Salvatore Quasimodo - Biografia e raccolta Poesie

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auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 08:58
Salvatore Quasimodo - Biografia e raccolta Poesie

Biografia


Salvatore Quasimodo nacque a Modica, in provincia di Ragusa, il 20 agosto 1901.
Nel 1908 il padre, capostazione delle ferrovie, viene trasferito a Messina dopo il terremoto del 28 dicembre, nella città praticamente ridotta in macerie.
I primi tentativi poetici risalgono al 1915. Nel 1917, mentre frequenta l'istituto tecnico, fonda una piccola rivista letteraria insieme ad amici (<< Il Nuovo Giornale Letterario >>), sulla quale pubblica i suoi primi versi.
Nel 1919 si iscrive al Politecnico di Roma, per conseguire la laurea in ingegneria; ma i genitori non possono mantenerlo agli studi, e il poeta deve lavorare per poter continuare a stare a Roma. Non riuscirà mai a laurearsi, sia a causa del tempo presogli dal lavoro, sia perché ormai la vocazione letteraria lo distoglie dagli studi tecnici. A Roma lavorerà prima come disegnatore, poi come commesso in un negozio di ferramenta e in un grande magazzino. In questo periodo sente anche l'esigenza di approfondire gli studi ed incomincia ad imparare il greco e il latino.
Nel 1926 viene assunto come geometra al Genio Civile, e mandato a Reggio Calabria. Qui riprende a frequentare i vecchi amici messinesi che lo incoraggiano, leggono le sue poesie, lo spingono a continuare.
Nel 1930 conosce un gruppo di scrittori, tra i quali Eugenio Montale, che gravita intorno alla rivista << Solaria >> e proprio per le edizioni della rivista viene pubblicata, nel 1930, la sua prima raccolta di versi: Acque e terre.
Nel 1932 la rivista << Circoli >> pubblica Oboe sommerso, che vince il premio dell'Antico Fattore ed è accolto con grande interesse dalla critica.
E' questo forse il periodo in cui alla poesia di Quasimodo si attaglia di più la definizione di << ermetica >>, se con questo termine si indichi non una vaga scuola poetica, ma un preciso lavoro personale verso una espressione
<< difficile >>, di una cantabilità frammentaria e chiusa, incline alla soppressione dei più ovvi legamenti sintattici a favore dell'uso frequentissimo dell'analogia
.

Fra il 1934 e il 1936 va a vivere a Milano, dove stringe proficui legami con l'ambiente letterario. Nel 1936 pubblica Erato e Apòllion, e in questo stesso periodo viene trasferito, secondo la testimonianza dello stesso Quasimodo, in Valtellina, da un capufficio che << non sopportava i poeti >>.
Finalmente nel 1938 può lasciare il Genio Civile, lavorando come segretario di Zavattini, e diventando poi più tardi redattore del << Tempo >>.
In questi anni la sua avversione nei confronti del fascismo si fa sempre più profonda e motivata.
Nel 1940 esce un libro che diventerà ben presto una tappa fondamentale nel rapporto tra poesia contemporanea e mondo classico: la traduzione dei Lirici Greci.
Nel 1941 è nominato professore al Conservatorio di Milano, e l'anno dopo esce da Mondadori Ed è subito sera, raccolta che avrà un grande successo. (Da questo libro, nell'edizione Mondolibri S.p.A Milano, è tratta la presente biografia di Salvatore Quasimodo e le poesie qui sotto riportate.)

