Il Santo del giorno

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auroraageno
00giovedì 3 maggio 2012 10:23

Giovedì 3 Maggio 2012

Santi Filippo e Giacomo

«Coloro che hanno visto»
, a cura di Antonio Maria Sicari




Gli apostoli sono spesso definiti “colonne e fondamento della fede cristiana”, anche se di alcuni non sappiamo quasi a, se non il fatto che hanno risposto alla chiamata di Gesù e hanno costituito la prima Chiesa. Perciò le poche notizie riportate su di loro nella Bibbia hanno una particolare preziosità. A volte, sono così incisive che bastano a delineare “un volto”. Di Filippo, ad esempio, sappiamo solo che ha condotto a Gesù l’amico Natanaele, vincendo le sue resistenze con quella semplice e bella espressione che è diventata patrimonio e metodo di tutti i missionari: “Vieni e vedi!” (Gv 1,46). E il verbo “vedere” sembra che abbia caratterizzato intimamente la sua maturazione spirituale. Durante l’ultima cena, sarà Filippo a dire a Gesù: “Signore, facci vedere il Padre e ci basta!”, ricevendo questa risposta che gli avrà certamente colmato la mente e il cuore per tutta la vita: «Da tanto tempo sono con voi, Filippo, e tu non mi conosci ancora? Chi ha visto me ha visto il Padre! Come puoi dire: “Facci vedere il Padre!”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre e in me?» (Gv 14,8-9). Anche di Giacomo (detto “il minore”, cugino di Gesù), abbiamo poche notizie, ma essenziali: sappiamo che, tra tutti i discepoli, fu quello più attaccato alla tradizione giudaica (e per questo è ancora un punto di riferimento essenziale per tutti gli ebrei che vogliono orientarsi a Cristo) e che fu martirizzato mentre era Vescovo di Gerusalemme. Inoltre gli viene attribuita la Lettera cattolica che porta il suo nome: uno scritto particolarmente intenso e severo, che riprende volentieri i temi delle Beatitudini evangeliche. Ed è utile, inoltre, ricordare che, in essa, trova fondamento il sacramento dell’Unzione degli Infermi.



auroraageno
00venerdì 4 maggio 2012 09:14

Venerdì 4 Maggio 2012


S. Ciriaco di Ancona

«Abbracciare la Croce di Gesù»
, a cura di Antonio Maria Sicari



Il nome Ciriaco ha un’origine greca che significa “consacrato al Signore”. Ma egli l’avrebbe assunto solo al momento della conversione, che ci è stata tramandata con molti abbellimenti leggendari.
Il suo vero nome sarebbe stato Giuda, rabbino a Gerusalemme. Sarebbe stato lui a rivelare all’imperatrice Elena, madre di Costantino, il luogo dov’era stata nascosta la croce di Gesù, convertendosi poi per i prodigi che si sarebbero verificatisi in seguito a quel ritrovamento. Sembra che sia morto martire al tempo di Giuliano l’Apostata.
Il suo rapporto con Ancona e con la stupenda cattedrale a lui dedicata probabilmente è dovuto al dono delle reliquie del martire, fatto successivamente alla città per intercessione di Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio.
Un'altra tradizione sostiene invece che Ciriaco, convertito, sarebbe venuto in Italia e sarebbe divenuto davvero vescovo di Ancona, anche se in seguito avrebbe compiuto un pellegrinaggio in Palestina, nel desiderio di rivedere la Terra Santa e i propri familiari. Qui sarebbe stato torturato a lungo e martirizzato, assieme alla madre.
Il legame tra la città di Ancona e san Ciriaco, suo Patrono, è comunque antichissimo e dura da circa millecinquecento anni, tanto che l’effigie del Santo è riprodotta nelle antiche monete coniate dalla zecca anconitana.
La data della sua festa è stata fissata nel giorno successivo a quello in cui – secondo la tradizione – sarebbe stata ritrovata la Santa Croce (3 maggio dell’anno 326).



auroraageno
00sabato 5 maggio 2012 09:16


Sabato 5 Maggio 2012


S. Angelo di Sicilia

Monaco e missionario, a cura di Antonio Maria Sicari



Secondo la tradizione, Angelo sarebbe nato a Gerusalemme da genitori giudei convertiti. In gioventù si aggregò agli eremiti latini che vivevano sul Monte Carmelo, e fu uno dei primi monaci carmelitani a trasferirsi dalla Palestina in Europa, nella prima metà del sec. XIII. Dopo un pellegrinaggio a Roma (dove si sarebbe incontrato con s. Francesco e s. Domenico) fra Angelo passò in Sicilia, predicando soprattutto nell’agrigentino e nell’entroterra dell’isola.
Tracce prodigiose del suo passaggio (e del suo culto) sono rimaste a Palermo, a Cefalà Diana (si dice che ci sia l’impronta del suo piede su una pietra, là dove sgorga l’acqua calda delle terme!), a Misilmeri e a Bolognetta. Fissò infine la sua residenza a Licata, dove tentò di convertire il signorotto locale, Berengario, un eretico cataro, che viveva incestuosamente con la sorella. Riuscì a convertire la donna, ma Berengario non temette di aggredirlo sul sagrato della chiesa dove Angelo aveva appena predicato, ferendolo con numerosi colpi di spada. Il carmelitano morì il 5 maggio 1220 chiedendo agli abitanti di Licata di non vendicare la sua morte, ma di perdonare l’assassino.
Sul luogo del martirio fu poi edificato un santuario, nel quale è custodito anche un pozzo: la tradizione dice che l’acqua salmastra, sgorgata miracolosamente al momento del martirio, si addolcisce ogni anno nel giorno della festa del Santo, e opera prodigi. Nel 1553 gli abitanti di Licata attribuirono alla sua intercessione l’aver potuto resistere a un attacco dei Turchi. Nel 1625 la città, liberata dalla peste per intercessione di s. Angelo, lo scelse come Patrono. Anche la città di Palermo lo annovera tra i suoi patroni.
La sua vicenda contribuì alla diffusione dell’Ordine Carmelitano in Italia.



auroraageno
00lunedì 7 maggio 2012 07:28


Lunedì 7 Maggio 2012


S. Domitilla, martire

dal Martirologio




A Roma, commemorazione di santa Domitilla, martire, che, nipote del console Flavio Clemente, accusata durante la persecuzione di Domiziano di aver rinnegato gli dèi pagani, per la sua testimonianza di fede in Cristo fu deportata insieme ad alcuni altri nell’isola di Ponza, dove consumò un lungo martirio.




auroraageno
00martedì 8 maggio 2012 08:41

Martedì 8 Maggio 2012

Madonna del Rosario

«Maria prega per noi»
, a cura di Antonio Maria Sicari




Il Rosario è una corona di cinquanta grani di legno, spesso intagliati a forma di piccole rose: scorrendoli, il cristiano recita delle “Ave Marie” e va meditando i misteri (gioiosi, luminosi, dolori, gloriosi) della vita di Cristo. E’ stato definito “il Salterio e il Vangelo dei poveri”: una preghiera che tutti possono tenere a mente e che dona una tranquilla intimità col Figlio di Dio e con la Vergine Santa. Pare che tale forma di preghiera sia stata inventata dai monaci cistercensi e sia stata poi diffusa da s. Domenico e da s. Caterina da Siena.

