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BALLA COI LUPI - romanzo completo

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    00 28/09/2007 13:41
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    11



    Il consiglio della tribù convocato da Dieci Orsi terminò senza aver preso alcuna decisione;
    ma questo non era un fatto insolito.
    Il più delle volte un consiglio riunito per discutere questioni cruciali finiva infruttuosamente,
    dando così il segnale di avvio per una fase completamente nuova della vita politica della
    tribù.
    Era in quei momenti che, se lo avesse voluto, la gente agiva in maniera indipendente.

    Vento-nei-capelli aveva fatto notevoli pressioni affinché venisse adottato un altro piano.
    Andare al forte e prendere il cavallo senza far del male all'uomo bianco. Ma questa volta,
    invece che dei ragazzi, mandare dei guerrieri. Il consiglio respinse questa seconda idea,
    ma Vento-nei-capelli non era in collera con nessuno.
    Aveva ascoltato apertamente tutte le opinioni e offerto la sua soluzione. La soluzione non
    era stata adottata, ma le argomentazioni sollevate non avevano convinto Vento-nei-capelli
    che il suo piano non fosse valido.
    Era un guerriero onorato e, come ogni guerriero onorato, serbava un diritto supremo.
    Poteva fare ciò che voleva.
    Se il consiglio fosse stato irremovibile, o se avesse messo in atto il suo piano e questo
    fosse fallito, c'era la possibilità che venisse scacciato dalla tribù.
    Vento-nei-capelli aveva già preso in considerazione tutto questo. Il consiglio non era stato
    irremovibile; era stato confuso e stordito. E quanto a lui... be'... Vento-nei-capelli non aveva
    mai fallito.
    Così, quando il consiglio ebbe termine, si diresse lungo uno dei sentieri che passavano per
    l'accampamento, facendo una breve visita ad alcuni amici e ponendo la stessa domanda
    a ogni tenda.
    << Vado a rubare quel cavallo. Vuoi venire? >>
    Ognuno degli amici rispondeva alla domanda con un'altra domanda.
    << Quando? >>
    E Vento-nei-capelli aveva la stessa risposta per tutti.
    << Adesso. >>

    Era un piccolo gruppo. Cinque uomini.
    Lasciarono il villaggio e si diressero verso la prateria cavalcando a un'andatura studiata.
    Non avevano fretta. Ma questo non significava che fossero allegri.
    Cavalcavano con un'aria cupa, con le facce senza espressione di chi si sta recando al
    funerale di un lontano parente.
    Vento-nei-capelli aveva detto loro che cosa fare quando erano andati a prendere i loro
    pony.
    << Prenderemo il cavallo. Tenetelo d'occhio sulla strada del ritorno. Cavalcategli intorno.
    Se c'è un uomo bianco, non colpitelo, a meno che lui non spari. Se cerca di parlare, non
    rispondete. Prenderemo il cavallo e vedremo che cosa succede. >>
    Vento-nei-capelli non lo avrebbe ammesso con nessuno, ma sentì un'ondata di sollievo
    quando furono in vista del forte.
    C'era un cavallo nel recinto, un bel cavallo.
    Ma non c'era nessun uomo bianco.


    L'uomo bianco andò a dormire molto prima che fosse mezzogiorno. Dormì per parecchie
    ore. Si svegliò verso metà pomeriggio, compiaciuto che la sua nuova idea funzionasse.
    Il tenente Dunbar aveva deciso di dormire durante il giorno e di rimanere sveglio con un
    fuoco acceso durante la notte. Quelli che avevano rubato Cisco erano venuti all'alba, e le
    storie che aveva sentito raccontare avevano sempre indicato l'alba come l'ora preferita
    per l'attacco. In questo modo, quando fossero venuti, sarebbe stato sveglio.
    Si sentiva un po' stordito dopo il lungo sonnellino. E aveva sudato parecchio. Si sentiva tutto
    appiccicoso. Questo era il momento più indicato per fare il bagno.
    Fu per questo che, quando udì i cinque uomini a cavallo arrivare al galoppo con il rombo di
    un tuono lungo il promontorio, si trovava immerso fino alle spalle nell'acqua del fiume con
    la testa piena di schiuma di sapone.
    Uscì dibattendosi dall'acqua e allungò istintivamente la mano verso i pantaloni. Armeggiò
    con i pantaloni prima di buttarli da parte per prendere invece la pistola. Poi si precipitò a
    carponi su per il pendio.
    Lo videro mentre stavano allontanandosi con Cisco.
    Era in piedi sull'orlo del promontorio. Il corpo era grondante d'acqua. La testa era ricoperta
    di qualcosa di bianco. Aveva una pistola nella mano. Fu quanto videro gettando un rapido
    sguardo da sopra la spalla. Ma niente più di questo.
    Tutti ricordavano le istruzioni di Vento-nei-capelli. Con un guerriero che tratteneva Cisco con
    una corda e il resto del gruppo stretto intorno a lui, si allontanarono dal forte in formazione
    serrata.
    Vento-nei-capelli rimase dietro.
    L'uomo bianco non si era mosso. Rimaneva immobile e diritto sul ciglio del promontorio, la
    mano che tratteneva la pistola abbassata lungo il fianco.
    A Vento-nei-capelli non importava niente dell'uomo bianco. Ma gli importava moltissimo di
    ciò che l'uomo bianco rappresentava. Era il costante nemico di ogni guerriero. L'uomo bianco
    rappresentava la paura. Una cosa era ritirarsi dal campo di battaglia dopo un duro combattimento,
    ma lasciare che la paura lo schernisse e non fare nulla... Vento-nei-capelli sapeva che non
    poteva lasciare che succedesse.
    Riprese il controllo del suo pony, cambiò bruscamente direzione e si lanciò al galoppo verso il
    tenente.



    (continua)

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    _________Aurora Ageno___________
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    Mentre risaliva freneticamente il pendio, il tenente Dunbar era tutto ciò che un soldato
    doveva essere. Stava correndo incontro al nemico. Nella sua mente non vi erano altri
    pensieri al di fuori di quello.
    Ma tutto questo sparì nel momento stesso in cui superò il promontorio.
    Si era preparato a dover affrontare dei criminali, una banda di violatori della legge, dei
    ladri che dovevano essere puniti.
    Ciò che invece si era trovato davanti era uno spettacolo straordinario, una dimostrazione
    di azione da far restare senza fiato, e come un bambino che assiste alla sua prima
    parata, il tenente non riuscì a fare altro che stare lì in piedi a vederla svolgere.
    La frenetica corsa dei pony mentre si allontanavano. I loro mantelli lucidi, le penne
    attaccate alle briglie, alla criniera e alla coda che svolazzavano nel vento della corsa,
    le pitture sui posteriori. E gli uomini in groppa a loro, che cavalcavano con la scioltezza
    di bambini che si dondolano sui loro cavallucci di legno.
    Le loro pelli scure e untuose, le linee dei muscoli vigorosi che spiccavano chiaramente.
    I capelli lucidi e intrecciati, l'arco, le frecce e lance e fucili, con delle linee marcate dipinte
    sulla faccia e lungo le braccia.
    E tutto in un'armonia perfetta. Insieme, uomini e cavalli sembravano come la grossa lama
    di un aratro che avanzava veloce attraverso il paesaggio, il solco che intaccava appena
    la superficie del terreno.
    Era tutto di un colore, di una rapidità e di uno stupore come non aveva mai immaginato.
    Era la gloria celebrata della guerra catturata in un unico quadro vivente, e Dunbar rimase
    pietrificato.
    Era immerso in una profonda nebbia e questa aveva appena cominciato a dissiparsi,
    quando Dunbar si rese conto che uno di loro stava tornando.
    Come se stesse dormendo e sognando, lottò per svegliarsi. Il suo cervello cercava di
    impartire dei comandi ma la comunicazione continuava a interrompersi. Non riusciva
    a muovere un muscolo.
    L'uomo a cavallo arrivava velocemente, galoppando direttamente su di lui. Il tenente
    Dunbar non pensò che sarebbe stato travolto. Non pensò di morire. Aveva perso ogni
    capacità di pensare. Restò immobile, lo sguardo fisso come in uno stato di trance
    sulle narici dilatate del pony.


    Quando Vento-nei-capelli fu a una decina di metri dal tenente, si fermò così bruscamente
    che, per un momento, il suo cavallo si sedette letteralmente sul terreno. Con una poderosa
    spinta, il cavallo si sollevò nuovamente sulle zampe, cominciando a scartare e a scalpitare
    in tondo. Per tutto il tempo Vento-nei-capelli trattenne saldamente la briglia, quasi ignaro
    dei volteggi che avvenivano sotto di lui.
    Guardava l'uomo bianco. La nuda figura era assolutamente immobile. Vento-nei-capelli
    non vide neanche un battito di ciglia. Vedeva però il petto bianco e luccicante sollevarsi
    e abbassarsi lentamente. L'uomo era vivo.
    Sembrava non avesse paura. Vento-nei-capelli apprezzava la mancanza di paura nell'uomo
    bianco, ma allo stesso tempo lo innervosiva. L'uomo avrebbe dovuto avere paura. Come
    poteva non averne? Vento-nei-capelli sentì tornare la propria paura. Gli faceva formicolare
    la pelle.
    Sollevò il fucile in alto sopra la testa e gridò tre frasi.
    << Sono Vento-nei-capelli! >>
    << Lo vedi che non ho paura di te? >>
    << Lo vedi? >>
    L'uomo bianco non rispose e Vento-nei-capelli improvvisamente si sentì soddisfatto. Era
    venuto a porsi di fronte a questo possibile nemico. Aveva sfidato l'uomo bianco nudo e
    l'uomo bianco non aveva fatto nulla. Questo bastava.
    Fece compiere una giravolta al suo pony, allentò le redini e partì al galoppo per raggiungere
    i suoi amici.


    Il tenente Dunbar restò a guardare con aria sbalordita mentre il guerriero si allontanava. Le
    parole gli echeggiavano ancora nella testa. Il suono delle parole, in ogni caso, come
    l'abbaiare di un cane. Sebbene non avesse alcuna idea del loro significato, i suoni erano
    sembrati un'affermazione, come se il guerriero gli stesse dicendo qualcosa.
    A poco a poco ritornò completamente in sé. La prima cosa che sentì fu la pistola nella sua
    mano. Era straordinariamente pesante. La lasciò cadere a terra.
    Poi si piegò lentamente sulle ginocchia e si lasciò cadere seduto sul terreno. Rimase così
    a lungo, sentendosi esausto come mai gli era successo, debole come un cucciolo appena
    nato.
    Per un po' pensò che non sarebbe mai riuscito a muoversi, ma alla fine si tirò in piedi e
    camminò faticosamente fino alla baracca. Fu solo con un enorme sforzo che riuscì ad
    arrotolarsi una sigaretta. Ma era troppo debole per fumarla e dopo due o tre boccate il
    tenente si addormentò.


    La seconda fuga aveva un paio di espedienti diversi rispetto alla prima, ma, in generale,
    le cose andarono nello stesso modo della volta precedente.
    A circa due miglia dal forte i cinque comanci rallentarono l'andatura. Due guerrieri cavalcavano
    a ciascun lato di Cisco e un altro lo seguiva, così il cavallo prese l'unica strada che gli avevano
    lasciato.
    Davanti a lui.
    Gli uomini avevano appena cominciato a scambiare qualche parola quando Cisco fece un
    balzo come se fosse stato punto sul posteriore e scattò in avanti.
    L'uomo che reggeva la corda che lo tratteneva volò al disopra della testa del suo pony. Per
    qualche fuggevole secondo Vento-nei-capelli ebbe la possibilità di afferrare la corda che
    scorreva sul terreno, ma si mosse un istante troppo tardi. La corda gli scivolò fra le dita.
    Dopo ciò, non restava che l'inseguimento. Non fu una cosa allegra per i comanci. L'uomo
    che era stato disarcionato non aveva nessuna probabilità, e i quattro inseguitori che
    restavano non ebbero fortuna.
    Un uomo perse il proprio cavallo quando questo finì con la zampa dentro la tana di un cane
    della prateria, spezzandosela. Cisco fu agile come un gatto quel pomeriggio, e altri due
    uomini vennero disarcionati mentre cercavano di indurre i loro pony a imitare i suoi fulminei
    zigzag.
    Restò soltanto Vento-nei-capelli. Riuscì a mantenere la sua andatura per parecchie centinaia
    di miglia, ma quando il suo cavallo cominciò a cedere, non aveva ancora guadagnato terreno
    e decise che non valeva la pena di correr rischi fino a farlo scoppiare per qualcosa che non
    riusciva a prendere.
    Mentre il pony riprendeva fiato, Vento-nei-capelli osservò il cavallo dal mantello bruno fulvo
    abbastanza a lungo da vedere che stava prendendo la direzione che portava al forte e la
    sua frustrazione venne mitigata dal pensiero che forse Uccello Saltellante aveva ragione.
    Poteva essere un cavallo magico, qualcosa che apparteneva a una persona magica.
    Mentre tornava, incontrò gli altri. Era ovvio che Vento-nei-capelli aveva fallito e nessuno
    chiese dettagli.
    Nessuno disse una parola.
    Compirono il lungo percorso di ritorno al villaggio in silenzio.


    (continua)


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    (segue)


    12



    Vento-nei-capelli e gli altri uomini ritornarono per trovare il villaggio in lutto.
    Il gruppo di guerrieri che era stato assente così a lungo per combattere gli ute era infine
    tornato.
    E le notizie non erano buone.
    Avevano rubato soltanto sei cavalli, non abbastanza per coprire le loro stesse perdite.
    Dopo tutto quel tempo lontani dal villaggio, i guerrieri erano a mani vuote.
    Con loro vi erano quattro guerrieri gravemente feriti, e soltanto uno di loro sarebbe
    sopravvissuto. Ma la vera tragedia era rappresentata dai sei uomini che erano stati
    uccisi. Sei valorosi guerrieri. E, peggio ancora, c'erano soltanto quattro corpi avvolti
    nelle coperte sulle rudimentali portantine tirate a strascico dai cavalli.
    Non erano riusciti a recuperare due dei morti e, tristemente, i nomi di quegli uomini non
    sarebbero stati mai più pronunciati.
    Uno di loro era il marito di Mano Alzata.


    Poiché si trovava nella tenda per le donne, la notizia dovette esserle trasmessa dall'esterno
    da due degli amici di suo marito.
    Dapprima sembrò accogliere impassibilmente la notizia, rimanendo seduta e immobile
    come una statua sul pavimento della tenda, le mani incrociate sul grembo, la testa
    leggermente abbassata. Rimase seduta in quel modo per gran parte del pomeriggio,
    lasciando che il dolore si diffondesse lentamente in tutto il suo corpo, mentre le altre donne
    badavano alle loro faccende.
    La osservavano, però, in parte perché sapevano quanto Mano Alzata e suo marito fossero
    stati uniti. Ma era una donna bianca, e questo, più di ogni altro, era il motivo per sorvegliarla.
    Nessuna di loro sapeva come la mente di una donna bianca avrebbe reagito a un frangente
    come questo. Così, la osservavano con un misto di affetto e di curiosità.
    E fu un bene.
    Mano Alzata era così profondamente sconvolta che non fece un solo movimento, non spostò
    lo sguardo per tutto il pomeriggio. Non versò una lacrima. Rimase solamente seduta. La sua
    mente correva pericolosamente. Pensò a ciò che aveva perduto, a suo marito e infine a se
    stessa.
    Rivide tutti gli avvenimenti della sua vita con lui, e tutto le appariva in dettagli frammentati ma
    vividi. Uno di questi in particolare le riappariva ripetutamente... la sola e unica volta in cui
    aveva pianto.
    Era accaduto una notte, non molto tempo dopo la morte del loro secondo bambino. Aveva
    resistito facendo di tutto per non sprofondare nel dolore. Stava ancora cercando di resistere,
    quando erano venute le lacrime. Cercò di fermarle nascondendo il viso nella sua veste per
    la notte. Avevano già parlato di una seconda moglie e lui aveva già pronunciato le parole:
    << Tu mi basti >>. Ma non era abbastanza per alleviare il dolore della morte del secondo
    figlio, un dolore che sapeva condiviso da lui, e aveva affondato il viso bagnato di pianto
    nella veste. Ma non riusciva a fermarsi e le lacrime diventarono dei singhiozzi.
    Quando il pianto cessò, sollevò la testa e lo vide seduto quietamente accanto al fuoco.
    Lo attizzava distrattamente, gli occhi che guardavano vacui attraverso le fiamme.
    Quando i loro occhi si incontrarono, lei disse: << Io non sono niente >>.
    Dapprima, lui non rispose. Ma la guardò fin nell'animo con un'espressione così quieta che
    lei non poté resistere alla calma che questo le infondeva. Poi aveva visto il più debole dei
    sorrisi apparire sulle sue labbra mentre le diceva: << Tu sei molto >>.
    Lo ricordava così bene: si era alzato, aveva fatto scivolare le mani sotto la sua veste e l'aveva
    stretta delicatamente fra le braccia.
    Ricordava come, quasi inconsapevoli, avevano fatto l'amore, un amore così privo di gesti e
    di parole e di forza. Era come sentirsi trasportare in alto per galleggiare indefinitamente
    nell'acqua di un invisibile fiume. Fu la loro notte più lunga. Quando il sonno stava per coglierli,
    in qualche modo cominciavano nuovamente a fare l'amore. E ancora. E ancora. Due persone
    di una carne sola.
    Nemmeno l'arrivo del sole li fermò. Per la prima e unica volta nella loro vita insieme, nessuno
    dei due lasciò la tenda quella mattina.
    Quando il sonno, alla fine, li colse, avvenne simultaneamente, e Mano Alzata ricordò che si era
    addormentata con la sensazione che il peso dell'essere due persone improvvisamente era così
    lieve che aveva smesso di avere importanza.
    Si ricordò che non si sentiva più né indiana né bianca. Si sentiva un solo essere, una sola
    persona non più divisa.
    Mano Alzata batté le palpebre e ritornò al presente e al luogo dove si trovava.
    Non era più una moglie, una comanci, o persino una donna. Adesso, non era niente. Che cosa
    stava aspettando?
    A poca distanza da lei, sul pavimento, vi era uno degli arnesi usati per raschiare le pelli. Vide
    la sua mano afferrarlo. La vide affondarlo fino in fondo nel suo petto.
    Mano Alzata attese il momento in cui l'attenzione generale era rivolta altrove. Si dondolò avanti
    e indietro alcune volte poi si gettò in avanti, coprendo a carponi la distanza fra lei e l'arnese.
    La sua mano lo afferrò saldamente e in un lampo la lama fu davanti al suo viso. Lo sollevò più
    in alto, gettò un grido e lo calò con entrambe le mani, come se afferrasse un oggetto a lei
    molto caro.
    Nella frazione di secondo necessaria perché l'arnese compisse la traiettoria, arrivò la prima
    donna. Anche se mancò le mani che trattenevano l'arnese, l'urto fu sufficiente perché questo
    deviasse. La lama passò di lato, lasciando una sottile traccia sul corpetto della veste di Mano
    Alzata mentre sfiorava il suo seno sinistro, penetrò nella manica di pelle di daino e affondò
    nel braccio appena sopra il gomito.
    Mano Alzata lottò come una furia e le donne fecero parecchia fatica a toglierle la lama di mano.
    Quando vi riuscirono, la furia di Mano Alzata svanì di colpo. Crollò fra le braccia delle sue
    amiche e come il getto che scaturisce quando una valvola ostinata viene finalmente liberata,
    cominciò a singhiozzare convulsamente.
    Le donne un po' trasportarono e un po' trascinarono quel piccolo fagotto di tremiti e di lacrime
    verso il giaciglio. Mentre un'amica la cullava come un bambino, altre due di loro fermarono
    il sangue che usciva dalla ferita e le fasciarono il braccio.
    Pianse così a lungo che le donne dovettero avvicendarsi a tenerla abbracciata. Finalmente,
    il suo respiro cominciò a farsi meno affannoso e i singhiozzi cessarono fino a diventare un
    pianto sommesso. Allora, senza aprire gli occhi resi gonfi dalle lacrime, parlò, ripetendo le
    stesse parole, cantandole a bassa voce a nessun altro che a se stessa.
    << Non sono niente. Non sono niente. Non sono niente. >>
    Quando venne la sera, riempirono un corno cavo con del brodo leggero e glielo fecero bere.
    Cominciò con dei piccoli sorsi esitanti, ma più ne beveva e più ne sentiva il bisogno. Lo
    terminò con un lungo sorso e si sdraiò sul giaciglio, con gli occhi spalancati che fissavano
    verso l'alto.
    << Non sono niente >>, ripeté nuovamente. Ma ora il tono della sua affermazione era sereno
    e le altre donne si resero conto che aveva superato la fase più pericolosa del suo dolore.
    Mormorandole dolcemente alcune parole di incoraggiamento, pettinarono i suoi capelli
    arruffati e le rimboccarono l'orlo di una coperta attorno alle spalle.


    Circa nello stesso momento in cui la prostrazione fece scivolare Mano Alzata in un sonno
    profondo e senza sogni, il tenente Dunbar venne svegliato da un sordo rumore di zoccoli
    all'entrata della baracca.
    Non riconoscendo il suono e con la mente ancora annebbiata dal lungo sonno, il tenente
    rimase sdraiato, sbattendo le palpebre per svegliarsi, mentre la sua mano annaspava sul
    terreno vicino al giaciglio per prendere la pistola. Prima che potesse trovarla, riconobbe
    il suono. Era Cisco. Era tornato un'altra volta.
    Sempre all'erta, Dunbar scese senza far rumore dal giaciglio e tenendosi abbassato scivolò
    furtivamente accanto al cavallo e uscì dall'esterno.
    Era scuro ma ancora presto. Nel cielo vi era soltanto la stella della sera. Il tenente rimase
    in ascolto e osservò intorno. Non c'era nessuno.
    Cisco lo aveva seguito sullo spiazzo. Il tenente Dunbar gli appoggiò distrattamente una mano
    sul collo e sentì che il pelo era indurito dal sudore rappreso. Sogghignò e disse a voce alta:
    << Immagino che tu gliene abbia fatto vedere delle belle, vero? Hai bisogno di una buona
    bevuta >>.
    Mentre conduceva Cisco giù al fiume, si meravigliò di sentirsi così bene e in forze. Anche se
    la ricordava chiaramente, la paralisi che lo aveva colto alla vista dell'incursione di quel pomeriggio
    sembrava lontana. Non indistinta, ma lontana, come la storia. Era stato un battesimo, concluse,
    un battesimo che lo aveva catapultato dalla fantasia alla realtà. Il guerriero che era venuto verso
    di lui e che gli aveva abbaiato quelle frasi era reale: Gli uomini che avevano preso Cisco erano
    reali. Ora li conosceva.
    Mentre Cisco indugiava a giocherellare con l'acqua spruzzandola intorno con il muso, la mente
    del tenente Dunbar continuava a rimuginare su quel pensiero. E come un cercatore d'oro che
    improvvisamente trova il prezioso minerale, fece la sua scoperta.
    Aspettare, pensò. Ecco quello che ho fatto.
    Scosse la testa, ridendo dentro di sé. Ho aspettato. Lanciò un sasso nell'acqua. Aspettare
    che cosa? Che qualcuno mi trovasse? Che gli indiani prendessero il mio cavallo? Di vedere
    un bisonte?
    Non riusciva a credere a se stesso. Aveva camminato sulle uova, ecco che cosa aveva fatto
    per quelle ultime settimane. Camminare sulle uova, aspettando che succedesse qualcosa.
    Meglio smetterla subito, si disse.
    Prima che potesse continuare, i suoi occhi colsero qualcosa. Dall'altro lato del fiume, l'acqua
    rifletteva del colore.
    Il tenente Dunbar guardò in alto oltre il pendio dietro di lui.
    Un'enorme luna piena stava sorgendo.
    D'istinto, balzò in groppa a Cisco e risalì il pendio.
    Era una vista magnifica, quella grossa luna risplendente come un tuorlo d'uovo che riempiva
    il cielo notturno come se fosse un mondo completamente nuovo venuto a visitare proprio lui.
    Scese agilmente dal cavallo, si preparò una sigaretta e rimase a osservare affascinato mentre
    la luna saliva rapidamente, con i suoi rilievi nitidi come una mappa.
    Mentre si alzava nel cielo, la prateria diventava sempre più luminosa. Nelle notti precedenti
    aveva conosciuto solo l'oscurità e questo profluvio di chiarore era come un oceano
    improvvisamente svuotato di tutta l'acqua.
    Sentì il bisogno di immergervisi.
    Cavalcarono lentamente per mezz'ora e Dunbar ne assaporò ogni minuto. Quando infine
    ritornarono, si sentiva pieno di sicurezza.
    Adesso era contento di tutto ciò che era successo. Non sarebbe più rimasto a ciondolare
    avvilito, aspettando dei soldati che si rifiutavano di arrivare. Non avrebbe cambiato le sue
    abitudini per quanto riguardava il sonno. Non sarebbe più uscito in perlustrazione effettuando
    soltanto dei cauti giri intorno al forte e non avrebbe passato altre notti con un occhio e un
    orecchio aperti.
    Non avrebbe aspettato oltre. Sarebbe passato all'iniziativa.
    L'indomani mattina sarebbe uscito a cavallo per trovare gli indiani.
    E se lo avessero fatto a pezzi?
    Be', che il diavolo si prendesse pure gli avanzi.
    Ma lui non avrebbe più aspettato.


