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BALLA COI LUPI - romanzo completo

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    BALLA COI LUPI - Romanzo di Michael Blake
    Titolo dell’opera originale: “Dances with Wolves”
    Traduzione di Liliana Bollini
    Edizione Club su licenza Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
    Prima ristampa febbraio 1992


    Da questo libro è stato tratto il famoso film “Balla coi lupi” di, e con, Kevin Costner,
    vincitore di sette premi Oscar.



    1



    Il tenente Dunbar non era realmente inghiottito. Ma quella fu la prima parola che gli
    si fissò nella mente.
    Tutto era immenso.
    Quel vasto cielo azzurro senza una nube. Quell’oceano d’erba che ondeggiava al
    vento. Null’altro, fino a dove riusciva a spingere lo sguardo. Non una pista, non una
    traccia di solchi lasciati da altre ruote che il carro potesse seguire. Solo lo spazio,
    assoluto e vuoto.
    Si sentiva alla deriva. La sensazione gli faceva pulsare il cuore in un modo strano
    e profondo.
    Seduto sul largo e piatto sedile, il tenente Dunbar lasciò che il suo corpo fluttuasse
    insieme con la prateria, i suoi pensieri concentrati sui battiti del suo cuore. Si sentiva
    eccitato. Eppure, il suo sangue non scorreva più veloce. Lo sentiva fluire normalmente
    per tutto il corpo e questa confusione faceva lavorare la sua mente in un modo piacevole.
    Le parole continuavano a volteggiare nella sua testa mentre cercava di trovare delle
    frasi o delle espressioni che potessero descrivere ciò che sentiva. Era difficile definirlo
    con esattezza.
    << Tutto ciò ha del religioso >>, erano state le prime parole che la voce della mente
    aveva formulato al terzo giorno della loro missione. E quella frase sembrava tuttora la
    più giusta. Ma il tenente Dunbar non era mai stato religioso, così, anche se quella frase
    gli sembrava appropriata, non sapeva che cosa dedurne.
    Se non fosse stato così trasportato dalle emozioni, il tenente Dunbar sarebbe
    probabilmente arrivato alla spiegazione, ma nelle sue fantasticherie la saltò a piè pari.
    Il tenente Dunbar era innamorato. Si era innamorato di quella terra splendida e selvaggia
    e di tutto ciò che vi era in lei. Era il genere d’amore che si sogna di provare con le altre
    persone: privo di ogni egoismo e di ogni dubbio, reverente e duraturo. Il suo spirito era
    stato gratificato e il suo cuore gli balzava in petto. Forse era per questo che l’attraente
    tenente di cavalleria aveva pensato alla religione.
    Di sottecchi intravide Timmons chinare la testa di lato e sputare per la millesima volta
    nell’erba folta e alta fino alla cintola. Come spesso accadeva, lo sputo gli uscì dalla bocca
    in un fiotto irregolare che lo costrinse a ripulirsi con il dorso della mano. Dunbar non disse
    nulla, ma dentro di sé gli incessanti sputi di Timmons gli provocavano un senso di
    ripugnanza.
    Era un gesto innocuo, ma gli risultava comunque irritante, come l’essere costretto in
    permanenza a guardare qualcuno che si ficcava le dita nel naso.
    Erano rimasti seduti fianco a fianco tutta la mattinata, ma solo perché il vento spirava
    nella direzione giusta. Sebbene non fossero distanti più di un passo o due l’uno dall’altro,
    la brezza leggera ma tesa gli permetteva di non sentire l’odore di Timmons. Nei suoi scarsi
    trent’anni di vita aveva sentito molte volte l’odore della morte, e non vi era niente di
    peggiore.


    (continua)
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    [Modificato da auroraageno 10/01/2008 18:13]

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    (segue)

    Ma la morte veniva sempre aggirata, seppellita o scansata, e con Timmons non era possibile fare niente di questo. Quando l’aria cambiava direzione, il suo puzzo avvolgeva
    il tenente Dunbar come una nuvola infetta e invisibile.
    Così, quando la direzione del vento era sfavorevole, il tenente Dunbar scivolava via dal
    sedile, andandosi a piazzare in cima alla montagna di provviste che si trovava nel retro del carro.. A volte se ne restava là per ore, altre volte balzava giù dal carro dentro l’erba alta,
    slegava Cisco, il suo cavallo, e cavalcava davanti al carro per un miglio o due.
    Volse gli occhi a guardarlo mentre arrancava legato per la briglia dietro al carro, il muso
    affondato nella sacca del foraggio e il mantello color bruno fulvo che brillava ai raggi del
    sole. Dunbar sorrise alla vista del suo cavallo e per un breve attimo desiderò che i cavalli
    potessero vivere altrettanto a lungo degli uomini. Con un po’ di fortuna, Cisco avrebbe
    campato per altri dieci o dodici anni. Ci sarebbero stati altri cavalli dopo di lui, ma questo
    era uno di quegli animali che capitavano una sola volta nella vita. Una volta che se ne
    fosse andato, non sarebbe stato possibile sostituirlo.
    Mentre il tenente Dunbar lo osservava, il cavallo sollevò improvvisamente i suoi occhi
    ambrati dall’orlo della sacca, quasi per controllare dove fosse il tenente e, rassicurato
    da ciò che vide, tornò a masticare il suo foraggio.
    Dunbar si raddrizzò sul sedile improvvisato, infilò una mano nella giubba e ne trasse un
    foglio di carta ripiegato. Quel pezzo di carta dell’esercito lo preoccupava, perché vi erano
    riportati i suoi ordini. Aveva fatto scorrere i suoi occhi scuri e senza pupille su quel foglio
    una mezza dozzina di volte, da quando aveva lasciato Fort Hays, ma per quanto lo esaminasse, non riusciva a sentirsi meglio.
    Avevano sbagliato a scrivere il suo nome due volte. Il maggiore dall’alito che puzzava di
    liquore che aveva firmato il foglio, aveva maldestramente passato la manica sopra
    l’inchiostro ancora fresco e la firma ufficiale era malamente sbavata. L’ordine non era
    stato datato e il tenente Dunbar aveva apposto lui stesso la data quando già erano in
    cammino. Ma aveva usato una matita e la data così tracciata contrastava nettamente
    con i tratti a penna del maggiore e con i caratteri a stampa dell’intestazione del modulo.
    Il tenente Dunbar sospirò: non aveva per niente l’aspetto di un foglio d’ordini dell’esercito.
    Sembrava un pezzo di carta da buttare.
    Osservandolo, si ricordò di come ne era venuto in possesso, e la cosa lo preoccupò
    maggiormente. Quello con il maggiore dall’alito che puzzava di liquore fu uno strano
    colloquio.
    Nella sua impazienza di venire assegnato, dal deposito ferroviario si era diretto
    immediatamente al quartier generale. Il maggiore era la prima e unica persona con la
    quale aveva parlato, da quando era arrivato, fino al momento in cui, quello stesso pomeriggio, si era issato su quel carro per sedersi accanto al puzzolente Timmons.
    Gli occhi striati di sangue del maggiore lo avevano osservato a lungo. Quando, infine,
    aveva parlato, lo aveva fatto senza riguardi e con tono sarcastico.
    << Così, lei è uno che combatte gli indiani, eh? >>
    << Be’, non in questo momento, signore. Ma credo che potrei farlo. So combattere. >>
    << Un combattente, eh? >>
    Il tenente Dunbar non aveva risposto. Erano rimasti a guardarsi in silenzio per quello che
    era sembrato un lungo momento, prima che il maggiore iniziasse a scrivere. Aveva scritto
    furiosamente, incurante dei rivoli di sudore che gli colavano giù dalle tempie. Dunbar
    aveva notato che altre gocce di sudore dall’aspetto untuoso gli imperlavano la cima della
    testa quasi calva. Intorno al cranio erano appiccicate delle strisce sudice dei pochi capelli
    che gli restavano e che al tenente Dunbar davano l’impressione di qualcosa di malsano.
    Il maggiore non smise di scribacchiare se non per tossire un grumo di catarro e sputarlo
    in un lurido secchio a lato del tavolo. In quel momento, il tenente Dunbar desiderò che
    l’incontro avesse termine. Tutto, in quell’uomo, lo faceva apparire come una persona
    malata.