Comincia un periodo di intensissima attività letteraria, con una serie di traduzioni che andranno dal latino di Catullo al greco del Vangelo di Giovanni e di Sofocle, e nel 1949 anche dall'inglese di Shakespeare.
Negli anni del dopoguerra l'antifascismo e l'impegno << politico >> di Quasimodo sono ormai diventati parte integrante della sua opera: << l'oboe sommerso >> che risuonava di note arcane è sostituito dal grido di una poesia che vuole essere
<< civile >>. << Rifare l'uomo: questo è l'impegno >>, scriverà nel 1946.
Anche in seguito egli cercherà di mantenere il difficile equilibrio tra impegno civile e fedeltà ai valori della parola poetica, tra comunicabilità immediata e amore per la << parola pura >>.
Tra il 1949 e il 1958 pubblica numerosi libri di traduzioni.
Nel 1953 divide con il grande poeta inglese Dylan Thomas il premio Etna-Taormina; nel 1958 riceve il premio Viareggio per la raccolta La terra impareggiabile.
Nel 1959 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura, consacrando una fama peraltro già europea. Il discorso tenuto in questa occasione ripropone quello che ora è il motivo fondamentale della poesia di Quasimodo: la lotta per conservare alla poesia un suo spazio vitale nella società cercando allo stesso tempo di non rinnegare il valore sociale dell'arte.
Tra il 1959 e il 1965 viaggia in Europa e nelle Americhe, svolgendo una importante funzione di collegamento e interscambio culturale.
Nel 1960 riceve la laurea honoris causa dall'università di Messina.
In questi anni si fa anche scopritore e promotore di giovani talenti; continua a scrivere pezzi giornalistici dove esprime la sua estraneità alla civiltà dei consumi, senza rinunciare ad intervenire di continuo anche nelle questioni di costume o di attualità più scottanti.
Muore per una emorragia cerebrale il 14 giugno 1968 a Napoli.


Seguono le sue Poesie dalla raccolta: Ed è subito sera.






auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 15:53
NUOVE POESIE 1936-1942


RIDE LA GAZZA, NERA SUGLI ARANCI



Forse è un segno vero della vita:
intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa. Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l'erba così verde,
bellissime nel fuoco della luna!
Memoria vi concede breve sonno;
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
per la prima marea. Questa è l'ora:
non più mia, arsi, remoti simulacri.
E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l'airone s'avanza verso l'acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci.



auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 15:55
STRADA DI AGRIGENTUM



Là dura un vento che ricordo acceso
nelle criniere dei cavalli obliqui
in corsa lungo le pianure, vento
che macchia e rode l'arenaria e il cuore
dei telamoni lugubri, riversi
sopra l'erba. Anima antica, grigia
di rancori, torni a quel vento, annusi
il delicato muschio che riveste
i giganti sospinti giù dal cielo.
Come sola allo spazio che ti resta!
E più t'accori s'odi ancora il suono
che s'allontana largo verso il mare
dove Espero già striscia mattutino:
il marranzano tristemente vibra
nella gola al carraio che risale
il colle nitido di luna, lento
tra il murmure d'ulivi saraceni.




auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 15:56
LA DOLCE COLLINA



Lontani uccelli aperti nella sera
tremano sul fiume. E la pioggia insiste
e il sibilo dei pioppi illuminati
dal vento. Come ogni cosa remota
ritorni nella mente. Il verde lieve
della tua veste è qui fra le piante
arse dai fulmini dove s'innalza
la dolce collina d'Ardenno e s'ode
il nibbio sui ventagli di saggina.

Forse in quel volo a spirali serrate
s'affidava il mio deluso ritorno,
l'asprezza, la vinta pietà cristiana,
e questa pena nuda di dolore.
Hai un fiore di corallo sui capelli.
Ma il tuo viso è un'ombra che non muta;
(così fa morte). Dalle scure case
del tuo borgo ascolto l'Adda e la pioggia,
o forse un fremere di passi umani,
fra le tenere canne delle rive.





auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 15:57
CHE VUOI, PASTORE D'ARIA?



Ed è ancora il richiamo dell'antico
corno dei pastori, aspro sui fossati
bianchi di scorze di serpenti. Forse
dà fiato dai pianori d'Acquaviva,
dove il Plàtani rotola conchiglie
sotto l'acqua fra i piedi dei fanciulli
di pelle uliva. O da che terra il soffio
di vento prigioniero, rompe e fa eco
nella luce che già crolla: che vuoi,
pastore d'aria? Forse chiami i morti.
Tu con me non odi, confusa al mare
dal riverbero, attenta al grido basso
dei pescatori che alzano le reti.





auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 16:15
DAVANTI AL SIMULACRO D'ILARIA DEL CARRETTO



Sotto tenera luna già i tuoi colli,
lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse
e turchine si muovono leggere.
Così al tuo dolce tempo, cara; e Sirio
perde colore, e ogni ora s'allontana,
e il gabbiano s'infuria sulle spiagge
derelitte. Gli amanti vanno lieti
nell'aria di settembre, i loro gesti
accompagnano ombre di parole
che conosci. Non hanno pietà; e tu
tenuta dalla terra, che lamenti?
Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto
forse è il tuo, uguale d'ira e di spavento.
Remoti i morti e più ancora i vivi,
i miei compagni vili e taciturni.





auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 16:16
ORA CHE SALE IL GIORNO



Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.

