come questo. Così, la osservavano con un misto di affetto e di curiosità.
E fu un bene.
Mano Alzata era così profondamente sconvolta che non fece un solo movimento, non spostò
lo sguardo per tutto il pomeriggio. Non versò una lacrima. Rimase solamente seduta. La sua
mente correva pericolosamente. Pensò a ciò che aveva perduto, a suo marito e infine a se
stessa.
Rivide tutti gli avvenimenti della sua vita con lui, e tutto le appariva in dettagli frammentati ma
vividi. Uno di questi in particolare le riappariva ripetutamente... la sola e unica volta in cui
aveva pianto.
Era accaduto una notte, non molto tempo dopo la morte del loro secondo bambino. Aveva
resistito facendo di tutto per non sprofondare nel dolore. Stava ancora cercando di resistere,
quando erano venute le lacrime. Cercò di fermarle nascondendo il viso nella sua veste per
la notte. Avevano già parlato di una seconda moglie e lui aveva già pronunciato le parole:
<< Tu mi basti >>. Ma non era abbastanza per alleviare il dolore della morte del secondo
figlio, un dolore che sapeva condiviso da lui, e aveva affondato il viso bagnato di pianto
nella veste. Ma non riusciva a fermarsi e le lacrime diventarono dei singhiozzi.
Quando il pianto cessò, sollevò la testa e lo vide seduto quietamente accanto al fuoco.
Lo attizzava distrattamente, gli occhi che guardavano vacui attraverso le fiamme.
Quando i loro occhi si incontrarono, lei disse: << Io non sono niente >>.
Dapprima, lui non rispose. Ma la guardò fin nell'animo con un'espressione così quieta che
lei non poté resistere alla calma che questo le infondeva. Poi aveva visto il più debole dei
sorrisi apparire sulle sue labbra mentre le diceva: << Tu sei molto >>.
Lo ricordava così bene: si era alzato, aveva fatto scivolare le mani sotto la sua veste e l'aveva
stretta delicatamente fra le braccia.
Ricordava come, quasi inconsapevoli, avevano fatto l'amore, un amore così privo di gesti e
di parole e di forza. Era come sentirsi trasportare in alto per galleggiare indefinitamente
nell'acqua di un invisibile fiume. Fu la loro notte più lunga. Quando il sonno stava per coglierli,
in qualche modo cominciavano nuovamente a fare l'amore. E ancora. E ancora. Due persone
di una carne sola.
Nemmeno l'arrivo del sole li fermò. Per la prima e unica volta nella loro vita insieme, nessuno
dei due lasciò la tenda quella mattina.
Quando il sonno, alla fine, li colse, avvenne simultaneamente, e Mano Alzata ricordò che si era
addormentata con la sensazione che il peso dell'essere due persone improvvisamente era così
lieve che aveva smesso di avere importanza.
Si ricordò che non si sentiva più né indiana né bianca. Si sentiva un solo essere, una sola
persona non più divisa.
Mano Alzata batté le palpebre e ritornò al presente e al luogo dove si trovava.
Non era più una moglie, una comanci, o persino una donna. Adesso, non era niente. Che cosa
stava aspettando?
A poca distanza da lei, sul pavimento, vi era uno degli arnesi usati per raschiare le pelli. Vide
la sua mano afferrarlo. La vide affondarlo fino in fondo nel suo petto.
Mano Alzata attese il momento in cui l'attenzione generale era rivolta altrove. Si dondolò avanti
e indietro alcune volte poi si gettò in avanti, coprendo a carponi la distanza fra lei e l'arnese.
La sua mano lo afferrò saldamente e in un lampo la lama fu davanti al suo viso. Lo sollevò più
in alto, gettò un grido e lo calò con entrambe le mani, come se afferrasse un oggetto a lei
molto caro.
Nella frazione di secondo necessaria perché l'arnese compisse la traiettoria, arrivò la prima
donna. Anche se mancò le mani che trattenevano l'arnese, l'urto fu sufficiente perché questo
deviasse. La lama passò di lato, lasciando una sottile traccia sul corpetto della veste di Mano
Alzata mentre sfiorava il suo seno sinistro, penetrò nella manica di pelle di daino e affondò
nel braccio appena sopra il gomito.
Mano Alzata lottò come una furia e le donne fecero parecchia fatica a toglierle la lama di mano.
Quando vi riuscirono, la furia di Mano Alzata svanì di colpo. Crollò fra le braccia delle sue
amiche e come il getto che scaturisce quando una valvola ostinata viene finalmente liberata,
cominciò a singhiozzare convulsamente.
Le donne un po' trasportarono e un po' trascinarono quel piccolo fagotto di tremiti e di lacrime
verso il giaciglio. Mentre un'amica la cullava come un bambino, altre due di loro fermarono
il sangue che usciva dalla ferita e le fasciarono il braccio.
Pianse così a lungo che le donne dovettero avvicendarsi a tenerla abbracciata. Finalmente,
il suo respiro cominciò a farsi meno affannoso e i singhiozzi cessarono fino a diventare un
pianto sommesso. Allora, senza aprire gli occhi resi gonfi dalle lacrime, parlò, ripetendo le
stesse parole, cantandole a bassa voce a nessun altro che a se stessa.
<< Non sono niente. Non sono niente. Non sono niente. >>
Quando venne la sera, riempirono un corno cavo con del brodo leggero e glielo fecero bere.
Cominciò con dei piccoli sorsi esitanti, ma più ne beveva e più ne sentiva il bisogno. Lo
terminò con un lungo sorso e si sdraiò sul giaciglio, con gli occhi spalancati che fissavano
verso l'alto.
<< Non sono niente >>, ripeté nuovamente. Ma ora il tono della sua affermazione era sereno
e le altre donne si resero conto che aveva superato la fase più pericolosa del suo dolore.
Mormorandole dolcemente alcune parole di incoraggiamento, pettinarono i suoi capelli
arruffati e le rimboccarono l'orlo di una coperta attorno alle spalle.