    (continua)


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    (segue)

    Il tenente Dunbar aveva visto più esattamente di quanto non sapesse, perché quell’uomo
    per qualche tempo era rimasto appeso alla sanità mentale per un sottilissimo filo, e quel
    filo si era alla fine spezzato dieci minuti prima che il tenente Dunbar entrasse nel suo
    ufficio. Il maggiore era rimasto seduto tranquillamente alla sua scrivania, le mani
    intrecciate appoggiate davanti a lui, e aveva dimenticato la sua vita intera. Era stata una
    vita senza alcun potere, alimentata dalle pietose elemosine che vengono elargite a coloro
    che servono ubbidienti ma che non diventeranno importanti. Ma tutti gli anni di vita che
    aveva lasciato passare, tutti gli anni di scapolo solitario, tutti gli anni di lotta con la bottiglia
    erano svaniti come per magia. La grigia oppressione dell’esistenza del maggiore
    Fambrough era stata soppiantata da un avvenimento imminente e piacevole. Poco prima
    dell’ora di cena, sarebbe stato incoronato re di Fort Hays.
    Il maggiore terminò di scrivere e prese in mano il foglio.
    << Lei è assegnato a Fort Sedgewick; riferirà direttamente al capitano Cargill. >>
    Il tenente Dunbar abbassò lo sguardo su quel disordinato modulo.
    << Sissignore. E come posso raggiungerlo, signore? >>
    << Crede forse che io lo sappia? >> disse il maggiore bruscamente.
    << No, signore. Certamente no. Soltanto, non so come arrivarci. >>
    Il maggiore si appoggiò allo schienale della sedia, si strofinò le mani sul davanti dei
    pantaloni e sorrise compiaciuto.
    << Oggi mi sento di essere generoso e le farò un favore. Un carro carico di provviste del
    territorio lascia fra poco il forte. Trovi il bifolco che risponde al nome di Timmons e vada
    con lui. >> Indicò il foglio che Dunbar teneva nella mano. << La mia firma vale come
    salvacondotto entro le centocinquanta miglia di territorio aperto. >>
    Fin dagli inizi della sua carriera il tenente Dunbar aveva imparato a non discutere le
    eccentricità degli ufficiali da campo di grado superiore. Con un rapido << Sissignore >>,
    aveva fatto il saluto regolamentare e aveva girato sui tacchi. Aveva rintracciato Timmons,
    era tornato di corsa al treno a prendere Cisco e di lì a mezz’ora era in viaggio in direzione
    di Fort Sedgewick.
    E ora, mentre fissava il foglio con gli ordini dopo che avevano percorso un centinaio di
    miglia, si trovò a pensare che forse tutto sarebbe andato a posto.
    Sentì che il carro rallentava l’andatura. Timmons osservava qualcosa nell’erba lì vicino
    a loro, mentre il carro si arrestava del tutto.
    << Guardi laggiù. >>
    Una macchia di bianco spiccava nell’erba a non più di venti passi dal carro. Scesero
    entrambi per andare a vedere.
    Era uno scheletro umano, le ossa di un bianco abbagliante, le orbite vuote del teschio
    che fissavano il cielo sopra di loro.
    Il tenente Dunbar si inginocchiò accanto alle ossa. Fra le costole della gabbia toracica
    erano cresciuti dei lunghi ciuffi d’erba e numerose frecce, almeno una ventina, spuntavano
    come degli spilli conficcati in un cuscino. Dunbar ne estrasse una dal terreno e la rotolò
    fra le mani.
    Mentre faceva scorrere le dita lungo l’asta, sentì la voce petulante di Timmons al disopra
    della sua spalla.
    << Qualcuno, su all’Est, si starà chiedendo perché non dà sue notizie. >>



    (continua)


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    (segue:)


    Quella sera piovve a dirotto. Ma la pioggia arrivò a scrosci violenti e irregolari come
    spesso accade con i temporali estivi, così che sembrò che fosse meno umido di quanto
    non avvenisse in altri periodi dell’anno e i due viaggiatori dormirono comodamente sotto
    il carro protetto da un telone che non lasciava passare l’acqua.
    Il quarto giorno passò più o meno come gli altri, senza nulla di particolare, e così il quinto
    e il sesto. Il tenente Dunbar era deluso dalla mancanza di bisonti. Non aveva avvistato
    un solo animale. Timmons diceva che a volte le grosse mandrie sembravano scomparire
    del tutto. Ma aveva aggiunto che non era il caso di preoccuparsi, perché quando fossero
    apparsi, i bisonti sarebbero stati più numerosi delle locuste.
    Non avevano visto nemmeno un indiano, e per questo fatto Timmons non aveva alcuna
    spiegazione. Aveva soltanto detto che se avesse visto un altro indiano, sarebbe sempre
    stato troppo presto, e che era molto meglio per loro non avere dei ladri e degli straccioni
    alle calcagna.
    Ma al settimo giorno Dunbar ormai prestava ascolto soltanto alla metà di quello che diceva
    Timmons.
    Mentre percorrevano le ultime miglia che restavano, pensava sempre di più al momento in
    cui sarebbe arrivato a destinazione.


    Il capitano Cargill si tastò con le dita l’interno della bocca, con gli occhi che fissavano un
    punto verso l’alto mentre si concentrava. Un lampo di certezza, e un rapido aggrottare
    delle sopracciglia.
    Un altro dente che se ne sta andando, pensò. Al diavolo.
    Con aria afflitta, il capitano fece scorrere lo sguardo da una all’altra delle umide pareti di
    terriccio che formavano il suo alloggio. Non c’era assolutamente nulla da vedere. Era
    come una cella.
    Alloggio, pensò con sarcasmo. Un dannato alloggio.
    Da più di un mese tutti usavano quel termine, persino il capitano. Lo faceva
    sfrontatamente anche di fronte ai suoi uomini, e loro di fronte a lui. Ma non era qualcosa
    di confidenziale, un modo cameratesco di scherzare: era una vera imprecazione.
    Ed era un brutto momento.
    Il capitano Cargill ritrasse la mano dalla bocca. Rimase seduto nell’oscurità del suo
    dannato alloggio e ascoltò. Fuori, tutto era calmo, e quella calma gli spezzava il cuore.
    In condizioni normali, l’aria sarebbe stata piena dei rumori degli uomini impegnati nei loro
    compiti. Ma da molti giorni non vi era stato alcun compito di servizio. Persino quelli di
    ordinaria amministrazione si erano persi lungo il cammino. E non c’era nulla che il
    capitano potesse fare in proposito. Questo era ciò che lo faceva soffrire.
    Mentre ascoltava il terribile silenzio del luogo, capì che non poteva aspettare oltre. Oggi
    avrebbe dovuto prendere la decisione che aveva tanto temuto. Anche se questo significava il disonore, o la rovina della sua carriera. O peggio.
    Respinse quel << peggio >> dalla sua mente e si alzò pesantemente dalla sedia. Mentre
    si dirigeva verso la porta, per un momento armeggiò con un bottone allentato della sua
    giubba. Il bottone si staccò dal filo e rimbalzò sul pavimento. Non si preoccupò di
    raccoglierlo. Non c’era niente con cui poterlo riattaccare.
    Quando fu all’esterno, nella vivida luce del sole, il capitano Cargill si concesse di
    immaginare un’ultima volta che nel cortile vi fosse un carro arrivato da Fort Hays.
    Ma non c’era nessun carro. Solo quel luogo lugubre, quel foruncolo sul terreno che
    non meritava un nome.
    Fort Sedgewick.


    (continua)

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    (segue:)


    In piedi sulla porta della sua cella di terriccio, il capitano Cargill sembrava quasi ubriaco.
    Era senza berretto ed era esausto, e stava valutando attentamente per un’ultima volta.
    Il recinto non molto solido che fino a poco tempo prima aveva ospitato una cinquantina
    di cavalli era vuoto. In due mesi e mezzo i cavalli erano stati rubati, rimpiazzati e
    nuovamente rubati. I comanci si erano abbondantemente serviti fino all’ultimo cavallo.
    Spostò lo sguardo verso il deposito dei rifornimenti dall’altra parte dello spiazzo di fronte
    a lui. A parte quel suo dannato alloggio, era l’unica struttura che fosse rimasta in piedi
    a Fort Sedgevick. Era stata una brutta faccenda fin dall’inizio. Nessuno aveva idea di
    come costruire con il terriccio, e due settimane dopo essere stato terminato, buona parte
    del tetto era sprofondato. Una delle pareti era talmente incurvata al centro che sembrava
    impossibile che continuasse a reggere. Di certo sarebbe crollata presto.
    Non ha importanza, pensò il capitano Cargill, soffocando uno sbadiglio.
    Il deposito dei rifornimenti era vuoto. Era vuoto ormai da buona parte dell’ultimo mese.
    Avevano tirato avanti con quello che era rimasto delle gallette e con quello che erano
    riusciti a cacciare nella prateria, soprattutto conigli e galline faraone. Aveva desiderato
    con tutte le sue forze che tornassero i bisonti. Persino ora, al pensiero di una spessa
    bistecca si sentiva rimescolare tutto. Cargill serrò le labbra e scacciò le lacrime che
    improvvisamente gli avevano riempito gli occhi.
    Non c’era niente da mangiare.
    Camminò per una cinquantina di metri sul terreno nudo e aperto fino al limite del
    promontorio sul quale Fort Sedgewick era stato costruito e guardò in basso verso il corso
    d’acqua che scorreva tranquillamente e senza alcun rumore a una trentina di metri sotto
    di lui. Lungo le sue sponde era visibile uno strato di vari materiali di rifiuto, e persino in
    assenza del vento l’odore disgustoso dei rifiuti umani impregnò le narici del capitano
    Cargill. Rifiuti umani mescolati a qualsiasi altra cosa che stesse marcendo laggiù in
    fondo.
    Lo sguardo del capitano si spostò lungo il pendio del promontorio proprio mentre due
    uomini emergevano da una delle buche scavate per dormirvi e che davano al terreno
    l’aspetto della pelle butterata dal vaiolo. I due ammiccarono un attimo all’intensa luce
    del sole. Guardarono in su verso il capitano, ma non fecero alcun gesto di riconoscimento.
    E nemmeno Cargill lo fece. I due soldati si acquattarono nuovamente nelle loro buche,
    come se la vista del loro comandante li avesse costretti a rientrarvi, lasciando il capitano
    da solo sulla cima del promontorio.
    Cargill pensò alla sparuta delegazione che i suoi uomini avevano inviato ai suoi alloggi
    otto giorni prima. La loro richiesta era stata ragionevole. In effetti, era stata necessaria.
    Ma il capitano si era rifiutato di prendere una decisione. Sperava ancora che arrivasse
    un carro. Sentiva che era suo dovere sperare che arrivasse.
    Da quel giorno, nessuno gli aveva più parlato, nemmeno una parola. A eccezione delle
    sortite di caccia al pomeriggio, gli uomini se ne erano rimasti nei pressi delle loro buche,
    senza comunicare, facendosi vedere raramente.
    Il capitano Cargill si avviò per tornare al suo dannato alloggio, ma a metà strada si fermò.
    Rimase fermo in mezzo allo spiazzo, fissando le punte consumate degli stivali.
    << Adesso >>, mormorò dopo aver riflettuto per qualche istante, e ritornò con decisione
    sui propri passi.