E' così vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchie mura,
per restare solo a ricordarti.

Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre batte il piede dei cavalli!





auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 16:18
GIA' LA PIOGGIA E' CON NOI



Già la pioggia è con noi,
scuote l'aria silenziosa.
Le rondini sfiorano le acque spente
presso i laghetti lombardi,
volano come gabbiani sui piccoli pesci;
il fieno odora oltre i recinti degli orti.

Ancora un anno è bruciato,
senza un lamento, senza un grido
levato a vincere d'improvviso un giorno.




auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 16:19
UNA SERA, LA NEVE



Di te lontana dietro una porta
chiusa odo ancora il pianto d'animale:
così negli alti paesi al vento della neve
ulula l'aria fra i chiusi dei pastori.

Breve gioco avverso alla memoria:
la neve è qui discesa e rode
i tetti, gonfia gli archi del vecchio Lazzaretto,
e l'Orsa precipita rossa fra le nebbie.

Dove l'anca colore dei miei fiumi,
la fronte della luna dentro l'estate
densa di vespe assassinate? Resta il lutto
della tua voce umiliata nel buio delle spalle
che lamenta la mia assenza.





auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 16:21
PIAZZA FONTANA



Non a me più il vento fra i capelli
caro dilunga, e delusa è la fronte
inclina il capo docile ai fanciulli
sulla piazza, agli alberi rossi in curva.

Con umana dolcezza
autunno mi consuma. E questa furia
d'ultimi uccelli estivi sulle mura
della curia ha il grigio dei portali,
dura nell'aria e dentro il mio
quieto stormire.

Risento
il monotono ridere senile
dei migranti acquatici,
lo scroscio improvviso di colombe
che divise la sera e a noi il saluto
a riva di Hautecombe.

Esatto quel tempo s'umilia nei simboli,
e anche questo, vivo alla sua morte.

Se ne va il mio dominio da te; rapido
muta: così contro il vento nero
delle finestre, l'acqua della fontana
in pioggia leggera.




auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 16:22
L'ALTO VELIERO



Quando vennero uccelli a muovere foglie
degli alberi amari lungo la mia casa,
(erano ciechi volatili notturni
che foravano i nidi sulle scorze)
io misi la fronte alla luna,
e vidi un alto veliero.

A ciglio dell'isola il mare era sale;
e s'era distesa la terra e antiche
conchiglie lucevano fitte ai macigni
sulla rada di nani limoni.

E dissi all'amata che in sé agitava un mio figlio,
e aveva per esso continuo il mare nell'anima
« Io sono stanco di tutte quest'ali che battono
a tempo di remo, e delle civette
che fanno il lamento dei cani
quando è vento di luna ai canneti.
Io voglio partire, voglio lasciare quest'isola. »
Ed essa: « O caro, è tardi: restiamo. »

Allora mi misi lentamente a contare
i forti riflessi d'acqua marina
che l'aria mi portava sugli occhi
dal volume dell'alto veliero.





auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 16:24
SULLE RIVE DEL LAMBRO



Illeso sparì da noi quel giorno
nell'acqua coi velieri capovolti.
Ci lasciarono i pini,
parvenza di fumo sulle case,
e la marina in festa
con voce alle bandiere
di piccoli cavalli.

Nel sereno colore
che qui risale a morte della luna
e affila i colli di Brianza,
tu ancora vaga movendo
hai pause di foglia.

Le api secche di miele
leggere salgono con le spoglie dei grani,
già mutano luce le Vergilie.

Al fiume che solleva ora in un tonfo
di ruota il vuoto della valle,
si rinnova l'infanzia giocata coi sessi.