Circa nello stesso momento in cui la prostrazione fece scivolare Mano Alzata in un sonno
profondo e senza sogni, il tenente Dunbar venne svegliato da un sordo rumore di zoccoli
all'entrata della baracca.
Non riconoscendo il suono e con la mente ancora annebbiata dal lungo sonno, il tenente
rimase sdraiato, sbattendo le palpebre per svegliarsi, mentre la sua mano annaspava sul
terreno vicino al giaciglio per prendere la pistola. Prima che potesse trovarla, riconobbe
il suono. Era Cisco. Era tornato un'altra volta.
Sempre all'erta, Dunbar scese senza far rumore dal giaciglio e tenendosi abbassato scivolò
furtivamente accanto al cavallo e uscì dall'esterno.
Era scuro ma ancora presto. Nel cielo vi era soltanto la stella della sera. Il tenente rimase
in ascolto e osservò intorno. Non c'era nessuno.
Cisco lo aveva seguito sullo spiazzo. Il tenente Dunbar gli appoggiò distrattamente una mano
sul collo e sentì che il pelo era indurito dal sudore rappreso. Sogghignò e disse a voce alta:
<< Immagino che tu gliene abbia fatto vedere delle belle, vero? Hai bisogno di una buona
bevuta >>.
Mentre conduceva Cisco giù al fiume, si meravigliò di sentirsi così bene e in forze. Anche se
la ricordava chiaramente, la paralisi che lo aveva colto alla vista dell'incursione di quel pomeriggio
sembrava lontana. Non indistinta, ma lontana, come la storia. Era stato un battesimo, concluse,
un battesimo che lo aveva catapultato dalla fantasia alla realtà. Il guerriero che era venuto verso
di lui e che gli aveva abbaiato quelle frasi era reale: Gli uomini che avevano preso Cisco erano
reali. Ora li conosceva.
Mentre Cisco indugiava a giocherellare con l'acqua spruzzandola intorno con il muso, la mente
del tenente Dunbar continuava a rimuginare su quel pensiero. E come un cercatore d'oro che
improvvisamente trova il prezioso minerale, fece la sua scoperta.
Aspettare, pensò. Ecco quello che ho fatto.
Scosse la testa, ridendo dentro di sé. Ho aspettato. Lanciò un sasso nell'acqua. Aspettare
che cosa? Che qualcuno mi trovasse? Che gli indiani prendessero il mio cavallo? Di vedere
un bisonte?
Non riusciva a credere a se stesso. Aveva camminato sulle uova, ecco che cosa aveva fatto
per quelle ultime settimane. Camminare sulle uova, aspettando che succedesse qualcosa.
Meglio smetterla subito, si disse.
Prima che potesse continuare, i suoi occhi colsero qualcosa. Dall'altro lato del fiume, l'acqua
rifletteva del colore.
Il tenente Dunbar guardò in alto oltre il pendio dietro di lui.
Un'enorme luna piena stava sorgendo.
D'istinto, balzò in groppa a Cisco e risalì il pendio.
Era una vista magnifica, quella grossa luna risplendente come un tuorlo d'uovo che riempiva
il cielo notturno come se fosse un mondo completamente nuovo venuto a visitare proprio lui.
Scese agilmente dal cavallo, si preparò una sigaretta e rimase a osservare affascinato mentre
la luna saliva rapidamente, con i suoi rilievi nitidi come una mappa.
Mentre si alzava nel cielo, la prateria diventava sempre più luminosa. Nelle notti precedenti
aveva conosciuto solo l'oscurità e questo profluvio di chiarore era come un oceano
improvvisamente svuotato di tutta l'acqua.
Sentì il bisogno di immergervisi.
Cavalcarono lentamente per mezz'ora e Dunbar ne assaporò ogni minuto. Quando infine
ritornarono, si sentiva pieno di sicurezza.
Adesso era contento di tutto ciò che era successo. Non sarebbe più rimasto a ciondolare
avvilito, aspettando dei soldati che si rifiutavano di arrivare. Non avrebbe cambiato le sue
abitudini per quanto riguardava il sonno. Non sarebbe più uscito in perlustrazione effettuando
soltanto dei cauti giri intorno al forte e non avrebbe passato altre notti con un occhio e un
orecchio aperti.
Non avrebbe aspettato oltre. Sarebbe passato all'iniziativa.
L'indomani mattina sarebbe uscito a cavallo per trovare gli indiani.
E se lo avessero fatto a pezzi?
Be', che il diavolo si prendesse pure gli avanzi.
Ma lui non avrebbe più aspettato.