Nelle raffigurazioni tradizionali della Madonna del Rosario sono questi due santi che ricevono in dono la corona, per diffonderne l’uso tra i cristiani. E fu con una povera riproduzione di questo quadro, che Bartolo Longo (un incredulo convertito) giunse nella valle di Pompei, allora paludosa e malsana, abitata da gente misera e abbandonata a se stessa, per costruirvi una “città di Maria”: un imponente santuario, attorniato da molteplici case della carità (un orfanatrofio femminile, un istituto per i figli dei carcerati, un ospedale, una tipografia religiosa e poi asili, scuole, ospizi per anziani e case d’accoglienza per i pellegrini).

Ad ogni anniversario della posa della prima pietra del santuario, (avvenuta l’otto maggio 1876), davanti all’immagine della Madonna di Pompei, viene recitata una famosa “supplica” (composta dal santo fondatore) per deporre ai piedi della Vergine Santa tutte le necessità del popolo cristiano: una supplica che, fino a qualche decennio fa, veniva recitata a mezzogiorno anche nelle nostre case.

Per quanto riguarda poi la recita del Rosario, è importante sottolineare che noi preghiamo la Madonna affinché sia lei “a pregare per noi, adesso e nell’ora della nostra morte”, come se dessimo a Maria un appuntamento per l’ora decisiva.




auroraageno
00mercoledì 9 maggio 2012 07:56


Mercoledì 9 Maggio 2012

S. Pacomio il Grande

Monaco a servizio dei fratelli
, a cura di Antonio Maria Sicari



A rendere grande Pacomio basterebbe la visione che raccontò ai suoi monaci, lasciandola loro come testamento. Aveva visto una caverna tenebrosa piena di gente che anelava ad uscire per ritrovare la luce del sole, e una sola schiera che avanzava sicura senza perdersi nelle tenebre: una piccola schiera di monaci in possesso di una piccola lampada, il Vangelo. E tutti coloro che non volevano perdersi potevano con sicurezza camminare sulle loro orme. Ciò non voleva dire che soltanto i monaci di Pacomio potevano salvarsi, ma che era loro compito irrinunciabile quello di tenere alta per tutti quella “piccola grande luce”. La visione era anche un racconto della storia del grande Abate: prima di lui i monaci avevano preferito esclusivamente l’esperienza eremitica, ma Pacomio s’era convertito al cristianesimo per la carità fraterna che aveva visto esercitata dai cristiani. Infatti, da giovane, era stato costretto alla vita militare e aveva trovato, in una caserma di Tebe, dei cristiani (gente per lui sconosciuta) che l’avevano accolto e aiutato fraternamente.
“Anch’io voglio fare la volontà di Dio e amare tutti gli uomini”, si era detto. Divenuto cristiano, si era recato a vivere tra gli eremiti della Tebaide, ma poi aveva cominciato ad allargare la sua dimora per accogliervi tutti coloro che venivano a lui. Divenne così l’inventore della “vita monastica comunitaria”, dando origine a un villaggio di monaci con case diverse, in base al lavoro cui i gruppi di monaci si dedicavano. A tutti Pacomio diede una Regola che contemperava le severe esigenze della vita comune con quelle dei singoli monaci, spesso bisognosi di più misericordia. E a volte c’era chi criticava il santo Abate, per la sua condiscendenza. Ma quando Pacomio morì i monaci si dissero con malinconia: “Oggi siamo diventati orfani!”.




auroraageno
00giovedì 10 maggio 2012 08:18


Giovedì 10 Maggio 2012

S. Giovanni d'Avila

Maestro di Santi
, a cura di Antonio Maria Sicari




Giovanni d’Avila, detto l’Apostolo dell’Andalusia, fu un grande predicatore vissuto nel 1500. Eppure la sua canonizzazione è avvenuta soltanto nel 1970, per opera di Paolo VI che lo ha proclamato anche patrono dei sacerdoti. Più recentemente ancora, durante la Giornata Mondiale della Gioventù del 2011, Benedetto XVI ha preannunciato la sua prossima proclamazione a Dottore della Chiesa.

È dunque giusto cominciare a diffondere il suo ricordo, rimasto piuttosto in ombra. Eppure, quand’era in vita, egli fu amico e consigliere dei più celebri protagonisti della storia spagnola: ricorsero a lui s. Teresa d’Avila e s. Ignazio di Loyola; s. Pietro d’Alcantara e s. Tommaso da Villanova. Giovanni Cidade (il futuro san Giovanni di Dio) si convertì ascoltando una sua predica; e lo stesso accadde a Francesco Borgia, vicerè di Catalogna che si convertì (e divenne poi santo) ascoltando la predica che Giovanni d’Avila tenne per i funerali di Isabella di Portogallo, moglie di Carlo V.

Particolarmente interessante è il volume che raccoglie le numerosissime lettere di Giovanni d’Avila, dal titolo Epistolario spirituale per tutti gli stati di vita.

Un altro suo testo, ancora più celebre, si intitola “Audi Filia”, un trattato di ascetica e vita cristiana, scritto per una giovane discepola e poi universalmente diffuso. L’efficacia del suo stile è bene evocata anche solo da questa invocazione: «O croce santa, accogli anche me…. Allargati, o corona di spine, perché vi possa trovar posto anche il mio capo. Chiodi, lasciate le mani innocenti del mio Signore e trapassate il mio cuore… Signore, quanto io Ti vedo sulla croce, tutto mi invita ad amarti: il legno, le tue sembianze, le tue ferite, e soprattutto il tuo amore, m’invitano ad amarti e a non dimenticarti mai più!».

Giovanni d’Avila morì nel 1569 e un suo celebre amico e discepolo, fra Luigi di Granada, ne scrisse la vita.





auroraageno
00venerdì 11 maggio 2012 07:41


Venerdì 11 Maggio 2012


S. Francesco De Geronimo
«Il missionario di Napoli»
, a cura di Antonio Maria Sicari



È un santo tipicamente meridionale non solo perché nato in Puglia (nel 1642), ma perché trovò a Napoli la sua “terra di missione”, senza volerla mai abbandonare.

Era già sacerdote, laureato in Diritto civile e canonico, oltre che in Teologia, quando si fece gesuita a ventotto anni, affascinato dal sogno di riprendere la missione di s. Francesco Saverio in Oriente. Ma trovò la sua terra di missione nei quartieri più poveri e degradati di Napoli, dove operò per quarant’anni. Era lui a raggiungere i fedeli nei vicoli, nei “bassi”, nei “fondaci”, nelle carceri, negli ospedali, nel porto e sulle navi. E si faceva aiutare (con molto anticipo sui tempi) da un gruppo di artigiani amici (ne ebbe fino a duecento!) che curavano l’organizzazione pratica dei suoi interventi missionari.

Ogni terza domenica del mese – da lui particolarmente indicata per le confessioni e le comunioni – la chiesa dei Gesuiti diventava la metà di circa ventimila fedeli che accorrevano da tutta Napoli. Qui trovavano decine di sacerdoti pronti ad ascoltare le confessioni. Le conversioni, operate da Francesco furono innumerevoli e molte fecero scalpore. Ma non gli mancarono anche persecuzioni e aggressioni da parte di chi vedeva danneggiati i propri traffici. Alla fine però il santo predicatore riuscì ad avere sul popolo un tale ascendente, da poter quietare gli animi anche in ore tragiche che potevano dare adito alle peggiori violenze. Fu quel che accadde all’inizio del sec. XVIII, quando l’esercito austriaco occupò la città, cacciando gli spagnoli.