    (continua)


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    (segue)


    Quando aprì gli occhi, all'alba, la prima cosa che vide fu un altro paio d'occhi. Poi si
    rese conto che altri occhi la stavano fissando. Tutto tornò di colpo alla sua mente e
    Mano Alzata sentì l'improvvisa ondata di vergogna di fronte a tutta quell'attenzione
    rivolta verso di lei. Aveva cercato di uccidersi in un modo così poco dignitoso, così
    poco comanci.
    Voleva nascondere la faccia.
    Le chiesero come si sentisse e se volesse mangiare. Mano Alzata rispose che sì,
    si sentiva meglio e che avrebbe gradito mangiare.
    Mentre mangiava osservò le donne mentre si occupavano dei loro piccoli lavori e
    questo, insieme con il sonno e il cibo, ebbe un effetto ristoratore. La vita continuava
    e vedere che questo accadeva la fece nuovamente sentire una persona.
    Ma quando con la mano si tastò il petto, seppe dal dolore lancinante che sentiva che
    il suo cuore era spezzato. Avrebbe dovuto essere sanato, se voleva continuare la sua
    vita, e il modo migliore per riuscirvi era un lutto giusto e completo.
    Doveva piangere la morte di suo marito.
    E per farlo, doveva lasciare la tenda per le donne.
    Era ancora presto quando si preparò per andarsene. Le donne le intrecciarono i
    capelli e affidarono a due ragazzi l'incarico di andare a prendere la sua veste più bella
    e di togliere uno dei pony di suo marito dal branco.
    Nessuno la dissuase, quando Mano Alzata infilò una cintura nella guaina del suo coltello
    migliore e se l'assicurò alla vita. Il giorno prima avevano impedito qualcosa di irrazionale,
    ma ora era più calma e se Mano Alzata voleva ancora togliersi la vita, allora che così
    fosse. Molte donne lo avevano fatto negli anni addietro.
    La seguirono mentre usciva dalla tenda, così bella e strana e triste. Una di loro l'aiutò
    a montare sul pony. Poi la donna e il cavallo si allontanarono lentamente dall'accampamento
    dirigendosi verso la prateria.
    Nessuna delle donne levò dei lamenti, nessuna pianse e nessuna le fece un cenno d'addio.
    Rimasero solamente a guardarla mentre si allontanava. Ma ognuna delle sue amiche
    sperava che non sarebbe stata troppo crudele con se stessa e che sarebbe ritornata.


    Il tenente Dunbar si stava affrettando a terminare i suoi preparativi. Aveva già dormito fin
    dopo che il sole era sorto, mentre aveva avuto l'intenzione di essere già in piedi all'alba.
    Così bevve velocemente il suo caffè, fumando la sua sigaretta mentre la mente cercava
    di organizzare tutto quanto nel modo più efficiente possibile.
    Si buttò per prima cosa sui lavori ingrati, cominciando dalla bandiera sul deposito dei
    rifornimenti. Era più nuova di quella che sventolava dai suoi alloggi. Così si arrampicò
    lungo la parete di terra che si stava sgretolando e la tirò giù.
    Staccò una pertica del recinto, la ficcò nel fianco esterno dello stivale e dopo averla
    attentamente misurata accorciò la punta di alcuni centimetri. Poi vi attaccò la bandiera.
    Non era male.
    Lavorò intorno a Cisco per un'ora, rifilando i ciuffi di pelo attorno a ogni zoccolo,
    spazzolandogli la criniera e la coda, ungendone il folto pelo nero con del grasso di
    pancetta.
    Dedicò la maggior parte del tempo al mantello. Il tenente Dunbar lo strofinò e lo strigliò
    una mezza dozzina di volte fino a quando fece finalmente un passo indietro e vide
    che non era necessario continuare. Il pelo bruno fulvo del cavallo splendeva come la
    pagina patinata di un libro illustrato.
    Legò Cisco lasciandogli poca briglia così che non potesse sdraiarsi nella polvere e si
    diresse in fretta verso la baracca. Tirò fuori l'alta uniforme e la spazzolò meticolosamente,
    togliendo con le dita ogni pelucco e asportando anche la più piccola pallina di lanugine.
    Lucidò i bottoni. Se avesse avuto del colore avrebbe potuto ritoccare le spalline e le
    strisce gialle che correvano lungo il fianco dei pantaloni. Si accontentò di ricorrere alla
    spazzola e a un po' di sputo. Quando ebbe finito, l'uniforme appariva più che passabile.
    Lucidò i suoi stivali nuovi alti fino al ginocchio sputandovi della saliva e li sistemò accanto
    all'uniforme che aveva steso accuratamente sul giaciglio.
    Quando, finalmente, venne il momento di pensare a se stesso, raccolse un asciugamano
    ruvido e i suoi arnesi da barba e scese al fiume. Saltò nell'acqua, si insaponò bene bene,
    si risciacquò e schizzò fuori; il tutto, in meno di cinque minuti. Facendo molta attenzione
    a non tagliuzzarsi, il tenente si rasò due volte. Quando riuscì a passare una mano sulla
    guancia senza incontrare il minimo pelo, risalì leggermente il pendio e si vestì.


    Cisco piegò il collo di lato e guardò con aria interrogativa la figura che veniva verso di lui,
    in special modo la fascia di un colore rosso vivo che svolazzava attorno alla vita del tenente.
    Anche se non ci fosse stata la fascia, gli occhi del cavallo sarebbero rimasti comunque
    fissi su di lui. Nessuno aveva mai visto il tenente Dunbar in quella forma. Non Cisco,
    sicuramente, e lui conosceva il suo padrone meglio di chiunque altro.
    Il tenente si vestiva sempre in modo da passare inosservato, non attribuendo molta importanza
    allo sfavillio delle parate, delle ispezioni o delle riunioni con i generali.
    Ma se le migliori menti dell'esercito si fossero messe insieme per creare il non plus ultra
    degli ufficiali subalterni, si sarebbero discostati di poco da quello che il tenente Dunbar
    era riuscito a ottenere in quella chiara mattina di maggio.
    Dal berretto agli stivali, fino alla grossa pistola della marina che gli pendeva al fianco, era
    l'uomo in uniforme dei sogni di ogni ragazza. Era così tirato a lucido e sfavillante che nessun
    cuore femminile avrebbe potuto fare a meno di saltare un battito a quella vista. Anche la
    testa più cinica sarebbe stata costretta a voltarsi, e anche le labbra più serrate si sarebbero
    trovate a pronunciare le parole: << Chi è? >>
    Dopo aver infilato il morso a Cisco, afferrò un ciuffo della criniera, si issò senza fatica sulla
    groppa lucida del cavallo e raggiunsero al trotto il deposito dei rifornimenti. Il tenente si piegò
    a raccogliere lo stendardo con la bandiera appoggiato contro la parete. Si infilò l'asta dentro
    lo stivale, impugnò lo stendardo con la mano sinistra e guidò Cisco verso la prateria.
    Dopo aver percorso un centinaio di metri, Dunbar si fermò e guardò indietro, sapendo che
    vi era la probabilità che non avrebbe mai più rivisto quel luogo. Gettò uno sguardo al sole e
    vide che era metà mattino. Avrebbe avuto parecchio tempo a disposizione per trovarli. In fondo,
    a Ovest, poteva scorgere la piatta nuvola di fumo che aveva fatto la sua comparsa per tre
    giorni di seguito. Dovevano essere loro.
    Il tenente abbassò lo sguardo sulle punte dei suoi stivali. Riflettevano la luce del sole. Sospirò
    brevemente, dubbioso, e per una frazione di secondo sentì il desiderio di un buon sorso di
    whisky. Schioccò la lingua per incitare Cisco e il cavallo partì al piccolo galoppo. Soffiava
    un leggero vento e Old Glory, la vecchia e gloriosa bandiera degli Stati Uniti, sventolava,
    mentre cavalcava per andare incontro a... non sapeva a che cosa.
    Ma ci stava andando.


    Sebbene non fosse in alcun modo programmato, il lutto di Mano Alzata fu molto rituale.
    Non aveva nessuna intenzione di morire ora. Ciò che voleva era di sgomberare
    quell'ammasso di dolore che era dentro di lei. Voleva liberarsene il più accuratamente
    possibile, così prese il suo tempo.
    Tranquillamente e metodicamente, cavalcò per circa un'ora prima di incontrare un luogo
    che le andasse bene, un luogo dove era probabile che gli dei si riunissero.
    A chiunque vivesse nella prateria sarebbe sembrata una collina. Per chiunque non sarebbe
    stato altro che un rigonfiamento del terreno, come una piccola onda su un mare ampio
    e piatto. Sulla sua sommità c'era un albero solitario, una vecchia quercia nodosa che in
    qualche modo rimaneva aggrappata alla vita sebbene, con gli anni, chi era passato di lì
    l'avesse resa molto malridotta. Volgendo lo sguardo in ogni direzione, era l'unico albero
    che vedesse.
    Era un luogo molto solitario. Sembrava essere il posto giusto. Salì sulla sommità, smontò
    dal suo pony, discese lungo il retro della collina e si sedette a gambe incrociate sul
    terreno.
    Mosse dal vento, le trecce le sbattevano sul viso, così alzò le braccia e le sciolse entrambe,
    lasciando che i suoi capelli color rosso ciliegia volassero nel vento. Allora chiuse gli occhi,
    cominciò a dondolarsi dolcemente e concentrò la sua mente sulla cosa terribile che era
    successa alla sua vita, escludendo da lei ogni altro pensiero.
    Pochi minuti dopo, le parole di un canto presero forma nella sua mente. Aprì la bocca e
    i versi uscirono sicuri e forti come qualcosa che avesse già diligentemente ripetuto e
    provato. La voce a volte le si incrinava, ma cantò con tutto il suo cuore, e la bellezza del suo
    canto era molto più di una melodia gradevole alle orecchie.
    Nel suo semplice canto, celebrò le virtù del suo uomo come guerriero e come marito. Stava
    per terminare, quando le vennero in mente degli altri versi:

    Era un grande uomo,
    era grande per me.


    Fece una pausa prima di cantarli. Sollevando verso il cielo gli occhi chiusi, Mano Alzata sfilò
    il coltello dalla guaina e incise con la lama la pelle della fronte. Abbassò la testa e cercò di
    guardare in su verso il taglio. Stava sanguinando. Riprese a cantare, tenendo saldamente
    il coltello in una mano.
    Nell'ora che seguì, si praticò altri tagli. Le incisioni erano poco profonde, ma sanguinavano
    copiosamente e questo le fece piacere. A mano a mano che la sua testa diventava più
    leggera, la sua concentrazione aumentava.
    Il canto era bello. Raccontava l'intera storia delle loro vite come non sarebbe stato possibile
    fare se fosse stata raccontata. Pur senza essere dettagliata, non tralasciò nulla.
    Alla fine, quando ebbe formato un bellissimo verso in cui implorava il Grande Spirito di dargli
    un posto onorevole nel mondo al di là del sole, un'improvvisa ondata di emozione la sommerse.
    C'era poco di cui non avesse cantato. Aveva terminato e quello significava l'addio.
    Gli occhi le si riempirono di lacrime, mentre sollevava la veste di daino per tagliarsi una delle
    cosce. Passò velocemente la lama da un lato all'altro della gamba e restò un attimo senza
    fiato. Questa volta. il taglio era molto profondo. Doveva aver tagliato una grossa vena o
    un'arteria, perché quando abbassò lo sguardo Mano Alzata vide che il sangue usciva
    copiosamente a ogni battito del cuore.
    Avrebbe potuto cercare di arrestare il sangue, oppure continuare a cantare.
    Mano Alzata prese quest'ultima decisione. Sedette con le gambe allungate lasciando che il
    sangue colasse nel terreno, sollevò la testa e cantò con voce lamentosa le parole:

    Sarà dolce morire.
    Sarà dolce andare con lui,
    io lo seguirò.




    (continua)



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    00 05/10/2007 08:28
    (segue)

    Poiché il vento le soffiava sul viso, non lo sentì avvicinarsi.
    L'uomo a cavallo aveva notato l'altura in lontananza e aveva deciso che sarebbe stato
    un buon posto per dare un'occhiata intorno. Se anche da lassù non fosse riuscito a
    vedere niente, avrebbe potuto salire su quel vecchio albero.
    Il tenente Dunbar era a metà della leggera salita quando il vento portò alle sue orecchie
    un suono strano e triste. Cautamente, superò la sommità della collina e vide qualcuno
    seduto a poca distanza, proprio davanti a lui. Aveva la schiena girata. Non poteva dire
    con sicurezza se si trattasse di un uomo o di una donna. Ma era indubbiamente un
    indiano.
    Un indiano che cantava.
    Era ancora in groppa a Cisco quando l'indiano si voltò verso di lui.


    Non avrebbe potuto dire che cosa fosse, ma improvvisamente Mano Alzata si accorse
    che c'era qualcosa dietro di lei e si girò a guardare.
    Ebbe solo una rapida visione della faccia sotto il berretto, prima che un improvviso colpo
    di vento facesse avvolgere la bandiera colorata attorno alla testa dell'uomo.
    Ma quella breve occhiata fu sufficiente. Le disse che si trattava di un soldato bianco.
    Non balzò in piedi né corse via. C'era qualcosa che l'affascinava, nell'immagine di quel
    solitario soldato. La grande bandiera colorata e il cavallo dal pelo lucido, e il sole che
    faceva luccicare gli ornamenti dei suoi abiti. E ora vedeva nuovamente il viso, mentre
    la bandiera si scostava: un viso giovane, duro, con gli occhi che splendevano. Mano
    Alzata batté più volte le palpebre, incerta se quella che era davanti a lei fosse una
    visione o una persona. Nulla si era mosso, se non la bandiera.
    Poi il soldato si mosse sulla sella. Era reale. Si tirò su in ginocchio e cominciò ad arretrare
    lungo la discesa. Non emise un suono, né si affrettò. Mano Alzata si era svegliata da un
    incubo per ritrovarsi in un altro, un incubo che era reale. Si muoveva lentamente perché
    era troppo inorridita per fuggire.


    Dunbar rimase colpito quando vide il suo viso. Non pronunciò le parole, nemmeno nella sua
    testa, ma se lo avesse fatto, il tenente avrebbe detto qualcosa come: << Che genere di donna
    è questa? >>
    Il piccolo viso affilato, i capelli rosso ciliegia arruffati e gli occhi intelligenti, abbastanza
    selvaggi da poter essere amati o odiati con uguale intensità, lo avevano lasciato
    completamente interdetto. Non lo sfiorò l'idea che potesse non essere un'indiana. In quel
    momento aveva in mente solo una cosa.
    Non aveva mai visto una donna con un aspetto così strano.
    Prima che potesse muoversi o parlare, la donna si tirò su in ginocchio e Dunbar vide che
    era coperta di sangue.
    << Oh, mio Dio >>, mormorò.
    Fu soltanto quando la donna ebbe arretrato giù lungo la discesa che sollevò una mano e
    disse piano: << Aspetta >>.
    Al suono della parola, Mano Alzata si alzò e cominciò a correre, incespicando nel terreno.
    Il tenente Dunbar la seguì al trotto, continuando a chiederle di fermarsi. Quando fu a qualche
    metro da lei, Mano Alzata gettò uno sguardo alle sue spalle, inciampò e cadde nell'erba.
    Quando Dunbar le arrivò vicino, si stava trascinando carponi nell'erba e ogni volta che lui
    cercava di chinarsi, doveva ritirarsi, come se avesse paura di toccare un animale ferito.
    Quando finalmente l'afferrò intorno alle spalle, lei si girò di colpo e cercò di graffiargli la
    faccia.
    << Sei ferita >>, disse lui, cercando di respingere le sue mani. << Sei ferita. >>
    Per qualche secondo Mano Alzata si difese con furia, poi lui riuscì ad afferrarla per i polsi.
    Con le ultime forze che le erano rimaste, cercò di liberarsi, scalciando furiosamente e in
    quel mentre accadde qualcosa di strano.
    Nel delirio della sua lotta, una vecchia parola in inglese, una che non diceva da anni, le
    salì alle labbra. Uscì dalla sua bocca prima che potesse fermarla.
    << No! >>
    Si fermarono entrambi, il tenente Dunbar non riusciva a credere di averla udita e Mano
    Alzata non riusciva a credere di averla detta.
    Gettò indietro la testa e si lasciò cadere per terra. Era troppo per lei. Mormorò qualche
    parola in comanci e svenne.


    La donna sdraiata nell'erba continuava a respirare. La maggior parte delle sue ferite erano
    superficiali, ma quella sulla coscia era pericolosa. Il sangue usciva copiosamente e il
    tenente si sarebbe preso a calci per aver buttato la sua fascia rossa una o due miglia
    prima. Sarebbe andata benissimo per fare un laccio.
    Era stato sul punto di gettare via dell'altro. Più cavalcava e meno vedeva, e più ridicolo
    gli sembrava il suo piano. Aveva buttato la fascia rossa come qualcosa di inutile, di
    sciocco, ed era pronto a riavvolgere la bandiera (anche quella gli sembrava altrettanto
    sciocca) e a ritornare a Fort Sedgewick, quando aveva visto l'altura e l'albero solitario.
    La sua cintura era nuova e troppo rigida, così prese il coltello della donna, tagliò una
    striscia dalla bandiera e la legò in alto attorno alla coscia. Il flusso di sangue diminuì
    subito, ma bisognava comprimere il taglio. Si tolse l'uniforme, scivolò fuori dalla lunga
    maglia che portava sotto e la tagliò a metà. Avvolse la parte superiore e la premette
    sulla ferita.
    Per dieci, terribili minuti il tenente Dunbar restò inginocchiato accanto a lei nell'erba,
    nudo, premendo forte con entrambe le mani sulla compressa improvvisata. Appoggiò
    cautamente un orecchio sul petto di lei e ascoltò. Il cuore batteva ancora.
    Trovarsi in quella situazione da solo era difficile e snervante, senza sapere chi fosse la
    donna, senza sapere se sarebbe vissuta oppure morta. Faceva caldo, lì nell'erba, e
    ogni volta che con la mano si detergeva il sudore che gli colava negli occhi, lasciava una
    striscia di sangue sulla sua faccia. E ogni volta guardava frustrato il sangue che rifiutava
    di arrestarsi. Allora, sostituiva la compressa.
    Ma continuò.
    Finalmente, quando il sangue divenne solo un rivolo, passò all'azione. Il taglio aveva
    bisogno di essere cucito, ma questo era impossibile. Tagliò una gamba della lunga
    maglia, la ripiegò fino a farne una benda e l'avvolse intorno alla ferita. Poi, lavorando
    il più velocemente possibile, il tenente tagliò un'altra striscia della bandiera e la legò
    strettamente intorno alla benda. Ripeté la stessa cosa con le ferite minori alle braccia.
    Mentre lavorava, Mano Alzata cominciò a gemere. Aprì gli occhi per alcune volte, ma
    era troppo debole per fare qualsiasi movimento, persino quando lui prese la sua
    borraccia e le versò un sorso di acqua fra le labbra.
    Dopo che ebbe fatto tutto quanto poteva come medico, Dunbar si rimise l'uniforme,
    chiedendosi che cosa fare mentre si allacciava i bottoni dei pantaloni e della giubba.
    Vide il pony della donna non molto lontano, nella prateria, e pensò di andarlo a recuperare.
    Ma quando guardò la donna che giaceva nell'erba, la cosa gli parve senza senso. Sarebbe
    stata in grado di cavalcare, ma avrebbe avuto bisogno di aiuto.
    Dunbar guardò il cielo verso Ovest. La nuvola di fumo era quasi sparita. Rimaneva soltanto
    qualche sbuffo. Se si fosse affrettato, sarebbe riuscito a orientarsi in quella direzione
    prima che la nuvola sparisse del tutto.
    Fece scivolare le braccia sotto il corpo della donna, la sollevò e la caricò il più delicatamente
    possibile in groppa a Cisco, con l'intenzione di condurre il cavallo a mano. Ma la ragazza
    era semiscosciente e non appena si fu avviato, fu nuovamente sul punto di svenire.
    Reggendola con una mano, riuscì a salire in groppa dietro di lei. La girò verso di sé e con
    l'aspetto di un padre che culla la figlia malata, voltò il cavallo in direzione della nuvola
    di fumo.
    Mentre Cisco li trasportava attraverso la prateria, il tenente pensò al piano che aveva
    congegnato per impressionare gli indiani selvaggi. Adesso, non aveva certo un aspetto
    possente o molto ufficiale. C'era del sangue sulla sua giubba e sulle sue mani. La ragazza
    era fasciata con la sua maglia e una bandiera degli Stati Uniti.
    Era meglio così. Quando pensava a ciò che aveva fatto, girando poco dignitosamente
    e come uno stupido per la prateria con gli stivali lucidati e una fascia rossa alla vita e,
    oltre a tutto, con una bandiera al fianco, il tenente sorrise impacciato.
    Devo essere un idiota, pensò.
    Guardò i capelli color rosso ciliegia al disotto del suo mento e si chiese che cosa dovesse
    aver pensato quella povera donna, vedendolo con quella messinscena.
    Mano Alzata non pensava a nulla. Tutto era indistinto. Provava solo delle sensazioni. Sentiva
    il dondolio del cavallo sotto di lei, sentiva il braccio attorno alla sua schiena e sentiva la
    strana stoffa contro il suo viso. Ma, soprattutto, Mano Alzata si sentiva al sicuro e per tutto
    il cammino tenne gli occhi chiusi, timorosa che, se li avesse aperti, la sensazione se ne
    sarebbe andata.