(continua)

auroraageno
00mercoledì 3 ottobre 2007 07:55
(segue)


Quando aprì gli occhi, all'alba, la prima cosa che vide fu un altro paio d'occhi. Poi si
rese conto che altri occhi la stavano fissando. Tutto tornò di colpo alla sua mente e
Mano Alzata sentì l'improvvisa ondata di vergogna di fronte a tutta quell'attenzione
rivolta verso di lei. Aveva cercato di uccidersi in un modo così poco dignitoso, così
poco comanci.
Voleva nascondere la faccia.
Le chiesero come si sentisse e se volesse mangiare. Mano Alzata rispose che sì,
si sentiva meglio e che avrebbe gradito mangiare.
Mentre mangiava osservò le donne mentre si occupavano dei loro piccoli lavori e
questo, insieme con il sonno e il cibo, ebbe un effetto ristoratore. La vita continuava
e vedere che questo accadeva la fece nuovamente sentire una persona.
Ma quando con la mano si tastò il petto, seppe dal dolore lancinante che sentiva che
il suo cuore era spezzato. Avrebbe dovuto essere sanato, se voleva continuare la sua
vita, e il modo migliore per riuscirvi era un lutto giusto e completo.
Doveva piangere la morte di suo marito.
E per farlo, doveva lasciare la tenda per le donne.
Era ancora presto quando si preparò per andarsene. Le donne le intrecciarono i
capelli e affidarono a due ragazzi l'incarico di andare a prendere la sua veste più bella
e di togliere uno dei pony di suo marito dal branco.
Nessuno la dissuase, quando Mano Alzata infilò una cintura nella guaina del suo coltello
migliore e se l'assicurò alla vita. Il giorno prima avevano impedito qualcosa di irrazionale,
ma ora era più calma e se Mano Alzata voleva ancora togliersi la vita, allora che così
fosse. Molte donne lo avevano fatto negli anni addietro.
La seguirono mentre usciva dalla tenda, così bella e strana e triste. Una di loro l'aiutò
a montare sul pony. Poi la donna e il cavallo si allontanarono lentamente dall'accampamento
dirigendosi verso la prateria.
Nessuna delle donne levò dei lamenti, nessuna pianse e nessuna le fece un cenno d'addio.
Rimasero solamente a guardarla mentre si allontanava. Ma ognuna delle sue amiche
sperava che non sarebbe stata troppo crudele con se stessa e che sarebbe ritornata.