    (continua)


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    Dovette chiamare il caporale Guest tre volte, prima che qualcosa si muovesse davanti a
    una delle buche. Dapprima apparvero due spalle ossute, chiuse in una giubba priva di
    maniche, poi una faccia dall’espressione tetra si sollevò a guardare in alto verso il ciglio
    del promontorio. L’uomo fu improvvisamente bloccato per un attimo da un attacco di tosse
    e Cargill aspettò che passasse, prima di parlare.
    << Riunisca gli uomini davanti ai miei dannati alloggi entro cinque minuti. Tutti, anche
    quelli inabili al servizio. >>
    Il soldato portò stancamente due dita all’altezza della tempia e scomparve dentro la buca.
    Venti minuti dopo gli uomini di Fort Sedgewick, il cui aspetto li faceva assomigliare più
    a una banda di prigionieri ai quali fossero stati inflitti i peggiori maltrattamenti che non a
    dei soldati, erano riuniti sullo spiazzo davanti all’orrenda baracca di Cargill.
    Erano in diciotto. Diciotto dei cinquanta che erano stati in precedenza. Trentatrè di loro
    avevano disertato, rischiando qualunque cosa li aspettasse là fuori nella prateria. Cargill
    aveva mandato una pattuglia di sette uomini a cavallo a inseguire il gruppo di disertori più
    numeroso. Forse erano morti, o forse avevano disertato anche loro. Non erano più tornati.
    E ora, non rimanevano che diciotto uomini, distrutti e in condizioni pietose.
    Il capitano Cargill si schiarì la gola.
    << Sono fiero di tutti voi per essere rimasti >>, esordì.
    La piccola parata di zombi non disse nulla. << Riunite le vostre armi e tutto quanto vi
    interessi portar via di qui. Non appena sarete pronti, ci metteremo in marcia verso Fort
    Hays. >>
    Prima ancora che avesse finito la frase, i diciotto si stavano già muovendo, correndo
    disordinatamente come degli ubriachi verso le loro buche al di sotto del promontorio,
    come se avessero paura che il capitano Cargill avrebbe potuto cambiare idea, se non
    si fossero sbrigati in fretta.
    In meno di un quarto d’ora era tutto finito. Il capitano Cargill e il suo spettrale reparto
    iniziarono rapidamente la loro marcia attraverso la prateria, dirigendosi a est per affrontare
    le centocinquanta miglia che li separava da Fort Hays.
    Quando se ne furono andati dal forte, un silenzio totale calò su quel simbolo dell’esercito
    diventato ormai inutile. Dopo cinque minuti un lupo solitario apparve sulla riva al di là
    del fiume. Si fermò ad annusare il leggero vento che soffiava nella sua direzione. Decise
    che era meglio lasciar perdere quel luogo di morte e se ne trotterellò via.
    E così l’abbandono del più lontano avamposto dell’esercito, l’avanguardia di un grandioso
    schema per portare la civiltà all’interno dei territori della frontiera dell’Ovest, divenne
    totale.
    L’esercito lo avrebbe considerato unicamente un insuccesso, un rinvio dell’espansione
    dei territori che avrebbe dovuto attendere fino a che la guerra civile non avesse fatto il suo
    corso, ma, per il momento, la storia ufficiale di Fort Sedgewick si era miseramente
    interrotta. Il capitolo mancato della storia di Fort Sedgewick, e il solo che avrebbe mai
    potuto aspirare alla gloria, stava per iniziare.


    (continua)


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    (segue)


    Fu con impazienza che il tenente Dunbar vide l’alba spuntare. Stava già pensando a
    Fort Sedgewick mentre ancora batteva le palpebre, cercando di svegliarsi completamente
    e di mettere a fuoco le assi del carro al disopra della sua testa. Pensava al capitano
    Cargill e ai suoi uomini, e a come sarebbe stato il posto e come sarebbe stato il suo
    primo servizio di pattuglia, e a un migliaio di altre cose che gli vorticavano con eccitazione
    nella testa.
    Quello era il giorno in cui sarebbe arrivato a destinazione, realizzando il sogno coltivato
    da tempo di essere assegnato in servizio alla frontiera dell’Ovest.
    Buttò di lato la coperta che gli aveva fatto da giaciglio e rotolò fuori da sotto il carro.
    Rabbrividendo nella prima luce dell’alba, si infilò gli stivali e cominciò a muoversi
    impaziente attorno al carro.
    << Timmons >>, sussurrò, chinandosi per guardare sotto il carro.
    Avvolto nel suo sgradevole odore, il conducente dormiva profondamente. Il tenente lo
    toccò con la punta dello stivale.
    << Timmons. >>
    << Sì? Che cosa c’è? >> mormorò il conducente con la voce impastata di sonno e
    tirandosi su a sedere, allarmato.
    << Muoviamoci. >>


    La colonna del capitano Cargill aveva continuato ad avanzare e alle prime ore del
    pomeriggio aveva coperto poco meno di dodici miglia.
    Anche l’umore aveva fatto progressi. Gli uomini cantavano rinfrancati, mentre
    procedevano in ordine sparso per la prateria. Il suono delle voci sollevò oltremodo
    il morale del capitano Cargill. Sentire i suoi uomini cantare gli conferiva una grande
    risolutezza d’animo. L’esercito poteva metterlo davanti a un plotone di esecuzione,
    se voleva, e lui avrebbe comunque fumato la sua ultima sigaretta con un sorriso.
    Aveva preso la decisione giusta. Nessuno poteva convincerlo del contrario.
    E mentre procedeva attraverso l’ampia distesa erbosa, sentì rifluire in lui una
    soddisfazione da tempo perduta. La soddisfazione del comando. Stava di nuovo
    pensando come un comandante. Desiderò che si trattasse di una vera marcia,
    una marcia con una colonna di soldati a cavallo.
    In questo momento avrei dei drappelli sui fianchi della colonna, distaccati da un buon
    miglio a nord e a sud.
    E mentre ci pensava, guardò veramente verso sud.
    Poi Cargill distolse lo sguardo, ignaro che se un drappello si fosse trovato in avanscoperta
    a sud in quello stesso momento, avrebbe trovato qualcosa.
    Avrebbero trovato due viaggiatori che avevano sostato per dare un’occhiata ai rottami
    bruciati di un carro rovesciato in un burrone poco profondo.
    Uno, con uno strano puzzo che gli aleggiava intorno; l’altro, un giovane dall’aspetto
    decisamente attraente con indosso l’uniforme.
    Ma non vi erano drappelli in avanscoperta, così passarono inosservati.
    La colonna del capitano Cargill proseguì risolutamente la sua marcia, aprendosi cantando
    la strada verso est, in direzione di Fort Hays.
    E dopo la loro breve sosta, il giovane tenente e il conducente del carro ripresero posto
    sul sedile, spingendosi a Ovest verso Fort Sedgewick.