    (continua)



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    (segue)


    13



    Faccia sorridente non era un ragazzo di cui ci si potesse fidare. Nessuno lo avrebbe
    definito un piantagrane, ma Faccia Sorridente detestava il lavoro e a differenza della
    maggior parte dei ragazzi indiani, l'idea di assumersi delle responsabilità lo lasciava
    del tutto freddo.
    Era un sognatore e, come spesso fanno i sognatori, Faccia Sorridente aveva imparato
    che uno dei migliori espedienti per evitare la noia del lavoro era quello di starsene in
    disparte.
    Ne conseguiva, quindi, che l'indolente ragazzino passasse quanto più tempo possibile
    con il grosso branco di pony della tribù. Otteneva quest'incombenza regolarmente, in
    parte perché era sempre pronto a offrirsi di andare e in parte perché, all'età di dodoci
    anni, era diventato un esperto in fatto di cavalli.
    Faccia Sorridente era in grado di prevedere con l'approssimazione di poche ore quando
    una cavalla avrebbe sgravato. Aveva l'abilità di tenere sotto controllo gli stalloni turbolenti
    e quando si trattava di curarli, sapeva che cosa fare per i loro malanni quanto qualsiasi
    altro adulto della tribù, se non di più. Quando c'era lui, sembrava proprio che i cavalli se
    la passassero meglio.
    Tutto questo era una seconda natura per Faccia Sorridente... una seconda natura e
    secondario. Ciò che più gli piaceva del fatto di stare con i cavalli era che questi pascolavano
    lontano dal campo, a volte fino a un miglio di distanza, e questo faceva stare lontano anche lui,
    lontano dagli occhi onnipotenti di suo padre, lontano dal probabile incarico di accudire ai
    fratellini e alle sorelline, lontano dall'interminabile lavoro che richiedeva il mantenere un
    accampamento.
    Di solito, attorno al branco giravano altri ragazzi, ma a meno che non saltasse fuori niente
    di speciale, Faccia Sorridente si univa raramente ai loro giochi.
    Preferiva montare in groppa a qualche tranquillo castrato, distendendosi lungo la schiena
    del cavallo e sognando, a volte per ore, mentre il cielo sempre mutevole scorreva al disopra
    di lui.
    Era rimasto a sognare in questo modo per gran parte del pomeriggio, felice di essere lontano
    dal villaggio ancora scosso per il tragico ritorno del gruppo che era andato all'attacco degli
    ute. Faccia Sorridente sapeva che, anche se non era molto interessato a combattere, presto
    o tardi avrebbe dovuto scendere sul sentiero di guerra e aveva già preso mentalmente nota
    di tenersi alla larga dai gruppi che sarebbero scesi contro gli ute.
    Per l'ultima mezz'ora si era goduto l'insolito lusso di essere da solo con il branco. Gli altri
    bambini erano stati richiamati al villaggio per un motivo o per l'altro, ma nessuno era venuto
    a cercare lui e questo lo rendeva il più felice dei sognatori. Con un po' di fortuna, non avrebbe
    dovuto tornare se non fino a quando fosse stato buio, e mancavano ancora parecchie ore
    al tramonto.
    Era allungato sulla schiena di un cavallo, sognando a occhi aperti di essere padrone di un
    branco tutto suo, un branco che sarebbe sembrato una grossa adunata di guerrieri che nessuno
    avrebbe osato sfidare, quando notò un movimento sul terreno.
    Era un gopher, un grosso serpente giallo. Chissà come, si era perso nel bel mezzo di tutti
    quegli zoccoli che si muovevano continuamente e strisciava da una parte all'altra alla disperata
    ricerca di una via d'uscita.
    A Faccia Sorridente piacevano i serpenti e questo era sicuramente abbastanza grosso e
    vecchio da essere nonno. Un nonno nei pasticci. Saltò giù dalla sua comoda posizione con
    l'idea di acchiappare il poveretto e di portarlo via da quel posto pericoloso.
    Il vecchio serpente non era facile da prendere. Strisciava velocemente e Faccia Sorridente
    continuava a venire urtato dai pony ammucchiati fra di loro. Il ragazzo doveva continuamente
    chinarsi sotto un collo o un ventre, e fu soltanto grazie alla ostinata determinazione di buon
    samaritano che riuscì a non perdere di vista il corpo giallo che zigzagava veloce sul terreno.
    Finì bene. Vicino al bordo del branco il serpente finalmente trovò un buco in cui infilarsi e la
    sola cosa che Faccia Sorridente riuscì a vedere fu la coda che spariva nel terreno.
    Era ancora intento a guardare il buco quando alcuni dei cavalli del branco si misero a nitrire,
    e Faccia Sorridente notò che rizzavano le orecchie. Improvvisamente, vide che le teste dell'intero
    branco si giravano nella stessa direzione.
    Avevano visto arrivare qualcosa.
    Il ragazzo fu scosso da un brivido e l'euforia di starsene da solo si rivoltò contro
    di lui in un solo colpo. Aveva paura, ma si mosse furtivamente, tenendosi basso in mezzo
    ai pony, sperando di vedere prima di essere visto.
    Quando riuscì a scorgere degli scorci di prateria vuoti davanti a lui, Faccia Sorridente si accucciò
    e si spostò a lato delle zampe dei cavalli. Non si erano spaventati e questo diminuiva la sua
    paura, ma continuavano a guardare con la stessa curiosità e il ragazzo fece attenzione a non
    fare il minimo rumore.
    Quando vide il cavallo, a venti o trenta passi di distanza, si fermò. Non aveva potuto vedere bene
    perché le zampe dei cavalli gli ostruivano la vista, ma era sicuro di aver visto anche delle gambe.
    Lentamente si sollevò e sbirciò al disopra della groppa di un pony. Ogni capello che aveva in testa
    si mise a formicolare. Nella testa gli scoppiò un fragore simile a uno sciame di api impazzite.
    La bocca del ragazzo si bloccò e lo stesso accadde ai suoi occhi. Non batté ciglio, Non ne aveva
    mai visto uno prima, ma sapeva esattamente che cosa stesse guardando.
    Era un uomo bianco. Un soldato bianco con il viso sporco di sangue.
    E c'era qualcuno con lui. Quella strana donna, quella donna di nome Mano Alzata.
    Sembrava ferita. Le sue braccia e le sue gambe erano fasciate con del tessuto dall'aspetto
    strano. Forse era morta.
    Mentre passavano davanti a lui, il cavallo dell'uomo bianco si mise a trottare. Si stava dirigendo
    al villaggio. Era troppo tardi per correre avanti e dare l'allarme. Faccia Sorridente si ritrasse
    in mezzo al branco e cominciò a pensare al suo rientro all'accampamento. Avrebbe passato
    dei guai per questo. Che poteva fare?
    Il ragazzo non riusciva a pensare chiaramente; nella sua testa tutto turbinava vorticosamente
    Se fosse stato un po' più ragionevole, avrebbe capito dall'espressione della faccia che l'uomo
    bianco non aveva intenzioni ostili. Nulla, nel suo atteggiamento, lo indicava. Ma le uniche parole
    che rimbalzavano nel cervello di Faccia Sorridente erano: << Uomo bianco, uomo bianco >>.
    Improvvisamente pensò: << Forse ve ne sono altri. Forse vi è un esercito di uomini bianchi,
    fuori nella prateria. Forse sono vicini >>.
    Pensando soltanto a riparare alla propria leggerezza, Faccia Sorridente si sfilò la briglia di
    salice che teneva attorno al collo, la passò sul muso di un pony dall'aspetto robusto e lo portò
    giù il più silenziosamente possibile fuori dal branco.
    Poi balzò in groppa e frustò il pony al galoppo, allontanandosi nella direzione opposta al
    villaggio, scrutando ansiosamente l'orizzonte per vedere se vi fosse qualche segno dei soldati
    bianchi.


    (continua)



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    00 09/10/2007 10:01
    (segue)


    Il tenente Dunbar era rimasto sbalordito. Quel branco di pony... Dapprima aveva pensato
    che la prateria si stesse muovendo. Non aveva mai visto tanti cavalli tutti insieme. Ce
    n'erano seicento, forse settecento. Era un branco talmente enorme che aveva avuto la
    tentazione di fermarsi a guardare. Ma non poteva.
    Aveva una donna fra le braccia.
    Aveva resistito abbastanza bene. Il suo respiro era regolare e non aveva perso molto
    sangue. Era rimasta anche molto tranquilla, ma per quanto fosse piccola, la donna gli
    stava spezzando la schiena. L'aveva trasportata in quel modo per più di un'ora e adesso
    che era vicino, il tenente non desiderava altro che arrivare. Di lì a breve il suo destino
    sarebbe stato deciso e questo gli faceva accelerare il sangue, ma più che a ogni altra cosa,
    pensava al mostruoso dolore fra le sue scapole. Lo stava uccidendo.
    La leggera salita davanti a lui stava finendo e a mano a mano che si avvicinava al ciglio
    riuscì a scorgere degli scorci del fiume attraversare la prateria, poi le punte di qualcosa
    e quando arrivò alla fine della salita, l'accampamento si presentò alla sua vista, sorgendo
    davanti ai suoi occhi come aveva fatto la luna la notte prima.
    Inconsciamente il tenente tirò le redini. Doveva smetterla. Era sempre in contemplazione
    di qualche visione.
    Lungo il fiume erano piantate cinquanta o sessanta tende di forma conica costruite con
    delle pelli. Avevano un aspetto calmo e tranquillo alla luce del sole del tardo pomeriggio,
    ma le ombre che proiettavano le facevano anche apparire più grandi delle loro reali dimensioni,
    come dei monumenti antichi che vivevano ancora.
    Poteva vedere della gente affaccendata attorno alle tende. Poteva sentire alcune delle loro
    voci mentre camminavano per i sentieri tracciati dal calpestio dei piedi fra le varie tende.
    Sentì ridere, e questo in qualche modo lo sorprese. C'era dell'altra gente lungo il fiume.
    Qualcuno era nell'acqua.
    Il tenente rimase immobile in groppa a Cisco, stringendo la donna che aveva trovato, i suoi
    sensi sopraffatti dalla forza di quel quadro senza età, come la tela di un dipinto vivente
    che venisse svolta davanti ai suoi occhi. Una civiltà primitiva, completamente intatta.
    E lui era lì.
    Era qualcosa che andava oltre le sue capacità di immaginazione e allo stesso tempo capì
    che questo era ciò per cui era venuto, che al centro del suo desiderio di essere assegnato
    ai territori dell'Ovest vi era questo. Senza che ne fosse stato consapevole, era questo che
    aveva anelato di vedere.
    Quei momenti che scorrevano veloci, lì sul ciglio della salita, non sarebbero tornati mai più
    nella sua vita mortale. Per quei pochi, fuggevoli momenti, divenne parte di qualcosa di più
    grande che cessò di essere un tenente, o un uomo, o persino un corpo fatto di organi
    funzionanti. Per quei momenti fu uno spirito, sospeso nel vuoto spazio senza tempo
    dell'universo. Per quei pochi, preziosi secondi, conobbe la sensazione dell'eternità.
    La donna tossì. Si mosse contro il suo petto e con la mano Dunbar le batté alcuni colpetti
    affettuosi sulla nuca.
    Schioccò le labbra e Cisco si avviò giù per la discesa. Avevano percorso soltanto pochi metri
    quando Dunbar vide una donna con due bambini salire da una fenditura del terrapieno lungo
    la riva del fiume.
    E loro videro lui.

    La donna lanciò un urlo, lasciando cadere a terra l'acqua che stava trasportando. Afferrò i
    bambini e si mise a correre verso il villaggio, gridando: << Soldato bianco, soldato bianco >>,
    con quanto fiato aveva in gola. Come dei petardi scoppiarono dei furiosi latrati di cani, le
    donne si precipitarono con grida acute a raccogliere i loro bambini, mentre i cavalli si misero
    a scalpitare attorno alle tende nitrendo selvaggiamente. Un vero pandemonio.
    L'intera tribù pensava di essere stata attaccata.
    Mentre si avvicinava ancora di più al villaggio, il tenente Dunbar poteva vedere degli uomini
    correre in ogni direzione. Quelli che erano riusciti a prendere le armi correvano verso i loro
    cavalli in un modo talmente convulso da ricordargli della selvaggina presa dal panico. Il
    villaggio nel caos era altrettanto ultraterreno del villaggio immerso nella quiete. Era come
    un grosso vespaio fatto di persone in cui qualcuno avesse ficcato un bastone.
    Gli uomini che avevano raggiunto i propri cavalli si stavano riunendo a formare una forza di
    attacco che da un istante all'altro si sarebbe precipitata ad affrontarlo, forse a ucciderlo. Non
    si era aspettato di creare un'agitazione simile, né si era aspettato che quella gente fosse così
    primitiva. Ma c'era qualcosa che gravava su di lui mentre si avvicinava al villaggio, qualcosa
    che annullava tutto il resto. Per la prima volta nella sua vita, il tenente Dunbar capì che volesse
    dire sentirsi un invasore. Era una sensazione che non gli piaceva ed ebbe parecchio a che
    vedere con ciò che fece in seguito. Essere considerato un intruso era l'ultima cosa che voleva
    e quando raggiunse il terreno sgombrato dall'erba all'imbocco del villaggio, quando fu abbastanza
    vicino da riuscire a vedere attraverso la cortina di polvere sollevata dal trambusto e a guardare
    negli occhi delle persone che vi stavano nel mezzo, tirò nuovamente le redini e fermò il cavallo.
    Poi smontò, prendendo fra le braccia la donna, e fece un paio di passi piazzandosi davanti al
    suo cavallo. Lì si fermò, con gli occhi chiusi, reggendo la ragazza ferita come uno strano viaggiatore
    che portasse uno strano regalo.
    Il tenente Dunbar ascoltò attentamente mentre il villaggio, gradatamente ma nel volgere di pochi
    secondi, diventava stranamente calmo. La cortina di polvere cominciò a diradarsi e Dunbar
    percepì con le orecchie che la massa di umanità che solo pochi momenti prima aveva sollevato
    quel pauroso clamore ora stava lentamente muovendosi verso di lui. Nella calma irreale poteva
    distinguere il suono metallico di qualche arnese, il fruscio dei passi, un cavallo che sbuffava mentre
    scalpitava e si agitava nervosamente.
    Aprì gli occhi per vedere che l'intera tribù si era riunita all'entrata del villaggio, i guerrieri e i giovani
    davanti a tutti e dietro di loro le donne e i bambini. Era un sogno popolato di gente selvaggia,
    vestiti di pelli e di tessuti colorati, una razza completamente diversa di esseri umani che lo
    osservavano senza fiato a nemmeno cento metri da lui.
    La ragazza era pesante fra le sue braccia. Quando Dunbar si mosse per cambiare posizione,
    dalla folla si levò un brusio che si spense subito. Ma nessuno si mosse verso di lui.
    Un gruppo di anziani, evidentemente degli uomini che avevano autorità, si misero a consultarsi
    mentre la loro gente rimaneva in attesa, mormorando fra di loro in toni gutturali così estranei
    all'orecchio del tenente che sembravano a malapena delle parole.
    Lasciò che la sua attenzione vagasse durante quella pausa momentanea e, quando gettò lo
    sguardo su un manipolo di una decina di guerrieri, gli occhi del tenente caddero su una faccia
    familiare. Era lo stesso uomo, il guerriero che gli aveva abbaiato furiosamente delle frasi
    il giorno dell'incursione a Fort Sedgewick. Vento-nei-capelli ricambiò lo sguardo con tale
    intensità che Dunbar quasi si voltò per vedere se ci fosse qualcuno dietro di lui.
    Le sue braccia erano di piombo e non era certo di riuscire a muoverle nuovamente ma, con lo
    sguardo del guerriero sempre fisso su di lui, Dunbar sollevò la ragazza un po' più in alto, come
    se volesse dire: << Ecco... prendila >>.


    (continua)



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    (segue)

    Sconcertato per questo gesto improvviso e inaspettato, il guerriero esitò, lanciando
    rapide occhiate alla folla, evidentemente chiedendosi se questo silenzioso scambio
    fosse stato notato da qualcun altro. Quando tornò a guardarlo, il tenente teneva ancora
    gli occhi su di lui, le braccia atteggiate nello stesso gesto.
    Con un sospiro di sollievo dentro di sé, il tenente Dunbar vide Vento-nei-capelli balzare
    giù dal pony e avanzare sul terreno sgombro, facendo oscillare leggermente l'ascia di
    guerra che impugnava. Si stava avvicinando e se il guerriero provava della paura, questa
    era ben mascherata, perché la sua faccia era ferma e risoluta, atteggiata, sembrava,
    nell'espressione di chi elargisce una punizione.
    Fra la folla riunita si fece improvvisamente il silenzio, mentre la distanza fra il tenente Dunbar
    e il guerriero che avanzava a lunghi passi si riduceva fino a scomparire. Era troppo tardi per
    impedire qualsiasi cosa che stesse per succedere. Tutti rimasero immobili a guardare.
    Di fronte a ciò che stava venendo verso di lui, il tenente Dunbar non avrebbe potuto mostrare
    maggiore coraggio. Rimase fermo dov'era senza battere ciglio e anche se la sua faccia non
    mostrava dolore, non mostrava nemmeno paura.
    Quando Vento-nei-capelli fu a pochi metri da lui e rallentò il passo, il tenente disse con voce
    chiara e forte: << E' ferita >>.
    Sollevò leggermente il suo carico mentre il guerriero guardava il viso della donna, e Dunbar
    capì che l'aveva riconosciuta. La sorpresa di Vento-nei-capelli era così evidente, che per un
    momento il pensiero che la donna potesse essere morta attraversò come un lampo la sua
    mente. Anche il tenente abbassò lo sguardo su di lei.
    In quel momento, la donna gli venne strappata dalle braccia. Con un solo, potente movimento,
    era stata tolta dalla sua presa e prima che Dunbar se ne rendesse conto, il guerriero stava
    dirigendosi con Mano Alzata verso il villaggio, trascinandola rudemente con sé come un cane
    trascina un cucciolo.
    Mentre camminava verso la folla, gridò qualcosa che suscitò una generale esclamazione di
    sorpresa fra i comanci. Tutti si precipitarono incontro a lui.
    Il tenente rimase immobile davanti al suo cavallo e mentre l'intero villaggio si ammassava
    intorno a Vento-nei-capelli, sentì che ogni energia lo abbandonava. Questa non era la sua
    gente. Non li avrebbe mai conosciuti. Era come se fosse distante migliaia di miglia da loro.
    Desiderò di potersi fare piccolo, tanto piccolo da scomparire nel buco più piccolo e più
    buio.
    Che cosa si era aspettato da questa gente? Doveva aver pensato che si sarebbero precipitati
    ad abbracciarlo, che avrebbero parlato la sua lingua, lo avrebbero invitato a cena e riso con
    lui a un semplice salve! da parte sua. Come doveva essere solo. Come era pietoso, a nutrire
    una qualsiasi aspettativa, afferrandosi anche a questa paglia remota per non affogare,
    accarezzando delle speranze tanto vaste da non riuscire a essere onesto con se stesso. Si era
    illuso di tutto, illuso di pensare che fosse qualcosa, quando invece non era niente.
    Quei pensieri terribili gli attraversavano la mente come una scarica di scintille sconnesse e dove
    ora si trovasse, di fronte a questo primitivo villaggio, non aveva la minima importanza. Il tenente
    Dunbar stava per essere sopraffatto da una morbosa crisi personale. Come del gesso cancellato
    con un solo gesto dalla lavagna, il suo coraggio e la sua speranza lo avevano abbandonato
    nello stesso tempo. Da qualche parte, dentro di lui, era stato girato un interruttore e la luce del
    tenente Dunbar si era spenta.
    Dimentico di tutto all'infuori di quella sensazione di vuoto dentro di lui, l'infelice tenente balzò in
    groppa a Cisco, afferrò le redini facendogli fare un giro su se stesso e si avviò ad andatura
    sostenuta nella stessa direzione da cui era venuto. Avvenne in modo così poco ostentato che
    i già indaffarati comanci non si resero conto che se ne stava andando finché non aveva già
    percorso una buona distanza.
    Due animosi adolescenti fecero per inseguirlo, ma vennero prontamente trattenuti dagli imperturbabili
    anziani della cerchia di Dieci Orsi. Avevano abbastanza buon senso da sapere che era stata
    compiuta una buona azione, che il soldato bianco aveva riportato uno di loro e che non vi era
    nulla da guadagnare a dargli la caccia.


    La cavalcata di ritorno verso il forte fu la più lunga e la più agonizzante del tenente Dunbar. Per
    parecchie miglia cavalcò in uno stato di stordimento, con la mente agitata da migliaia di pensieri
    sterili. Resistette alla tentazione di piangere nello stesso modo in cui si cerca di resistere ai
    conati di vomito, ma l'autocommiserazione premeva incessantemente su di lui, un'ondata dopo
    l'altra, e alla fine cedette.
    Strinse le spalle e crollò in avanti, e le lacrime cominciarono a sgorgare senza un suono. Ma
    quando cominciò ad aspirare con il naso, le dighe cedettero completamente. La sua faccia si
    contorse in una smorfia grottesca e cominciò a gemere irrefrenabilmente come un isterico.
    Mentre si abbandonava a queste convulsioni, allentò le redini a Cisco e mentre le miglia si
    accumulavano senza che se ne rendesse conto, lasciò che il suo cuore sanguinasse
    liberamente, singhiozzando pietosamente come un bambino inconsolabile.

    Non vide il forte. Quando Cisco si fermò, il tenente alzò lo sguardo e vide che si trovavano
    di fronte ai suoi alloggi. Ogni energia gli era stata tolta e per qualche secondo fu come se
    tutto ciò che riuscisse a fare, fosse di restare in stato di abulia in groppa al suo cavallo.
    Quando infine sollevò nuovamente la testa, vide Due Calzini, appostato nel solito punto sul
    promontorio al di là del fiume. La vista del lupo, seduto in paziente attesa come un eccellente
    cane da caccia, il suo muso così gradevolmente interrogativo, fece salire un nuovo groppo
    di dolore alla gola del tenente. Ma aveva pianto tutte le sue lacrime.
    Scese goffamente dal cavallo, tolse il morso dal muso di Cisco e si trascinò fino alla porta.
    Lasciando cadere la briglia sul pavimento, si buttò sul giaciglio, si tirò una coperta fin sulla testa
    e si raggomitolò.
    Era talmente esausto da non riuscire a dormire. Per qualche motivo continuava a pensare a Due
    Calzini, in paziente attesa là fuori. Con uno sforzo sovrumano si trascinò fuori dal letto, barcollò
    fino alla soglia e lanciò un'occhiata al di là del fiume.
    Il vecchio lupo era ancora seduto al suo posto, così il tenente camminò come un sonnambulo
    fino al deposito e tagliò un grosso pezzo di pancetta. La portò fino al promontorio e, mentre
    Due Calzini osservava con attenzione, la lasciò cadere sul terreno erboso vicino al ciglio.
    Poi, pensando al sonno a ogni passo che faceva, buttò a Cisco un po' di fieno e si ritirò nei
    suoi alloggi. Come un soldato colpito a morte, crollò in avanti sul pagliericcio e tirò su la
    coperta coprendosi gli occhi.
    Gli apparve il viso di una donna, un viso che emergeva dal passato e che conosceva bene.
    Aveva un sorriso timido sulle labbra e i suoi occhi risplendevano di una luce che può venire
    solamente dal cuore. Nei momenti difficili era sempre ricorso a quel viso, e il viso era sempre
    venuto a confortarlo. C'era molto di più dietro quel viso, una lunga storia senza un lieto fine,
    ma il tenente Dunbar non pensò a quello. Il viso e quello sguardo meraviglioso erano tutto ciò
    che voleva ricordare, e vi si aggrappò con tenacia. Lo usava come un farmaco. Era il più
    potente farmaco per scacciare il dolore che conoscesse. Non pensava spesso a lei, ma portava
    il suo viso con sé, usandolo soltanto quando era sul punto di toccare il fondo.
    Rimase sdraiato senza fare un movimento, come un fumatore di oppio, e alla fine l'immagine
    che conservava nella mente cominciò a fare effetto. Stava già russando quando apparve
    Venere, la prima di una lunga parata di stelle nel cielo infinito della prateria.



    (continua)



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    00 12/10/2007 16:54
    (segue)


    14



    Pochi minuti dopo che l'uomo bianco se ne era andato, Dieci Orsi riunì nuovamente il
    consiglio della tribù. A differenza delle altre riunioni, iniziate e finite nella confusione,
    Dieci Orsi ora sapeva esattamente che cosa fare. Aveva deciso un piano prima ancora
    che l'ultimo degli anziani si fosse messo a sedere nella sua tenda.
    Il soldato bianco con la faccia sporca di sangue aveva riportato Mano Alzata e Dieci Orsi
    era convinto che questa sorpresa fosse un ottimo auspicio. Da troppo tempo il problema
    della razza bianca infastidiva i suoi pensieri. Da anni, non riusciva a vedere niente di buono
    nel loro arrivo. Ma lo voleva disperatamente. Oggi aveva finalmente visto qualcosa di buono,
    e adesso era deciso a non lasciar sfuggire quella che considerava un'occasione d'oro.
    Il soldato bianco aveva dimostrato un notevole coraggio a venire da solo al loro accampamento.
    Ed era ovviamente venuto con una sola intenzione... non per rubare o imbrogliare o attaccarli,
    ma per restituire qualcosa che aveva trovato, qualcosa che apparteneva a loro. Questi
    discorsi sugli dèi erano probabilmente sbagliati, ma una cosa era molto chiara a Dieci Orsi.
    Per il bene di tutti, si doveva venirne a sapere di più su questo soldato. Un uomo che si
    comportava come aveva fatto lui era destinato ad assumere una posizione importante fra i
    bianchi. Era possibile che già possedesse grande autorità e influenza. Un uomo come lui
    era qualcuno con cui potevano essere presi degli accordi. E senza accordi, sicuramente
    sarebbero venute la guerra e molte sofferenze.
    Così, Dieci Orsi si sentiva incoraggiato. Anche se si trattava di un evento isolato, il gesto di
    apertura a cui aveva assistito quel pomeriggio gli appariva come una luce nella notte e,
    mentre gli anziani prendevano posto nella sua tenda, pensava al modo migliore per mettere
    in pratica il proprio piano.
    Mentre ascoltava i preliminari, esprimendo qualche sporadico commento, Dieci Orsi esaminò
    mentalmente una rosa di uomini affidabili, cercando di decidere quale di questi sarebbe stato
    il più adatto per l'idea che aveva in mente.
    Fu soltanto dopo l'arrivo di Uccello Saltellante, che era stato trattenuto per accudire Mano Alzata,
    che il vecchio si rese conto che il suo non era un piano che richiedesse un solo uomo. Doveva
    mandare due uomini. Una volta deciso questo particolare, individuò rapidamente coloro che
    avrebbero dovuto essere prescelti. Doveva mandare Uccello Saltellante per le sue capacità
    di osservazione e Vento-nei-capelli per la sua natura impetuosa. Il carattere di ciascun uomo
    rappresentava lui e il suo popolo e i due uomini si completavano perfettamente a vicenda.
    Dieci Orsi fece in modo che il consiglio fosse di breve durata. Non voleva che si verificasse
    quel genere di discussioni prolungate che potevano provocare dell'indecisione. Quando venne
    il momento giusto, fece un discorso eloquente e ben articolato, enumerando le molte storie a
    proposito della superiorità numerica dei bianchi e dei mezzi di cui disponevano, specialmente
    in termini di fucili e di cavalli. Concluse con l'affermazione che l'uomo al forte era sicuramente
    un emissario e che la buona azione da lui compiuta doveva rappresentare un motivo per parlare,
    non per combattere.
    Alla fine del suo discorso vi fu un lungo silenzio. Tutti sapevano che aveva ragione.
    Fu Vento-nei-capelli a parlare.
    << Non credo sia giusto che tu vada a parlare con questo uomo bianco >>, disse. << Non è un dio,
    è soltanto un altro uomo bianco che a suo modo si è perduto. >>
    Mentre rispondeva, negli occhi del vecchio balenò una scintilla.
    << Non sarò io ad andare, ma degli uomini valorosi. Uomini che possano far vedere che cos'è un
    comanci. >>
    Fece una pausa, chiudendo gli occhi per creare un effetto drammatico. Trascorse un minuto e
    alcuni dei presenti pensarono che si fosse addormentato. Ma all'ultimo istante Dieci Orsi li socchiuse
    quel tanto che bastava per dire a Vento-nei-capelli: << Sarai tu ad andare. Tu e Uccello Saltellante >>.
    Poi richiuse gli occhi e si mise a sonnecchiare, ponendo fine al consiglio proprio al momento
    giusto.