Morì nel 1716 e si racconta che, nella domenica successiva alla sua morte, nella chiesa dove era stato seppellito, furono distribuite più di quarantamila comunioni.





auroraageno
00sabato 12 maggio 2012 06:49




Sabato 12 Maggio 2012


B. Giovanna di Portogallo

Regina solo al fianco di Gesù
, a cura di Antonio Maria Sicari



Nei tempi in cui la fede s’indebolisce, anche per molti cristiani diventa particolarmente difficile capire la vocazione di giovani donne che si dicono innamorate di Gesù, al punto da non potere né volere amare un altro Sposo. Perciò il ricordo e l’esempio di alcune splendide figure di vergini cristiane diventa ancora più prezioso. È stato così, fin dalle origini del cristianesimo, anche quando scegliere la verginità consacrata voleva dire andare incontro al martirio.
Tra queste “vergini Spose di Cristo” merita d’essere ricordata la principessa Giovanna di Portogallo (detta anche Giovanna di Aviz), nata nel 1452 a Lisbona e subito proclamata erede al trono. Non c’era allora in Europa una fanciulla più nobile, più bella e più desiderata di lei. Era figlia del re Alfonso IV e, ancora giovanissima, era già stata chiesta in sposa dal Delfino di Francia, da Massimiliano d’Austria e dal re d’Inghilterra.
Alla sua vocazione monastica si opponevano non soltanto il padre e i dignitari di corte, ma anche tutti i procuratori delle città portoghesi, che esigevano il suo matrimonio per garantire un erede al regno. Più volte Giovanna entrò nel monastero domenicano di Aveiro e più volte il padre o il fratello la costrinsero ad uscirne. Fu reggente del regno del Portogallo, mentre suo padre guerreggiava in nord-Africa per conquistare Tangeri. Solo negli ultimi anni della sua vita Giovanna ottenne d’esser lasciata in pace col suo Sposo Gesù.
Raccontano che morì mentre, accanto al suo letto, venivano recitate litanie dei santi, spirando dolcemente proprio al momento in cui s’invocavano i santi Innocenti.




auroraageno
00martedì 15 maggio 2012 09:49




Martedì 15 Maggio 2012


S. Isidoro, agricoltore

Lavorare con gli angeli
, a cura di Antonio Maria Sicari



Il patrono di Madrid, città nobile e fiera, è un contadino (Isidoro, detto appunto “l’agricoltore”) vissuto al tempo in cui la Spagna cercava di liberarsi dalla dominazione araba. La sua vita non è ricca di vicende straordinarie, ma è tutta una risposta alle nostre fatiche e negligenze, quando siamo tentati di scusarci per non saper come mettere assieme lavoro e preghiera.
Isidoro passa la sua giovinezza lavorando nei campi, perseguitato dall’accusa dei compagni che, vedendolo pregare a lungo, lo accusano di non lavorare abbastanza, mettendolo in cattiva luce agli occhi dei padroni. Ma accade sempre una specie di miracolo: quando il padrone si mette di puntiglio a controllare l’opera dei contadini, scopre che Isidoro ha mietuto la stessa quantità di grano e ha arato la stessa estensione di terreno dei suoi compagni.
Qualcuno spiega le cose assicurando che, quando Isidoro si ferma a pregare, un angelo lavora al suo posto. Ciò che è certamente possibile, ma forse la narrazione popolare vuol dirci, per immagini, una semplice verità: che la preghiera fatta per amore raddoppia le energie perché dà gusto e significato al lavoro.
D’altra parte è sotto gli occhi di tutti la scarsa produttività di un lavoro fatto senza amore e senza avere nessuno a cui offrirlo. Inutile dire che quella sua particolare operosità gli rendeva anche possibile la carità verso i più poveri.
Isidoro esperimentò, inoltre, la stessa fruttuosità anche nella vita coniugale e familiare: ebbe, infatti, una moglie che imparò assieme a lui la santità. Assieme sopportarono con fede la morte prematura dell’unico figlio.
Isidoro ha avuto, infine l’onore d’essere canonizzato assieme ai più grandi santi spagnoli (Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola) e all’italiano Filippo Neri.



L'Avvenire

auroraageno
00mercoledì 16 maggio 2012 08:23




Mercoledì 16 Maggio 2012

S. Alipio, vescovo

La santità nell'amicizia
, a cura di Antonio Maria Sicari




Ci sono dei Santi (come s. Agostino) che hanno segnato la storia con la forza immensa della loro personalità, mettendo inevitabilmente in ombra altre figure meno incisive: eppure, senza di queste, quella grandezza non si sarebbe forse realizzata. Tale è Alipio, il santo che oggi celebriamo: è poco conosciuto, eppure s. Agostino lo chiama ripetutamente “fratello del mio cuore”.

Da lui sappiamo che Alipio, da ragazzo, era stato tra i suoi scolari, poi gli era divenuto amico e compagno per tutta la vita: negli errori di gioventù, nei viaggi, nella passione per lo studio, nella conversione.

Nelle sue Confessioni Agostino è fiero di descrivere l’indole nobile e incorruttibile di questo suo amico. Avendo egli ottenuto a Roma un’importante carica che gli permetteva di amministrare molto denaro, aveva saputo resistere con forza a un potente senatore che voleva corromperlo ad ogni costo. “Era un’anima rara” – scrive Agostino – “che non si piegava alle amicizie interessate né temeva l’inimicizia di un uomo così potente, famosissimo per gli innumerevoli mezzi che aveva di far del bene o di far del male”. Fu nel giardino di Alipio che Agostino udì la voce che lo indusse a darsi interamente a Cristo: i due furono battezzati assieme il 25 aprile del 387 da s. Ambrogio. Poi condivisero anche la vita monastica, il sacerdozio e, infine, l’episcopato: Alipio fu eletto per primo alla sede di Tagaste, e poi Agostino fu eletto a quella di Ippona. I due vescovi collaborarono per circa quarant’anni, sostenendo vigorosamente la Chiesa d’Africa, lottando contro scismi ed eresie.