Il tenente Dunbar si stava affrettando a terminare i suoi preparativi. Aveva già dormito fin
dopo che il sole era sorto, mentre aveva avuto l'intenzione di essere già in piedi all'alba.
Così bevve velocemente il suo caffè, fumando la sua sigaretta mentre la mente cercava
di organizzare tutto quanto nel modo più efficiente possibile.
Si buttò per prima cosa sui lavori ingrati, cominciando dalla bandiera sul deposito dei
rifornimenti. Era più nuova di quella che sventolava dai suoi alloggi. Così si arrampicò
lungo la parete di terra che si stava sgretolando e la tirò giù.
Staccò una pertica del recinto, la ficcò nel fianco esterno dello stivale e dopo averla
attentamente misurata accorciò la punta di alcuni centimetri. Poi vi attaccò la bandiera.
Non era male.
Lavorò intorno a Cisco per un'ora, rifilando i ciuffi di pelo attorno a ogni zoccolo,
spazzolandogli la criniera e la coda, ungendone il folto pelo nero con del grasso di
pancetta.
Dedicò la maggior parte del tempo al mantello. Il tenente Dunbar lo strofinò e lo strigliò
una mezza dozzina di volte fino a quando fece finalmente un passo indietro e vide
che non era necessario continuare. Il pelo bruno fulvo del cavallo splendeva come la
pagina patinata di un libro illustrato.
Legò Cisco lasciandogli poca briglia così che non potesse sdraiarsi nella polvere e si
diresse in fretta verso la baracca. Tirò fuori l'alta uniforme e la spazzolò meticolosamente,
togliendo con le dita ogni pelucco e asportando anche la più piccola pallina di lanugine.
Lucidò i bottoni. Se avesse avuto del colore avrebbe potuto ritoccare le spalline e le
strisce gialle che correvano lungo il fianco dei pantaloni. Si accontentò di ricorrere alla
spazzola e a un po' di sputo. Quando ebbe finito, l'uniforme appariva più che passabile.
Lucidò i suoi stivali nuovi alti fino al ginocchio sputandovi della saliva e li sistemò accanto
all'uniforme che aveva steso accuratamente sul giaciglio.
Quando, finalmente, venne il momento di pensare a se stesso, raccolse un asciugamano
ruvido e i suoi arnesi da barba e scese al fiume. Saltò nell'acqua, si insaponò bene bene,
si risciacquò e schizzò fuori; il tutto, in meno di cinque minuti. Facendo molta attenzione
a non tagliuzzarsi, il tenente si rasò due volte. Quando riuscì a passare una mano sulla
guancia senza incontrare il minimo pelo, risalì leggermente il pendio e si vestì.