    Il primo violento temporale della stagione arrivò quella notte, un fronte lungo quasi un miglio che
    avanzava al sordo boato dei tuoni e al secco crepitio delle saette. Violenti scrosci spazzarono
    la prateria come delle fitte cortine agitate dal vento, inducendo ogni cosa vivente a correre al
    riparo.
    Il rumore della pioggia svegliò Mano Alzata.
    La pioggia batteva sulle pareti della tenda come il rumore attutito di un centinaio di fucili e per
    alcuni momenti non si rese conto di dove si trovasse. C'era della luce e Mano Alzata si girò
    lentamente sul fianco per guardare il piccolo fuoco che ardeva al centro della tenda. Nel cambiare
    posizione, una delle sue mani sfiorò la ferita che aveva sulla coscia e sentì al tatto qualcosa di
    estraneo. Tastò attentamente e si rese conto che il taglio era stato ricucito.
    Allora, tutto le tornò alla mente.
    Fece scorrere lo sguardo assonnato intorno a lei, chiedendosi chi vivesse in quella tenda. Sapeva
    che non era la sua.
    Si sentiva la bocca arida. Tolse una mano da sotto le coperte e tastò intorno a lei. La prima cosa
    che le sue dita incontrarono fu una piccola ciotola riempita per metà d'acqua. Si sollevò su un
    gomito e bevve qualche lunga sorsata, poi si sdraiò nuovamente.
    Vi erano molte cose che voleva sapere, ma adesso era troppo difficile pensare. Sotto la coperta
    si sentiva al caldo come in estate, le ombre del fuoco danzavano allegramente al disopra della
    sua testa, la pioggia cantava la sua impetuosa ninnananna nelle sue orecchie, e lei era molto
    debole.
    Forse sto morendo, pensò, mentre le palpebre cominciavano ad abbassarsi, escludendo l'ultimo
    chiarore del fuoco dai suoi occhi. Ma non è sgradevole, si disse, mentre si addormentava.
    Ma Mano Alzata non stava morendo. Si stava riprendendo e ciò che aveva sofferto, una volta
    sanato, l'avrebbe resa più forte che mai.
    Dal male sarebbe venuto il bene. E il bene, in effetti, era già iniziato. Si trovava in un posto
    confortevole, un posto che sarebbe stato la sua casa per molto tempo ancora.
    Era nella tenda di Uccello Saltellante.



    (continua)


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    00 13/10/2007 16:15
    (segue)

    Il tenente Dunbar dormì come un sasso, consapevole soltanto vagamente dello spettacolo
    straordinario che stava avvenendo nel cielo al disopra di lui. La pioggia si accanì sulla
    piccola baracca per ore, ma lui si sentiva così riparato e al sicuro sotto la pila di coperte
    dell'esercito che il diavolo avrebbe anche potuto fargli visita senza che lui se ne accorgesse.
    Durante il sonno non si mosse nemmeno una volta, e fu soltanto dopo il levar del sole, quando
    il temporale era ormai passato, che lo spensierato e insistente canto di una stornella lo riportò
    finalmente alla realtà. La pioggia aveva rinfrescato ogni centimetro della prateria e ne avvertì
    il gradevole odore di umidità prima ancora che riuscisse ad aprire gli occhi. Sbattendo le
    palpebre si rese conto di essere sdraiato sulla schiena e, quando gli occhi si aprirono del
    tutto, la prima cosa che vide furono i suoi piedi in fondo al letto e la porta di entrata dietro di
    loro.
    Vi fu un rapido movimento, mentre qualcosa di basso e coperto di pelo si abbassava,
    allontanandosi dalla porta. Il tenente si tirò su a sedere, battendo le palpebre. Un istante dopo,
    gettò indietro le coperte e si diresse in punta di piedi all'entrata. Dall'interno, sbirciò con un
    occhio intorno allo stipite della porta.
    Due Calzini stava trotterellando fuori del riparo a tenda e si stava girando per sistemarsi al
    sole nello spiazzo. Vide il tenente e si irrigidì. Si guardarono l'un l'altro per alcuni secondi.
    Poi il tenente si sfregò gli occhi ancora assonnati e quando guardò nuovamente, vide che
    Due Calzini si era accucciato, con il muso appoggiato sul terreno fra le zampe anteriori come
    un cane fedele in attesa del padrone.
    Sentì Cisco nitrire insistentemente dal recinto e il tenente voltò la testa in quella direzione.
    Con l'angolo dell'occhio colse un simultaneo movimento e si girò in tempo per vedere Due
    Calzini galoppare fuori vista lungo il promontorio. Poi, mentre volgeva nuovamente lo sguardo
    al recinto, li vide.
    Erano in groppa ai loro pony a meno di un centinaio di metri davanti a lui. Non li contò, ma erano
    in otto.
    Due uomini si fecero improvvisamente avanti. Dunbar non si mosse ma, a differenza degli incontri
    precedenti, restò dov'era senza alcuna tensione. Era per il modo in cui stavano arrivando. Le
    teste dei loro pony ciondolavano mollemente mentre avanzavano adagio, noncuranti come dei
    lavoratori che ritornano a casa dopo una lunga e normale giornata di lavoro.
    Il tenente era nervoso, ma il suo nervosismo aveva poco a che fare con la vita o con la morte.
    Si stava chiedendo che cosa avrebbero detto e come avrebbe potuto eventualmente far loro
    capire le sue prime parole.


    Uccello Saltellante e Vento-nei-capelli si stavano chiedendo esattamente la stessa cosa. Il
    soldato bianco era per loro più estraneo di qualunque cosa che avessero mai incontrato o
    conosciuto e nessuno dei due sapeva come sarebbero potute andare le cose. Il vedere che
    la faccia dell'uomo bianco era ancora sporca di sangue non li fece sentire meglio per quanto
    riguardava l'incontro che stava per avvenire. In termini di ruoli, però, ognuno dei due uomini
    era diverso dall'altro. Vento-nei-capelli avanzava con l'atteggiamento del guerriero, un combattivo
    comanci. Era un momento importante della sua vita, della vita della tribù e della vita dell'intero
    popolo comanci. Per Uccello Saltellante, un futuro completamente nuovo si stava schiudendo
    e lui stava entrando a far parte della storia.


    Quando i loro visi furono abbastanza vicini da poter essere distinti, il tenente Dunbar riconobbe
    immediatamente il guerriero che gli aveva tolto la donna dalle braccia. C'era qualcosa di familiare
    anche nell'altro uomo, ma non riusciva a collocarlo. Non ne ebbe il tempo.
    Si erano fermati a mezzo metro da lui.
    Sembravano sfavillare, alla luce brillante del sole. Vento-nei-capelli portava un pettorale di ossa
    e Uccello Saltellante aveva al collo un largo disco di metallo che rifletteva i raggi del sole. Anche
    i loro occhi scintillavano e i capelli neri e lucenti dei due uomini sembravano mandare dei bagliori.
    Malgrado si fosse appena svegliato, vi era qualcosa di splendente anche nel tenente Dunbar,
    anche se si trattava di qualcosa di molto più sottile dello splendore dei suoi visitatori.
    La sua crisi era passata, lasciandolo come il temporale della notte prima aveva lasciato la prateria:
    rinvigorito e pieno di energia.
    Il tenente Dunbar si piegò leggermente in avanti, accennando un inchino e portò due dita alla tempia
    in un gesto lento e deliberato di saluto.
    Un momento dopo Uccello Saltellante restituì il suo gesto con uno strano movimento della mano,
    girandola a mostrare il palmo.
    Il tenente non sapeva che cosa significasse ma lo interpretò correttamente come un gesto amichevole.
    Si guardò intorno, quasi per controllare che il posto fosse sempre lì, e disse: << Benvenuti a Fort
    Sedgewick >>.
    Che cosa significassero quelle parole era un mistero per Uccello Saltellante, ma, come aveva fatto il
    tenente Dunbar, le interpretò come un qualche genere di saluto.
    << Siamo venuti dall'accampamento di Dieci Orsi per parlare di pace >>, disse, ottenendo dal
    tenente uno sguardo attonito.
    Poiché appariva evidente che nessuno dei due sarebbe stato in grado di conversare, fra i due
    interlocutori cadde il silenzio. Vento-nei-capelli approfittò di questa pausa per esaminare i particolari
    del luogo in cui viveva l'uomo bianco. Guardò attentamente e a lungo il riparo a tenda che ora
    cominciava a ondeggiare al vento.
    Uccello Saltellante rimase impassibile in groppa al suo pony mentre i secondi passavano
    lentamente. Dunbar si lisciava il mento con la mano, battendo leggermente la punta dei piedi
    sul terreno. A mano a mano che il tempo passava, diventava nervoso, e questo gli ricordò che aveva
    saltato il suo caffè mattutino e quanto desiderasse berne una tazza. Aveva anche voglia di una sigaretta.
    << Caffè? >> chiese a Uccello Saltellante.
    Lo stregone inclinò leggermente la testa con aria interrogativa.
    << Caffè? >> ripeté il tenente. Avvolse le mani attorno a un'immaginaria tazza e fece il gesto di bere.
    << Caffè? >>, disse nuovamente. << Volete bere? >>
    Uccello Saltellante continuò a fissarlo. Vento-nei-capelli fece una domanda e Uccello Saltellante
    gli rispose. Poi guardarono entrambi il loro ospite. Dopo quello che a Dunbar sembrò un'eternità,
    Uccello Saltellante fece un cenno di assenso con il capo.
    << Bene, bene >>, disse il tenente, dandosi delle leggere pacche sulla coscia. << Allora, seguitemi. >>
    Indicò loro con i gesti di smontare da cavallo e fece loro cenno di seguirlo mentre camminava al
    disotto del riparo a tenda.
    I comanci lo seguirono con circospezione. Tutto ciò che i loro occhi vedevano aveva un'aria misteriosa
    e il tenente stava facendo una figura ridicola, agitandosi come qualcuno che fosse stato preso di
    sorpresa dagli ospiti arrivati con un'ora di anticipo.
    Il fuoco non era acceso, ma fortunatamente aveva già pronta abbastanza legna per far bollire il
    caffè. Si acquattò accanto al mucchio di sterpi e cominciò a preparare il fuoco.
    << Vi prego, sedetevi >>, disse loro.
    Ma gli indiani non capirono e dovette ripetere, mimando il gesto di sedersi mentre parlava.
    Quando si furono seduti, si precipitò al deposito e ritornò altrettanto velocemente portando
    con sé un sacco contenente due chili di grani di caffè e un macinino. Quando ebbe acceso
    il fuoco, il tenente Dunbar versò i chicchi nell'imbuto del macinino e cominciò a girare la manovella.


    (continua)




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    00 14/10/2007 16:21
    (segue)

    Mentre i chicchi sparivano giù per il cono metallico del macinino, vide che Uccello
    Saltellante e Vento-nei-capelli si piegavano in avanti, incuriositi. Non si era reso
    conto che qualcosa di così normale come un macinino del caffè sarebbe apparso loro
    come un oggetto magico. Ma per Uccello Saltellante e Vento-nei-capelli lo era davvero.
    Nessuno di loro aveva mai visto un macinino.
    Il tenente Dunbar si sentiva eccitato dalla presenza di altre persone dopo tutto quel tempo
    ed era ansioso che i suoi ospiti si fermassero un po', così sfruttò l'operazione di macinatura
    il meglio che poté. Si arrestò bruscamente e spostò il macinino un po' più vicino ai due indiani,
    in modo che potessero vedere meglio l'operazione. Macinò a gesti lenti, lasciando che
    osservassero i grani scomparire via via dentro al macinino. Quando non ne furono rimasti
    che un paio, terminò l'operazione in bellezza, dando un ultimo, energico e teatrale giro di
    manovella. Poi fece una pausa, come un mago che avesse finito il suo numero, in attesa
    delle reazioni del suo pubblico.
    Era il macinino ad affascinare Uccello Saltellante. Fece scorrere le dita lungo uno dei bordi
    di legno levigato. Coerentemente con la sua natura, era invece il meccanismo di frantumazione
    dei grani a interessare maggiormente Vento-nei-capelli. Infilò una delle sue dita lunghe
    e brune nell'imbuto del macinino e tastò il piccolo foro sul fondo, sperando di scoprire che cosa
    fosse avvenuto dei chicchi.
    Era il momento del finale e Dunbar interruppe queste ispezioni, sollevando una mano a mo' di
    segnale di attesa. Girando il macinino dall'altro lato, prese fra due dita la piccola manopola
    che si trovava alla base. Gli indiani piegarono la testa, più incuriositi che mai.
    All'ultimo minuto e come se stesse scoprendo un favoloso gioiello, gli occhi del tenente Dunbar
    si spalancarono, sulla faccia gli apparve un largo sorriso, ed ecco apparire il cassettino pieno
    di grani macinati di fresco.
    Entrambi i comanci ne furono enormemente impressionati. Ognuno di loro prese un po' dei chicchi
    finemente macinati, portandoselo alle narici per annusare. Rimasero tranquillamente seduti
    mentre il loro ospite metteva il bricco sul fuoco lasciando che l'acqua venisse a bollore, in attesa
    di ulteriori sviluppi.
    Dunbar servì il caffè, porgendo a ciascuno dei suoi ospiti una fumante tazza piena di nero liquido.
    I due uomini assaporarono l'aroma che saliva loro in viso dalla tazza e si scambiarono degli
    sguardi di approvazione. Odorava di buon caffè, molto migliore di quello che rubavano da molti
    anni ai messicani. Molto più forte.
    Dunbar rimase a osservarli mentre cominciavano a sorseggiare il contenuto delle loro tazze e fu
    sorpreso quando li vide storcere la faccia. Qualcosa non andava, Parlarono entrambi contemporaneamente,
    qualcosa che pareva una domanda.
    Gli indiani tennero un breve, ma inconcludente, conciliabolo. Poi, Uccello Saltellante ebbe un'idea.
    Atteggiò la mano a pugno, la tenne sollevata sopra la tazza e poi la aprì, come se stesse facendo
    cadere qualcosa nel caffè. Fece il gesto di mescolare quello che aveva finto di versare.
    Il tenente Dunbar disse qualcosa che lui non capiva, allora restò a osservare il tenente balzare in
    piedi, dirigendosi verso il malridotto deposito, ritornare con un altro sacco e depositarlo accanto
    al fuoco.
    Uccello Saltellante guardò dentro al sacco e fece un grugnito di soddisfazione, quando vide i bruni
    cristalli che conteneva.
    Il tenente Dunbar vide un sorriso illuminare le facce dei due indiani e capì che aveva immaginato
    giusto. Quello che volevano era lo zucchero.


    (continua)




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    00 15/10/2007 20:35
    (segue)

    Uccello Saltellante si sentì particolarmente stimolato dall'entusiasmo del soldato bianco.
    Voleva conversare e, quando si erano presentati, Lu Ten Ant, come i due comanci
    pronunciavano lieutenant, tenente, aveva chiesto i loro nomi più volte fino a che era
    riuscito a pronunciarli esattamente. Appariva strano e faceva delle cose strane, ma
    l'uomo bianco era ansioso di ascoltare e sembrava avere delle grosse riserve di energia.
    Forse perché lui stesso era così incline alla pace, Uccello Saltellante apprezzava
    moltissimo la forza e l'energia nelle altre persone.
    L'uomo bianco parlava più di quanto Uccello Saltellante fosse abituato a fare. Quando ci
    pensò, gli parve che non cessasse di parlare per tutto il tempo.
    Ma era divertente. Eseguiva delle strane danze e faceva degli strani segnali con le mani
    e la faccia. Faceva anche delle imitazioni che facevano ridere Vento-nei-capelli. Ed era
    difficile riuscirvi.
    A parte le sue impressioni generali, Uccello Saltellante aveva scoperto alcune cose. Lu Ten Ant
    non poteva essere un dio. Era troppo umano. Ed era solo. Nessun altro viveva lì. Ma non
    seppe perché fosse solo. Né seppe se altri uomini stessero venendo e quali avrebbero
    potuto essere i loro piani. Uccello Saltellante era ansioso di avere delle risposte a queste
    domande.
    Vento-nei-capelli era davanti a lui. Cavalcavano l'uno dietro l'altro lungo un sentiero che si
    snodava fra gli alberi vicino al fiume. Non si udiva che il tonfo soffocato degli zoccoli dei
    cavalli sulla sabbia bagnata e Uccello Saltellante si chiese a che cosa stesse pensando.
    Non si erano ancora scambiati le loro impressioni sull'incontro e questo lo preoccupava
    un po'.
    Uccello Saltellante non aveva bisogno di preoccuparsi, perché anche Vento-nei-capelli
    era stato favorevolmente impressionato, e questo malgrado il fatto che l'idea di uccidere
    l'uomo bianco gli fosse passata per la testa parecchie volte. Da tempo pensava che gli
    uomini bianchi non erano altro che delle inutili seccature, dei coyote che si aggiravano
    intorno alla carne. Ma più di una volta questo soldato aveva mostrato del coraggio. Era
    anche amichevole. Ed era buffo. Molto buffo.
    Uccello Saltellante abbassò lo sguardo sui due sacchi, uno con lo zucchero e l'altro con
    il caffè, che sobbalzavano leggermente contro le spalle del suo cavallo, e nella sua mente
    si affacciò l'idea che l'uomo bianco gli piaceva. Era un'idea strana e doveva pensarci.
    Bene, e anche se fosse così? pensò alla fine lo stregone.
    Sentì il suono soffocato di una risata. Sembrava che provenisse da Vento-nei-capelli. Di
    nuovo vi fu una risata, questa volta chiara e distinta, e il rude guerriero si girò sul suo pony,
    parlando da sopra la spalla.
    << E' stato davvero buffo >>, disse per metà parlando e per metà ridendo, << quando l'uomo
    bianco ha fatto il bisonte. >>
    Senza aspettare una risposta, si girò verso il sentiero. Ma Uccello Saltellante vedeva le sue
    spalle sussultare mentre cercava di trattenere le risate.
    Era stato buffo. Lu Ten Ant che si muoveva intorno sulle ginocchia, le mani aperte appoggiate
    alle tempie a mo' di corna. E quella coperta, quella coperta che si era infilato sotto la camicia
    per simulare una gobba.
    No, sorrise fra sé Uccello Saltellante, niente è più strano di un uomo bianco.


    Il tenente Dunbar stese la pesante pelliccia sul suo giaciglio e restò a guardarla affascinato.
    Non aveva mai visto un bisonte, pensò con orgoglio, e già ne possedeva una pelle intera.
    Poi si sedette quasi con reverenza sul bordo del letto, si lasciò cadere sulla schiena e fece
    scorrere le mani sulla morbida, folta pelliccia. Sollevò uno degli orli che pendevano oltre il
    bordo del giaciglio ed esaminò la concia. Premette la faccia contro la pelliccia e ne assaporò
    l'odore selvaggio.
    Come possono mutare in fretta le cose. Poche ore prima era stato scosso dalle sue fondamenta,
    e ora era di nuovo a galla.
    Aggrottò lievemente le sopracciglia. Con qualcuno dei suoi atteggiamenti, la faccenda del
    bisonte per esempio, doveva avere esagerato. E sembrava che avesse parlato sempre lui,
    forse troppo. Ma si trattava di piccoli dubbi. Mentre meditava disteso sulla splendida pelle,
    non poteva fare a meno di sentirsi incoraggiato da questo suo primo, vero incontro.
    Tutt'e due gli indiani gli piacevano. L'indiano dai modi pacati, dignitosi era quello che gli piaceva
    di più. C'era in lui qualcosa di forte, qualcosa nel suo atteggiamento tranquillo e paziente, che
    attraeva. Era pacato ma virile. L'altro, quello dal carattere irruente che gli aveva strappato la
    ragazza dalle braccia, non era certo uno con cui si potesse scherzare. Ma era affascinante.
    E la pelle di bisonte. Gliel'avevano data loro. Era veramente splendida.
    Il tenente ripassò mentalmente altri particolari mentre si rilassava su quel magnifico regalo.
    Con tutti quei pensieri nuovi che gli vorticavano per la mente non vi era né lo spazio per
    esplorare la vera fonte della sua euforia, né la propensione a farlo.
    Aveva fatto buon uso del suo tempo passato da solo; del tempo che aveva condiviso unicamente
    con un cavallo e con un lupo. Aveva fatto un buon lavoro per quanto riguardava il forte. Tutto
    questo era un punto a suo favore. Ma l'attesa e la preoccupazione si erano attaccate a lui come
    del grasso dentro una ruga, e il peso di questo fardello era stato notevole.
    Adesso se ne era andato, sollevato da due uomini primitivi di cui non parlava la lingua, i cui
    simili non aveva visto e il cui intero modo di essere gli era estraneo.
    Senza saperlo, la loro venuta aveva reso un grande servizio. L'origine dell'euforia del tenente
    Dunbar poteva essere individuata nella liberazione da se stesso.
    Non era più solo.



    (continua)



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    00 17/10/2007 10:09
    (segue)


    15



    17 maggio 1863
    Da molti giorni non scrivo nulla in questo diario. Sono successe così tante cose, che
    non so da dove cominciare.
    Finora gli indiani sono venuti a farmi visita in tre occasioni e non ho dubbi che ve ne
    saranno delle altre. Sempre gli stessi due con la loro scorta di sei o sette altri guerrieri.
    (Sono stupito del fatto che tutte queste persone siano dei guerrieri. Non ho ancora visto
    un uomo che non lo sia.)
    I nostri incontri sono stati molto amichevoli, anche se resi notevolmente difficoltosi dalla
    barriera della lingua. Qualsiasi cosa abbia imparato finora è così poco, in confronto a ciò
    che potrei conoscere. Non so ancora quale genere di indiani siano, ma suppongo che
    siano comanci. Credo di aver sentito più di una volta una parola che vi rassomigliava.
    Conosco i nomi dei miei visitatori, ma non saprei come scriverli. Trovo che siano degli
    uomini gradevoli e interessanti. Sono diversi come il giorno e la notte. Uno è oltremodo
    focoso e senza dubbio è un guerriero con un ruolo di comando. Il suo fisico (che è qualcosa
    di spettacolare) e il suo carattere torvo e sospettoso devono fare di lui un combattente
    formidabile. Spero sinceramente di non doverlo mai affrontare, perché se si dovesse
    arrivare a questo, mi troverei in difficoltà. Quest'uomo, i cui occhi sono piuttosto ravvicinati,
    ma che si deve comunque definire attraente, desidera ardentemente il mio cavallo, e non
    manca mai di impegnarmi in una conversazione a proposito di Cisco.
    Parliamo a gesti, una specie di pantomima di cui entrambi gli indiani cominciano ad
    afferrare il significato. Ma è un modo lento di comunicare, e finora il nostro punto d'incontro
    è stato stabilito più sulla base del fallimento che non sul successo, per quanto riguarda la
    comunicazione. L'indiano focoso versa una quantità incredibile di zucchero nel suo caffè.
    Quella razione non ci metterà molto a finire. Fortunatamente, io non metto zucchero nel
    caffè. Ah! Malgrado il suo comportamento taciturno, l'indiano focoso (come lo chiamo io)
    è una persona che attrae, un po' come un capo di un gruppo di teppisti da strada che incute
    rispetto a causa della sua forza fisica. Avendo io stesso passato un po' di tempo per le
    strade, è questo rispetto che provo per lui.
    Al di là di questo, vi è una chiara onestà e una volontà che mi piacciono. E' un tipo schietto.
    L'altro indiano, l'indiano tranquillo come lo chiamo io, mi piace enormemente. A differenza
    dell'indiano focoso, è paziente e curioso di sapere. Credo sia frustrato quanto me per le
    difficoltà della lingua. Mi ha insegnato alcune parole del loro linguaggio e io ho fatto lo stesso
    con lui. Conosco le parole comanci per testa, mano, cavallo, fuoco, caffè, casa e parecchie
    altre, nonché salve e arrivederci. Ma non conosco ancora abbastanza per formare una
    frase. Ci vuole molto tempo per capire esattamente i suoni. Non ho dubbi che sia difficile
    anche per lui.
    L'indiano tranquillo mi chiama Lu Ten Ant e per qualche motivo non usa Dunbar. Sono sicuro
    che non si dimentica di usarlo (gliel'ho ricordato molte volte), quindi ci deve essere un'altra
    ragione. Lu Ten Ant... ha sicuramente un suono particolare.
    Mi sembra che sia dotato di un'intelligenza di prim'ordine. Ascolta con attenzione e sembra
    notare tutto. Ogni mutare del vento, ogni grido di uccello attira la sua attenzione allo stesso
    modo di qualcosa di molto più sensazionale. Senza la possibilità di un linguaggio sono
    ridotto a interpretare le sue reazioni con i miei sensi ma, a quanto pare, è bendisposto
    verso di me.
    C'è stato un avvenimento riguardo a Due Calzini che lo conferma in modo adatto. E' successo
    al termine della loro ultima visita. Avevamo bevuto una buona dose di caffè e avevo appena
    iniziato i miei ospiti ai piaceri della pancetta affumicata. L'indiano tranquillo improvvisamente
    ha notato Due Calzini sul promontorio al di là del fiume. Dopo aver detto qualche parola
    all'altro, entrambi si sono messi a osservare il lupo. Ansioso di mostrare loro quello che conoscevo
    di Due Calzini, ho preso il coltello e la pancetta, dirigendomi verso il ciglio del promontorio
    dalla nostra parte del fiume.
    L'indiano focoso era occupato a zuccherare il suo caffè e ad assaggiare la pancetta e osservava
    da dove era seduto. Ma l'indiano tranquillo si è alzato e mi ha seguito. Di solito lascio a Due
    Calzini dei pezzi di pancetta dalla mia parte del fiume, ma dopo che avevo tagliato il pezzo,
    questa volta gliel'ho lanciato dall'altra parte. E' stato un bel lancio e la pancetta è atterrata a
    pochi centimetri da lui. Restava là seduto, però, e per un po' ho pensato che non avrebbe
    fatto nulla. Ma che io sia dannato se non si è alzato, ha annusato la pancetta e l'ha presa.
    Non lo avevo mai visto prenderla prima, e mi sentivo fiero di lui mentre se ne trotterellava
    via con il pezzo in bocca.
    Per me non si trattava che di un felice avvenimento e nient'altro. Ma l'indiano tranquillo sembrava
    estremamente colpito da quella scena. Quando mi sono girato verso di lui, la sua faccia
    sembrava più serena che mai. Mi ha fatto dei cenni di assenso con il capo, poi mi si è
    avvicinato e mi ha appoggiato la mano sulla spalla in un gesto di approvazione.
    Quando siamo ritornati accanto al fuoco, ha fatto una serie di gesti che sono finalmente
    riuscito a interpretare come un invito a visitare la sua tenda il giorno dopo. Ho accettato
    subito e poco dopo se ne sono andati.
    Mi sarebbe impossibile fornire un resoconto completo di tutte le mie impressioni sull'accampamento
    comanci. Se dovessi farlo, dovrei scrivere per sempre. Ma cercherò di fare una descrizione sommaria,
    nella speranza che le mie osservazioni possano risultare di qualche utilità nei futuri contatti
    con questa gente.