    (continua)

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    (segue)

    2



    Al secondo giorno dopo che avevano abbandonato il forte, gli uomini del capitano
    Cargill abbatterono una femmina di bisonte da una piccola mandria di dodici capi
    e si dedicarono con energia per alcune ore a festeggiare alla maniera indiana con
    quella carne deliziosa. Gli uomini avevano insistito per arrostire una grossa fetta
    tagliata dalla gobba dell’animale per il loro capitano, e gli occhi del comandante
    brillavano di piacere mentre affondava nella carne i denti che ormai gli rimanevano
    e faceva sciogliere in bocca quel cibo paradisiaco.
    La fortuna continuò ad arridere alla colonna del capitano Cargill e verso mezzogiorno
    del quarto giorno si imbatterono in un grosso reparto dell’esercito in missione di
    perlustrazione. Il maggiore al comando del reparto poté leggere la storia di quello che
    avevano passato nelle condizioni degli uomini del capitano Cargill e la sua compassione
    fu immediata.
    Con una mezza dozzina di cavalli a prestito e un carro per chi non era in grado di
    cavalcare, la colonna del capitano Cargill proseguì speditamente arrivando a Fort Hays
    quattro giorni dopo.



    A volte succede che le cose che si temono maggiormente alla fine si rivelino il minore dei
    mali, e così fu per il capitano Cargill. Non venne arrestato per aver abbandonato Fort
    Sedgewick: tutt’altro. I suoi uomini, che solo pochi giorni prima erano stati pericolosamente
    vicini all’insubordinazione raccontarono la loro storia di privazioni a Fort Sedegewick e non
    un solo soldato mancò di descrivere il capitano Cargill come un superiore nel quale
    riponevano la massima fiducia. Fino all’ultimo uomo testimoniarono tutti che senza il
    capitano Cargill nessuno di loro ce l’avrebbe fatta.
    L’esercito della frontiera dell’Ovest, le sue risorse e il suo morale, ne furono oltremodo
    impressionati, e fu con estremo compiacimento che vennero ascoltate tutte queste
    testimonianze.
    Vennero prese immediatamente due misure. Il comandante dell’avamposto fece un
    rapporto completo dell’abbandono di Fort Sedgewick al generale Tide presso il quartier
    generale territoriale di St. Louis, concludendo con il suggerimento di rinunciare a
    rioccupare Fort Sedgewick, almeno fino a nuovo ordine. Il generale Tide si dichiarò
    completamente d’accordo e di lì a pochi giorni Fort Sedgewick cessò di avere qualsiasi
    collegamento con il governo degli Stati Uniti. Diventò un posto inesistente.
    La seconda misura riguardò il capitano Cargill. Venne trattato come un vero eroe e gli
    vennero conferite, in rapida successione, la medaglia al valore e la promozione al grado
    di maggiore. Alla mensa ufficiali venne organizzata in suo onore una << cena della
    vittoria >>.
    Fu mentre la cena volgeva al termine che il capitano Cargill venne a conoscenza di una
    curiosa storia che era stata al centro dei commenti a Fort Hays poco prima del suo
    trionfale arrivo.
    Il vecchio maggiore Fambrough, un amministrativo di medio livello con uno stato di
    servizio non particolarmente brillante, era impazzito. Un pomeriggio si era messo al
    centro dello spiazzo della parata, blaterando in modo sconnesso del suo regno e
    chiedendo che gli venisse data la sua corona. Il poveretto era stato rispedito all’Est
    solo pochi giorni prima.
    Mentre ascoltava i particolari di questo bizzarro avvenimento, il capitano naturalmente non
    poteva immaginare che con la triste partenza del maggiore Fambrough se ne fosse anche
    andata qualsiasi traccia del tenente Dunbar. Ufficialmente, il giovane ufficiale esisteva
    soltanto negli ormai svaniti meandri del cervello malato del maggiore Fambrough.
    Cargill venne anche a sapere che, per ironia della sorte, lo stesso, sfortunato maggiore
    aveva fatto mandare un carro carico di provviste, destinato a Fort Sedgewick.
    Probabilmente, il carro e la sua colonna dovevano essersi superati durante la marcia
    di ritorno. Il capitano Cargill e il suo interlocutore si fecero una bella risata, immaginandosi
    il conducente del carro che arrivava in quell’orrido luogo deserto e si chiedeva che cosa
    diavolo fosse successo. Cercarono anche di immaginare che cosa avrebbe fatto il
    conducente e conclusero che se avesse avuto buon senso avrebbe proseguito verso
    Ovest, vendendo le provviste allo spaccio delle varie stazioni di posta lungo il percorso.
    Cargill si diresse barcollando semiubriaco ai suoi alloggi quando mancavano poche ore
    all’alba. Lasciò cader e la testa sul cuscino con il meraviglioso pensiero che Fort Sedgewick, ora, era soltanto un ricordo.
    Accadde così che non restasse che una sola persona al mondo che sapesse dove si
    trovava il tenente Dunbar, o persino che esisteva.
    E quella persona era un civile, scapolo e dall’aspetto misero e trasandato di cui non
    importava niente a nessuno.
    Timmons.



    (continua)



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    00 12/09/2007 08:41
    (segue)

    3



    L'unico segno di vita era il lacero pezzo di tela che sbatteva leggermente all'entrata
    del deposito dei rifornimenti in rovina. Il vento del tardo pomeriggio spezzava
    l'immobilità dell'aria, ma l'unica cosa che si muovesse era quel brandello di tela.
    Se non fosse stato per quelle lettere rozzamente intagliate nella trave sopra quello
    che era stato l'alloggio del capitano Cargill, il tenente Dunbar non avrebbe creduto
    che il posto fosse quello. Ma il nome sulla trave non lasciava dubbi.
    << Fort Sedgewick >>
    I due uomini rimasero seduti in silenzio sul carro, facendo scorrere lo sguardo sulle
    misere rovine che rappresentavano la loro destinazione finale.
    Finalmente, il tenente Dunbar saltò giù dal carro e con circospezione si avviò verso
    la porta dell'alloggio di Cargill. Ne uscì dopo pochi secondi e guardò Timmons,
    che era rimasto sul sedile del carro.
    << Sembra proprio che non ci sia molta vita qui attorno >>, gli gridò Timmons da
    dove si trovava.
    Il tenente non gli rispose. Si diresse al deposito dei rifornimenti, tirò di lato il lembo
    di tenda e si chinò per dare un'occhiata all'interno. Non c'era niente da vedere e un
    momento dopo stava tornando nuovamente verso il carro.
    Timmons guardò in giù verso di lui e scosse la testa.
    << Possiamo cominciare a scaricare. >>
    << E perché, tenente? >>
    << Perché siamo arrivati. >>
    Timmons si agitò sul sedile. << Ma qui non c'è anima viva >>, disse con voce rauca.
    Il tenente Dunbar si guardò intorno.
    << No, non per il momento. >>
    Ci fu un attimo di silenzio fra di loro, un silenzio che faceva presagire la tensione di
    un confronto. Dunbar era immobile, le braccia tese lungo i fianchi, mentre Timmons
    si passava le redini fra le dita. Sputò di fianco al carro.
    << Se ne sono andati... o sono stati uccisi tutti. >> Guardava fisso il tenente, come se
    ne avesse avuto abbastanza di quella faccenda. << Tanto vale che giriamo il carro e
    ce ne torniamo da dove siamo venuti. >>
    Ma il tenente Dunbar non aveva alcuna intenzione di tornare indietro. Qualunque cosa
    fosse successa a Fort Sedgewick, doveva scoprirlo. Forse se ne erano andati tutti
    o forse erano tutti morti. Forse vi erano dei sopravissuti, soltanto a un'ora di distanza
    da lì, che cercavano disperatamente di raggiungere il forte.


    (continua)


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    [Modificato da auroraageno 12/09/2007 08:43]

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    (segue)