Cisco piegò il collo di lato e guardò con aria interrogativa la figura che veniva verso di lui,
in special modo la fascia di un colore rosso vivo che svolazzava attorno alla vita del tenente.
Anche se non ci fosse stata la fascia, gli occhi del cavallo sarebbero rimasti comunque
fissi su di lui. Nessuno aveva mai visto il tenente Dunbar in quella forma. Non Cisco,
sicuramente, e lui conosceva il suo padrone meglio di chiunque altro.
Il tenente si vestiva sempre in modo da passare inosservato, non attribuendo molta importanza
allo sfavillio delle parate, delle ispezioni o delle riunioni con i generali.
Ma se le migliori menti dell'esercito si fossero messe insieme per creare il non plus ultra
degli ufficiali subalterni, si sarebbero discostati di poco da quello che il tenente Dunbar
era riuscito a ottenere in quella chiara mattina di maggio.
Dal berretto agli stivali, fino alla grossa pistola della marina che gli pendeva al fianco, era
l'uomo in uniforme dei sogni di ogni ragazza. Era così tirato a lucido e sfavillante che nessun
cuore femminile avrebbe potuto fare a meno di saltare un battito a quella vista. Anche la
testa più cinica sarebbe stata costretta a voltarsi, e anche le labbra più serrate si sarebbero
trovate a pronunciare le parole: << Chi è? >>
Dopo aver infilato il morso a Cisco, afferrò un ciuffo della criniera, si issò senza fatica sulla
groppa lucida del cavallo e raggiunsero al trotto il deposito dei rifornimenti. Il tenente si piegò
a raccogliere lo stendardo con la bandiera appoggiato contro la parete. Si infilò l'asta dentro
lo stivale, impugnò lo stendardo con la mano sinistra e guidò Cisco verso la prateria.
Dopo aver percorso un centinaio di metri, Dunbar si fermò e guardò indietro, sapendo che
vi era la probabilità che non avrebbe mai più rivisto quel luogo. Gettò uno sguardo al sole e
vide che era metà mattino. Avrebbe avuto parecchio tempo a disposizione per trovarli. In fondo,
a Ovest, poteva scorgere la piatta nuvola di fumo che aveva fatto la sua comparsa per tre
giorni di seguito. Dovevano essere loro.
Il tenente abbassò lo sguardo sulle punte dei suoi stivali. Riflettevano la luce del sole. Sospirò
brevemente, dubbioso, e per una frazione di secondo sentì il desiderio di un buon sorso di
whisky. Schioccò la lingua per incitare Cisco e il cavallo partì al piccolo galoppo. Soffiava
un leggero vento e Old Glory, la vecchia e gloriosa bandiera degli Stati Uniti, sventolava,
mentre cavalcava per andare incontro a... non sapeva a che cosa.
Ma ci stava andando.


Sebbene non fosse in alcun modo programmato, il lutto di Mano Alzata fu molto rituale.
Non aveva nessuna intenzione di morire ora. Ciò che voleva era di sgomberare
quell'ammasso di dolore che era dentro di lei. Voleva liberarsene il più accuratamente
possibile, così prese il suo tempo.
Tranquillamente e metodicamente, cavalcò per circa un'ora prima di incontrare un luogo
che le andasse bene, un luogo dove era probabile che gli dei si riunissero.
A chiunque vivesse nella prateria sarebbe sembrata una collina. Per chiunque non sarebbe
stato altro che un rigonfiamento del terreno, come una piccola onda su un mare ampio
e piatto. Sulla sua sommità c'era un albero solitario, una vecchia quercia nodosa che in
qualche modo rimaneva aggrappata alla vita sebbene, con gli anni, chi era passato di lì
l'avesse resa molto malridotta. Volgendo lo sguardo in ogni direzione, era l'unico albero
che vedesse.
Era un luogo molto solitario. Sembrava essere il posto giusto. Salì sulla sommità, smontò
dal suo pony, discese lungo il retro della collina e si sedette a gambe incrociate sul
terreno.
Mosse dal vento, le trecce le sbattevano sul viso, così alzò le braccia e le sciolse entrambe,
lasciando che i suoi capelli color rosso ciliegia volassero nel vento. Allora chiuse gli occhi,
cominciò a dondolarsi dolcemente e concentrò la sua mente sulla cosa terribile che era
successa alla sua vita, escludendo da lei ogni altro pensiero.
Pochi minuti dopo, le parole di un canto presero forma nella sua mente. Aprì la bocca e
i versi uscirono sicuri e forti come qualcosa che avesse già diligentemente ripetuto e
provato. La voce a volte le si incrinava, ma cantò con tutto il suo cuore, e la bellezza del suo
canto era molto più di una melodia gradevole alle orecchie.
Nel suo semplice canto, celebrò le virtù del suo uomo come guerriero e come marito. Stava
per terminare, quando le vennero in mente degli altri versi:

Era un grande uomo,
era grande per me.