    (continua)

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    00 18/10/2007 09:20
    (segue)

    Una piccola delegazione guidata dall'indiano tranquillo mi è venuta incontro a circa
    un miglio dal villaggio. Abbiamo proseguito verso l'accampamento senza indugi.
    La gente si era abbigliata nel modo migliore per venirci incontro. I colori e la bellezza
    di questi costumi sono indescrivibili.
    Il loro atteggiamento era stranamente sottomesso e, devo confessare, anche il mio
    lo era. Alcuni dei bambini più piccoli hanno rotto le righe e sono corsi a toccarmi le
    gambe dandomi dei leggeri colpetti con le dita. Tutti gli altri non si sono mossi.
    Siamo smontati da cavallo di fronte a una delle tende a cono e vi è stato un breve
    attimo di dubbio, quando un ragazzo di circa dodici anni si è avvicinato di corsa e ha
    cercato di condurre via Cisco. C'è stato un breve tiro alla fune con la briglia, ma è
    intervenuto l'indiano tranquillo. Mi ha appoggiato nuovamente la mano sulla spalla e
    lo sguardo dei suoi occhi mi ha fatto capire che non avevo nulla da temere. Ho lasciato
    che il ragazzo conducesse via Cisco. Cisco sembrava felicissimo di andare con lui.
    Poi l'indiano tranquillo mi ha fatto entrare nella sua tenda. L'interno era buio ma non
    triste. Odorava di fumo e di carne. (L'intero villaggio ha un suo odore caratteristico che
    non trovo sgradevole. Per come posso descriverlo, è l'odore di una vita primitiva.)
    Dentro la tenda vi erano due donne e due bambini. L'indiano tranquillo mi ha invitato
    a sedere e le donne hanno portato delle ciotole con del cibo. Subito dopo se ne sono
    andati tutti, lasciandoci soli.
    Abbiamo mangiato per un po' in silenzio. Pensavo di fare qualche domanda riguardo alla
    ragazza che ho trovato nella prateria. Non l'avevo vista e non sapevo se fosse ancora
    viva. (Non lo so tuttora.) Ma sembrava un argomento troppo complicato, considerando
    le limitazioni poste dal problema del linguaggio, così abbiamo parlato come meglio
    abbiamo potuto del cibo (una specie di mangiare dal sapore dolce che ho trovato ottimo).
    Finito di mangiare mi sono arrotolato una sigaretta e l'ho fumata mentre l'indiano tranquillo
    sedeva di fronte a me. La sua attenzione era continuamente dirottata verso l'entrata
    della tenda. Ero sicuro che stessimo aspettando qualcuno o qualcosa. La mia supposizione
    era esatta, perché di lì a non molto la pelle che fungeva da copertura all'entrata è stata
    scostata e sono apparsi due indiani. Hanno detto qualcosa all'indiano tranquillo e questo
    si è alzato immediatamente, facendomi segno di seguirlo.
    Fuori della tenda vi era un folto numero di persone in attesa che si accalcavano intorno a noi
    mentre procedevamo fra le tende fino a fermarci davanti a una di queste, decorata con la
    figura di un grosso orso a colori uniformi. Qui, l'indiano tranquillo mi ha sospinto gentilmente
    a entrare.
    Vi erano altri cinque uomini, seduti in un cerchio approssimativo attorno al fuoco, ma il mio
    sguardo è caduto immediatamente sul più anziano di loro. Era un uomo dalla corporatura
    possente che ritengo abbia superato la sessantina, anche se ancora con un fisico in ottime
    condizioni. La sua casacca di pelle era adornata con delle guarnizioni di perline di intricata
    bellezza, con dei disegni precisi e multicolori. Appesa a una ciocca dei capelli grigi aveva
    un'enorme zanna che, a giudicare dalla figura dipinta sull'esterno della tenda, ho dedotto
    essere in precedenza appartenuta a un orso.
    Lungo le maniche pendevano a tratti dei capelli e mi sono reso conto un attimo dopo che
    dovevano essere degli scalpi. Uno di questi era di colore castano chiaro. Questo era
    inquietante.
    Ma la caratteristica più rilevante era il suo viso. Non ne avevo mai visto uno simile. Il suo
    sguardo era così brillante che come paragone si potrebbe soltanto pensare a degli occhi
    febbricitanti. I suoi zigomi erano molto alti e arrotondati e il suo naso era ricurvo come un
    becco. La mascella era molto quadrata. La faccia era così fittamente solcata di linee che
    definirle rughe appare improprio. Erano piuttosto simili a delle fessure. Su un lato della
    fronte appariva un incavo, probabilmente il risultato di una ferita riportata in combattimento
    molto tempo prima.
    Nell'insieme, era una sorprendente immagine di vecchia saggezza e di forza. Ma nonostante
    tutto questo non mi sono mai sentito minacciato durante la mia breve visita nella sua tenda.
    Sembrava chiaro che ero io il motivo di quella riunione. Ero certo di essere stato condotto
    lì al solo scopo di consentire al vecchio di studiarmi da vicino.
    E' comparsa una pipa e gli uomini hanno cominciato a fumare. Era una pipa dal cannello
    molto lungo e da ciò che ho potuto capire, il tabacco era una miscela indigena molto aspra,
    perché ero l'unico a essere escluso dal fumarla.
    Ero ansioso di fare una buona impressione e avendo desiderio di una delle mie sigarette,
    ho cavato la borsa del tabacco e le cartine e le ho offerte al vecchio. L'indiano tranquillo gli
    ha detto qualcosa e il vecchio capo ha allungato una delle sue mani nodose, prendendo la
    borsa e le cartine. Le ha esaminate accuratamente, poi mi ha guardato cautamente con quei
    suoi occhi dall'aria piuttosto crudele sotto le pesanti palpebre e me le ha restituite. Non sapendo
    se la mia offerta era stata accettata, mi sono comunque arrotolato una sigaretta. Mentre lo
    facevo, il vecchio sembrava interessato.
    Ho allungato la sigaretta verso di lui e l'ha presa. Di nuovo, l'indiano tranquillo ha detto qualcosa
    e il vecchio me l'ha restituita. Con i gesti, l'indiano tranquillo mi ha chiesto di fumare e ho aderito
    alla sua richiesta.
    Mentre tutti stavano a osservare, ho acceso la sigaretta, ho aspirato e ho soffiato fuori il fumo.
    Prima che potessi tirare un'altra boccata, il vecchio aveva allungato la mano. Gliel'ho data.
    L'ha guardata dapprima con sospetto, poi ha aspirato come avevo fatto io. E, come me, ha
    soffiato fuori il fumo. Poi ha portato la sigaretta vicino alla faccia.
    Con mio dispiacere, ha cominciato ad arrotolarla fra le dita con rapidi movimenti. La cenere
    accesa si è staccata ed è uscito tutto il tabacco. Ha accartocciato con la mano la cartina e
    l'ha gettata nel fuoco.
    Ha cominciato a sorridere e l'uno dopo l'altro anche tutti gli uomini intorno stavano ridendo.
    Forse ero stato offeso, ma il loro buonumore era tale che ne sono stato contagiato.
    Dopo, sono stato accompagnato fino al mio cavallo e scortato fino a circa un miglio dal
    villaggio, dove l'indiano tranquillo mi ha fatto un breve cenno di saluto.
    Queste sono le note essenziali della mia prima visita all'accampamento indiano. Non so
    che cosa stiano pensando adesso.
    E' stato bello rivedere Fort Sedgewick. E' la mia casa. Eppure, penso con piacere a quando
    visiterò nuovamente i miei << vicini >>.
    Quando guardo l'orizzonte a Est mi chiedo sempre se laggiù vi sarà una colonna di fumo.
    Posso solo sperare che la mia presenza qui e i miei << negoziati >> con i selvaggi abitanti
    delle pianure daranno, nel frattempo, dei frutti.

    Ten. John J. Dunbar, USA



    (continua)

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    (segue)

    16



    Poche ore dopo la prima visita del tenente Dunbar al villaggio, Uccello Saltellante e
    Dieci Orsi tennero un incontro ad alto livello. Fu breve e strettamente in argomento.
    A Dieci Orsi piaceva il tenente Dunbar. Gli piaceva lo sguardo nei suoi occhi e Dieci Orsi
    attribuiva grande importanza a ciò che vedeva negli occhi di un uomo. Gli piacevano
    anche i modi del tenente. Era umile e cortese, e Dieci Orsi teneva in gran conto queste
    caratteristiche. La faccenda della sigaretta era stata divertente. Come si potesse fumare
    da qualcosa di così piccolo e con così poca sostanza sfuggiva a ogni logica, ma non ne
    faceva una colpa al tenente Dunbar e concordava con Uccello Saltellante che, come fonte
    per poter ottenere delle informazioni, valeva la pena di conoscere l'uomo bianco.
    Il vecchio capo approvò tacitamente l'idea di Uccello Saltellante per abbattere la barriera
    della lingua. Ma vi erano delle condizioni. Uccello Saltellante doveva orchestrare le sue mosse
    in modo non ufficiale. Lui sarebbe stato responsabile di Lu Ten Ant, e soltanto lui. Al villaggio
    già si diceva che in qualche modo era colpa del tenente se la selvaggina era scarsa. Nessuno
    sapeva come avrebbe potuto reagire la gente, se il tenente fosse venuto ripetutamente a
    visitare il villaggio. Avrebbero potuto scagliarsi contro di lui. Era del tutto possibile che
    qualcuno lo uccidesse.
    Uccello Saltellante accettò le condizioni, rassicurando Dieci Orsi che avrebbe fatto tutto ciò
    che era in suo potere per condurre il piano in modo discreto.
    Stabilito questo, passarono a un argomento più importante.
    I bisonti tardavano ad arrivare.
    Gli esploratori avevano battuto il territorio in lungo e in largo per giorni interi, ma finora non
    avevano avvistato che un solo bisonte. Era un vecchio bisonte solitario che un branco di
    lupi stava facendo a pezzi. Era valsa a stento la pena di riportarne la carcassa.
    Il morale della tribù stava calando di pari passo con le sue esigue riserve di cibo e non
    sarebbero passati molti giorni prima che la penuria diventasse critica. Avevano vissuto
    della carne dei cervi del luogo, ma questa fonte di cibo si stava esaurendo rapidamente.
    Se i bisonti non fossero arrivati presto, la promessa di un'estate piena di abbondanza
    sarebbe stata rotta dal pianto dei bambini affamati.
    I due uomini decisero che, oltre a mandare altri esploratori, vi era urgente bisogno di una
    danza. Doveva essere organizzata entro una settimana.
    Uccello Saltellante sarebbe stato incaricato dei preparativi.

    Fu una settimana strana, una settimana in cui, per lo stregone, il tempo fu caotico. Quando
    aveva bisogno di tempo, le ore volavano, e quando invece voleva che il tempo passasse,
    i minuti trascorrevano lentissimi. Cercare di mantenere tutto in equilibrio fu una vera lotta.
    Vi era una miriade di delicati dettagli da considerare per preparare la danza. Doveva
    rappresentare un'invocazione, quindi molto sacra, e l'intera tribù vi avrebbe preso parte.
    La programmazione e gli incarichi da affidare per un evento di quella importanza costituivano
    un lavoro a tempo pieno.
    In più, vi erano gli abituali doveri di essere un marito per due mogli, un padre per quattro
    figli e una guida per la figlia da poco adottata. Oltre a questi, vi erano i soliti problemi e le
    solite sorprese che si presentavano ogni giorno: le visite agli ammalati, le riunioni improvvisate
    del consiglio della tribù con dei visitatori che capitavano al villaggio e la preparazione delle
    sue medicine.
    Uccello Saltellante era il più indaffarato degli uomini.
    E c'era qualcos'altro, qualcosa che lo distoglieva costantemente dalla sua concentrazione.
    Come un persistente, fastidioso mal di testa, il tenente Dunbar gli rodeva la mente. Avvolto
    com'era nel presente, Lu Ten Ant rappresentava il futuro e Uccello Saltellante non riusciva
    a resistere al suo richiamo. Il presente e il futuro occupavano lo stesso spazio nella giornata
    dello stregone. Il suo tempo era affollato.
    Avere Mano Alzata d'intorno non gli rendeva le cose più facili. Lei era la chiave del piano
    e Uccello Saltellante non riusciva a guardarla senza pensare a Lu Ten Ant, cosa che
    inevitabilmente conduceva la sua mente a vagare per nuovi sentieri fitti di congetture e di
    interrogativi. Ma doveva tenerla d'occhio. Era importante affrontare la questione al momento
    e nel luogo giusto.
    Stava guarendo rapidamente e ora si muoveva senza problemi e si era adattata al ritmo di
    vita della sua tenda. Era la favorita dei bambini e lavorava a lungo e sodo come chiunque
    altro nell'accampamento. Quando veniva lasciata da sola era chiusa in se stessa, ma era
    comprensibile. In effetti, era sempre stata la sua natura.
    A volte, dopo averla osservata per un po', Uccello Saltellante tirava un nascosto sospiro. In
    quei momenti si tratteneva dal porsi delle domande, la più importante delle quali era se
    Mano Alzata fosse veramente una di loro. Ma non poteva pretendere una risposta e,
    comunque, una risposta non lo avrebbe aiutato. Solo due cose importavano. Lei era lì e lui
    aveva bisogno di lei.
    Quando arrivò il giorno della danza, non era ancora riuscito a trovare l'occasione di parlare
    con lei nel modo in cui voleva. Quel mattino si svegliò con la determinazione che lui, Uccello
    Saltellante, doveva mettere in azione il suo piano, se voleva che la cosa avvenisse.
    Inviò tre giovani a Fort Sedgewick. Era troppo occupato per andarci lui stesso e mentre
    questi si recavano al forte avrebbe trovato il modo per parlare con Mano Alzata.
    A Uccello Saltellante venne risparmiata la fatica di dover ricorrere a qualche maneggio
    quando l'intera famiglia lasciò la tenda per recarsi al fiume a metà mattinata, lasciando Mano
    Alzata a occuparsi della concia della pelle di un cervo appena abbattuto.
    Uccello Saltellante la osservò dall'interno della tenda. Mano Alzata teneva lo sguardo
    abbassato, mentre il coltello si muoveva veloce nella sua mano, raschiando il cuoio con la
    stessa facilità con cui la carne tenera si stacca dall'osso. Aspettò fino a che non smise di
    lavorare per un momento, per guardare un gruppo di bambini che giocavano a rincorrersi
    davanti alla tenda di fronte.
    << Mano Alzata >>, disse piano, chinandosi attraverso l'entrata della tenda.
    Lei alzò lo sguardo su di lui, guardandolo attentamente, ma non disse nulla.
    << Vorrei parlare con te >>, disse Uccello Saltellante, sparendo nell'oscurità della tenda.
    Lei lo seguì.



    (continua)


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    00 23/10/2007 05:34
    (segue)

    Nella tenda l'atmosfera era tesa. Uccello Saltellante stava per dire delle cose che lei
    probabilmente non avrebbe voluto sentire, e questo lo faceva sentire a disagio.
    Mentre Mano Alzata rimaneva in piedi davanti a lui, Uccello Saltellante provò quel
    genere di presentimento che spesso precede le domande. Lei non aveva fatto nulla
    di male, ma la sua vita era diventata qualcosa da vivere alla giornata. Mano Alzata
    non sapeva mai che cosa le sarebbe arrivato il momento dopo e, dalla morte del
    marito, non se l'era sentita di affrontare dei problemi. Lei traeva conforto dall'uomo
    che ora le stava davanti. Era rispettato da tutti e l'aveva accolta come se facesse
    parte della famiglia. Se vi era qualcuno di cui Mano Alzata aveva fiducia, questo era
    Uccello Saltellante.
    Ma sembrava nervoso.
    << Siediti >>, le disse ed entrambi si accovacciarono sul pavimento. << Come va la
    ferita? >> cominciò lui.
    << Sta guarendo >>, rispose lei, con gli occhi che lo guardavano a malapena.
    << Il dolore è passato? >>
    << Sì. >>
    << Hai riacquistato le forze. >>
    << Mi sento più forte ora; riesco a lavorare bene. >>
    Mano Alzata grattava distrattamente con le dita la terra ai suoi piedi facendone un
    mucchietto, mentre Uccello Saltellante cercava di trovare le parole che voleva. Non
    gli piaceva fare le cose in fretta, ma nemmeno voleva essere interrotto, e in qualsiasi
    momento avrebbe potuto arrivare qualcuno.
    Lei alzò improvvisamente gli occhi a guardarlo, e Uccello Saltellante fu colpito dalla
    tristezza sul viso di lei.
    << Tu non sei felice qui >>, disse.
    << No. >> Scosse la testa. << Ma ne sono contenta. >>
    Mano Alzata giocherellò con la terra, spazzando via il mucchietto con le dita.
    << Sono triste, senza mio marito. >>
    Uccello Saltellante pensò per un attimo e lei ricominciò a costruire un altro mucchietto
    di terra.
    << Ora lui se ne è andato >>, disse lo stregone, << ma tu sei qui. Il tempo va avanti e tu
    vai avanti con lui, anche se infelicemente. Qualcosa succederà. >>
    << Sì >>, disse lei, increspando le labbra, << ma non mi interessa molto ciò che succederà. >>
    Dal suo punto di osservazione, rivolto verso l'entrata, Uccello Saltellante vide alcune ombre
    profilarsi davanti alla tenda e poi proseguire.
    << Stanno arrivando gli uomini bianchi >>, disse d'improvviso. << Ogni anno ne arriveranno
    sempre di più nella nostra terra. >>
    Un brivido corse lungo la schiena di Mano Alzata, diffondendosi fino alle spalle. Il suo sguardo
    si indurì e le sue mani involontariamente si serrarono a pugno.
    << Non andrò con loro >>, disse.
    Uccello Saltellante sorrise. << No >>, disse, << tu non andrai. Non c'è un solo guerriero fra noi
    che non combatterebbe per impedirti di andare. >>
    Udendo queste parole d'incoraggiamento, la donna con i capelli color rosso scuro si piegò
    leggermente in avanti, ora incuriosita.
    << Ma verranno >>, continuò lui. << Sono una strana razza per quanto riguarda le loro abitudini
    e ciò in cui credono. E' difficile sapere che cosa fare. Si dice che siano numerosi, e questo
    mi preoccupa. Verranno come l'acqua di un fiume in piena; dovremo fermarli. Allora, perderemo
    molti dei nostri uomini valorosi, degli uomini come tuo marito. Vi saranno molte altre vedove
    con il viso triste. >>
    Mentre Uccello Saltellante si avvicinava al vero argomento, Mano Alzata chinò la testa, riflettendo
    sulle sue parole.
    << Quest'uomo bianco, l'uomo che ti ha portato qui. Io l'ho visto. Ho visto dove vive, giù lungo
    il fiume, ho bevuto il suo caffè e ho parlato con lui. A modo suo, è strano. Ma l'ho osservato e
    penso che il suo cuore sia buono... >>
    Lei sollevò la testa e gli gettò un rapido sguardo.
    << Quest'uomo bianco è un soldato. Fra i bianchi, può essere una persona autorevole... >>
    Uccello Saltellante si fermò. Un passero era entrato attraverso la pelle che fungeva da chiusura
    all'entrata e che era rimasta sollevata, e svolazzava per la tenda. Sapendo di trovarsi intrappolato,
    il piccolo uccello sbatteva freneticamente le ali, urtando e rimbalzando contro le pareti.
    Uccello Saltellante osservò l'uccello salire in alto, avvicinarsi al foro in cima alla tenda che
    serviva come uscita per il fumo e scomparire d'improvviso verso la libertà.
    Guardò nuovamente Mano Alzata. Aveva ignorato l'intrusione e stava fissandosi le mani intrecciate
    in grembo. Lo stregone pensò, cercando di riprendere il filo del suo monologo. Ma prima che
    potesse riprendere, sentì nuovamente il soffice rumore di un frullare d'ali.
    Guardando verso l'alto, vide il passero che si librava appena all'interno del foro per il fumo. Seguì
    il suo volo mentre scendeva deliberatamente verso il pavimento, andando a fermarsi con una
    leggiadra picchiata sulla testa color rosso ciliegia. La donna non si mosse e l'uccellino cominciò
    a liscirarsi le penne con il becco come se si fosse trovato sul ramo di un albero. Lei passò una
    mano distratta al disopra della testa e come un bambino che salta alla corda il passero si
    sollevò in aria e atterrò nuovamente. Mano Alzata rimase seduta, ignara, mentre il passero
    arruffava le ali, buttava in fuori il petto e decollava velocemente puntando dritto verso l'entrata.
    In un batter d'occhi era sparito.
    Se ne avesse avuto il tempo, Uccello Saltellante avrebbe tratto alcune conclusioni circa l'importanza
    e il significato dell'arrivo del passero e del ruolo di Mano Alzata in quel suo comportamento. Non
    c'era tempo per fare una passeggiata e rimuginarvi sopra, ma in qualche modo Uccello Saltellante
    si sentì rassicurato da ciò che aveva visto.
    Prima che potesse parlare di nuovo, Mano Alzata sollevò il capo.
    << Che cosa vuoi da me? >> chiese.
    << Voglio sentire le parole del soldato bianco, ma le mie orecchie non riescono a comprenderle. >>
    Era fatta. Il viso di Mano Alzata perse di colpo ogni espressione.
    << Ho paura di lui >>, disse.
    << Cento soldati bianchi che arrivano su cento cavalli con cento fucili... questo è qualcosa di cui
    aver paura. Ma lui è un uomo solo. Noi siamo in molti e questa è la nostra terra. >>
    Lei sapeva che aveva ragione, ma questo comunque non la rassicurava. Cambiò posizione,
    sentendosi a disagio.
    << Non mi ricordo la lingua dei bianchi >>, disse esitante. << Sono una comanci. >>
    Uccello Saltellante annuì ncon il capo.
    << Sì, tu sei comanci. Non ti chiedo di diventare qualcosa d'altro. Ti chiedo di lasciare alle spalle
    le tue paure e di mettere il tuo popolo davanti a tutto. Incontra l'uomo bianco. Cerca di ritrovare
    la lingua dei bianchi con lui e quando ci sarai riuscita, noi tre parleremo di qualcosa che sarà
    di utilità per tutti. E' da molto tempo che penso a questo. >>
    Smise di parlare e l'intera tenda diventò silenziosa.
    Mano Alzata si guardò intorno, lasciando indugiare lo sguardo qua e là come se avesse dovuto
    passare molto tempo prima che potesse vederlo nuovamente.
    Non doveva andarsene da nessuna parte, ma nella sua mente Mano Alzata stava compiendo
    un altro passo verso la rinuncia a quella vita che amava così teneramente.
    << Quando lo vedrò? >> chiese.
    Il silenzio riempì nuovamente la tenda.
    Uccello Saltellante si levò in piedi.
    << Va' in un luogo tranquillo >>, le disse, << lontano dal nostro accampamento. Rimani là per
    un po' e cerca di richiamare alla tua mente le parole della tua vecchia lingua. >>
    Con il mento abbassato sul petto, Mano Alzata si lasciò accompagnare fino all'entrata della tenda.
    Uccello Saltellante non sapeva se avesse udito il suo ultimo suggerimento. Non si era voltata
    verso di lui e ora si stava allontanando.