    E c'era un motivo più profondo per restare, qualcosa che andava al di là del suo stretto
    senso del dovere. Vi sono dei momenti in cui una persona desidera qualcosa così
    fortemente che il prezzo o la condizione per averla non rappresentano più un ostacolo.
    Il tenente John J. Dunbar aveva voluto essere assegnato ai territori della frontiera
    dell'Ovest più di ogni altra cosa. E adesso era lì. Come Fort Sedgewick apparisse o
    che cosa fosse successo e perché, a lui non importava. Era ciò che aveva ardentemente
    desiderato da anni.
    Quando parlò, non vi era alcuna esitazione nei suoi occhi e la sua voce era piatta e ferma.
    << Sono stato assegnato a questo avamposto e quelle sono le sue provviste. >>
    Si fissarono nuovamente. La bocca di Timmons si allargò in un sorriso, poi scoppiò in
    una risata.
    << Ti ha dato di volta il cervello, giovanotto? >>
    Timmons lo aveva detto perché capiva che il tenente era un ragazzo, che probabilmente
    non era mai stato in combattimento in vita sua, che non era mai stato all'Ovest e che non
    aveva vissuto abbastanza a lungo per sapere tutto. << Ti ha dato di volta il cervello,
    giovanotto? >> Era come se le parole fossero uscite dalla bocca di un padre che aveva
    perso la pazienza.
    Si sbagliava.
    Il tenente Dunbar non era un ragazzo. Era educato e rispettoso e a volte mite. Ma non era
    un ragazzo.
    Aveva combattuto per buona parte della sua vita, e se l'era cavata egregiamente perché
    possedeva una dote rara. Dunbar possedeva un senso innato, una sorta di sesto senso,
    che gli diceva quando ricorrere alla forza. E quando questo momento critico arrivava,
    qualcosa nella sua psiche scattava, e il tenente Dunbar diventava una macchina letale e
    priva di ragione che non poteva essere fermata. Non fino a quando non avesse raggiunto
    il suo obiettivo. Quando si trattava o di spingere o di farsi spingere indietro, era il tenente
    che spingeva in avanti per primo. E quelli che lo contrastavano rimpiangevano di averlo fatto.
    Le parole << ti ha dato di volta il cervello, giovanotto? >> avevano innescato il meccanismo,
    e il sorriso di Timmons cominciò a sparire lentamente, mentre vedeva gli occhi del tenente
    incupirsi. Un istante dopo, Timmons vide la mano del tenente sollevarsi, lentamente e
    deliberatamente. Vide il palmo della mano destra posarsi lievemente sul calcio della grossa
    pistola in dotazione alla marina che portava al fianco. Vide il dito indice scivolare attraverso
    il ponticello dell'arma.
    << Solleva le natiche da quel carro e aiutami a scaricare. >>
    Il tono di quelle parole ebbe un notevole effetto su Timmons. Quel tono gli diceva che sulla
    scena era improvvisamente comparsa la morte. La sua morte.
    Timmons non batté ciglio, né replicò.. Quasi muovendosi contemporaneamente, legò le redini
    al freno, saltò giù dal sedile, andò velocemente sul retro del carro, tolse la traversa posteriore
    e sollevò la prima cosa che gli capitò sotto le mani.

    Stiparono tutto ciò che poterono nel deposito dei rifornimenti semidiroccato e piazzarono il
    resto negli ex alloggi di Cargill.


    (continua)


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    [Modificato da auroraageno 12/09/2007 08:48]

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    00 13/09/2007 10:40
    (segue)


    4


    Dicendo che quella notte ci sarebbe stata la luna e che voleva guadagnare tempo,
    Timmons partì al tramonto.
    Il tenente Dunbar si mise a sedere sul terreno, si arrotolò una sigaretta e osservò
    il carro diventare sempre più piccolo a mano a mano che si allontanava. Il sole
    se ne andò quasi nello stesso momento in cui il carro sparì dalla vista, e il tenente
    rimase a lungo seduto nell'oscurità, lieto di avere la compagnia del silenzio. Dopo
    un'ora i muscoli irrigiditi cominciarono a dolergli; si sollevò da terra e si diresse
    faticosamente verso la baracca del capitano Cargill.
    Improvvisamente stanco, si lasciò cadere completamente vestito sul letto improvvisato
    che si era preparato in mezzo alle provviste e appoggiò la testa.
    Quella notte le sue orecchie erano all'erta. Il sonno stentava ad arrivare. Ogni più piccolo
    rumore nel buio domandava una spiegazione che Dunbar non era in grado di fornire.
    Di notte, in quel luogo vi era qualcosa di insolito che durante il giorno non aveva
    avvertito.
    Proprio mentre stava per scivolare nel sonno, lo spezzarsi improvviso di un ramo, o
    il lontano rumore di qualcosa che cadeva nell'acqua del fiume lo faceva risvegliare di
    colpo. Andò avanti così per parecchio tempo e finì per logorare la resistenza del
    tenente Dunbar. Era stanco, e più era stanco, più era inquieto, e le due cose insieme
    spalancarono la porta a un visitatore indesiderato. Attraverso la porta del sonno senza
    riposo del tenente Dunbar si insinuò il dubbio. Quella prima notte, il dubbio lo mise a
    dura prova, sussurrando cose terribili nelle sue orecchie. Aveva sbagliato tutto. Non
    valeva niente. Tanto valeva che fosse morto. Quella notte, il dubbio lo portò sull'orlo
    delle lacrime. Il tenente Dunbar cercò di respingerlo, tentando di ritrovare la calma con
    dei pensieri gradevoli. Lottò con se stesso fino al mattino e, quando l'alba era ormai
    prossima, finalmente scacciò il dubbio dalla sua mente e si addormentò.


    Si erano fermati.
    Erano in sei.
    Erano indiani pawnee, la più temibile di tutte le tribù. I capelli tagliati a spazzola come
    la criniera di un cavallo, la pelle precocemente raggrinzita e con una disposizione
    mentale generale paragonabile a quella stessa macchina in cui poteva a volte trasformarsi
    il tenente Dunbar. Ma non vi era niente di occasionale nel modo in cui i pawnee vedevano
    le cose. I loro, erano occhi che semplicemente guardavano, ma con spietata efficienza,
    e che quando si fissavano su un oggetto, decidevano in un istante se dovesse vivere o
    morire. E se era deciso che la cosa dovesse cessare di vivere, i pawnee provvedevano
    alla sua morte con una precisione maniacale. Quando si trattava della morte, i pawnee
    agivano automaticamente, e tutti gli indiani delle pianure li temevano più di ogni altro.
    I sei pawnee si erano fermati perché avevano visto qualcosa. Ora erano fermi, in groppa
    ai loro magri cavalli, e osservavano dall'alto un terreno ondulato interrotto da alcuni burroni.
    A circa mezzo miglio di distanza una sottile spirale di fumo saliva nell'aria del mattino.
    Dal loro punto di osservazione potevano vederla chiaramente. La fonte era nascosta in
    mezzo all'ultimo dei burroni, e siccome non potevano vedere tutto quello che volevano,
    avevano cominciato a discutere fra loro con toni bassi e gutturali del fumo e di che cosa
    potesse trattarsi. Se si fossero sentiti più forti vi si sarebbero diretti immediatamente,
    ma erano lontani dal loro villaggio da parecchio tempo e avevano avuto parecchie disavventure.
    All'inizio erano in undici, diretti a sud per rubare dei cavalli ai comanci. Dopo aver cavalcato
    per una settimana, erano stati sorpresi al guado di un fiume da un nutrito gruppo di kiowa.
    Erano stati abbastanza fortunati da riuscire a fuggire con un solo guerriero morto e uno
    ferito.
    Il ferito aveva resistito una settimana con un polmone trapassato da una freccia, rallentando
    notevolmente la loro andatura. Quando, alla fine, era morto e i nove pawnee rimasti avevano
    potuto riprendere la loro ricerca, non avevano avuto altro che sfortuna. Le tribù dei comanci
    si spostavano in continuazione davanti ai disgraziati pawnee, e per due settimane non
    trovarono altro che le tracce del loro passaggio.
    Alla fine, localizzarono un grosso accampamento con un gran numero di cavalli e si rallegrarono
    che la cattiva sorte che li aveva perseguitati così a lungo se ne fosse andata. Ma quello che i
    pawnee non sapevano era che la loro fortuna non era per niente cambiata. In effetti, era il
    peggior genere di fortuna quello che li aveva portati a quel villaggio, perché quella tribù di
    comanci solo pochi giorni prima era stata assalita in forze dagli ute, che avevano ucciso
    molti valorosi guerrieri e se ne erano andati con un bottino di trenta cavalli.
    L'intero villaggio comanci stava all'erta ed era di umore bellicoso e vendicativo. I pawnee
    vennero scoperti nel momento stesso in cui si stavano infiltrando nel villaggio, e con metà
    dell'accampamento alle costole erano fuggiti sui loro esausti pony, incespicando
    nell'oscurità ostile. Fu solo nella ritirata che ebbero fortuna. Avrebbero dovuto morire
    tutti quella notte, ma, alla fine, persero soltanto altri tre guerrieri.
    E ora questi sei scoraggiati guerrieri, appostati su quell'altura solitaria, i loro magri pony
    troppo stanchi per fare il minimo movimento sotto di loro, si chiedevano che cosa fare a
    proposito di quella sottile striscia di fumo a mezzo miglio da loro.
    Discutere i vantaggi di un'eventuale attacco era tipicamente indiano, Ma discutere per
    mezz'ora su un sottile filo di fumo era una cosa del tutto diversa, e indicava a quale livello
    fosse scesa la sicurezza di questi pawnee. I sei erano divisi: una parte di loro era favorevole
    a lasciar perdere, l'altra insisteva per andare a controllare. Mentre la discussione era
    proseguita infruttuosamente, solo uno di loro, il più risoluto, era rimasto fermo nella sua
    decisione. Voleva precipitarsi immediatamente sul luogo dal quale proveniva il fumo
    e mentre gli altri continuavano a ciarlare, la sua irritazione aumentava.
    Dopo trenta minuti si staccò dai compagni e silenziosamente cominciò a discendere lungo
    l'altura. Gli altri cinque gli si affiancarono chiedendogli che cosa intendesse fare.
    Con tono caustico il guerriero rispose loro che non erano dei pawnee e che lui non poteva
    più cavalcare con delle donnicciole. Disse che avrebbero dovuto mettersi la coda fra le
    gambe e tornarsene indietro. Non erano dei pawnee, disse nuovamente, e lui preferiva
    morire piuttosto che discutere con degli uomini che non erano uomini.
    Spronò il cavallo in direzione del fumo.
    Gli altri lo seguirono.