Fece una pausa prima di cantarli. Sollevando verso il cielo gli occhi chiusi, Mano Alzata sfilò
il coltello dalla guaina e incise con la lama la pelle della fronte. Abbassò la testa e cercò di
guardare in su verso il taglio. Stava sanguinando. Riprese a cantare, tenendo saldamente
il coltello in una mano.
Nell'ora che seguì, si praticò altri tagli. Le incisioni erano poco profonde, ma sanguinavano
copiosamente e questo le fece piacere. A mano a mano che la sua testa diventava più
leggera, la sua concentrazione aumentava.
Il canto era bello. Raccontava l'intera storia delle loro vite come non sarebbe stato possibile
fare se fosse stata raccontata. Pur senza essere dettagliata, non tralasciò nulla.
Alla fine, quando ebbe formato un bellissimo verso in cui implorava il Grande Spirito di dargli
un posto onorevole nel mondo al di là del sole, un'improvvisa ondata di emozione la sommerse.
C'era poco di cui non avesse cantato. Aveva terminato e quello significava l'addio.
Gli occhi le si riempirono di lacrime, mentre sollevava la veste di daino per tagliarsi una delle
cosce. Passò velocemente la lama da un lato all'altro della gamba e restò un attimo senza
fiato. Questa volta. il taglio era molto profondo. Doveva aver tagliato una grossa vena o
un'arteria, perché quando abbassò lo sguardo Mano Alzata vide che il sangue usciva
copiosamente a ogni battito del cuore.
Avrebbe potuto cercare di arrestare il sangue, oppure continuare a cantare.
Mano Alzata prese quest'ultima decisione. Sedette con le gambe allungate lasciando che il
sangue colasse nel terreno, sollevò la testa e cantò con voce lamentosa le parole:

Sarà dolce morire.
Sarà dolce andare con lui,
io lo seguirò.




(continua)


auroraageno
00venerdì 5 ottobre 2007 08:28
(segue)

Poiché il vento le soffiava sul viso, non lo sentì avvicinarsi.
L'uomo a cavallo aveva notato l'altura in lontananza e aveva deciso che sarebbe stato
un buon posto per dare un'occhiata intorno. Se anche da lassù non fosse riuscito a
vedere niente, avrebbe potuto salire su quel vecchio albero.
Il tenente Dunbar era a metà della leggera salita quando il vento portò alle sue orecchie
un suono strano e triste. Cautamente, superò la sommità della collina e vide qualcuno
seduto a poca distanza, proprio davanti a lui. Aveva la schiena girata. Non poteva dire
con sicurezza se si trattasse di un uomo o di una donna. Ma era indubbiamente un
indiano.
Un indiano che cantava.
Era ancora in groppa a Cisco quando l'indiano si voltò verso di lui.


Non avrebbe potuto dire che cosa fosse, ma improvvisamente Mano Alzata si accorse
che c'era qualcosa dietro di lei e si girò a guardare.
Ebbe solo una rapida visione della faccia sotto il berretto, prima che un improvviso colpo
di vento facesse avvolgere la bandiera colorata attorno alla testa dell'uomo.
Ma quella breve occhiata fu sufficiente. Le disse che si trattava di un soldato bianco.
Non balzò in piedi né corse via. C'era qualcosa che l'affascinava, nell'immagine di quel
solitario soldato. La grande bandiera colorata e il cavallo dal pelo lucido, e il sole che
faceva luccicare gli ornamenti dei suoi abiti. E ora vedeva nuovamente il viso, mentre
la bandiera si scostava: un viso giovane, duro, con gli occhi che splendevano. Mano
Alzata batté più volte le palpebre, incerta se quella che era davanti a lei fosse una
visione o una persona. Nulla si era mosso, se non la bandiera.
Poi il soldato si mosse sulla sella. Era reale. Si tirò su in ginocchio e cominciò ad arretrare
lungo la discesa. Non emise un suono, né si affrettò. Mano Alzata si era svegliata da un
incubo per ritrovarsi in un altro, un incubo che era reale. Si muoveva lentamente perché
era troppo inorridita per fuggire.