Mi abbandono al suo sangue
lucente sulla fronte,
alla sua voce in servitù di dolore
funesta nel silenzio del petto.
Tutto che mi resta è già perduto.

Nel nord della mia isola e nell'est
è un vento portato dalle pietre
ad acque amate: a primavera
apre le tombe degli Svevi;
i re d'oro si vestono di fiori.

Apparenza d'eterno alla pietà
un ordine perdura nelle cose
che ricorda l'esilio.
Sul ciglio della frana
esita il macigno per sempre,
la radice resiste ai denti della talpa.
E dentro la mia sera uccelli
odorosi di arancia oscillano
sugli eucalyptus.

Qui autunno è ancora nel midollo
delle piante; ma covano i sassi
nell'alvo di terra che li tiene;
e lunghi fiori bucano le siepi.
Non ricorda ribrezzo ora il tepore
quasi umano di corolle pelose.
Tu in ascolto sorridi alla tua mente:
e quale sole leviga i capelli
a fanciulle in corsa;
che gioie mansuete e confuse paure
e gentilezza di pianto lottato,
risorgono nel tempo che s'uguaglia!
Ma come autunno, nascosta è la tua vita.

Anche tramonta questa notte
nei pozzi dei declivi; e rulla il secchio
verso il cerchio dell'alba.
Gli alberi tornano di là dai vetri
come navi fiorite.
O cara,
come remota, morte era da terra.





auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 16:26
SERA NELLA VALLE DEL MASINO



Nello spazio dei colli,
tutto inverno, il silenzio
del lume dei velieri:
fredda immagine eterna
navigante! E qui risorge.

Presto la rana cresce il verde:
è foglia; e l'insetto di spine
s'avventa sull'erbe dei canali.
I mulini tentano le ruote,
deserti, all'acqua che si piega.

Non udrò ancora fragore del mare
lungo i lidi dell'infanzia omerica
il libeccio sull'isole
funebre a luna meridiana,
e donne urlare ai morti cantando
dolcezze di giorni nuziali.

E tu come la terra
riappari a volte, e mi deludi
discorde. Basta così poco tempo
per morire da vivi.

Nella veste di colore infantile
inventi il passo d'una spirale
al timpano che imita la notte.
Ma il tuo volto dilegua in tonfi,
in cesure straziate.

Tornano già i prati alla valle; forte
il lamento del corvo. Che certa
presenza, cara, di vita! Avverto
la sera alle tempie, e l'allarme
è un canto di cupo dialetto.

Nulla rimane della mia giornata.
Mi sorprende immutabile la noia
misericorde a ogni gioia apparsa
e alle radici subito indurita.

Calma notte superiore
volontà di consensi,
mi forzerò in così stretta misura
d'ingenua sapienza,
in tutto il freddo pietoso
serrato dentro il mio corpo.






auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 16:27
ELEGOS PER LA DANZATRICE CUMANI



Il vento delle selve
chiaro corre alle colline.
Precoce aggiorna: l'adolescente,
del sangue, ha simile sgomento.

E l'orma dell'acqua è l'alba
sulla riva. Si esauriva in me
il supplizio della sabbia,
a batticuore, spaziando la notte.

Duole durevole antichissimo grido:
pietà per l'animale giovane
colpito a morte fra l'erbe
d'agro mattino dopo le piogge nuove.

La terra è in quel petto disperato,
e ivi ha misura la mia voce:

tu danzi al suo numero chiuso
e torna il tempo in fresche figure:
anche dolore, ma così a quiete
volto che per dolcezza arde.

In questo silenzio che rapido consuma
non mi travolgere effimero,
non lasciarmi solo alla luce;

ora che in me a mite fuoco,
nasci Anadiomene.





auroraageno
00sabato 15 dicembre 2007 16:29
DELFICA



Nell'aria dei cedri lunari,
al segno d'oro udimmo il Leone.
Presagio fu l'ululo terreno.
Svelata è la vena di corolla
sulla tempia che declina al sonno
e la tua voce orfica e marina.

Come il sale dall'acque
io esco dal mio cuore.
Dilegua l'età dell'alloro
e l'inquieto ardore
e la sua pietà senza giustizia.