    (continua)

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    ....leggo.....

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    ...ne sono felice! [SM=x832000]


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    00 14/09/2007 11:53
    (segue)



    Allo stesso modo in cui detestava cordialmente gli indiani, Timmons non conosceva
    praticamente nulla delle loro abitudini. Da molto tempo il territorio era sicuro, ma
    lui non era che un uomo solo senza alcuna possibilità di difendersi, e avrebbe dovuto
    saperne abbastanza da accendere un fuoco senza fare fumo.
    Ma quella mattina era rotolato fuori dalle sue puzzolenti coperte con una gran fame.
    Il pensiero della pancetta affumicata e del caffè erano state le sole cose che gli avessero
    sfiorato la mente e si era messo di lena a preparare un bel fuoco con della legna
    verde.
    Era il fumo di Timmons che aveva attirato l'attenzione degli insidiosi pawnee.
    Stava accovacciato davanti al fuoco, le dita attorno al manico della padella per
    friggere, quando una freccia lo colpì. La freccia si conficcò profondamente nella
    natica destra e la violenza dell'impatto lo catapultò dall'altra parte del fuoco.
    Sentì le grida di guerra prima ancora di vedere qualcuno e fu assalito dal panico.
    Saltellando, si buttò nel burrone e senza fermarsi si arrampicò su per la pendenza,
    la freccia pawnee decorata di piume a colori vivaci che gli spuntava dalla natica.
    Vedendo che si trattava di un solo uomo, i pawnee presero le cose con calma.
    Mentre gli altri saccheggiavano il carro, il guerriero che aveva svergognato i compagni
    per indurli all'azione pigramente galoppò in direzione di Timmons.
    Lo raggiunse mentre questi era quasi giunto in cima al pendio che portava fuori dal
    burrone. Improvvisamente, Timmons inciampò e cadde in ginocchio, e quando alzò la
    testa udì il rumore degli zoccoli di un cavallo.
    Ma non vide mai né il cavallo né chi lo montava. Per un breve istante vide l'ascia di
    guerra, poi questa gli colpì il cranio con tanta violenza che la testa di Timmons si
    aprì in due.

    I pawnee rovistarono fra le provviste, prendendo tutto ciò che potevano portare con
    loro. Staccarono il tiro di cavalli dell'esercito, diedero fuoco al carro e si allontanarono,
    passando oltre il corpo mutilato di Timmons senza degnarlo di uno sguardo. Avevano
    preso da lui tutto quello che volevano. Lo scalpo del conducente del carro pendeva
    dalla punta della lancia del suo uccisore.
    Il corpo rimase per tutto il giorno nell'erba alta, in attesa che i lupi lo scoprissero
    quando fosse scesa la notte. Ma la morte di Timmons aveva più importanza del solo
    fatto che una vita si fosse spenta. Con la sua morte, un insolito cerchio di circostanze
    si era chiuso.
    Il cerchio si era chiuso intorno al tenente John J. Dunbar.
    Nessun uomo poteva essere più solo di lui.


    (continua)


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    (segue)


    5


    Anche lui, quel mattino, aveva acceso un fuoco, ma molto prima di quanto non avesse
    fatto Timmons. Un'ora prima che il conducente del carro venisse ucciso, il tenente
    stava finendo di bere la sua prima tazza di caffè.
    Nel manifesto di carico erano state incluse due sedie da campo. Ne aprì una davanti
    alla baracca di Cargill e rimase seduto a lungo con una coperta dell'esercito attorno
    alle spalle, tenendo fra le mani una grossa tazza di fornitura regolamentare dell'esercito,
    guardando il suo primo giorno a Fort Sedgewick schiudersi davanti ai suoi occhi. Presto
    i suoi pensieri ritornarono a quello che doveva fare, e il dubbio nuovamente si insinuò
    nella sua mente.
    D'improvviso, il tenente si sentì sopraffatto. Non sapeva da dove cominciare, né qual era
    il suo compito e neppure come dovesse considerarsi. Non aveva nessuna mansione,
    nessun programma da seguire e non aveva una condizione propria. A mano a mano
    che il sole si alzava dietro di lui, Dunbar si ritrovò alla fredda ombra della baracca. Si
    riempì nuovamente la tazza e spostò la sedia da campo sullo spiazzo illuminato dal
    sole.
    Si stava sistemando sulla sedia quando vide il lupo. Era fermo sul promontorio dall'altra
    parte del forte, al di là del fiume.
    La prima reazione istintiva del tenente fu quella di spaventarlo sparando un paio di colpi,
    ma più osservava il suo visitatore e meno sensata gli appariva l'idea.. Anche a distanza
    poteva rendersi conto che l'animale era soltanto incuriosito. E in qualche modo senza
    che questo si rivelasse apertamente nei suoi pensieri, fu lieto di quel poco di compagnia.
    Sentì Cisco agitarsi nel recinto e di colpo si ricordò di lui. Si era completamente
    dimenticato del suo cavallo. Mentre si dirigeva al deposito dei rifornimenti, si girò
    brevemente a guardare da sopra la spalla e vide che il suo visitatore mattutino se ne
    era andato e stava scomparendo sotto l'orizzonte al di là del promontorio.

    Il pensiero gli attraversò la mente mentre si trovava nel recinto, intento a versare il foraggio
    di Cisco. Era una soluzione semplice e ancora una volta ributtò indietro ogni dubbio.
    Per il momento avrebbe inventato le sue incombenze.
    Dunbar ispezionò velocemente la baracca di Cargill, il deposito dei rifornimenti, il recinto
    e il fiume. Poi si mise al lavoro, cominciando con i mucchi di rifiuti che intasavano le sponde
    del piccolo corso d'acqua.
    Sebbene non fosse schizzinoso per natura, il terreno per lo scarico dei rifiuti gli apparve di
    una sporcizia vergognosa. Bottiglie e spazzatura di ogni genere erano sparse dappertutto.
    Nel terreno delle sponde erano incrostati arnesi e materiali vari, ma la cosa peggiore erano
    le carcasse, a vari stadi di decomposizione, che erano state disseminate con noncuranza
    lungo il fiume. La maggior parte erano carcasse di selvaggina di piccole dimensioni,
    conigli e galline faraone. C'era un'antilocapra intera e parte di un'altra.
    Vedendo quello squallore, Dunbar arrivò a farsi una prima idea di ciò che poteva essere
    successo a Fort Sedgewick. Era chiaro che era diventato un luogo di cui nessuno andava
    fiero. Poi, senza saperlo, arrivò quasi alla verità.
    Forse si trattava del cibo, pensò. Forse stavano soffrendo la fame.
    Lavorò alacremente, con indosso solo la lunga maglia che portava sotto la camicia, un
    paio di calzoncini male in arnese e un vecchio paio di stivali, setacciando metodicamente
    i mucchi di rifiuti lungo il fiume.
    Trovò altre carcasse sul fondo del fiume, e il suo stomaco era in preda alla nausea mentre
    trascinava i corpi grondanti degli animali fuori dal fango fetido dell'acqua bassa.
    Impilò tutto quanto su un grosso pezzo di tela, e quando ve ne fu abbastanza per un carico,
    legò insieme i lembi della tela in modo da formare un grosso sacco. Poi, con Cisco che
    forniva la forza necessaria trainarono quell'orribile carico fino in cima al promontorio.
    A metà pomeriggio il fiume era stato sgombrato e, anche se non ne era sicuro, il tenente
    avrebbe giurato che stesse scorrendo più rapidamente. Si arrotolò una sigaretta e si
    riposò per un po', guardando l'acqua del fiume passare. Liberato dai suoi luridi parassiti,
    ora aveva nuovamente l'aspetto di un vero fiume, e il tenente sentì un certo orgoglio per
    quello che aveva fatto.
    Mentre si rialzava, sentì la schiena irrigidirsi. Non era abituato a quel genere di lavoro,
    eppure trovò che quel dolore non era sgradevole. Significava che aveva compiuto qualcosa.
    Dopo aver raccolto gli ultimi rimasugli, risalì in cima al promontorio e studiò la pila di
    rifiuti alta quasi fino alla sua spalla. Versò un gallone di petrolio sul mucchio e gli diede
    fuoco.
    Per un momento restò a osservare la densa colonna di fumo nero salire verso il cielo
    sgombro di nubi. Ma di colpo il cuore gli balzò in petto, quando si rese conto di quello
    che aveva fatto. Non avrebbe mai dovuto accendere il fuoco. Da quelle parti, un fuoco
    di quelle dimensioni era come accendere una torcia in una notte senza luna. Era come
    aver mandato un enorme e vivido segnale d'invito a Fort Sedgewick.
    Qualcuno sarebbe stato attirato dalla colonna di fumo, e quel qualcuno con molta
    probabilità sarebbero stati degli indiani.