Dunbar rimase colpito quando vide il suo viso. Non pronunciò le parole, nemmeno nella sua
testa, ma se lo avesse fatto, il tenente avrebbe detto qualcosa come: << Che genere di donna
è questa? >>
Il piccolo viso affilato, i capelli rosso ciliegia arruffati e gli occhi intelligenti, abbastanza
selvaggi da poter essere amati o odiati con uguale intensità, lo avevano lasciato
completamente interdetto. Non lo sfiorò l'idea che potesse non essere un'indiana. In quel
momento aveva in mente solo una cosa.
Non aveva mai visto una donna con un aspetto così strano.
Prima che potesse muoversi o parlare, la donna si tirò su in ginocchio e Dunbar vide che
era coperta di sangue.
<< Oh, mio Dio >>, mormorò.
Fu soltanto quando la donna ebbe arretrato giù lungo la discesa che sollevò una mano e
disse piano: << Aspetta >>.
Al suono della parola, Mano Alzata si alzò e cominciò a correre, incespicando nel terreno.
Il tenente Dunbar la seguì al trotto, continuando a chiederle di fermarsi. Quando fu a qualche
metro da lei, Mano Alzata gettò uno sguardo alle sue spalle, inciampò e cadde nell'erba.
Quando Dunbar le arrivò vicino, si stava trascinando carponi nell'erba e ogni volta che lui
cercava di chinarsi, doveva ritirarsi, come se avesse paura di toccare un animale ferito.
Quando finalmente l'afferrò intorno alle spalle, lei si girò di colpo e cercò di graffiargli la
faccia.
<< Sei ferita >>, disse lui, cercando di respingere le sue mani. << Sei ferita. >>
Per qualche secondo Mano Alzata si difese con furia, poi lui riuscì ad afferrarla per i polsi.
Con le ultime forze che le erano rimaste, cercò di liberarsi, scalciando furiosamente e in
quel mentre accadde qualcosa di strano.
Nel delirio della sua lotta, una vecchia parola in inglese, una che non diceva da anni, le
salì alle labbra. Uscì dalla sua bocca prima che potesse fermarla.
<< No! >>
Si fermarono entrambi, il tenente Dunbar non riusciva a credere di averla udita e Mano
Alzata non riusciva a credere di averla detta.
Gettò indietro la testa e si lasciò cadere per terra. Era troppo per lei. Mormorò qualche
parola in comanci e svenne.