Perisce esigua
l'invenzione dei sogni
alla tua spalla nuda
che di miele odora.

In te salgo, o delfica,
non più umano. Segreta
la notte delle piogge di calde lune

ti dorme negli occhi:
a questa quiete di cieli in rovina
accade l'infanzia inesistente.
Nei moti delle solitudini stellate,
al rompere dei grani,
alla volontà delle foglie,
sarai urlo della mia sostanza.





auroraageno
00giovedì 20 dicembre 2007 08:32
IMITAZIONE DELLA GIOIA



Dove gli alberi ancora
abbandonata più fanno la sera,
come indolente
è svanito l'ultimo tuo passo,
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.

Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ha ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.





auroraageno
00giovedì 20 dicembre 2007 08:34
CAVALLI DI LUNA E DI VULCANI
alla figlia




Isole che ho abitato
verdi su mari immobili.

D'alghe arse, di fossili marini
le spiagge ove corrono in amore
cavalli di luna e di vulcani.

Nel tempo delle frane,
le foglie, le gru assalgono l'aria:

in lume d'alluvione splendono
cieli densi aperti agli stellati;

le colombe volano
dalle spalle nude dei fanciulli.

Qui finita è la terra:
con fatica e con sangue
mi faccio una prigione.

Per te dovrò gettarmi
ai piedi dei potenti,
addolcire il mio cuore di predone.

Ma cacciato dagli uomini,
nel fulmine di luce ancora giaccio
fanciullo a mani aperte,
a rive d'alberi e fiumi:

ivi la latomìa l'arancio greco
feconda per gl'imenei dei numi.





auroraageno
00giovedì 20 dicembre 2007 08:35
ANCORA UN VERDE FIUME



Ancora un verde fiume mi rapina
e concordia d'erbe e pioppi,
ove s'oblia lume di neve morta.

E qui nella notte, dolce agnello
ha urlato con la testa di sangue:

diluvia in quel grido il tempo
dei lunghi lupi invernali,
del pozzo patria del tuono.





auroraageno
00giovedì 20 dicembre 2007 08:37
SPIAGGIA A SANT'ANTIOCO



Nel fiele delle crete,
nel sibilo dei rettili,
il forte buio che sale dalla terra
abitava il tuo cuore.

Tu già dolente al cielo delle rive
ti crescevi crudele il sangue
d'una razza senza legge.

Qui dove dorme verde l'aria
di questi mari in cancrena,
affiora bianco scheletro marino.
E tu senti una povera vertebra umana
consorte a quella che il flutto
logora e il sale.

Fino a che memoria ti sollevi
a sospirati echi,
dimenticata è morte:
e la candida immagine sull'alghe
segno è dei celesti.





auroraageno
00giovedì 20 dicembre 2007 08:38
GIA' VOLA IL FIORE MAGRO



Non saprò nulla della mia vita,
oscuro monotono sangue.

Non saprò chi amavo, chi amo,
ora che qui stretto, ridotto alle mie membra,
nel guasto vento di marzo
enumero i mali dei giorni decifrati.

Già vola il fiore magro
dai rami. E io attendo
la pazienza del suo volo irrevocabile.





auroraageno
00giovedì 20 dicembre 2007 08:39
INIZIO DI PUBERTA'



Saccheggiatrice d'inerzie e dolori,
notte; difesa ai silenzi,
l'età rigermina
delle oblique tristezze.

E vedo in me fanciulli
leggiadri ancora sull'anca,
al declivio delle conchiglie
turbarsi alla mia voce mutata.





auroraageno
00giovedì 20 dicembre 2007 08:50
ERATO E APOLLION

1932 - 1936


auroraageno
00giovedì 20 dicembre 2007 08:52
SILLABE A ERATO



A te piega il cuore in solitudine,
esilio d'oscuri sensi
in cui trasmuta ed ama
ciò che parve nostro ieri,
e ora è sepolto nella notte.

Semicerchi d'aria ti splendono
sul volto; ecco m'appari
nel tempo che prima ansia accora
e mi fai bianco, tarda la bocca
a luce di sorriso.