Morirono ambedue nello stesso anno 430, mentre la città era assediata dai Vandali.




auroraageno
00sabato 19 maggio 2012 10:35


Sabato 19 Maggio 2012


S. Pietro Celestino

Il coraggio della rinuncia
, a cura di Antonio Maria Sicari



Il pontificato di Celestino V durò solo due mesi e mezzo e s’interruppe con la rinuncia, caso rarissimo nella storia dei papi. Era stato eletto da un conclave ridotto all’estremo, che durava da più di ventisette mesi, senza riuscire ad accordarsi. Alla fine, dato che le ingerenze dei regnanti del tempo si facevano sempre più pericolose, i pochi cardinali rimasti avevano scelto il monaco Pietro del Morrone, che conoscevano solo per fama di santità.
Fu consacrato a L’Aquila e non si recò mai a Roma. Nelle ultime settimane si trasferì a Napoli, sperando nel sostegno del re Carlo d’Angiò. Non aveva esperienza di governo e si lasciva facilmente suggestionare da consiglieri interessati. Tutti lo ammiravano per la sua “semplicità”, ma in bocca ad alcuni questa parola aveva anche un suono derisorio. Così, quando Celestino si accorse di non poter adempiere il proprio ministero, trovò il coraggio e la forza di rinunciare al papato e di tornare umilmente al suo eremo. Il suo gesto fu mal giudicato da chi considerò una iattura la nomina del suo successore Bonifacio VIII.
Tra i denigratori pare ci sia stato anche Dante che avrebbe messo Celestino V all’Inferno, definendolo: “Colui che fece per viltade il gran rifiuto”. Ma il riferimento non è certo. Egli fu, invece, ammirato da chi riconobbe la grandezza d’animo e l’umiltà dell’anziano papa che seppe riconoscere la propria impotenza. Per evitare rischi di contrapposizioni nella Chiesa, Bonifacio VIII costrinse il suo predecessore a un domicilio coatto, aggravandone le sofferenze, ma accrescendo nel popolo la fama della santità di Celestino.
Il ricordo più bello che egli ci ha lasciato è “la Perdonanza”, la grande indulgenza plenaria, legata alla sua Basilica di Santa Maria di Collemaggio, che egli volle concedere a tutti i peccatori, sei anni prima del grande giubileo del 1300.






auroraageno
00martedì 22 maggio 2012 07:51




Martedì 22 Maggio 2012


S. Rita da Cascia

Il dono di una rosa
, a cura di Antonio Maria Sicari




Nacque in Umbria, a Roccaporena, nel 1381.
Giovanissima fu costretta ad accettare la volontà dei genitori che la diedero in sposa a Paolo Mancini, un giovane nobile, ma di notoria violenza. Con la sua dolcezza – non senza averne prima subito i maltrattamenti – Rita riuscì ad ammansire il focoso marito, ma ciò non impedì che gli odi accumulati tra le famiglie esplodessero e costassero a Paolo la vita.
Rita cercò in ogni modo di proteggere dalla contaminazione dell’odio i due figli adolescenti che già ardevano dal desiderio di vendicare il padre, ma, vedendo inutili i suoi sforzi, disse a Dio che preferiva che Egli se li prendesse, piuttosto che vederli cadere, con l’odio nel cuore, vittime delle proprie e delle altrui vendette.
Si dedicò quindi alla rappacificazione tra le famiglie lacerate da antichi rancori e, quando la pace fu finalmente realizzata, chiese d’essere accolta nel monastero agostiniano di Cascia. Vi portò tutta la sua dolcezza e la sua sofferenza, ma vissute come mistico abbandono a Gesù Crocifisso. E fu tale l’immedesimazione con Lui che un giorno Rita ricevette sulla fronte la grazia di una ferita lasciata da una spina. Da allora fu tutto un fiorire di miracoli che attrassero al monastero folle di devoti. E il pellegrinaggio dura da secoli, con tale abbondanza di prodigi, che ella viene universalmente invocata come «la Santa degli impossibili», di coloro, cioè, che sperano al di là dell’umanamente possibile.
Rita morì nel 1457. Si racconta che prima di morire ella abbia chiesto una rosa e, benché fuori stagione, fu trovato nel giardino un roseto in piena fioritura. A tal episodio si rifà la tradizione della benedizione delle rose, nel giorno della festa della santa. Per la compiutezza della sua vita (di fidanzata, sposa, madre, vedova, religiosa) Rita è una delle sante più amate dal popolo.




auroraageno
00giovedì 24 maggio 2012 07:55




Giovedì 24 Maggio 2012

S. Vincenzo di Lérins

Fedeltà e sviluppo
, a cura di Antonio Maria Sicari




Lérins è un'isola dell’arcipelago omonimo (situato nel Mediterraneo, davanti a Cannes), nota per un celebre monastero dove Vincenzo approdò, dopo aver trascorso una giovinezza piuttosto turbolenta, agli inizi del sec. V, dedicandosi alla preghiera e allo studio.
Non è un santo molto noto, ma tutti gli studiosi di problemi teologici conoscono il suo nome per un’opera da lui scritta nel 434, quand’era già avanti negli anni. Si tratta del Commonitorium (definito da s. Roberto Bellarmino “un libro tutto d’oro”). In esso viene trattato il problema di come debba essere trasmessa la vera fede cristiana e secondo quali regole. Vi si trovano un paio di principi divenuti celebri.
Il primo di essi dice che “bisogna soprattutto preoccuparsi perché sia conservato e trasmesso ciò che è stato creduto in ogni luogo, in ogni tempo e da tutti”. È un principio saggio, anche se serve a escludere dottrine erronee piuttosto che a precisare la vera dottrina.
Il secondo principio dice che nella fede cristiana, col passare dei secoli, ci può essere uno sviluppo o un progresso, ma a patto che ciò accada “eodem sensu ac sententia”, come avviene negli organismi viventi (ad esempio nelle piante e nel corpo umano) che crescono, pur restando se stessi. Fedeltà alla tradizione e sviluppo della Dottrina sono dunque le due condizioni necessarie “per sfuggire alle frodi e ai lacci degli eretici” e per garantire un armonico sviluppo della scienza teologica nella Chiesa.
Le norme dettate da S. Vincenzo di Lérins sono molto più conosciute di quanto lo sia la sua vita. Ma dobbiamo essergli grati perché egli ci aiuta anche oggi a orientarci e a saper distinguere i veri dai falsi maestri.





auroraageno
00venerdì 25 maggio 2012 07:20


Venerdì 25 Maggio 2012


S. Gregorio VII



"Ho amato la giustizia"
, a cura di Antonio Maria Sicari

Nell’immaginario popolare la figura di Gregorio VII (anche per chi ne ha dimenticato il nome e l’opera) è quella del papa severo che, a Canossa, fa attendere tre giorni alla porta del castello – in pieno inverno, mentre fiocca la neve – l’imperatore Enrico IV, che egli aveva scomunicato perché pretendeva nominare i vescovi come se fossero suoi feudatari.

Non era rara perciò la compravendita delle cariche e la nomina di persone indegne. Perfino l’elezione del papa era condizionata dall’imperatore, e il danno sembrava ormai irrimediabile. La fortuna fu che si era riusciti a far nominare cardinale e abate del monastero di s. Paolo fuori le Mura il monaco benedettino Ildebrando che godeva fama di santità e di grande forza morale, il quale s’era subito schierato tra i più decisi riformatori del clero e della curia. Ed ecco che nel 1073, alla morte di papa Alessandro II, il popolo radunato nella Basilica del Laterano per i funerali, acclamò papa Ildebrando. L’elezione non era regolare, ma fu poi ratificata dai cardinali elettori che vi videro un segno di Dio. Divenuto papa col nome di Gregorio VII, egli decise di condurre fino in fondo la riforma della Chiesa, interessandosi anche della evangelizzazione dell’Europa dell’Est e del Nord.