    (continua)


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    00 24/10/2007 01:30
    (segue)

    Mano Alzata fece come le era stato chiesto.
    Con un orcio vuoto appoggiato sul fianco, si diresse lungo il sentiero che portava al fiume.
    Era quasi mezzogiorno e l'intenso andirivieni del mattino, gente che attingeva l'acqua e che
    lavava, cavalli e bambini schiamazzanti, si era diradato. Camminava lentamente, osservando
    a ogni lato per individuare un qualche sentiero laterale poco battuto che la conducesse a un
    luogo dove restare in solitudine. Il suo cuore accelerò i battiti quando notò un passaggio
    coperto di vegetazione che si dipartiva dal sentiero principale e proseguiva attraverso il
    terrapieno a un centinaio di metri dal fiume.
    Non c'era nessuno intorno, ma stette ad ascoltare per controllare se stesse arrivando
    qualcuno. Non sentì nulla, così nascose l'ingombrante orcio sotto un pruno e si inoltrò per il
    piccolo sentiero proprio mentre dalla sponda del fiume salivano delle voci.
    Si mise a camminare velocemente attraverso il groviglio di arbusti che ricopriva il passaggio
    e fu sollevata quando, dopo soli pochi metri, questo si allargò in un sentiero vero e proprio.
    Adesso procedeva con facilità e presto le voci lungo il sentiero principale si affievolirono.
    Il tempo era bellissimo. Un leggero vento faceva ondeggiare i salici come se danzassero,
    il cielo sereno era di un azzurro brillante e gli unici suoni erano quelli di un occasionale coniglio
    o di una lucertola, spaventati dai suoi passi. Era una giornata per sentirsi felici, ma non vi era
    alcuna gioia nel cuore di Mano Alzata. Era solcato da lunghe vene di amarezza e a mano a mano
    che rallentava il passo, la giovane donna bianca dei comanci cedette all'odio.
    Parte di quest'odio era rivolto al soldato bianco. Lo odiava per essere venuto nella sua terra,
    per essere un soldato, per essere nato. Odiava Uccello Saltellante per averle chiesto di fare
    tutto questo sapendo che non avrebbe potuto rifiutare. E odiava il Grande Spirito per la sua
    crudeltà. Il Grande Spirito le aveva spezzato il cuore. Ma spezzare il cuore a qualcuno non
    era abbastanza.
    Perché continui a farmi del male? chiese. Io sono già morta.
    Lentamente la sua mente cominciò a calmarsi. Ma l'amarezza non diminuì; si era solidificata
    in qualcosa di freddo e precario.
    Si rese conto che era stanca di essere una vittima, e questo la fece andare in collera.
    Tu vuoi la mia lingua di donna bianca, pensò in comanci. Credi che per questo io valga qualcosa?
    Allora, lo scoprirò. E se per fare questo dovrò diventare nessuno, sarò la più grande di tutti i
    nessuno. Sarò un nessuno da ricordare.
    Mentre i suoi mocassini strusciavano leggermente sul sentiero coperto di ciuffi d'erba, cominciò
    a tornare indietro con la mente, cercando di trovare un punto dal quale cominciare, un punto
    dal quale potesse cominciare a ricordare le parole.
    Ma tutto era vuoto. Per quanto si concentrasse, non le veniva in mente nulla e per parecchi
    minuti avvertì il terribile senso di frustrazione di avere un intero linguaggio sulla punta della
    lingua. Invece di sollevarsi le brume del passato erano calate su di lei avvolgendola come la
    nebbia.
    Quando giunse a un piccolo spiazzo fra la vegetazione che arrivava fino al fiume, a un miglio
    dal villaggio, era esausta. Era un luogo di rara bellezza, una veranda erbosa ombreggiata
    da uno splendido pioppo e isolata su tre lati da degli schermi naturali. Il fiume in quel punto
    era largo e poco profondo, con dei banchi di sabbia sparsi lungo la riva sui quali crescevano
    dei folti canneti. Nei giorni passati sarebbe stata felice di scoprire un luogo come quello.
    Mano Alzata aveva sempre amato la bellezza.
    Ma oggi lo notò appena. Voleva soltanto riposare e si sedette pesantemente ai piedi del
    pioppo, appoggiando la schiena al tronco. Incrociò le gambe sotto di sé alla maniera indiana
    e sollevò la tunica che indossava lasciando che la fresca aria che veniva dal fiume fluttuasse
    attorno alle sue cosce. Infine chiuse gli occhi e si impose di ricordare.
    Ma non riusciva a ricordare nulla. Mano Alzata digrignò i denti. Sollevò le mani e si passò i palmi
    sugli occhi stanchi.
    Fu mentre si strofinava gli occhi che venne l'immagine.
    La colpì come una luminosa macchia di colore.

    Le immagini le erano venute alla mente l'estate precedente, quando venne scoperto che vi erano
    dei soldati bianchi nelle vicinanze. Un mattino, mentre era sdraiata sul giaciglio, sulla parete
    le era apparsa la sua bambola. Durante una danza, aveva visto sua madre. Ma entrambe le
    immagini erano sbiadite.
    Quelle che vedeva ora erano vive e si muovevano come in un sogno. Sentiva parlare la lingua
    dei bianchi. E capiva ogni parola.
    La chiarezza della prima immagine che era apparsa l'aveva stupita. Era l'orlo strappato di un
    vestito di percalle azzurro. Vi era una mano che si muoveva attorno all'orlo. Mentre guardava
    attraverso gli occhi chiusi, l'immagine si ingrandì. La mano apparteneva a una ragazzina nei
    primi anni dell'adolescenza. Era in piedi in una stanza dall'aspetto sommario arredata soltanto
    con un letto piccolo e rigido, un piccolo mazzo di fiori incorniciato appeso vicino all'unica finestra
    e una credenza al disopra della quale pendeva uno specchio con una grossa scheggiatura su
    un lato.
    Il viso della ragazza era rivolto da un'altra parte, chinato verso la mano che tratteneva l'orlo mentre
    ispezionava lo strappo.
    Nel farlo, l'abito era stato sollevato abbastanza da mettere in mostra le gambe corte e magre
    della ragazzina.
    D'improvviso, da fuori della stanza, si udì una voce chiamare: << Christine... >>
    La testa della ragazzina si girò e d'impeto Mano Alzata riconobbe quella che era lei una volta.
    Il suo viso di allora ascoltava, poi la bocca di allora disse le parole: << Vengo, mamma >>.
    Mano Alzata aprì gli occhi. Era spaventata da ciò che aveva visto ma, come qualcuno che stia
    ascoltando delle favole e vorrebbe che il narratore non smettesse di raccontare, voleva continuare.
    Chiuse nuovamente gli occhi e dal ramo di una quercia, attraverso una massa di foglie che
    frusciavano al vento, apparve un luogo. Una casa fatta con mattoni e zolle di terra dalla lunga
    facciata, ombreggiata da due pioppi, costruita sull'argine dell'alveo di un torrente asciutto.
    Davanti alla casa vi era un tavolo rudimentale fatto con alcune assi di legno e sedute al tavolo
    vi erano quattro persone adulte, due uomini e due donne. I quattro parlavano fra di loro e Mano
    Alzata riusciva a capire ogni parola.
    Più lontano, sullo spiazzo davanti alla casa, tre bambini giocavano a mosca cieca e le donne
    li tenevano d'occhio, mentre chiacchieravano fra loro a proposito della febbre che uno dei
    bambini aveva da poco superato.
    Gli uomini fumavano la pipa. Sul tavolo, di fronte a loro, erano sparpagliati i residui di un pranzo
    domenicale: una ciotola di patate bollite, alcuni piatti di verdure, una pila di pannocchie di
    granturco prive di chicchi, la carcassa di un tacchino e una brocca di latte semipiena. Gli uomini
    parlavano della probabilità che venisse la pioggia.
    Mano Alzata ne riconobbe uno. Era alto e muscoloso. Le guance erano incavate e con gli zigomi
    pronunciati. I capelli erano lisci e tirati all'indietro sulla testa. Una corta barba a ciuffi gli copriva
    la mascella. Era suo padre.
    In alto, sopra di loro, distinse due figure sdraiate sull'erba che spuntava sul tetto. Dapprima non
    capì chi fossero, ma d'improvviso l'immagine si fece più vicina e poté vederle chiaramente.
    Era con ragazzo all'incirca della sua stessa età. Il suo nome era Willy. Era magro e pallido. Erano
    sdraiati sulla schiena fianco a fianco e si tenevano per mano, mentre guardavano una fila di alte
    nubi nel fantastico cielo sopra di loro.
    Parlavano del giorno in cui si sarebbero sposati.
    << Vorrei che non ci fosse nessuno >>, disse Christine con aria sognante. << Mi piacerebbe che
    tu venissi alla mia finestra una notte e mi portassi via. >>
    Gli strinse leggermente la mano, ma lui non restituì il gesto. Osservava con attenzione le nuvole.
    << Non so come potrebbero prendere la faccenda. >>
    << Che cosa vuoi dire? >>
    << Potremmo passare dei guai. >>
    << Da parte di chi? >>
    << Dei nostri genitori. >>


    (continua)

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    00 25/10/2007 01:44
    (segue)

    Christine girò il viso a guardarlo e sorrise della sua espressione preoccupata.
    << Ma saremmo sposati. Sarebbero affari nostri e di nessun altro. >>
    << Suppongo di sì >>, disse lui, con le sopracciglia ancora aggrottate.
    Non aggiunse nient'altro e Christine tornò a osservare il cielo con lui.
    Alla fine, il ragazzo tirò un sospiro. La guardò di sottecchi e lei sbirciò lui.
    << Penso che non mi importerà se faranno delle storie... purché ci sposiamo. >>
    << Nemmeno a me >>, disse lei.
    Senza abbracciarsi, i loro visi si stavano avvicinando l'uno all'altro mentre le labbra si
    preparavano a un bacio. All'ultimo minuto, Christine cambiò idea.
    << Non possiamo >>, sussurrò.
    Negli occhi di Willy apparve la delusione.
    << Ci vedranno >>, sussurrò nuovamente lei. << Filiamo via di qui. >>
    Willy sorrise, vedendola scivolare un po' più in giù dalla parte posteriore del tetto. Prima
    di seguirla, gettò un'occhiata dietro di sé alle persone nello spiazzo di sotto.
    Vide degli indiani che si stavano avvicinando dalla prateria. Erano una dozzina, tutti a cavallo.
    In cima alla testa, i capelli erano tagliati a foggia della corta criniera di un cavallo e le facce
    erano dipinte di nero.
    << Christine >>, chiamò con voce soffocata, afferrandola per una mano.
    Strisciarono sul ventre per avvicinarsi all'orlo del tetto e poter vedere meglio. Mentre allungavano
    il collo, Willy tirò vicino a sé il fucile che usava per gli scoiattoli.
    Le donne e i bambini dovevano essere già dentro la casa, perché suo padre e l'amico erano
    da soli. Tre indiani si erano avvicinati fino a loro, gli altri rimanevano a rispettosa distanza.
    Il padre di Christine cominciò a parlare a gesti con uno dei tre emissari, un grosso indiano
    pawnee con un'espressione minacciosa sulla faccia. Capì immediatamente che qualcosa non
    andava. L'indiano continuava a fare dei cenni in direzione della casa, facendo il gesto di bere.
    Il padre di Christine continuava a scuotere la testa in segno di rifiuto.
    Gli indiani erano venuti altre volte e il padre di Christine aveva sempre diviso con loro ciò che aveva
    a disposizione. Questi pawnee volevano qualcosa che lui non aveva... o qualcosa che non voleva
    dividere con loro.
    Willy avvicinò la bocca al suo orecchio.
    << Sembrano irritati... >> le sussurrò. << Forse vogliono del whisky. >>
    Forse era così, pensò lei. Suo padre disapprovava l'alcol sotto qualsiasi forma e, guardandolo,
    Christine vide che stava diventando impaziente. E la pazienza era una delle sue principali
    caratteristiche.
    Fece loro segno di andarsene, ma gli indiani non si mossero. Sollevò allora di scatto le mani
    in aria e al gesto i pony agitarono le teste. Ma ancora gli indiani non si muovevano. Tutti e tre
    ora lo guardavano con aria minacciosa.
    Il padre di Christine disse qualcosa all'amico che stava in piedi di fianco a lui e, girando la
    schiena agli indiani, si mossero in direzione della casa.
    Nessuno ebbe il tempo di gridare un avvertimento. Prima che il padre di Christine avesse
    completamente girato la schiena, la scure del pawnee stava già disegnando un arco nell'aria.
    Lo colpì al disotto delle spalle, conficcandosi profondamente per tutta la lunghezza della lama.
    Lui emise un grugnito come se tutta l'aria gli fosse stata spinta fuori dai polmoni e barcollò
    di lato attraverso lo spiazzo. Aveva a malapena mosso qualche passo e già il pawnee era su
    di lui, menando furiosi colpi d'ascia mentre lo gettava a terra.
    L'altro bianco cercò di fuggire, ma le frecce lo colpirono prima che potesse raggiungere la
    porta della casa.
    Dei suoni spaventosi invasero le orecchie di Christine. Dall'interno della casa provenivano
    delle grida di disperazione e dagli indiani che erano rimasti a distanza si levavano delle
    furiose grida di guerra, mentre si lanciavano al galoppo verso la casa. Qualcuno le gridò
    qualcosa sul viso. Era Willy.
    << Scappa, Christine... scappa! >>
    Willy le mise un piede sulla schiena e la fece rotolare giù fino al punto dove terminava il tetto
    e aveva inizio la prateria. Lei guardò indietro e vide l'ossuto ragazzino in piedi sull'orlo del
    tetto con il fucile piantato in giù verso lo spiazzo. Sparò, e per un momento Willy rimase
    immobile. Poi voltò il fucile dall'altra parte reggendolo come una mazza, spiccò un salto e
    scomparve.
    Allora lei si mise a correre, folle di paura, con le sue magre gambe di quattordicenne che si
    arrampicavano freneticamente su per il letto del torrente dietro la casa come le ruote dentate
    di una macchina.
    Aveva il sole negli occhi e cadde parecchie volte, spellandosi le ginocchia. Ma ogni volta si
    rialzava in un baleno, spinta da una paura di morire che superava il dolore. Se dal letto del
    torrente si fosse improvvisamente alzato un muro di mattoni, vi si sarebbe scagliata contro.
    Sapeva che non avrebbe potuto continuare a lungo e anche se vi fosse riuscita, gli indiani
    l'avrebbero inseguita a cavallo, così quando il letto del torrente cominciò a curvare e le pareti
    diventarono più ripide, cercò un posto per nascondersi.
    La sua frenetica ricerca non aveva dato risultati e i polmoni cominciavano a dolerle quando
    individuò un'apertura parzialmente nascosta da fitti ciuffi di erba a metà del pendio sulla sua
    sinistra.
    Piangendo e respirando affannosamente, si arrampicò su per l'argine disseminato di pietre
    e come un topo che corre al riparo si buttò nell'apertura. La testa riuscì a entrare, ma non le
    spalle. Era troppo stretta. Arretrò, appoggiandosi sulle ginocchia, e si mise a battere con i pugni
    contro i bordi dell'apertura. La terra era cedevole e cominciò a staccarsi. Christine scavò
    forsennatamente e dopo qualche momento vi fu spazio sufficiente per entrare.
    Era una sistemazione molto angusta. Christine si raggomitolò a palla e di colpo provò la
    spiacevole sensazione di essersi quasi tappata all'interno di una bottiglia. Con l'occhio
    destro, oltre l'orlo dell'apertura riusciva a vedere per qualche centinaio di metri il letto del
    torrente. Non veniva nessuno. Ma dalla direzione della casa si alzava del fumo nero. Portò
    le mani alla gola e incontrò il piccolo crocifisso che portava sin da quando riuscisse a ricordare.
    Lo strinse fra le dita e attese.


    (continua)


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    00 25/10/2007 14:56
    (segue)

    Quando il sole cominciò a tramontare dietro di lei, le sue speranze aumentarono. Aveva
    temuto che uno di loro l'avesse vista fuggire, ma con il passare delle ore le sue probabilità
    miglioravano. Pregò perché scendesse la notte. Con il buio, per loro sarebbe stato
    praticamente impossibile trovarla.
    Un'ora dopo il calar del sole, trattenne il fiato, sentendo dei cavalli passare giù in fondo,
    lungo il letto del torrente. Era una notte senza luna e non riuscì a distinguere con chiarezza.
    Le sembrò di udire un bambino piangere. I tonfi degli zoccoli dei cavalli lentamente diventarono
    più distanti e non ritornarono.
    La sua gola era così secca da farle male quando deglutiva, e il dolore pulsante delle ginocchia
    scorticate sembrava diffondersi in tutto il corpo. Avrebbe dato qualunque cosa per potersi
    distendere. Ma non poteva muoversi che di un centimetro o due. Non poteva girarsi e il
    fianco sinistro, quello su cui era appoggiata, era intorpidito.
    Mentre la sua lunghissima notte passava lentamente, il suo sconforto aumentava, erompendo
    a tratti come una febbre violenta, e doveva ricorrere a tutte le sue forze per respingere le
    improvvise ondate di terrore. Se vi avesse ceduto, lo choc avrebbe potuto ucciderla, ma ogni
    volta Christine riusciva a ricacciare questi attacchi di isteria. La sua salvezza fu di non pensare
    a ciò che era successo alla sua famiglia e agli amici. Ogni tanto riudiva l'orrendo suono che
    era uscito dalla bocca di suo padre mentre il pawnee infieriva con l'ascia su di lui. Ma ogni
    volta che lo sentiva, riusciva a fermarsi in tempo, escludendo tutto il resto dalla sua mente.
    Era sempre stata una ragazzina dal carattere tenace, e fu questa tenacia a salvarla.
    Verso mezzanotte si addormentò, per svegliarsi pochi minuti dopo con un pauroso attacco
    di claustrofobia. Come il nodo scorsoio di una corda, più si agitava e più il già angusto spazio
    si restringeva.
    Le sue grida lacrimevoli risuonarono lungo il letto del torrente.
    Alla fine, non fu più in grado di gridare e si lasciò andare a un lungo pianto purificatore. Quando
    anche il pianto cessò, era calma, debole ed esausta come un animale che si è dibattuto per ore
    in una trappola.
    Rinunciò a uscire dalla buca e si concentrò invece su alcuni piccoli accorgimenti che la potessero
    far sentire meglio. Agitò le dita dei piedi avanti e indietro, contando ogni dito soltanto quando
    riusciva a muoverlo separatamente dagli altri. Le mani erano abbastanza libere, così si mise
    a premere i polpastrelli della dita gli uni contro gli altri in ogni possibile combinazione che le
    venisse in mente. Si contò i denti. Recitò il paternostro, sillabando ogni parola. Compose una
    lunga canzone su di lei lì nella buca. Poi la cantò.

    Quando apparve il chiarore dell'alba cominciò nuovamente a piangere, sapendo che non sarebbe
    riuscita a superare il giorno che stava arrivando. Non resisteva più. E quando udì arrivare dei
    cavalli lungo il letto del torrente la prospettiva di morire per mano di qualcuno le sembrò molto
    migliore di quella di morire nella buca.
    << Aiuto >>, gridò. << Aiutatemi. >>
    Sentì il rumore degli zoccoli cessare bruscamente. Qualcuno stava salendo su per l'argine e si
    udiva il rumore dei sassi che venivano smossi sotto i piedi. Il rumore cessò e la faccia di un
    indiano si profilò davanti alla buca. Non riusciva a tollerare di guardarlo, ma le era impossibile
    voltare la testa da un'altra parte. Chiuse gli occhi davanti allo stupito comanci.
    << Per favore... fatemi uscire >>, mormorò.
    Prima che se ne rendesse conto, delle mani robuste la stavano tirando fuori verso la luce del
    giorno. Non riusciva a stare in piedi e restò seduta sul terreno, distendendo le gambe gonfie
    un centimetro alla volta, mentre gli indiani si consultavano fra di loro.
    Erano divisi sulla questione. La maggioranza non vedeva alcuna utilità a prenderla con loro.
    Dicevano che era troppo magra, piccola e debole. E se avessero portato con loro quel piccolo
    fagotto di sofferenza, avrebbero potuto essere incolpati di ciò che i pawnee avevano fatto ai
    bianchi che vivevano nella casa fatta di terra.
    L'indiano che era a capo del gruppo argomentò che la casa di terra era troppo lontana dagli
    altri bianchi della zona perché la gente che vi viveva venisse scoperta subito. Per allora, loro
    sarebbero stati lontani. La tribù in quel momento aveva solo due prigionieri, entrambi messicani,
    e i prigionieri potevano sempre servire. Se la ragazza fosse morta durante il lungo percorso
    di rientro al villaggio, l'avrebbero abbandonata lungo la pista e nessuno ne avrebbe saputo niente.
    Se fosse sopravvissuta, sarebbe stata utile per lavorare o come merce di scambio in caso di
    necessità. E il capo ricordò agli altri che per consuetudine i prigionieri diventavano dei buoni
    comanci, e vi era sempre bisogno di qualche buon comanci in più.
    La questione venne risolta abbastanza rapidamente. Quelli che erano a favore della soluzione di
    ucciderla sul posto disponevano forse di ragioni più valide, ma l'uomo che voleva risparmiarla
    era un giovane guerriero in rapida ascesa e con un futuro davanti a sé, e nessuno era desideroso
    di contrastarlo.

    La ragazza sopravvisse e superò tutti i patimenti, in gran parte grazie all'atteggiamento benevolo
    del giovane guerriero con un futuro, il cui nome, come venne a sapere in seguito, era Uccello
    Saltellante.
    Con il tempo arrivò ad accettare il fatto che quella gente era la sua gente e che erano enormemente
    diversi da quelli che avevano massacrato la sua famiglia e gli amici. I comanci diventarono il suo
    mondo e lei li amava con la stessa intensità con la quale odiava i pawnee. Ma mentre l'odio per
    gli uccisori rimaneva, i ricordi della sua famiglia scomparivano rapidamente, come qualcosa che
    venisse inghiottito dalle sabbie mobili. Alla fine, i ricordi scomparvero del tutto dalla sua vista.
    Fino a quel giorno; il giorno in cui aveva dissotterrato il suo passato.
    Anche se i ricordi erano riapparsi in modo così vivido, Mano Alzata non pensava a loro quando si
    alzò da dove si trovava, ai piedi del pioppo, e stancamente raggiunse il fiume entrando nell'acqua.
    Non pensava a sua madre e a suo padre quando si accovacciò nell'acqua spruzzandosene un
    po' sul viso. Se ne erano andati da molto tempo e il ricordo di loro non era nulla che le potesse
    servire.
    Mentre i suoi occhi scrutavano la riva opposta, pensava soltanto ai pawnee, chiedendosi se
    quell'estate avrebbero fatto delle scorrerie in territorio comanci.
    Segretamente, sperava che lo avrebbero fatto. Voleva un'altra occasione di vendetta.
    Ve n'era stata una, molte estati prima, e lei ne aveva approfittato al massimo. Si era presentata
    sotto forma di un enorme guerriero che era stato catturato vivo a scopo di riscatto.
    Mano Alzata e un gruppo di altre donne erano andate incontro agli uomini che rientravano con
    lui, al limitare dell'accampamento. Era stata lei a scatenare il feroce assalto che il gruppo di
    guerrieri di ritorno dalla missione di guerra non era stato in grado di respingere. Lo avevano
    trascinato giù dal cavallo e lo avevano fatto a pezzi con i loro coltelli. Mano Alzata era stata la
    prima ad affondare il coltello nel corpo del pawnee e aveva continuato a infierire su di lui fino
    a che lei e le altre donne non lo ebbero ridotto a brandelli. Il fatto di essersi potuta finalmente
    vendicare le aveva dato un profondo senso di soddisfazione, ma non abbastanza da non desiderare
    con regolarità che vi fosse un'altra occasione.
    Visitare il suo passato aveva prodotto un effetto tonificante e lei si sentiva più comanci che mai,
    mentre ripercorreva il piccolo sentiero poco frequentato. Camminava a testa alta e il suo cuore
    era pieno di forza.
    Ora, il soldato bianco le sembrava una cosa di poco conto. Stabilì che, se mai avesse parlato con lui,
    non sarebbe stato che per quel tanto che bastava ad accontentare Uccello Saltellante.




    (continua)


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    (segue)


    17



    L'arrivo di tre giovani indiani sui loro pony li colse di sorpresa. Il loro atteggiamento schivo
    e rispettoso faceva supporre che fossero dei messaggeri, ma il tenente Dunbar stava
    molto in guardia. Non aveva ancora imparato a distinguere una tribù dall'altra e al suo
    occhio inesperto avrebbero potuto essere chiunque. Reggendo il fucile con la canna
    appoggiata alla spalla, camminò per circa trecento passi da dove si erano fermati, dietro
    il deposito dei rifornimenti, per incontrarli. Quando uno dei giovani indiani fece lo stesso
    gesto di saluto che gli aveva rivolto l'indiano tranquillo, Dunbar rispose con il solito breve
    inchino.
    Il dialogo a gesti fu semplice e breve. Gli chiesero di andare con loro al villaggio e il tenente
    accettò. Rimasero ad attenderlo mentre lui metteva la briglia a Cisco, parlando a voce
    bassa del piccolo cavallo, ma il tenente Dunbar prestò loro poca attenzione.
    Era ansioso di scoprire di che cosa si trattasse e fu contento quando lasciarono il forte
    al galoppo.