Per averti ti perdo,
e non mi dolgo: sei bella ancora,
ferma in posa dolce di sonno:
serenità di morte estrema gioia.





auroraageno
00venerdì 21 dicembre 2007 06:48
CANTO DI APOLLION



Terrena notte, al tuo esiguo fuoco
mi piacqui talvolta,
e scesi fra i mortali.

E vidi l'uomo
chino sul grembo dell'amata
ascoltarsi nascere,
e mutarsi consegnato alla terra,
le mani congiunte,
gli occhi arsi e la mente.

Amavo. Fredde erano le mani
della creatura notturna:
alti terrori accoglieva nel vasto letto
ove nell'alba udii destarmi
da battito di colombe.

Poi il cielo portò foglie
sul suo corpo immoto:
salirono cupe le acque nei mari.

Mio amore, io qui mi dolgo
senza morte, solo.




auroraageno
00venerdì 21 dicembre 2007 06:49
APOLLION



I monti a cupo sonno
supini giacciono affranti.

L'ora nasce
nella morte piena, Apòllion;
io sono tardo ancora di membra
e il cuore grava smemorato.

Le mie mani ti porgo
dalle piaghe scordate,
amato distruttore.




auroraageno
00venerdì 21 dicembre 2007 06:51
L'ANAPO



Alle sponde odo l'acqua colomba,
Anapo mio; nella memoria geme
al suo cordoglio
uno stormire altissimo.

Sale soavemente a riva,
dopo il gioco coi numi,
un corpo adolescente:

mutevole ha il volto,
su una tibia al moto della luce
rigonfia un grumo vegetale.

Chino ai profondi lieviti
ripartisce ogni fase,
ha in sé la morte in nuziale germe.

- Che hai tu fatto delle maree del sangue,
Signore? - Ciclo di ritorni
vano sulla sua carne,
la notte e il flutto delle stelle.

Ride umano sterile sostanza.

In fresco oblìo disceso
nel buio d'erbe giace:
l'amata è un'ombra e origlia
nella sua costola.

Mansueti animali,
le pupille d'aria,
bevono in sogno.





auroraageno
00venerdì 21 dicembre 2007 06:52
AIRONE MORTO



Nella palude calda confitto al limo,
caro agli insetti, in me dolora
un airone morto.

Io mi divoro in luce e suono;
battuto in echi squallidi
da tempo a tempo geme un soffio
dimenticato.

Pietà, ch'io non sia
senza voci e figure
nella memoria un giorno.





auroraageno
00venerdì 21 dicembre 2007 06:54
SUL COLLE DELLE << TERRE BIANCHE >>



Dal giorno, superstite
con gli alberi mi umilio.

Assai arida cosa;
a infermo verde amica,
a nubi gelide
rassegnate in piogge.

Il mare empie la notte,
e l'urlo preme maligno
in poca carne affondato.

Un'eco ci consoli della terra
al tardo strazio, amata;

o la quiete geometrica dell'Orsa.





auroraageno
00venerdì 21 dicembre 2007 06:55
AL TUO LUME NAUFRAGO



Nasco al tuo lume naufrago,
sera d'acque limpide.

Di serene foglie
arde l'aria consolata.

Sradicato dai vivi,
cuore provvisorio,
sono limite vano.

Il tuo dono tremendo
di parole, Signore,
sconto assiduamente.

Destami dai morti:
ognuno ha preso la sua terra
e la sua donna.

Tu m'hai guardato dentro
nell'oscurità delle viscere:
nessuno ha la mia disperazione
nel suo cuore.

Sono un uomo solo,
un solo inferno.





auroraageno
00venerdì 21 dicembre 2007 06:56
INSONNIA
Necropoli di Pantàlica




Un soffio lieto d'alati
a verde lume discorde:
il mare nelle foglie.

Dissòno. E tutto che mi nasce a gioia
dilania il tempo; un'eco appena
ne serba in voce d'alberi.

Amore di me perduto,
memoria non umana:
sui morti splendono stimmate celesti,
gravi stellati scendono nei fiumi:

s'affioca un'ora di pioggia soave,
o muove un canto in questa notte eterna.

Da anni e anni, in cubicolo aperto
dormo della mia terra,
gli omeri d'alghe contro grige acque:

nell'aria immota tuonano meteore.





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