Purtroppo nel 1084 l’imperatore tornò in Italia, riuscendo ad espugnare anche Roma, mentre il papa restava assediato a Castel Sant’Angelo. In suo soccorso vennero i normanni di Roberto il Guiscardo, ma i liberatori furono i peggiori nemici: devastarono Roma e costrinsero il papa a risiedere a Salerno. Qui il grande pontefice morì, esclamando desolato (secondo la tradizione): “Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità, per questo muoio in esilio”.

La sua riforma, però, aveva cominciato a portare frutti di libertà e di santità nella Chiesa.





auroraageno
00sabato 26 maggio 2012 17:59




Sabato 26 Maggio 2012

S. Filippo Neri

La gioia cristiana
, a cura di Antonio Maria Sicari




Era nato nel 1515 a Firenze, ed era un ragazzo così tranquillo e generoso che tutti lo chiamavano «Pippo bòno». Poi si trasferì a a Roma per studiare e divenne precettore in casa di un banchiere fiorentino.
Non era sacerdote, ma a volte aiutava (anche nella predicazione) un vecchio prete e spesso portava la propria testimonianza cristiana nei quartieri poveri, nelle carceri e negli ospedali. Aveva poi la passione di visitare le antiche catacombe cristiane, dove s’immergeva in preghiera. In previsione del Giubileo del 1550 fondò una confraternita per assistere i pellegrini che si sarebbero riversati a Roma. Accettò poi di farsi ordinare sacerdote, ma a patto di mantenere una certa sua libertà. Così prese dimora in una stanzetta presso la Chiesa di S. Girolamo, dove invitava amici, penitenti e soprattutto ragazzi in cerca di una buona educazione cristiana. Nacque così il primo Oratorio della storia, dove – sotto la guida di Filippo – si tenevano incontri, conferenze, attività ricreative e musicali.
Divenne particolarmente celebre e frequentato il Carnevale da lui organizzato per contrastare la licenziosità pagana allora in uso. A partire dal 1564 attorno a Filippo si radunò anche una comunità di sacerdoti che volevano vivere e operare secondo quel suo stile che coniugava così bene umanità, santità e libertà. A Roma era celebre l’umorismo di Filippo (condensato spesso in aforismi, storielle e burle) che sapeva farsi pedagogia serena e intelligente. Anche il confessionale di Filippo era molto ricercato e il santo vi dedicava lunghe ore del giorno e della notte.
Morì a ottant’anni, dopo alcuni mesi di malattia, dicendo di soffrire molto, ma solo perché «a Gesù era toccata una Croce e a lui un letto comodo e pulito».
Lo definirono «il santo della gioia cristiana».





auroraageno
00martedì 29 maggio 2012 08:07


Martedì 29 Maggio 2012

S. Orsola Ledókowska

Restituire l'amore col sorriso
, a cura di Antonio Maria Sicari




Giulia Maria Ledóchowska apparteneva a una famiglia ricca di relazioni e di doni: il papà (originario di Cracovia) era un alto ufficiale austriaco, la mamma apparteneva alla nobiltà svizzera, uno zio era arcivescovo e cardinale, un fratello era destinato a diventare superiore generale dei Gesuiti, una sorella sarebbe diventata fondatrice di un nuovo istituto religioso.

La sua educazione fu particolarmente accurata e serena, tanto che, a ventun’anni, ella disse semplicemente ai genitori che era suo dovere “cominciare a restituire al Signore tutto il bene che essi le avevano dato fin da bambina”: “doveva perciò farsi Santa”. Scelse di entrare tra le suore Orsoline (prendendo il nome di Urszula) per dedicarsi all’educazione delle fanciulle. E poiché, proprio in quegli anni, le ragazze avevano ottenuto il diritto di frequentare l’università, si dedicò ad aiutare quelle meno abbienti: per loro aprì un pensionato a Cracovia. Poi fece lo stesso a s. Pietroburgo, sfidando la polizia segreta russa. Ne aprì ancora uno in Finlandia, poi in Svezia, dove fondò anche il primo quotidiano cattolico.

Tre anni dopo si recò in Danimarca ad assistere i profughi polacchi. Nel 1920 decise di fondare lei stessa un nuovo ramo di Orsoline più orientato verso il mondo delle ragazze emarginate e dei bambini più poveri. Alla sua morte l’Istituto conterà già trentacinque case e più di mille religiose. A esse proponeva “un nuovo tipo di apostolato”: “quello del sorriso che dissipa sempre le nuvole che s’addensano nell’animo, e ci ricorda che abbiamo in cielo un Padre sempre pronto a venire in nostro aiuto”. Ne dava lei stessa testimonianza, dicendo: “In cinquanta anni di vita religiosa non ho avuto un momento in cui mi sia sentita infelice”.

È stata canonizzata nel 2003 da papa Giovanni Paolo II.





auroraageno
00mercoledì 30 maggio 2012 06:54


Mercoledì 30 Maggio 2012


S. Giovanna D'Arco

Se Dio lo vuole
, a cura di Antonio Maria Sicari



La vicenda storica e teologica di Giovanna d’Arco non è di facile comprensione, ma ella resta comunque una delle sante più conosciute e amate.
La storia della contadinella di Domremy mandata da Dio a liberare la Francia è certamente straordinaria e oggi molti riconoscono che, senza il suo intervento, la storia dell’Europa non sarebbe stata la stessa e la sua identità cristiana sarebbe stata a rischio.
La liberazione di Orléans realizzata da un esercito guidato dalla “Pulzella” (cioè da una ragazza diciassettenne, vergine) provocò la meraviglia e l’entusiasmo di tutto il popolo francese e l’incoronazione di Carlo VIII nella Cattedrale di Reims sembrò l’avverarsi di un sogno, umanamente impossibile.
Alcuni si chiedono quale santità ci fosse nel guidare un’armata e nell’affrontare sanguinosi combattimenti, ma Giovanna partecipava al combattimento solo innalzando uno stendardo e infondendo coraggio con la sua certezza di fede che la liberazione della Francia era voluta da Dio.
Anche ai soldati Giovanna imponeva comportamenti di giustizia e di lealtà, allora non usuali. In seguito ella avrà modo di dimostrare la sua durante il processo che dovette subire quando cadde prigioniera degli inglesi. Seppe custodire la sua purezza e la sua assoluta fedeltà alla Chiesa nonostante che a giudicarla e a condannarla ingiustamente fossero degli ecclesiastici.
Aveva solo diciannove anni, quando fu arsa viva sulla piazza del vecchio mercato di Rouen e un testimone ha raccontato: «Avvolta ormai dal fuoco, Giovanna gridò più di sei volte: “Gesù!”, e soprattutto col suo ultimo respiro gridò con voce forte “Gesù!”, al punto che tutti i presenti poterono udirla. E quasi tutti piangevano di pietà».
In seguito fu lo stesso papa a riabilitarla, definendola “figlia prediletta della Chiesa”.
Nel 1920 è stata canonizzata e proclamata patrona di Francia.