    Si trattava della stessa donna e sebbene fosse seduta lontano da loro, verso il fondo della
    tenda, gli occhi del tenente continuavano a vagare nella sua direzione. Il vestito di pelle di
    daino le copriva le ginocchia e Dunbar non avrebbe potuto dire se la sua ferita alla gamba
    fosse guarita.
    Fisicamente, sembrava che stesse bene, ma la sua espressione non lasciava intendere
    nulla. Sul suo viso vi era una leggera sfumatura di ostilità, ma per il resto era completamente
    inespressivo. Il tenente continuava a guardarla perché era certo fosse lei la ragione per la
    quale era stato convocato al villaggio. Desiderò che si arrivasse subito al dunque, ma la sua
    scarsa esperienza in fatto di indiani gli aveva già insegnato ad essere paziente.
    Così attese, mentre lo stregone caricava meticolosamente la sua pipa. Il tenente gettò
    nuovamente uno sguardo a Mano Alzata. Per un breve istante i suoi occhi incontrarono quelli
    del tenente e questo gli fece ricordare di come fossero più chiari in confronto agli occhi marrone
    scuro di tutti gli altri. Poi si ricordò di quando aveva detto << no >>, quel giorno nella prateria.
    D'improvviso, i capelli color rosso ciliegia assunsero per lui un nuovo significato e cominciò
    a sentire un formicolio alla base del collo.
    Oh, mio Dio, pensò, questa donna è una bianca.
    Dunbar si accorse che Uccello Saltellante era più che consapevole della presenza della donna
    seduta nell'ombra della tenda. Quando offrì per la prima volta la pipa al suo visitatore speciale,
    lo fece gettando uno sguardo di lato verso di lei.
    Il tenente Dunbar aveva bisogno di assistenza per riuscire a fumare la pipa e Uccello Saltellante
    cortesemente lo aiutò a posizionare correttamente le mani sul lungo cannello e a regolare
    l'angolatura. Il sapore del tabacco era aspro come il suo odore, ma il tenente Dunbar lo trovò
    ricco di aroma. Una buona fumata. La pipa era fantastica. Pesante quando l'aveva presa in
    mano, diventò straordinariamente leggera non appena cominciò a fumare, come se avesse
    potuto sfuggirgli se avesse allentato la presa.
    Si scambiarono la pipa per alcuni minuti. Poi, Uccello Saltellante la depositò con cura di fianco
    a lui. Guardò apertamente Mano Alzata e con un breve movimento del polso le fece cenno di
    venire avanti.
    Lei esitò per un momento, poi appoggiò una mano per terra e fece per alzarsi. Gentiluomo
    come sempre, il tenente Dunbar scattò in piedi e, con questo suo gesto, scatenò un tumulto.
    Tutto avvenne con violenta rapidità. Dunbar non vide il coltello fino a che lei non aveva già
    percorso metà della distanza che li separava. L'unica cosa di cui si rese conto subito dopo
    fu l'avambraccio di Uccello Saltellante che lo colpiva violentemente al petto, facendolo cadere
    all'indietro. Mentre cadeva a terra, vide la donna avanzare chinata in avanti verso di lui, sibilando
    delle parole e fendendo convulsamente l'aria con il coltello che teneva in mano.
    Uccello Saltellante fu altrettanto rapido. Con una mano le afferrò il polso e glielo torse facendole
    mollare il coltello, e con l'altra la gettò a terra. Mentre il tenente si rialzava, Uccello Saltellante
    si girò verso di lui. Nello sguardo dello stregone vi era un'espressione di furore.
    In un disperato tentativo di disinnescare la situazione esplosiva, Dunbar saltò su in piedi e agitò
    avanti e indietro le mani distese davanti a lui sottolineando il gesto con la parola << no >> per
    più volte. Poi fece uno dei piccoli inchini che aveva usato come cenno di saluto quando gli indiani
    erano venuti a Fort Sedgewick. Indicò la donna sul pavimento e s'inchinò nuovamente.
    Allora, Uccello Saltellante capì. L'uomo bianco stava solo cercando di essere cortese. Non
    intendeva fare niente di male. Disse qualche parola a Mano Alzata mentre questa si stava
    nuovamente rialzando. Lei tenne gli occhi fissi sul pavimento, evitando qualsiasi contatto con
    l'uomo bianco.
    Per un attimo, tutti e tre rimasero immobili.
    Il tenente Dunbar attese e restò a guardare Uccello Saltellante che si strofinava lentamente il
    lato del naso con una delle sue dita lunghe e brune, pensando alla faccenda. Poi l'indiano disse
    qualcosa a voce bassa a Mano Alzata e la donna sollevò lo sguardo. I suoi occhi sembravano
    ancora più chiari di prima, e più assenti. Adesso, fissavano direttamente quelli di Dunbar.
    Con dei gesti Uccello Saltellante chiese al tenente di mettersi nuovamente a sedere. Si
    accoccolarono come avevano fatto prima, l'uno di fronte all'altro. Uccello Saltellante disse
    nuovamente qualcosa a Mano Alzata e lei si avvicinò, sedendosi leggera come una piuma a
    brevissima distanza da Dunbar.
    Uccello Saltellante guardò entrambi con aria di attesa. Si appoggiò un dito sulle labbra, sollecitando
    con questo segno il tenente fino a che Dunbar capì che gli veniva chiesto di parlare, di dire qualcosa
    alla donna seduta accanto a lui.
    Il tenente chinò leggermente la testa nella sua direzione e attese finché non scorse una piccola
    parte dell'occhio di lei.
    << Hello >>, disse.
    Lei batté le palpebre.
    << Hello >>, ripeté lui.
    Mano Alzata si ricordava quella parola. Ma la sua lingua di bianca era arrugginita come il vecchio
    cardine di una porta. Aveva paura di ciò che avrebbe potuto uscire dalle sue labbra e il suo
    subconscio opponeva ancora resistenza all'idea stessa di questo colloquio. Fece qualche muto
    tentativo, prima di riuscire a pronunciarla.
    << Hulo >>, rispose, chinando rapidamente il mento.
    La soddisfazione di Uccello Saltellante fu tale che, con un gesto del tutto insolito per lui, si diede
    delle pacche sulla gamba. Si sporse in avanti e batté dei colpetti sul dorso della mano di Dunbar,
    incitandolo a continuare.
    << Parlare? >> chiese il tenente, ricorrendo contemporaneamente al gesto con le dita sulle labbra
    che aveva usato Uccello Saltellante. << Parlare inglese? >>
    Mano Alzata si batté leggermente la tempia con la punta di un dito per indicargli che le parole erano
    nella sua testa. Posò due dita sulle labbra e scosse il capo, cercando di dirgli della difficoltà che
    aveva a parlare.
    Il tenente non capiva bene. L'espressione di lei era ancora passivamente ostile, ma ora la calma
    che vi era nei suoi gesti gli dava l'impressione che volesse comunicare.
    << Io sono... >> esordì lui, puntandosi un dito contro la giubba, << io sono John. Io sono John >>.
    Gli occhi inespressivi della donna erano fissi sulle sue labbra.
    << Io sono John >>, disse nuovamente lui.
    Mano Alzata mosse silenziosamente le labbra, cercando di ripetere. Quando finalmente parlò,
    il suono le uscì dalle labbra perfettamente chiaro. La parola la sconvolse, e sconvolse il tenente
    Dunbar.
    Disse: << Willie >>.
    Uccello Saltellante capì che qualcosa aveva fatto cilecca quando vide l'espressione sbigottita
    del tenente. Confuso, restò a guardare Mano Alzata mentre questa si agitava disordinatamente.
    La donna si coprì gli occhi e si strofinò il viso. Si portò le mani al naso come se cercasse di
    tapparlo per non sentire un odore e scosse forsennatamente la testa. Alla fine, appoggiò i palmi
    delle mani sul terreno e tirò un profondo sospiro, sillabando delle mute parole con le labbra.
    In quel momento l'animo di Uccello Saltellante cedette. Forse aveva preteso troppo a mettere
    in atto questo esperimento.
    Nemmeno il tenente Dunbar riusciva a capirla. Pensava che, probabilmente, la lunga prigionia
    della donna avesse influito sulle sue condizioni mentali.
    Ma l'esperimento di Uccello Saltellante, anche se terribilmente difficile, non era troppo. E Mano
    Alzata non era pazza. Le parole del soldato bianco, i suoi ricordi e la confusione della sua lingua
    erano caoticamente mescolati nella sua mente. Sciogliere quel groviglio era come cercare di
    disegnare a occhi chiusi. Lottava per controllarlo, mentre fissava nel vuoto con le palpebre
    abbassate.
    Uccello Saltellante fece per dire qualcosa, ma lei lo zittì bruscamente con una raffica di parole
    in comanci.
    I suoi occhi rimasero chiusi ancora per qualche istante. Quando li riaprì, guardò il tenente Dunbar
    attraverso la cortina dei capelli arruffati e lui vide che la loro espressione si era ammorbidita. Con
    un gesto pacato della mano, lei gli chiese in comanci di parlare nuovamente.
    Dunbar si schiarì la gola.
    << Io sono John >>, disse, pronunciando attentamente le parole. << John... John. >>
    Ancora una volta le labbra di lei si mossero, ripetendo silenziosamente le parole, e ancora una
    volta cercò di pronunciarle.
    << Jun. >>
    << Sì >>, assentì Dunbar, estatico. << John. >>
    << Jun >>, disse lei nuovamente.
    Il tenente Dunbar rovesciò la testa all'indietro. Era un dolce suono per le sue orecchie, il suono
    del suo nome. Non lo sentiva dire da mesi.
    Involontariamente, Mano Alzata sorrise. Di recente la sua vita era stata così piena di tristezza.
    Era bello avere qualcosa, anche se piccolo, per cui sorridere.
    Entrambi guardarono Uccello Saltellante.
    Sulla sua bocca non vi era alcun sorriso, ma nei suoi occhi, sebbene fosse a malapena percettibile,
    vi era una luce lieta.


    (continua)

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    00 28/10/2007 02:19
    (segue)


    Quel pomeriggio, nella tenda di Uccello Saltellante, le cose si svolsero con estrema
    lentezza. Il tempo venne completamente assorbito dai diligenti tentativi di Mano Alzata
    di ripetere le parole e le semplici frasi del tenente Dunbar. A volte, era necessario che
    ripetesse una dozzina di volte, tutte terribilmente tediose, prima di ottenere una sola
    parola composta da un'unica sillaba. E anche allora la pronuncia era tutt'altro che perfetta.
    Non era certo ciò che si potrebbe definire << parlare >>.
    Ma Uccello Saltellante si sentiva enormemente incoraggiato. Mano Alzata gli aveva detto
    che ricordava bene le parole della lingua dei bianchi. Aveva solo delle difficoltà a dirle.
    Lo stregone sapeva che l'esercizio avrebbe ridato scioltezza alla sua lingua arrugginita e
    la sua mente galoppava, anticipando il momento in cui la conversazione fra loro si sarebbe
    svolta senza problemi e vi sarebbe stato un proficuo scambio di informazioni.
    Provò una punta di irritazione quando uno dei suoi assistenti arrivò con la notizia che fra breve
    avrebbero avuto bisogno di lui per sovrintendere ai preparativi finali per la danza di quella
    sera.
    Ma Uccello Saltellante sorrise, quando prese la mano del tenente e lo salutò con le parole
    degli uomini con la faccia coperta di peli.
    << Hulo, Jun. >>


    Era difficile afferrare che cosa fosse successo. L'incontro aveva avuto termine così bruscamente.
    E, per quanto ne sapeva, era andato bene. Qualcosa doveva aver avuto la precedenza.
    Dunbar rimase in piedi all'esterno della tenda di Uccello Saltellante e guardò lungo il sentiero
    che passava tra le file di tende. Sembrava che in fondo a quella rudimentale strada alcune persone
    si stessero raggruppando in uno spazio aperto davanti al tepee che aveva un orso come insegna.
    Voleva restare per vedere che cosa stesse per accadere.
    Ma l'indiano tranquillo era già scomparso in mezzo alle persone già assembrate e che stavano
    via via aumentando di numero. Scorse la donna, così piccola in mezzo agli indiani già piuttosto
    bassi di statura, ma osservandone la figura mentre si allontanava, il tenente poteva distinguere
    nel suo comportamento le due persone: la bianca e l'indiana.
    Cisco stava venendo verso di lui e Dunbar fu sorpreso di vedere che il ragazzo con il perenne
    sorriso sulla faccia lo stava cavalcando. Il ragazzo fermò il cavallo, scivolò a terra, gli batté
    affettuosamente sul collo e cicalò qualcosa che Dunbar interpretò correttamente come un elogio
    delle doti del suo cavallo.
    Dell'altra gente si stava ora ammassando nello spiazzo e nessuno prestava attenzione all'uomo
    in uniforme. Il tenente pensò nuovamente di restare ma, per quanto lo desiderasse, sapeva che
    senza un invito formale non sarebbe stato il benvenuto. E non vi era stato alcun invito.
    Il sole stava calando e il suo stomaco vuoto cominciava a brontolare. Se voleva arrivare al forte
    prima che facesse buio ed evitare di doversi muovere a tentoni giusto per mettere insieme una
    cena, doveva sbrigarsi. Balzò in groppa a Cisco, gli fece compiere una giravolta e si avviò al
    piccolo trotto fuori del villaggio.
    Mentre superava l'ultima delle tende si imbatté in una strana adunanza. Una dozzina di uomini
    erano riuniti dietro una delle ultime tende. Erano abbigliati con ogni genere di ornamenti e i loro
    corpi erano dipinti a disegni vivaci. Ognuno di loro aveva il capo coperto da una testa di bisonte,
    completa di corna e del tipico pelo ricciuto. Sotto quegli strani copricapi, soltanto gli occhi e il naso
    erano visibili.
    Dunbar sollevò una mano mentre passava oltre. Alcuni di loro gettarono uno sguardo nella sua
    direzione, ma nessuno restituì il cenno e il tenente proseguì per la strada.



    Le visite di Due Calzini non si limitavano più al tardo pomeriggio o al mattino presto. Adesso,
    capitava che comparisse in qualsiasi momento e, quando succedeva, il vecchio lupo si
    comportava con familiarità, girovagando per gli stretti confini del mondo del tenente Dunbar
    come se fosse il cane di un accampamento. A mano a mano che la sua confidenza con il luogo
    aumentava, si teneva sempre meno a distanza. Il più delle volte si fermava dieci metri dal tenente,
    mentre questo era occupato con i suoi piccoli lavori. Quando Dunbar si metteva a scrivere le sue
    annotazioni nel diario, Due Calzini era solito stiracchiarsi e accucciarsi, rimanendo a osservarlo
    con quei suoi occhi gialli che ammiccavano curiosamente mentre la penna scorreva grattando
    sul foglio.
    La cavalcata di ritorno era stata solitaria. L'intempestiva interruzione del suo incontro con la donna
    che era due persone e la misteriosa eccitazione che aveva animato il villaggio (di cui lui non era
    parte in causa) gli facevano nuovamente sentire il peso della sua vecchia nemesi, la cupa
    sensazione di essere escluso. Per tutta la sua vita era stato desideroso di partecipare e, come
    per ogni altro essere umano, la solitudine era qualcosa che doveva essere costantemente
    affrontata. Nel caso del tenente, la solitudine era diventata la caratteristica dominante della sua
    vita, così fu rassicurante vedere la sagoma di Due Calzini spuntare da sotto il riparo a tenda
    quando arrivò al forte, al crepuscolo.
    Il lupo trotterellò sullo spiazzo e si mise seduto a osservare mentre il tenente scendeva da cavallo.
    Dunbar notò subito che per terra, sotto la tenda c'era qualcos'altro. Era un volatile, un grosso
    tetraone delle praterie. Era morto e quando Dunbar si chinò a osservarlo, notò che era stato
    ucciso da poco. Il sangue sul collo era ancora appiccicoso. Ma a parte i segni di qualcosa di
    appuntito che gli aveva forato la gola, il volatile non aveva niente fuori posto, nemmeno una piuma.
    Era un enigma per il quale non vi era che una soluzione e il tenente guardò esplicitamente
    Due Calzini.
    << E' tuo? >> disse a voce alta.
    Il lupo alzò gli occhi e batté le palpebre, mentre il tenente Dunbar esaminava ancora il volatile.
    << Bene. Allora >>, disse scrollando le spalle, << immagino che sia nostro. >>

    Due Calzini restò a guardare con i suoi stretti occhi gialli il tenente mentre il volatile veniva spiumato,
    svuotato delle interiora e arrostito sul fuoco. Mentre cuoceva sullo spiedo seguì il tenente al
    recinto e aspettò pazientemente mentre questo versava con parsimonia la sua razione di granaglie
    a Cisco, poi nuovamente quando tornò accanto al fuoco, in attesa del festino.
    Il volatile era buono, tenero e con molta carne. Il tenente mangiò lentamente, staccando una striscia
    di carne soda alla volta e gettandone un pezzo a Due Calzini fra un boccone e l'altro. Quando
    ebbe mangiato a sazietà, lanciò la carcassa sullo spiazzo e il vecchio lupo la raccolse, scomparendo
    nella notte.
    Il tenente Dunbar si sistemò su una delle sedie da campo e fumò una sigaretta, lasciando che i suoni
    della notte lo intrattenessero. Pensava a come erano straordinariamente cambiate le cose in così
    breve tempo. Fino a non molto tempo prima quegli stessi suoni lo avevano tenuto con i nervi a fior di
    pelle, rubandogli il sonno. Ora erano così familiari da essere confortanti.
    Ripensò al giorno appena trascorso e concluse che era stata una buona giornata. Mentre il fuoco
    finiva di ardere e lui fumava la sua seconda sigaretta, si rese conto di quanto fosse eccezionale
    per lui il fatto di trattare da solo e direttamente con gli indiani. Si concesse un'immaginaria pacca
    sulla schiena, pensando che fino a quel momento aveva svolto un compito degno di fede come
    rappresentante degli Stati Uniti d'America. E senza alcuna direttiva o linea guida da seguire, per
    giunta.
    Improvvisamente, pensò alla Grande guerra. Era possibile che lui non fosse più un rappresentante
    degli Stati Uniti. Forse la guerra era finita. Gli Stati Confederati d'America... gli riusciva impossibile
    immaginarlo. Ma poteva essere. Era ormai da parecchio tempo che non aveva notizie.
    Queste riflessioni gli richiamarono alla mente la sua carriera e dentro di sé ammise che aveva pensato
    sempre meno all'esercito. Il fatto che si trovasse nel mezzo di una grande avventura aveva senz'altro
    avuto una parte importante in questa sua negligenza, ma mentre sedeva accanto al fuoco che si
    stava spegnendo e ascoltava il guaito dei coyote giù lungo il fiume, lo colpì il pensiero che forse si
    era imbattuto in una vita migliore. Una vita dove erano poche le cose che gli mancavano.
    Cisco e Due Calzini non erano degli esseri umani, ma la loro incrollabile lealtà era gratificante come
    non lo erano mai stati i rapporti umani. Con loro, era felice.
    Poi, naturalmente, c'erano gli indiani. Si sentiva nettamente attratto da loro. Se non altro, costituivano
    degli ottimi vicini, di buone maniere, aperti e partecipi. Sebbene lui fosse troppo bianco per le
    abitudini dei nativi, si sentiva più a suo agio con loro. C'era in loro qualcosa di sapiente. Forse era
    questo che lo aveva attirato sin dall'inizio. Il tenente non era mai stato una persona che amasse
    imparare e conoscere. Era sempre stato un uomo d'azione, a volte troppo. Ma intuiva che questo
    aspetto della sua personalità si stava modificando.
    Sì, pensò, si tratta di questo. C'è qualcosa da imparare da loro. Conoscono molte cose. Se l'esercito
    non dovesse arrivare, non credo che sarebbe una grossa perdita.
    Dunbar si sentì improvvisamente indolente. Sbadigliando, buttò il mozzicone della sigaretta nelle
    braci che ardevano ai suoi piedi e stiracchiò le braccia.
    << A dormire >>, si disse ad alta voce. << Adesso dormirò come un sasso fino a domattina. >>



    (continua)

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    00 28/10/2007 02:21
    (segue)


    Il tenente Dunbar si svegliò allarmato nel buio delle prime ore del mattino. La sua baracca
    di terriccio stava tremando. Anche la terra tremava e nell'aria si sentiva il rumore di un
    rombo soffocato. Si gettò fuori dal letto e restò ad ascoltare. Il rombo proveniva da un punto
    non molto lontano, proprio lungo il fiume.
    Si infilò i pantaloni e gli stivali e uscì all'esterno, il rumore era ancora più forte e riempiva
    la prateria come un'enorme, risonante eco.
    Si sentì piccolo, lì in mezzo.
    Il rumore non avanzava verso di lui e senza sapere esattamente perché, escluse mentalmente
    che quella possente energia fosse causata da qualche scherzo della natura, un terremoto o la
    piena di un fiume. Era qualcosa di vivo a produrre quel suono. Qualcosa che viveva stava
    facendo tremare la terra e lui doveva vedere che cosa fosse.
    La luce della lanterna sembrava minuscola, mentre camminava verso la fonte di quel sordo
    rumore da qualche parte davanti a lui. Aveva appena percorso un centinaio di metri lungo il
    promontorio, quando alla debole luce che reggeva in mano scorse qualcosa. Era polvere:
    un'enorme parete di polvere che si sollevava nella notte.
    Il tenente avanzò lentamente.Di colpo si rese conto che erano degli zoccoli a produrre quel
    rumore di tuono e che la polvere veniva sollevata da degli animali in movimento, degli animali
    di dimensioni tali che non avrebbe mai creduto a ciò che i suoi stessi occhi stavano ora
    vedendo.
    I bisonti.
    Uno di loro scartò bruscamente all'esterno della nuvola di polvere. E un altro, e un altro ancora.
    Riusciva soltanto a intravederli mentre correvano fra il rombo provocato dagli zoccoli, ma la loro
    vista era talmente magnifica che avrebbero anche potuto essere fissi e immobili. E in quell'attimo
    si fissarono per sempre nella memoria del tenente Dunbar.
    In quel momento, tutto solo con la sua lanterna, capì che cosa significassero per il mondo in cui
    vivevano. Erano ciò che l'oceano significava per i pesci, il cielo per gli uccelli, l'aria per un paio
    di polmoni umani.
    Erano la vita della prateria.
    E si riversavano a migliaia sulla sponda e dentro al fiume, attraversandolo con la stessa indifferenza
    con cui un treno passerebbe attraverso una pozzanghera. Poi risalivano dall'altra parte alla ricerca
    di praterie, una massa tonante di animali diretti a un luogo conosciuto solo a loro, un torrente di
    zoccoli, di corna che penetrava nella prateria con una potenza che superava ogni immaginazione.
    Dunbar lasciò cadere la lanterna lì dove si trovava e si mise a correre. Non si fermò a prendere
    niente, se non la briglia di Cisco, nemmeno una camicia. Poi saltò in groppa al cavallo e lo spronò
    al galoppo. Si tenne basso sulla sella in modo da tenere il petto nudo vicino al collo del cavallo
    e gli allentò le redini, lasciandolo correre.

    Il villaggio era illuminato dai fuochi quando il tenente Dunbar irruppe al galoppo nell'avallamento
    del terreno lungo il fiume dove erano piantate le tende, proseguendo fino al sentiero principale
    che attraversava l'accampamento. Ora poteva scorgere le fiamme del fuoco più grande e la
    gente riunita lì intorno. Distingueva i danzatori con la testa di bisonte e sentiva il rullare ininterrotto
    dei tamburi e il suono ritmico dei canti che lo accompagnava.
    Ma si rendeva appena conto dello spettacolo che si offriva ai suoi occhi, proprio come si era
    malapena reso conto della folle cavalcata che lo aveva condotto lì, correndo al galoppo sfrenato
    per delle miglia attraverso la prateria. Non era conscio del sudore che ricopriva Cisco dalla testa
    alla coda. Mentre risaliva al galoppo il sentiero del villaggio non aveva in mente che una sola cosa...
    la parola comanci per bisonti. Continuava a ripeterla mentalmente, cercando di ricordare l'esatta
    pronuncia.
    Adesso, la stava gridando. Ma con il rullo dei tamburi e i canti non lo avevano ancora sentito
    arrivare. Mentre si avvicinava al grosso fuoco centrale, cercò di far rallentare Cisco, ma il cavallo
    era troppo lanciato e non rispose al morso.
    Irruppe come una furia nel mezzo dei danzatori, provocando un fuggi fuggi di comanci in ogni
    direzione. Con uno sforzo estremo il tenente si attaccò alle redini e cercò di fermare Cisco.
    Le zampe posteriori del cavallo si piegarono facendogli toccare il terreno, mentre il collo e la
    testa si sollevavano bruscamente e le zampe anteriori scalciavano a vuoto nell'aria. Dunbar
    non riuscì a mantenersi in groppa. Scivolò all'indietro lungo la schiena madida di sudore del
    cavallo e atterrò con un sonoro tonfo.
    Prima che potesse muoversi, una mezza dozzina di furibondi guerrieri gli balzarono addosso.
    Un uomo solo con un'ascia avrebbe potuto mettere fine a tutto, ma i sei uomini si erano buttati
    su di lui come un sol uomo e nel viluppo nessuno riuscì a colpirlo.
    Si rotolarono caoticamente sul terreno. Dunbar urlò la parola << bisonti >>, lottando contro i
    pugni e i calci, ma nessuno riuscì a capire che cosa stesse gridando e qualche colpo stava
    ora arrivando a segno.
    Poi si rese confusamente conto che il peso della massa di corpi su di lui diminuiva. Qualcuno
    gridava al disopra del tumulto e la voce gli suonava familiare.
    Improvvisamente si trovò senza più nessuno addosso, steso per terra da solo a fissare semistordito
    una moltitudine di facce indiane intorno a lui. Una delle facce si chinò verso di lui. Era Uccello
    Saltellante.
    << Bisonti >>, disse il tenente.
    Ansimava, cercando affannosamente di respirare, e la sua voce non era stata che un sussurro.
    Uccello Saltellante grugnì e scosse la testa. Chinò la testa fino ad avvicinare l'orecchio alla
    bocca di Dunbar e il tenente ripeté la parola, lottando con tutte le sue forze per dirla con l'esatta
    pronuncia.
    << Bisonti. >>
    Adesso, gli occhi di Uccello Saltellante guardavano nuovamente quelli del tenente.
    << Bisonti? >>
    << Sì >>, disse Dunbar, mentre un debole sorriso gli illuminava il volto. << Sì... bisonti... bisonti. >>
    Esausto, chiuse gli occhi per un momento e udì la voce di Uccello Saltellante rompere il silenzio
    con il fragore di un tuono mentre gridava quella parola.
    Come un ruggito, dalla gola di ogni comanci esplose in risposta un urlo di gioia e per un istante
    il tenente pensò che quella forza lo stesse travolgendo. Batté le palpebre e attraverso gli occhi
    appannati si rese conto che delle robuste braccia lo stavano risollevando da terra.
    Quando fu in piedi e riuscì a mettere a fuoco lo sguardo, venne salutato da un gran numero di
    facce raggianti. Si stavano tutti accalcando intorno a lui.