La donna sdraiata nell'erba continuava a respirare. La maggior parte delle sue ferite erano
superficiali, ma quella sulla coscia era pericolosa. Il sangue usciva copiosamente e il
tenente si sarebbe preso a calci per aver buttato la sua fascia rossa una o due miglia
prima. Sarebbe andata benissimo per fare un laccio.
Era stato sul punto di gettare via dell'altro. Più cavalcava e meno vedeva, e più ridicolo
gli sembrava il suo piano. Aveva buttato la fascia rossa come qualcosa di inutile, di
sciocco, ed era pronto a riavvolgere la bandiera (anche quella gli sembrava altrettanto
sciocca) e a ritornare a Fort Sedgewick, quando aveva visto l'altura e l'albero solitario.
La sua cintura era nuova e troppo rigida, così prese il coltello della donna, tagliò una
striscia dalla bandiera e la legò in alto attorno alla coscia. Il flusso di sangue diminuì
subito, ma bisognava comprimere il taglio. Si tolse l'uniforme, scivolò fuori dalla lunga
maglia che portava sotto e la tagliò a metà. Avvolse la parte superiore e la premette
sulla ferita.
Per dieci, terribili minuti il tenente Dunbar restò inginocchiato accanto a lei nell'erba,
nudo, premendo forte con entrambe le mani sulla compressa improvvisata. Appoggiò
cautamente un orecchio sul petto di lei e ascoltò. Il cuore batteva ancora.
Trovarsi in quella situazione da solo era difficile e snervante, senza sapere chi fosse la
donna, senza sapere se sarebbe vissuta oppure morta. Faceva caldo, lì nell'erba, e
ogni volta che con la mano si detergeva il sudore che gli colava negli occhi, lasciava una
striscia di sangue sulla sua faccia. E ogni volta guardava frustrato il sangue che rifiutava
di arrestarsi. Allora, sostituiva la compressa.
Ma continuò.
Finalmente, quando il sangue divenne solo un rivolo, passò all'azione. Il taglio aveva
bisogno di essere cucito, ma questo era impossibile. Tagliò una gamba della lunga
maglia, la ripiegò fino a farne una benda e l'avvolse intorno alla ferita. Poi, lavorando
il più velocemente possibile, il tenente tagliò un'altra striscia della bandiera e la legò
strettamente intorno alla benda. Ripeté la stessa cosa con le ferite minori alle braccia.
Mentre lavorava, Mano Alzata cominciò a gemere. Aprì gli occhi per alcune volte, ma
era troppo debole per fare qualsiasi movimento, persino quando lui prese la sua
borraccia e le versò un sorso di acqua fra le labbra.
Dopo che ebbe fatto tutto quanto poteva come medico, Dunbar si rimise l'uniforme,
chiedendosi che cosa fare mentre si allacciava i bottoni dei pantaloni e della giubba.
Vide il pony della donna non molto lontano, nella prateria, e pensò di andarlo a recuperare.
Ma quando guardò la donna che giaceva nell'erba, la cosa gli parve senza senso. Sarebbe
stata in grado di cavalcare, ma avrebbe avuto bisogno di aiuto.
Dunbar guardò il cielo verso Ovest. La nuvola di fumo era quasi sparita. Rimaneva soltanto
qualche sbuffo. Se si fosse affrettato, sarebbe riuscito a orientarsi in quella direzione
prima che la nuvola sparisse del tutto.
Fece scivolare le braccia sotto il corpo della donna, la sollevò e la caricò il più delicatamente
possibile in groppa a Cisco, con l'intenzione di condurre il cavallo a mano. Ma la ragazza
era semiscosciente e non appena si fu avviato, fu nuovamente sul punto di svenire.
Reggendola con una mano, riuscì a salire in groppa dietro di lei. La girò verso di sé e con
l'aspetto di un padre che culla la figlia malata, voltò il cavallo in direzione della nuvola
di fumo.
Mentre Cisco li trasportava attraverso la prateria, il tenente pensò al piano che aveva
congegnato per impressionare gli indiani selvaggi. Adesso, non aveva certo un aspetto
possente o molto ufficiale. C'era del sangue sulla sua giubba e sulle sue mani. La ragazza
era fasciata con la sua maglia e una bandiera degli Stati Uniti.
Era meglio così. Quando pensava a ciò che aveva fatto, girando poco dignitosamente
e come uno stupido per la prateria con gli stivali lucidati e una fascia rossa alla vita e,
oltre a tutto, con una bandiera al fianco, il tenente sorrise impacciato.
Devo essere un idiota, pensò.
Guardò i capelli color rosso ciliegia al disotto del suo mento e si chiese che cosa dovesse
aver pensato quella povera donna, vedendolo con quella messinscena.
Mano Alzata non pensava a nulla. Tutto era indistinto. Provava solo delle sensazioni. Sentiva
il dondolio del cavallo sotto di lei, sentiva il braccio attorno alla sua schiena e sentiva la
strana stoffa contro il suo viso. Ma, soprattutto, Mano Alzata si sentiva al sicuro e per tutto
il cammino tenne gli occhi chiusi, timorosa che, se li avesse aperti, la sensazione se ne
sarebbe andata.


(continua)


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