auroraageno
00giovedì 31 maggio 2012 10:01




Giovedì 31 Maggio 2012

Santa Maria della Visitazione

Magnificat!
, a cura di Antonio Maria Sicari




Subito dopo aver ricevuto l’annuncio dell’Angelo e aver concepito il Figlio di Dio, la Vergine Santa si mette in viaggio per assistere la cugina Elisabetta nella sua inattesa e avanzata gravidanza, in tarda età. Ed è bello chiudere il mese a lei dedicato, contemplando l’icona di Maria che “porta in visita” il suo Gesù: “La Madre incontra la madre e il Bambino incontra il bambino”, dice la liturgia.
Un incontro tutto pervaso da fremiti e sussulti di gioia. È bello anche chiudere il mese mariano ripetendo assieme alla Vergine Santa il canto del Magnificat sottolineando la bellezza delle parole da lei scelte: tutte espressioni e immagini tratte dalla Scrittura, che però acquistano una particolare “densità” per il fatto che le stesse parole stanno “prendendo carne” nel suo grembo.
Per dire, ad esempio: “Il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore”, Maria si serve della formula di un antico profeta, ma essa esprime anche l’esatto suono e significato del nome “Gesù”. E se ella dice: “Grandi cose ha fatto in me Colui che è potente”, l’espressione (che è tradizionale) non si riferisce più soltanto agli interventi salvifici di Dio nel grembo della storia, ma alla Sua presenza fisica nel grembo della mamma. Anche quando Elisabetta saluta Maria avviene un notevole cambiamento.
La vecchia cugina, infatti, le dice: “Benedetta te perché hai creduto”, e dovrebbe subito completare la formula aggiungendo, secondo l’uso: “E Benedetto il tuo Dio”. Invece dice con inattesa tenerezza: “E benedetto il Frutto del tuo grembo”. Insomma, la festa della Visitazione annuncia e celebra l’esistenza di un mondo dove anche le parole e le preghiere diventano nuove in forza della presenza umana del Figlio di Dio.





auroraageno
00venerdì 1 giugno 2012 08:51




Venerdì 1 Giugno 2012


S. Giustino

Ragione e Fede
, a cura di Antonio Maria Sicari



Nacque in Palestina, all’inizio del secondo secolo, da famiglia di origini latine.
Da giovane s’era appassionato allo studio della filosofia greca, ma s’era interessato anche ai profeti ebraici. Il duplice incontro lo condusse a Cristo, compimento di ogni ricerca e incarnazione piena della Verità. Ricevette il battesimo nel 130 e subito decise di recarsi a Roma e di farsi “missionario” tra i filosofi e gli intellettuali. A tale scopo fondò una sua scuola di filosofia e scrisse un’Apologia in difesa dei cristiani che venivano accusati di ateismo e condannati a morte come sovvertitori dello Stato romano e del suo culto.
I cristiani – diceva Giustino – erano condannati senza essere conosciuti, soltanto in base a pregiudizi e dicerie. Citando molti autori classici e ricorrendo anche ai miti omerici, cerca di accostarli a testi della Sacra Scrittura per mostrare che la sapienza degli antichi viene non solo accolta e onorata nel cristianesimo, ma viene anche compiuta e realizzata. Scrisse anche un Dialogo, indirizzato agli ebrei per mostrare in Cristo l’adempimento delle attese messianiche. In ambedue i testi l’itinerario intellettuale di Giustino era simile: mostrare “la preparazione di Cristo” contenuta nelle relative “scritture” (dei filosofi per i pagani e dei profeti per i giudei).
Fu così l’iniziatore della “filosofia cristiana”, quella che sa riconoscere alla ragione tutto il suo valore e la sua funzione, ma sa anche aprirsi alla luce della Rivelazione.
Dalle sue opere abbiamo molte e interessanti notizie circa la vita delle prime comunità cristiane e le loro celebrazioni liturgiche.
Morì martire nell’anno 165, al tempo dell’imperatore Marco Aurelio, e la sua “passione” è raccontata in un testo di rara bellezza e intensità.




auroraageno
00martedì 5 giugno 2012 08:21


Martedì 5 Giugno 2012

S. Bonifacio

Un albero sempreverde
, a cura di Antonio Maria Sicari




L’evangelizzazione della Germania fu opera del monachesimo anglosassone. L’iniziatore fu il monaco Winfrido che ne chiese il permesso direttamente al papa ed ebbe da lui il potere di agire in qualità di legato pontificio. Ricevette dal papa anche un nome nuovo (Bonifacio) col quale sarebbe passato alla storia. Il suo stile missionario era travolgente e, a volte, perfino impetuoso. Clamorosa fu la sua decisione di fare abbattere in Turingia la quercia sacra al dio Thor.
La tradizione addolcisce l’episodio raccontando che si era in tempo di Natale e sotto quella quercia si stava per sacrificare un bambino. Bonifacio liberò la piccola creatura e, quando l'albero gigantesco cadde, ecco che ai suoi piedi scopersero un piccolo abete che tentava di crescere. Così il Santo affidò l'alberello sempreverde, assieme al bimbo salvato, ai suoi cristiani, come simbolo della nuova vita. Il legno della quercia poi servì alla costruzione della prima chiesa. A tal episodio sarebbe collegata la tradizione dell’albero di Natale.
L’opera di Bonifacio si estese fino alla Baviera ed egli la consolidò fondando molti monasteri maschili e femminili e organizzando la gerarchia della chiesa tedesca. In tarda età si ritirò nel monastero di Fulda da lui fondato, che era divenuto un centro d’irradiazione spirituale e culturale. Ma la passione missionaria non lo lasciava. Ormai ottantenne volle discendere lungo il Reno con una piccola flotta di barche per evangelizzare la Frisia. Durante il viaggio cadde vittima di una banda di predoni che lo uccise per impadronirsi di alcune casse di “tesori”, ma erano soltanto libri che Bonifacio portava sempre con sé. Per recuperarne il corpo, i Franchi organizzarono una spedizione.
Fu sepolto a Fulda, che è rimasto il centro ideale della Chiesa tedesca.
È patrono della Germania.




auroraageno
00mercoledì 6 giugno 2012 10:11


Mercoledì 6 Giugno 2012


S. Norberto

L'angelo della pace
, a cura di Antonio Maria Sicari




È il fondatore dei “Premonstratensi”, un antico Ordine monastico (il cui nome viene dalla valle francese di Prémontré, dove l’Ordine ebbe il suo inizio) che, agli inizi del sec. XII, anticipò, a suo modo, lo stile di vita mendicante.
La storia racconta che Norberto, un nobile cadetto, aveva sì intrapreso la carriera ecclesiastica, ma considerandola e programmandola come fonte di prestigio e di lusso. Poi, durante una cavalcata nel bosco, un fulmine l’aveva fatto stramazzare a terra, ed egli aveva colto quel segno come un avvertimento divino a cambiar vita. Gli sembrò che Dio avesse voluto dirgli: «Abbandona la via del male, e fa’ il bene».
Trascorse tre anni in penitenza e preghiera, poi si fece ordinare sacerdote, distribuì tutti i suoi beni ai poveri e si dedicò alla predicazione itinerante nelle campagne francesi, ma anche in Belgio e in Germania. La sua fama divenne così grande che fu obbligato a ricevere controvoglia quelle cariche che un tempo aveva desiderato (fu, infatti, nominato vescovo di Magdeburgo e cancelliere dell’Impero per l’Italia e la Polonia).
Riuscì tuttavia a mantenere un tenore di vita povero e umile, dedicandosi a pacificare le regioni a lui affidate. Lo chiamarono per questo “angelo della pace”. San Norberto è raffigurato di solito con un ostensorio in mano, perché difese spesso con tenacia la realtà della Presenza Eucaristica, contro gli eretici di allora.
La Boemia lo ha scelto come suo patrono.
A motivo di qualche suo miracolo, è invocato anche come patrono delle partorienti.