    (continua)

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    00 29/10/2007 18:30
    (segue)


    18



    Andarono tutti.
    L'accampamento vicino al fiume venne lasciato praticamente deserto, quando l'imponente
    carovana si mosse all'alba.
    Vennero mandati degli esploratori in ogni direzione. Il grosso dei guerrieri a cavallo
    procedeva in testa alla colonna. Dietro, venivano le donne e i bambini, alcuni a cavallo,
    altri a piedi. Quelli che procedevano a piedi marciavano al fianco dei pony che trainavano
    delle portantine cariche di arnesi vari. I più vecchi erano trasportati su delle rozze slitte,
    anch'esse trainate dai pony. L'enorme branco dei pony chiudeva la colonna.
    Tutto era sorprendente. Le dimensioni della colonna, la velocità con la quale procedeva,
    l'incredibile frastuono che faceva, la meravigliosa organizzazione che dava a ognuno un
    suo posto e un suo compito.
    Ma ciò che il tenente Dunbar trovava più straordinario di tutto era il trattamento che gli veniva
    riservato. Dalla sera alla mattina era passato dalla condizione di qualcuno al quale la tribù
    guardava con sospetto o indifferenza a quella di una persona con una precisa connotazione.
    Adesso, le donne gli sorridevano apertamente e i guerrieri arrivavano persino a scherzare
    con lui. I bambini, e ve ne erano molti, cercavano costantemente la sua compagnia, diventando
    a volte una seccatura.
    Trattandolo in questo modo, i comanci rivelavano un aspetto di sé completamente nuovo,
    capovolgendo l'atteggiamento impassibile e guardingo che gli avevano mostrato in passato.
    Ora erano delle persone senza alcun timore o disagio per la sua presenza ed estremamente
    cordiali, e lo stesso avveniva per il tenente Dunbar.
    L'arrivo dei bisonti avrebbe risollevato il morale degli avviliti comanci in ogni caso, ma mentre
    la colonna avanzava rapida attraverso la prateria il tenente capì che la sua presenza dava un
    certo lustro all'impresa, e cavalcò un po' più eretto a questo pensiero.
    Molto prima che raggiungessero Fort Sedgewick, gli esploratori riferirono di aver trovato una
    grossa pista che segnalava il passaggio dei bisonti là dove aveva indicato il tenente e altri
    uomini vennero subito mandati a localizzare la zona di pascolo della mandria più grossa.
    Ciascun esploratore lasciò la colonna tirandosi dietro per le briglie alcuni cavalli freschi. Avrebbero
    cavalcato fino a che non avessero trovato la mandria, poi sarebbero tornati alla colonna per
    riferire sulla sua entità e a quante miglia di distanza si trovasse. Avrebbero anche riferito
    l'eventuale presenza di nemici appostati nelle vicinanze dei terreni di caccia comanci.
    Mentre la colonna proseguiva, Dunbar fece una breve sosta al forte. Raccolse una piccola
    provvista di tabacco, la pistola e il fucile, una giubba e una razione di granaglie per Cisco e di
    lì a pochi minuti era nuovamente a fianco di Uccello Saltellante e dei suoi assistenti.
    Quando ebbero attraversato il fiume, Uccello Saltellante gli fece cenno di avanzare e i due
    uomini cavalcarono oltre la testa della colonna. Fu allora che Dunbar vide per la prima volta
    la pista dei bisonti: una gigantesca striscia di terreno smosso e calpestato larga mezzo miglio
    che tagliava la prateria come una specie di immensa autostrada disseminata di escrementi
    di animali.
    Con i gesti, Uccello Saltellante gli stava descrivendo qualcosa che il tenente non riuscì ad
    afferrare quando, all'orizzonte, videro sollevarsi della polvere. Gradatamente, i nugoli di polvere
    diventarono degli uomini a cavallo. Due esploratori stavano tornando.
    Conducendo le cavalcature di scorta, arrivarono al galoppo e si fermarono direttamente di
    fronte al gruppo di Uccello Saltellante per fare il loro rapporto.
    Uccello Saltellante si fece avanti per conferire con loro e Dunbar, non sapendo che cosa si
    stessero dicendo, osservò attentamente lo stregone, sperando di indovinare qualcosa dalla
    sua espressione.
    Ciò che vide non gli fu di molto aiuto. Se avesse conosciuto la loro lingua avrebbe capito che
    la mandria si era fermata a pascolare in una grande vallata circa dieci miglia a sud dell'attuale
    posizione della colonna, un luogo che potevano facilmente raggiungere prima che scendesse
    la notte.
    La conversazione divenne improvvisamente animata e il tenente si piegò per azione riflessa
    in avanti, come se volesse ascoltare. Gli esploratori facevano degli ampi gesti, indicando
    prima a sud e poi verso Est. I volti di chi li ascoltava si incupirono notevolmente e, dopo aver
    interrogato gli esploratori per qualche altro minuto, senza scendere dai loro cavalli Uccello
    Saltellante e i suoi più stretti consiglieri tennero un consiglio.
    Dopo breve tempo, due di loro si staccarono dal gruppo dirigendosi al galoppo lungo la
    colonna. Mentre questi si allontanavano, Uccello Saltellante si girò brevemente a guardare
    il tenente, e Dunbar conosceva il suo viso abbastanza bene da capire che la sua espressione
    significava che non tutto andava come avrebbe dovuto.
    Sentì un rumore di cavalli dietro di lui e Dunbar si voltò per vedere una dozzina di guerrieri che
    arrivavano al galoppo in direzione del fronte della colonna. A capo del gruppo vi era l'indiano
    focoso.
    Si fermarono accanto a Uccello Saltellante e ai suoi consiglieri, si consultarono brevemente e,
    prendendo con loro uno degli esploratori, partirono veloci verso Est.
    La colonna si rimise in marcia. Uccello Saltellante tornò al suo posto accanto al soldato bianco.
    Vide che gli occhi del tenente erano pieni di domande, ma non era possibile dargli una
    spiegazione, dirgli di questo cattivo auspicio.
    Nelle vicinanze erano stati individuati dei nemici, dei nemici misteriosi provenienti da un altro
    mondo. Con i loro atti si erano dimostrati degli uomini senza valore e senz'anima, gente che
    massacrava spietatamente gli animali senza alcun rispetto per i diritti dei comanci. Era
    importante che venissero puniti.
    Così Uccello Saltellante evitò gli occhi interrogativi del tenente. Volse invece lo sguardo verso
    la nuvola di polvere del gruppo di Vento-nei-capelli che si allontanava verso Est e disse
    silenziosamente una preghiera per il successo della loro missione.


    (continua)

    [Modificato da auroraageno 29/10/2007 18:34]

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    00 30/10/2007 10:29
    (segue)


    Nello stesso momento in cui vide le gobbe di colore roseo profilarsi a distanza, capì che
    stava andando incontro a qualcosa di spiacevole. Vi erano delle macchie nere sulle gobbe
    rosate e a mano a mano che la colonna si avvicinava, riuscì a vedere che le gobbe si stavano
    muovendo. Persino l'aria improvvisamente sembrò più vicina e il tenente si slacciò un altro
    bottone della giubba.
    Uccello Saltellante lo aveva portato alla testa della colonna con uno scopo. Ma la sua intenzione
    non era di infliggere una punizione, bensì di istruire. E vedere sarebbe servito allo scopo meglio
    di qualsiasi discorso. L'impatto sarebbe stato maggiore sul fronte della colonna. Maggiore
    per entrambi: anche per Uccello Saltellante era la prima volta che quella vista si presentava
    ai suoi occhi.
    Come dal mercurio di un termometro, un orribile miscuglio di disgusto e di repulsione salì su
    per la gola del tenente Dunbar. Dovette continuamente deglutire per trattenerlo, mentre lui e
    Uccello Saltellante guidavano la colonna attraverso il centro del terreno dove era avvenuto il
    massacro.
    Contò ventisette bisonti. E sebbene non riuscisse a contarli, arguì che i corvi che si accanivano
    sopra ogni carogna fossero almeno altrettanti. In alcuni casi le teste dei bisonti erano completamente
    ricoperte di questi uccelli neri che si disputavano fra loro gli occhi dell'animale fra furiose grida
    e agitare d'ali. Gli animali i cui occhi erano già stati strappati fungevano da ospiti a degli sciami
    più numerosi che beccavano voracemente mentre saltellavano da un punto all'altro della carcassa,
    defecando di quando in quando quasi a sottolineare l'abbondanza del loro festino.
    I lupi stavano facendo la loro comparsa da tutte le direzioni. Non appena la colonna fosse passata,
    si sarebbero avventati a dilaniare le spalle, i posteriori e i ventri degli animali.
    Ma ve ne sarebbe stato più che a sufficienza per ogni lupo e ogni corvo nel raggio di parecchie
    miglia. Il tenente fece un calcolo approssimativo e arrivò a una cifra di almeno ventidue tonnellate.
    Ventidue tonnellate di carne morta che si decomponeva al calore del sole pomeridiano.
    Tutto questo lasciato lì a marcire, pensò chiedendosi se qualche acerrimo nemico dei suoi amici
    indiani non lo avesse fatto intenzionalmente come un macabro avvertimento.
    I ventisette bisonti erano stati completamente scuoiati. Passando accanto ad alcune delle bestie
    di maggiori dimensioni, vide che dalle grosse bocche aperte era stata tolta la lingua. Anche altri
    animali erano privi della lingua. Ma solo di questa. Tutto il resto era stato lasciato.
    In tenente Dunbar pensò improvvisamente all'uomo anziano morto nel vicolo. Come questi
    bisonti, anche lui era sdraiato sul fianco. La pallottola che lo aveva colpito alla base del cranio
    gli aveva asportato il lato destro della mascella, uscendo dall'altra parte.
    Allora era soltanto John Dunbar, un ragazzo di quattordici anni. Negli anni seguenti aveva visto
    moltissimi altri morti: uomini con la faccia completamente asportata, uomini con il cervello che
    fuoriusciva dal cranio spargendosi come una poltiglia sul terreno. Ma l'uomo anziano, il primo
    morto che avesse visto, era quello che ricordava meglio. Soprattutto a causa delle sue dita.
    Si trovava alle spalle del poliziotto quando venne scoperto che al morto erano state tagliate
    le dita. Il poliziotto si era guardato intorno e aveva commentato: << L'hanno ammazzato per
    prendergli gli anelli >>.
    E adesso vi erano questi bisonti, morti lì sul terreno con le interiora sparse per tutta la prateria
    solo perché qualcuno voleva le loro lingue e le loro pelli. A Dunbar sembrava lo stesso tipo
    di crimine.
    Quando vide un vitello non ancora nato sporgere a metà dell'addome squarciato della madre,
    la stessa prima parola che aveva udito quella sera nel vicolo gli si formò di colpo nella mente
    come un segnale luminoso.
    Assassinio.
    Lanciò uno sguardo a Uccello Saltellante. Lo stregone stava fissando lo scempio del piccolo
    di bisonte: la sua faccia incupita era una maschera di tristezza.
    Il tenente Dunbar allora distolse gli occhi da lui e guardò la colonna dietro di loro. Stavano
    procedendo aprendosi la strada in mezzo alla carneficina. Affamati com'erano dopo settimane
    di scarsità di cibo, nessuno si era fermato a servirsi di quell'abbondanza sparsa tutt'intorno
    a loro. Le voci rauche che erano risuonate per tutta la mattinata, ora tacevano e lui poteva
    scorgere sui volti la malinconia che provocava in loro il constatare che una buona pista
    improvvisamente si era rivelata infausta.


    Quando raggiunsero i terreni di caccia, i cavalli disegnavano già delle lunghe ombre sul terreno.
    Mentre le donne e i bambini si mettevano al lavoro per piantare l'accampamento temporaneo
    a ridosso del fianco di una collina, la maggior parte degli uomini proseguì a cavallo per
    individuare la mandria prima che cadesse la notte.
    Il tenente Dunbar andò con loro.
    A circa un miglio dal nuovo accampamento si incontrarono con tre esploratori che si erano
    accampati per proprio conto a un centinaio di metri dall'imbocco dell'alveo di un largo torrente
    asciutto.
    Sessanta guerrieri comanci e un uomo bianco smontarono dai loro cavalli e si inerpicarono
    silenziosamente sul pendio occidentale che portava fuori del letto del torrente. Quando furono
    vicini alla cresta, si gettarono a terra e avanzarono strisciando per gli ultimi metri.
    Il tenente lanciò uno sguardo di aspettativa a Uccello Saltellante. L'indiano accennò un sorriso,
    indicando qualcosa davanti a loro e appoggiandosi poi un dito sulle labbra. Dunbar capì che
    erano arrivati.
    Oltre i pochi centimetri di terreno di fronte a lui non vi era altro che il cielo e si rese conto che
    avevano superato il dorso di un promontorio. Sollevò la testa, sbirciando in direzione dell'ampio
    avvallamento che si estendeva sotto di loro e sentì sul volto il vento pungente della prateria.
    Era una grandiosa vallata concava, larga quattro o cinque miglia e lunga almeno dieci,
    lussurreggiante di erba di ogni varietà che fluttuava mossa dalla brezza.
    Ma il tenente notò a malapena la distesa d'erba, o la vallata o le sue dimensioni. Persino il
    cielo, che ora si stava coprendo di nubi, e il sole che stava calando con il suo miracoloso
    spettacolo non potevano reggere il confronto con l'enorme, vivente coltre di bisonti che
    ricopriva il fondo della vallata.
    Che delle creature esistessero in tale quantità e che tutte si trovassero contemporaneamente
    a occupare il medesimo spazio, gli faceva vorticare nella mente delle cifre incalcolabili.
    Cinquanta, settanta, centomila? Forse di più? Il suo cervello si tirava indietro davanti a questa
    enormità.
    Non gridò, né saltò, né sussurrò qualcosa fra sé per lo stupore. L'assistere a ciò che aveva
    davanti annullava tutto, tranne ciò che stava vedendo. Non avvertiva le piccole rocce dalla forma
    bizzarra che gli premevano dolorosamente contro il corpo. Quando una vespa gli si appoggiò
    sulla punta della mascella, non la scacciò. Non riusciva a fare altro che guardare meravigliato
    quell'incredibile manto che ricopriva la prateria e che gli colmava la vista.
    Stava assistendo a un miracolo.
    Quando Uccello Saltellante gli batté sulla spalla, si accorse di essere rimasto con la bocca
    spalancata per tutto il tempo. Il vento della prateria gliel'aveva completamente inaridita.
    Dondolò leggermente la testa come per scuotersi dal torpore e guardò in giù lungo il pendio.
    Gli indiani avevano cominciato a scendere.


    (continua)



    _________Aurora Ageno___________
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    00 30/10/2007 18:29
    (segue)


    Avevano cavalcato nell'oscurità per mezz'ora quando apparvero i fuochi, come dei
    puntini luminosi in lontananza. Era così strano da sembrare un sogno.
    A casa, pensò. Siamo a casa.
    Come poteva essere? Un provvisorio accampamento di fuochi in una lontana pianura,
    popolato da duecento indigeni la cui pelle era diversa dalla sua, il cui linguaggio era
    un groviglio di grugniti e di grida, le cui credenze erano ancora misteriose e probabilmente
    avrebbero continuato a rimanere tali.
    Ma quella notte era molto stanco. Quella notte, l'accampamento prometteva il conforto
    di un luogo natio. Era il calore della propria casa e lui fu lieto di vederlo.
    Anche gli altri, il gruppo di uomini seminudi con cui aveva cavalcato per le ultime miglia,
    erano lieti di vederlo. Avevano ripreso a parlare. E i cavalli ne sentivano l'odore. Adesso,
    procedevano impazienti, cercando di rompere l'andatura e di mettersi a trottare.
    Desiderò di individuare Uccello Saltellante in mezzo alle indistinte sagome intorno a lui.
    Lo stregone diceva molte cose con i suoi occhi e lì, fuori nell'oscurità insieme con quel
    gruppo compatto di uomini selvaggi che si dirigevano al loro selvaggio accampamento,
    lui si sentiva sperduto senza i suoi occhi rivelatori.
    Erano a circa mezzo miglio dall'accampamento quando distinsero le voci e il suono dei
    tamburi. Dagli uomini che cavalcavano tutto intorno a lui si sollevò un brusio e di colpo
    i cavalli si misero a correre. Galopparono talmente vicini fra loro e così veloci che, per un
    momento, il tenente Dunbar sentì di far parte di una forza irrefrenabile, una possente ondata
    fatta di uomini e di cavalli alla quale nessuno avrebbe osato opporsi.
    Gli uomini lanciavano alte grida acute, come dei coyote, e Dunbar, preso dall'eccitazione,
    si lasciò andare anche lui a qualche urlo.
    Riusciva a scorgere le fiamme dei fuochi e le figure delle persone che si muovevano per
    l'accampamento. Ora si erano accorti degli uomini a cavallo che stavano ritornando e
    qualcuno stava correndo verso la prateria per andare loro incontro.
    L'accampamento gli dava una strana sensazione, una sensazione che gli diceva che vi era
    un'agitazione insolita, che durante la loro assenza era successo qualcosa al di fuori
    dell'ordinario. A mano a mano che si avvicinava spalancò gli occhi, cercando di cogliere
    qualche segno che gli indicasse che cosa vi fosse di differente.
    Poi vide il carro, fermo ai margini del fuoco più grande, altrettanto fuori luogo di una splendida
    carrozza che galleggi sulla superficie del mare.
    Vi erano degli uomini bianchi all'accampamento.
    Tirò con forza le redini e fermò il cavallo, lasciando che gli altri guerrieri continuassero la loro
    corsa mentre lui rimaneva indietro a raccogliere i suoi pensieri.
    Il carro gli appariva rozzo, qualcosa di sgradevole. Mentre Cisco si agitava nervosamente
    sotto di lui, il tenente si stupì dei suoi stessi pensieri. Quando immaginò le voci che erano
    arrivate con il carro, non volle sentirle. Non voleva vedere quei volti di uomini bianchi che
    sarebbero stati così curiosi di vedere il suo. Non voleva rispondere alle loro domande. Non
    voleva udire le notizie che da tempo non conosceva.
    Ma sapeva di non avere scelta. Non vi era nessun altro posto in cui andare. Allentò un poco
    le redini e Cisco si mosse, avanzando adagio.
    Quando fu a cinquanta metri, si fermò nuovamente. Gli indiani si agitavano vivacemente attorno
    agli uomini che avevano localizzato la mandria, mentre questi balzavano a terra dai loro pony.
    Aspettò che i pony venissero allontanati, poi scrutò attentamente tutti i volti che erano nel suo
    campo visivo.
    Non vi era nessun bianco.
    Lui e Cisco si avvicinarono maggiormente e di nuovo Dunbar si fermò, controllando attentamente
    con lo sguardo l'accampamento.
    Nessun bianco.
    Individuò l'indiano focoso e gli uomini del suo gruppo che si erano staccati da loro nel pomeriggio.
    Sembravano essere al centro dell'attenzione. Era molto di più di un saluto. Era una sorta di
    festeggiamento. Si passavano dall'uno all'altro dei lunghi bastoni, lanciando grida acute. Anche
    la gente dell'accampamento che si era riunita attorno a loro lanciava delle grida di incitamento.
    Lui e Cisco avanzarono di lato avvicinandosi ancora di più a loro e il tenente vide subito che si
    era sbagliato. Non erano dei bastoni quelli che si stavano passando di mano in mano. Erano
    delle lance. Una di queste ritornò a Uccello Saltellante e Dunbar lo vide sollevarla per aria. Non
    stava sorridendo, ma era sicuramente felice. Mentre l'indiano lanciava un lungo, vibrante
    ululato, Dunbar intravide i capelli legati in prossimità della punta della lancia.
    Nello stesso istante, si rese conto che era uno scalpo. Uno scalpo tolto da poco tempo. I capelli
    erano neri e ricciuti.
    I suoi occhi si spostarono fulminei sulle altre lance. Altre due di loro avevano degli scalpi, uno era
    castano chiaro e l'altro biondo rossiccio. Guardò rapidamente il carro e vide ciò che non aveva
    visto prima. Dalle traverse laterali del carro si intravedeva un carico di pelli di bisonte, accatastate
    l'una sull'altra.
    D'improvviso, tutto gli apparve chiaro come un cielo senza nubi.
    Le pelli appartenevano ai bisonti uccisi e gli scalpi appartenevano agli uomini autori del massacro,
    uomini che quello stesso pomeriggio erano ancora vivi. Uomini bianchi. Il tenente era inebetito
    dalla confusione. Non poteva prender parte a tutto questo, non poteva nemmeno stare a guardare.
    Doveva andarsene.
    Mentre si stava allontanando, scorse per un attimo Uccello Saltellante. Lo stregone sorrideva
    apertamente, ma quando vide il tenente Dunbar nelle ombre oltre la luce del fuoco, il suo sorriso
    svanì. Poi, come se volesse risparmiargli una situazione imbarazzante, voltò la schiena.
    Dunbar voleva credere che, nel suo animo, Uccello Saltellante fosse con lui, che in qualche modo
    vago sapesse della sua confusione. Ma ora non riusciva a pensare. Doveva andarsene da solo.
    Costeggiò l'accampamento e all'estremo lato individuò il suo equipaggiamento, poi si diresse
    con Cisco verso la prateria. Si allontanò fino a che non vide più i fuochi. Prese la coperta
    arrotolata, la distese sul terreno e si sdraiò, guardando le stelle sopra di sé e cercando di credere
    che gli uomini che erano stati uccisi erano gente malvagia e meritavano di morire. Ma non
    serviva. Non poteva esserne sicuro e anche se lo fosse stato... be', gli era difficile dirlo. Cercava
    di credere che Vento-nei-capelli e Uccello Saltellante, e tutta l'altra gente che aveva preso parte
    all'uccisione, non fossero poi così lieti di averlo fatto. Ma lo erano.
    Più di ogni altra cosa voleva credere che lui non si trovasse in quella situazione. Voleva credere
    che stesse galleggiando verso le stelle. Ma non era così.
    Sentì Cisco adagiarsi nell'erba con un pesante sospiro. Poi tutto fu quieto e Dunbar rivolse i suoi
    pensieri a se stesso. O, piuttosto, alla sua mancanza di una identità. Non apparteneva agli indiani.
    Non apparteneva ai bianchi. E per lui non era il momento di appartenere alle stelle.
    Apparteneva a dove si trovava in quel momento. Non apparteneva a niente.
    Un singhiozzo gli salì su per la gola. Dovette trattenersi per soffocarlo. Ma i singhiozzi continuavano
    a salire e non passò molto tempo prima che si convincesse che cercare di trattenerli non aveva
    alcun senso.


    Qualcosa lo stava urtando leggermente. Mentre si svegliava, pensò che il piccolo colpo che aveva
    avvertito alla schiena lo aveva sognato. La coperta era pesante e umida di rugiada. Doveva
    essersela tirata fin sopra la testa durante la notte.
    Sollevò l'orlo della coperta e sbirciò la brumosa luce del mattino. Cisco era lì nell'erba, davanti a
    lui. Aveva rizzato le orecchie.
    Ed eccolo nuovamente, qualcosa che lo stava colpendo leggermente nella schiena. Il tenente
    Dunbar buttò indietro la coperta e vide la faccia di un uomo ritto in piedi accanto a lui. Era
    Vento-nei-capelli. Il volto arcigno era dipinto con delle strisce color ocra. Una delle sue mani
    brune reggeva un fucile nuovo fiammante. Cominciò a muovere il fucile e il tenente trattenne
    il fiato. Forse era arrivata la sua ora. Si figurò i suoi capelli, appesi alla sua lancia.
    Ma mentre sollevava il fucile, Vento-nei-capelli sorrise. Toccò il fianco del tenente con la punta
    del piede e disse qualche parola in comanci. Il tenente Dunbar rimase immobile e Vento-nei-
    capelli puntò il fucile verso il basso, come se mirasse a dell'immaginaria selvaggina. Poi si ficcò
    un immaginario boccone di cibo in bocca e come un amico che inciti allegramente un altro, gli
    solleticò nuovamente le costole con la punta del suo mocassino.



    (continua)


    _________Aurora Ageno___________
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