    (continua)


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    [Modificato da auroraageno 14/09/2007 13:24]

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    00 14/09/2007 13:26
    (segue)


    Il tenente Dunbar rimase seduto di fronte alla baracca fino al crepuscolo, sorvegliando
    costantemente l'orizzonte in ogni direzione.
    Non venne nessuno.
    Si sentì sollevato. Ma a mano a mano che il pomeriggio trascorreva con un fucile
    Springfield e la sua grossa pistola pronti al tiro, il suo senso di isolamento si era
    fatto più profondo. A un certo punto la parola "abbandonato" gli attraversò la mente,
    facendolo rabbrividire. Sapeva che era la parola giusta. E sapeva che avrebbe dovuto
    restare solo ancora per del tempo a venire. In un certo modo, profondamente e
    segretamente, desiderava essere solo, ma l'essere abbandonato non aveva niente a
    che vedere con l'euforia che aveva provato durante il viaggio con Timmons.
    Questo smorzava ogni entusiasmo.
    Mangiò una misera cena e stese il rapporto del suo primo giorno. Il tenente Dunbar se
    la cavava bene con la scrittura, il che gli faceva provare meno antipatia per il lavoro
    burocratico della maggior parte dei soldati. Era anche deciso a tenere uno scrupoloso
    resoconto del suo soggiorno a Fort Sedgewick, soprattutto in considerazione della
    strana situazione in cui si trovava.


    12 aprile 1863
    Ho trovato Fort Sedgewick completamente sguarnito. Il luogo sembra sia stato lasciato
    marcire per un po' di tempo. Se vi era un contingente prima che io arrivassi, deve
    essere marcito anche lui.
    Non so che cosa fare.
    Fort Sedgewick è l'avamposto a cui sono stato assegnato, ma non c'è nessuno a cui
    riferire. Ogni comunicazione può aver luogo soltanto lasciando il forte, e io non voglio
    abbandonare il mio posto.
    Le provviste sono abbondanti.
    Mi sono assegnato dei compiti di ripulitura. Cercherò di riparare e rinforzare il deposito
    dei rifornimenti, ma non so se un uomo solo potrà farcela.
    Qui alla frontiera dell'Ovest tutto è calmo.

    Ten. John J. Dunbar, USA


    Quella sera, mentre era sul pun to di addormentarsi, gli venne l'idea del riparo per la
    baracca. Una lunga tenda che riparasse dal sole che si estendeva dall'entrata. Un
    posto per stare seduto o per lavorare nei giorni in cui il caldo all'interno della baracca
    diventava insopportabile. Un'aggiunta al forte.
    E una finestra, praticando un'apertura nella parete di terriccio. Una finestra avrebbe
    fatto una grossa differenza. Poteva restringere il recinto per i cavalli e usare le pertiche
    per altri lavori di costruzione. Forse, dopotutto, si poteva fare qualcosa con il deposito
    dei rifornimenti.
    Dunbar si addormentò prima di aver catalogato tutte le possibilità per tenersi occupato.
    Fu un sonno profondo e fece dei sogni molto reali.
    Era in un ospedale da campo in Pennsylvania. Ai piedi del suo letto erano riuniti una
    mezza dozzina di medici, i lunghi camici bianchi imbrattati del sangue di altri << casi >>.
    Discutevano se dovessero amputargli il piede alla caviglia oppure al ginocchio. La
    discussione degenerò in una disputa che si fece sempre più accesa e mentre il
    tenente Dunbar guardava inorridito, cominciarono a picchiarsi.

    Si colpivano l'un l'altro con gli arti che avevano asportato nelle precedenti amputazioni,
    e mentre si inseguivano per tutto l'ospedale agitando le loro grottesche mazze, i
    pazienti che avevano perso i loro arti balzavano o si trascinavano fuori dai loro giacigli,
    frugando disperatamente fra quello che i medici avevano lasciato, alla ricerca delle
    loro braccia o delle loro gambe.
    Nel mezzo del parapiglia il tenente era fuggito, zoppicando follemente fino all'uscita
    sul suo piede maciullato.
    Saltellando e incespicando si inoltrò in un prato di un verde brillante, disseminato di
    cadaveri di soldati confederati e dell'Unione. Come un gioco del domino alla rovescia,
    i cadaveri si tirarono su a sedere mentre correva in mezzo a loro, e gli puntarono contro
    le pistole.
    Si ritrovò in mano una rivoltella e prima che potessero premere il grilletto, sparò addosso
    a ciascun cadavere. Sparava velocemente e ogni pallottola centrava una testa. E ogni
    testa si spappolava all'impatto del colpo. Sembrava una lunga fila di meloni che
    esplodevano l'uno dopo l'altro schizzando dalle spalle dei cadaveri.
    Il tenente Dunbar poteva vedere se stesso come appariva da lontano: una folle figura con
    la camicia da notte dell'ospedale imbrattata di sangue che correva zoppicando in mezzo
    a una moltitudine di cadaveri, con le teste che volavano in aria al suo passaggio.
    Improvvisamente, non vi furono più cadaveri e colpi di pistola. Ma dietro di lui qualcuno
    lo stava chiamando. Una voce dolcissima.
    << Tesoro... tesoro. >>
    Dunbar si girò a guardare da sopra la spalla.
    Dietro di lui una donna arrivava correndo, una donna bellissima, con un viso dagli zigomi
    alti, dei folti capelli biondi e degli occhi così densi di passione che poteva sentire il proprio
    cuore accelerare i battiti. Indossava unicamente dei pantaloni da uomo e correva tenendo
    nella mano tesa un piede inzuppato di sangue, come in un gesto di offerta.
    Il tenente abbassò lo sguardo sul suo piede ferito e vide che non c'era più. Stava correndo
    su un bianco moncone di osso.
    Si svegliò rizzandosi a sedere, sconvolto, cercando furiosamente a tastoni il suo piede al
    fondo del letto. Era là.
    Le coperte erano madide di sudore. Annaspò sotto il letto per cercare la sua borsa del
    tabacco e frettolosamente si arrotolò una sigaretta. Poi scostò con un calcio le coperte
    appiccicaticce, si appoggiò con le spalle al cuscino e aspirò delle lunghe boccate di fumo,
    aspettando che facesse chiaro.
    Sapeva esattamente che cosa aveva ispirato il sogno. Gli elementi principali erano accaduti
    realmente. Dunbar lasciò che la sua mente ritornasse a quegli avvenimenti.
    Era stato ferito a un piede. Schegge di granata. Era stato per un po' di tempo in un ospedale
    da campo e avevano parlato di amputargli il piede. Non era riuscito a sopportare il pensiero
    dell'amputazione ed era fuggito. Nel mezzo della notte, fra i lamenti dei feriti che echeggiavano
    nel reparto in cui si trovava, era scivolato fuori dal letto e aveva rubato qualche indumento a caso.
    Si era cosparso il piede di polvere antisettica, lo aveva fasciato con delle bende e in qualche
    modo era riuscito a infilarlo nello stivale.
    Era uscito di soppiatto da una porta laterale, aveva rubato un cavallo e, non avendo altro
    posto in cui andare, all'alba aveva raggiunto la sua unità, raccontando la frottola di una ferita
    leggera all'alluce.
    Dopo due giorni il dolore era così lancinante che il tenente non desiderava altro se non morire.
    Quando l'occasione si presentò, la colse.
    Separate fra loro da trecento metri di campo spoglio, due unità avversarie si erano fronteggiate
    per tutto un pomeriggio, sparando al riparo dei muri di pietra che delimitavano i due lati opposti
    del campo, ciascuna delle due incerta sulla forza dell'altra, ciascuna esitante a passare alla
    carica.
    L'unità del tenente Dunbar aveva lanciato un pallone di osservazione ma i ribelli sudisti lo
    avevano abbattuto immediatamente.
    Si era a un punto morto e quando, nel tardo pomeriggio, la tensione giunse al culmine, anche
    il tenente Dunbar giunse al proprio limite di sopportazione personale. I suoi pensieri si
    concentrarono sul fermo proposito di mettere fine alla sua vita.
    Si offrì volontario per fare una sortita a cavallo e attirare il fuoco nemico.
    Il colonnello al comando del reggimento non era adatto alla guerra. Era debole di stomaco
    e di mente ottusa.
    Normalmente non avrebbe mai acconsentito a una cosa del genere, ma quel pomeriggio
    era decisamente sotto pressione. Il pover'uomo era completamente disorientato e per
    qualche inspiegabile motivo, nella sua mente continuava a insinuarsi il pensiero di una
    grossa coppa di gelato alla pesca.
    Per rendere le cose ancora peggiori, il generale Tipton e i suoi aiutanti avevano da poco
    occupato una posizione di osservazione in cima a una collina verso Ovest. La sua condotta
    veniva osservata, tuttavia era impossibilitato ad agire.
    Chi aveva delle qualità di prim'ordine era questo giovane tenente dalla faccia esangue,
    che gli diceva in tono concitato di voler andare ad attirare il fuoco nemico. I suoi occhi
    spiritati e senza pupille gli incutevano timore.
    L'inetto comandante acconsentì al piano.
    Poiché il suo cavallo tossiva malamente, a Dunbar venne concesso di sceglierne un altro
    fra quelli di riserva. Prese un piccolo ma robusto cavallo dal mantello bruno fulvo di nome
    Cisco e cercò di issarsi sulla sella senza gridare di dolore, mentre l'intera unità stava a
    osservare.
    Mentre si dirigeva con il cavallo al passo verso il basso muro di pietra, dall'altra parte del
    campo si udì il suono secco di qualche colpo di fucile, ma per il resto vi era un silenzio
    mortale e il tenente Dunbar si chiese se il silenzio fosse reale, o se invece non succedesse
    sempre così prima che un uomo morisse.