auroraageno
00sabato 9 giugno 2012 10:59


Sabato 9 Giugno 2012


S. Efrem Siro

Il teologo musicale
, a cura di Antonio Maria Sicari



Non è un santo molto noto, ma merita d’essere ricordato perché ha saputo unire assieme teologia, poesia e musica. Per questo l’hanno definito “L’arpa dello Spirito Santo”.
Nacque in Mesopotamia al tempo di Costantino, e visse a Edessa, in Siria dedicandosi all’insegnamento e ad arricchire la liturgia cristiana componendo inni e preghiere su tutti i misteri cristiani. Particolarmente belli sono anche i suoi Inni sul Paradiso. Un altro titolo che Efrem ha davvero meritato è quello di “poeta della Vergine” alla quale ha dedicato le sue più belle composizioni.
Concluse la sua vita nella sofferenza a causa di una grave carestia durante la quale aveva mostrato come l’arte sapesse farsi anche lavoro e carità. Morì a Edessa verso l’anno 373, vittima del contagio contratto curando gli ammalati di peste.
Prima di concludere il suo breve profilo, tuttavia, è necessario far gustare almeno qualcosa della sua arte impregnata di bellezza e di fede. Lo facciamo riportando lo stesso brano natalizio scelto da Benedetto XVI durante una “catechesi” dedicata a s. Efrem Siro (28 nov 2007):
«Il Signore venne in Maria / per farsi servo. / Il Verbo venne in lei / per tacere nel suo seno. / Il fulmine venne in lei / per non fare rumore alcuno. / Il Pastore venne in lei / ed ecco l’Agnello nato, / che sommessamente piange. / Poiché il seno di Maria / ha capovolto i ruoli: / Colui che creò tutte le cose / ne è entrato in possesso, ma povero. / L’Altissimo venne in lei / ma vi entrò umile. / Lo splendore venne in lei, / ma vestito con poveri panni. / Colui che elargisce tutte le cose / conobbe la fame. / Colui che abbevera tutti / conobbe la sete. / Nudo e spoglio uscì da lei, / Egli che riveste di bellezza tutte le cose» (Inno sulla Natività 11,6-8).




auroraageno
00lunedì 11 giugno 2012 11:46


Lunedì 11 Giugno 2012


S. Barnaba

dal Martirologio





Memoria di san Barnaba, Apostolo, che, uomo mite e colmo di Spirito Santo e di fede, fu annoverato tra i primi fedeli di Gerusalemme.
Predicò il Vangelo ad Antiochia e introdusse Saulo di Tarso da poco convertito nel novero dei fratelli, accompagnandolo pure nel suo primo viaggio per l’evangelizzazione dell’Asia; partecipò poi al Concilio di Gerusalemme e, fatto ritorno all’isola di Cipro, sua patria di origine, vi diffuse il Vangelo.
auroraageno
00mercoledì 13 giugno 2012 10:41

Mercoledì 13 Giugno 2012


S. Antonio di Padova

Il Santo dei miracoli
, a cura di Antonio Maria Sicari




Non si chiamava Antonio, ma Fernando. Non nacque in Italia, ma in Portogallo. Eppure la città di Padova lo sente così suo che lo chiama semplicemente: “Il Santo”. E allo stesso modo chiama la basilica dove il corpo di Antonio è venerato.
Nato da nobile famiglia a Lisbona, Fernando era entrato tra i canonici regolari di s. Agostino di Coimbra, dedicandosi agli studi teologici e biblici. Ma tutto cambiò quando si trovò ad assistere al funerale di cinque umili frati minori che Francesco aveva inviato in Marocco e che erano stati uccisi dai maomettani.
Decise allora di prendere il loro posto, entrando nell’Ordine francescano, dove ricevette il nome di Antonio. Avrebbe voluto sbarcare missionario nelle coste africane, ma una bufera lo costrinse ad approdare in Sicilia, da dove risalì verso Assisi per incontrare Francesco. Si affidò poi al provinciale francescano dell’Emilia Romagna che lo portò con sé e lo impiegò come cuoco del convento. Quando però scopersero la sua straordinaria preparazione teologica lo inviarono come predicatore nelle principali città, dove accorrevano sempre migliaia di persone ad ascoltarlo.
Lo stesso s. Francesco gli scrisse nominandolo “primo maestro di teologia” per i suoi frati. Nel 1227 si stabilì a Padova e divenne «il Santo della città».
Morì nel 1231, a soli 36 anni, stremato dai lunghi viaggi missionari e dalle incessanti predicazioni, circondato da una fama così travolgente che fu proclamato santo quando ancora non erano passati due anni dalla morte.
La raccolta dei suoi Sermoni gli ha assicurato il titolo di Dottore della Chiesa.
Ma egli è universalmente noto e amato per i miracoli che lo hanno sempre accompagnato in vita e in morte, rafforzando sempre più nel popolo la persuasione già espressa da san Bonaventura, che usava dire: «Chi cerca prodigi, vada da Antonio».




auroraageno
00sabato 16 giugno 2012 09:50

16 Giugno 2012

CUORE IMMACOLATO DI MARIA

"Siate la salvezza dell'anima mia"
, a cura di Antonio Maria Sicari


Furono gli stessi santi che ardevano d’amore per il Cuore di Gesù a capire subito che la sua festa doveva essere abbinata a quella del Cuore Immacolato di Maria. Lo decise il papa Pio XII in seguito alle apparizioni di Fatima (1917).
La Vergine Santa aveva chiesto allora che il mondo intero fosse consacrato al suo Cuore Immacolato. Tale consacrazione avvenne nel 1942, durante la seconda guerra mondiale, e la festa fu approvata nel 1944. Anche questa devozione, però, non deve far leva soltanto sul sentimento (pur se è dolce e consolante sapere che il mondo è cullato dal battito di un cuore materno), ma deve ricondurci all’esperienza di Maria che ci è stata raccontata dal Vangelo. Di lei ci vien detto che, fin dalla notte di Natale, “conservava tutti gli avvenimenti nel suo cuore, meditandoli” (Lc 2,19).
L’espressione viene ripetuta dopo il sofferto ritrovamento del Bambino nel Tempio. Sappiamo che Maria e Giuseppe non compresero l’accaduto, ma che lei “serbava tutto nel suo cuore” (Lc 2,51).
Fu dunque la prima a imparare che il rapporto con suo Figlio (anche per lei che l’aveva portato nel grembo!) doveva farsi preghiera continua, e che il cuore adorante della creatura è il luogo dove l’intera Trinità vuole abitare. Nell’ultima sera della sua vita terrena, infatti, Gesù dirà: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).
Maria fu la prima a “osservare la Parola di Dio”, così pienamente che essa si fece carne in lei. Ma trascorse, poi, tutto il resto della sua vita a conservarla e meditarla nel cuore, rendendolo sempre più “immacolato” e sempre più materno, per poterci accogliere tutti misericordiosamente.



auroraageno
00sabato 23 giugno 2012 08:16




Sabato 23 Giugno 2012


S. Giuseppe Cafasso

Condannati, ma chiamati alla santità
, a cura di Antonio Maria Sicari




Sono passati poco più di duecento anni dalla sua nascita. Giuseppe Cafasso fu un prete di eccezionale.
Don Bosco, che gli fu amico, lo considerava «un modello di vita sacerdotale».
Di salute malferma, si dedicò all’insegnamento e alla formazione dei giovani seminaristi e alla carità sociale. Insegnava ai seminaristi la teologia morale, di cui aveva una rara competenza e li preparava a saper capire le anime. Chiedeva loro soprattutto di imparare a sapersi donare interamente: “un prete – amava dire – è venduto al Signore”. Null’altro può e deve interessargli che lavorare per Lui e per le anime che gli sono affidate.
Ma don Cafasso (oltre a essere rettore del Convitto Ecclesiastico, dove si formavano i neo-sacerdoti) esercitava anche un’altra e più alta missione nell’ambiente più difficile: quello delle carceri e delle celle dei condannati a morte (allora molto numerosi). Li accompagnava nelle ultime terribili ore (passando con loro tutta intera l’ultima notte), cercando non solo di riconciliarli con Dio, ma di introdurli in Paradiso.
Diceva che questa era la sua missione: aiutarli ad affrontare la morte già pronti per il Paradiso, senza bisogno di dover passare per il Purgatorio. Li chiamava “i suoi santi impiccati”. Ed era straordinario il rispetto con cui li trattava e la dignità che riconosceva loro. Poi esaudiva anche la loro ultima richiesta: di solito, quella di prendersi cura delle loro famiglie.
Lo chiamavano «il prete della forca», ma il titolo non era dispregiativo, esprimeva anzi un affetto immenso per quell’umile prete che accettava sempre di condividere situazioni e ore terribili.
Morì nel 1860 e, dei carcerati, è stato proclamato patrono.



auroraageno
00giovedì 28 giugno 2012 10:19


Giovedì 28 Giugno 2012

S. Ireneo di Lione

L'uomo è gloria di Dio
, a cura di Antonio Maria Sicari




Nacque a Smirne, in Asia Minore, dopo l’anno 130.
Da ragazzo potéascoltare le testimonianze cristiane del grande vescovo e martire Policarpo di Smirne, successore dell’apostolo Giovanni, “annotando tutto nel suo cuore” e traendone un attaccamento appassionato alla Persona di Gesù. S’era poi trasferito in Occidente, per motivi a noi ignoti: a Roma conobbe il santo filosofo Giustino e si mise alla sua scuola, poi si recò a Lione, in Gallia, dove confluivano mercanti da tutto l’impero. Si mise al servizio del vescovo della città e divenne il suo uomo di fiducia. Divampò la persecuzione (quella in cui morì la giovane Blandina) e anche il vescovo subì il martirio.
Ireneo si salvò perché era stato inviato temporaneamente a Roma. Al suo ritorno, fu eletto vescovo e guidò la diocesi per circa un ventennio, combattendo le eresie che minacciavano la retta fede. Combatté soprattutto lo gnosticismo che pretendeva contrapporre il Dio giusto dell’Antico Testamento al Dio misericordioso del Nuovo, sviluppando un dualismo radicale. Ireneo contempla invece la realtà con un radicale ottimismo, dato che “il Padre ha creato tutte le cose grazie alle sue due mani, che sono il Figlio e lo Spirito Santo”.
È di Ireneo anche quella bellissima espressione che dice: «La gloria di Dio è l'uomo vivente, e la vita dell'uomo è la contemplazione di Dio». L’opera fondamentale che egli ci ha lasciato è un trattato Contro le eresie. In essa Ireneo si afferma come il “primo teologo della storia della salvezza”. Grande fu la sua capacità di valorizzare la “Tradizione” presentandola come catena vivente che ci lega a Cristo. Secondo una tradizione riferita da s. Girolamo, Ireneo sarebbe morto martire verso l’anno 202.






auroraageno
00lunedì 9 luglio 2012 19:35


Lunedì 9 Luglio 2012


Nicola Pieck, sacerdote, e dieci compagni

dal Martirologio



A Brielle sulla Mosa in Olanda, passione dei santi martiri Nicola Pieck, sacerdote, e dieci compagni* dell'Ordine dei Frati Minori e otto del clero diocesano o regolare, che per difendere dai calvinisti la dottrina della presenza reale di Cristo nell'Eucaristia e l'autorità della Chiesa di Roma, patirono scherni e torture di vario genere, concludendo il loro martirio con l’impiccagione.

* I loro nomi sono: santi Girolamo da Weert, Teodorico van der Eem, Nicasio da Heeze, Villeado di Danimarca, Goffredo da Melver, Antonio da Hoornaar, Antonio da Weert, Francesco da Roy, sacerdoti dell’Ordine dei Frati Minori, e Pietro d’Assche e Cornelio de Wijck, religiosi dello stesso Ordine; Giovanni da Oisterwijk, canonico regolare di Sant’Agostino; Giovanni da Colonia, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori; Adriano da Hilvarenbeek e Giacomo Lacops, sacerdoti dell’Ordine Premostratense; Leonardo Veghel, Nicola Poppel, Goffredo Duynen e Andrea Wouters, sacerdoti.

auroraageno
00martedì 10 luglio 2012 10:02


Martedì 10 Luglio 2012

Martiri di Damasco

Non abbiamo che un'anima!
, a cura di Antonio Maria Sicari




L’Ordine Francescano sente una particolare responsabilità missionaria verso i Luoghi Santi e le comunità cristiane della Terra Santa, fin dal tempo in cui s. Francesco d’Assisi volle recarsi in visita dal sultano al-Malik al-Kamil. Molti secoli sono passati da allora, ma la loro custodia continua a essere decisiva per i cristiani del luogo e per i pellegrini che oggi possono essere accolti dai figli di s. Francesco in settantaquattro santuari.
Nei momenti più difficili i francescani hanno dovuto anche testimoniare col sangue la propria missione e, a volte, sono state sterminate intere comunità. Così accadde agli undici beati Martiri di Damasco che oggi ricordiamo (8 religiosi francescani e tre fratelli laici maroniti), massacrati nel loro convento da un gruppo di fondamentalisti islamici che erano riusciti a penetrarvi proditoriamente, nella notte fra il 9 e il 10 luglio del 1860.
L’eccidio fu deprecato dallo stesso emiro del luogo ch’era accorso nel tentativo di salvare i missionari di cui aveva grande stima. Secondo le testimonianze raccolte, a tutti i prigionieri venne data la scelta di aver salva la vita, rinnegando Cristo, ma tutti risposero in maniera simile al padre Emmanuele Ruiz, superiore del convento (così buono e mite che lo avevano soprannominato “Padre Pazienza”) il quale ribatté con fermezza: «Noi non abbiamo che un'anima. Perduta quella, è perduto tutto. Siamo cristiani e vogliamo morire cristiani». Furono uccisi sull’altare della cappella, dove si erano rifugiati.
Sul pavimento fu poi trovato, intriso di sangue, il piccolo messale arabo di cui padre Emmanuele si serviva per tradurre ai fedeli i vangeli della domenica.
Sono stati tutti beatificati da Pio XI nel 1926.






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