    (continua)


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    00 14/09/2007 13:28
    (segue)


    Spronò Cisco con un deciso colpo di talloni nei fianchi, superò il muro con un salto
    e si precipitò attraverso il campo, puntando diritto al centro del muro di pietra che
    nascondeva il nemico. Per un momento i ribelli rimasero troppo sconcertati per
    sparare, e il tenente coprì i primi cento metri in un vuoto privo di suoni.
    Poi aprirono il fuoco. Le pallottole riempivano l'aria intorno a lui come degli spruzzi
    d'acqua da un rubinetto. Il tenente non si preoccupò di rispondere al fuoco. Si
    mantenne eretto sulla sella in modo da costituire un migliore bersaglio e spronò
    nuovamente Cisco. Il cavallo abbassò le orecchie e si lanciò verso il muro. Per
    tutto il tempo, Dunbar aspettò che una delle pallottole lo colpisse.
    Ma non accadde, e quando fu abbastanza vicino da riuscire a vedere gli occhi del
    nemico, lui e Cisco scartarono a sinistra, correndo a nord in linea retta, a cinquanta
    metri dal muro. Cisco galoppava con tanta forza che dietro i suoi zoccoli posteriori
    la terra si sollevava in aria come la scia della ruota a pale di un battello. Il tenente
    continuò a mantenersi ritto sulla sella, e questo si rivelò irresistibile per i confederati.
    Si alzarono dal loro appostamento come delle sagome in una sala da tiro rovesciando
    una cortina di fuoco sul solitario cavaliere mentre questo sfrecciava oltre.
    Non riuscirono ad abbatterlo.
    Il tenente Dunbar sentì il fuoco cessare. La fila di fucilieri aveva scaricato i fucili. Mentre
    si allontanava, avvertì un bruciore al braccio e scoprì che una pallottola gli aveva scalfito
    il bicipite. Quel senso di bruciante calore lo fece rientrare in sé per un breve momento.
    Gettò uno sguardo verso la linea che aveva appena superato e vide che i confederati
    giravano in tondo disordinatamente dietro il muro in uno stato di incredulità.
    Di colpo, le sue orecchie ritornarono a funzionare e poté udire le grida di incoraggiamento
    che provenivano dalle sue linee al di là del campo. Poi, ancora una volta, fu consapevole
    del suo piede, che pulsava dolorosamente come una sorta di pompa dentro allo stivale.
    Tirò con forza le redini per fare dietro front e mentre Cisco piegava la testa di lato dietro
    la sollecitazione del morso, cambiando direzione, il tenente Dunbar udì le grida di evvviva
    provenire come un boato da dietro le sue linee. Guardò oltre il campo. I suoi fratelli d'armi
    erano tutti in piedi al di là del muro.
    Diede un colpo di talloni a Cisco e si buttarono in avanti, ritornando al galoppo nella stessa
    direzione da cui erano venuti, questa volta per saggiare l'altro fianco della linea confederata.
    Gli uomini davanti ai quali era già passato vennero colti in contropiede, e il tenente riuscì
    a vederli mentre ricaricavano freneticamente i fucili al suo passaggio.
    Ma davanti a lui, giù lungo il fianco che non aveva ancora saggiato, poté vedere dei
    fucilieri che si stavano alzando in piedi, il calcio del fucile saldamente appoggiato alla
    spalla.
    Deciso a non venir meno a se stesso, d'improvviso e impulsivamente il tenente lasciò
    andare le redini e sollevò in aria entrambe le braccia. Poteva anche assomigliare a
    uno di quei cavalieri che si esibivano nei circhi ma quello che sentiva era definitivo.
    Aveva alzato le braccia in un gesto finale di addio alla sua vita. Ma chiunque lo avesse
    visto, avrebbe potuto fraintenderlo. Avrebbe potuto sembrare un gesto di trionfo.
    Con quel gesto il tenente Dunbar non intendeva naturalmente dare un segnale a chicchessia.
    Voleva soltanto morire. Ma i suoi camerati degli stati dell'Unione avevano già il cuore in
    gola, e quando videro le braccia del tenente sollevarsi in aria, fu più di quanto riuscissero
    a sopportare.
    Si lanciarono in massa oltre il muro, una marea spontanea di uomini che volevano combattere,
    urlando e avanzando con uno slancio che gelò il sangue ai soldati confederati.
    I ribelli si sbandarono e si diedero alla fuga come un sol uomo, correndo disordinatamente
    verso il folto degli alberi dietro di loro.
    Quando il tenente Dunbar fermò il cavallo, i soldati dell'Unione dalle uniformi blu avevano
    già superato il muro, inseguendo i ribelli fin dentro al bosco.
    La sua testa, improvvisamente, diventò più leggera.
    Il mondo intorno a lui cominciò a vorticare.
    Il colonnello e i suoi aiutanti si stavano avvicinando da una direzione, il generale Tipton e
    i suoi da un'altra. Entrambi lo avevano visto vacillare e cadere privo di sensi dalla sella
    e in quel momento avevano affrettato il passo. Correndo verso il punto del campo dove
    si trovava Cisco, fermo accanto alla sagoma informe che giaceva vicino alle sue zampe,
    il colonnello e il generale Tipton provavano le stesse emozioni, emozioni che erano rare
    per degli ufficiali di grado elevato, soprattutto in tempo di guerra.
    Ciascuno di loro era sinceramente e profondamente preoccupato per un singolo individuo.
    Dei due, era il generale Tipton a essere maggiormente commosso. In vent'anni di
    carriera militare aveva assistito a numerosi atti di coraggio, ma niente era paragonabile
    a ciò che aveva visto quel pomeriggio.
    Quando Dunbar riprese i sensi, il generale era inginocchiato al suo fianco con il fervore
    di un padre accanto al figlio caduto in battaglia.
    E quando scoprì che quel coraggioso tenente aveva cavalcato per quel campo pur essendo
    già ferito, il generale abbassò il capo come per pregare e fece qualcosa che non aveva
    fatto sin da quando era un ragazzo. Sulla sua barba grigia colarono delle lacrime.
    Il tenente Dunbar non era in condizioni di poter parlare molto, ma si sforzò di pronunciare
    una richiesta. La ripeté più volte.
    << Non amputatemi il piede. >>
    Il generale Tipton lo udì e prese nota della richiesta come se si trattasse di un comandamento
    divino. Il tenente Dunbar venne caricato sull'ambulanza personale del generale, trasportato
    al quartier generale del reggimento e, una volta laggiù, venne posto sotto la supervisione
    diretta del medico personale del generale.
    Vi fu una breve scena al loro arrivo. Il generale Tipton ordinò al suo medico di salvare il
    piede del giovane ufficiale, ma dopo un rapido esame il medico rispose che con molta
    probabilità avrebbe dovuto amputare.
    Il generale Tipton trasse il medico da parte e gli disse:
    << Se non salva il piede di quel ragazzo, la farò destituire per incompetenza. La farò
    destituire, dovesse anche essere l'ultima cosa che farò >>.
    La guarigione del tenente Dunbar diventò un'ossessione per il generale.
    Ogni giorno trovava il tempo per passare a trovare il giovane tenente e, allo stesso tempo,
    tenere d'occhio il medico, il quale non smise mai di sudare per tutt'e due le settimane
    che ci vollero per salvare il piede del tenente Dunbar.
    Durante le sue visite il generale non parlava molto. Esprimeva soltanto una paterna
    preoccupazione. Ma quando il piede finalmente fu fuori pericolo, un pomeriggio entrò
    nella tenda, trasse una sedia vicino al letto e cominciò a parlare con calma di qualcosa
    che aveva preso forma nella sua mente.
    Dunbar ascoltò ammutolito per la sorpresa, mentre il generale esponeva la sua idea.
    Voleva che per il tenente Dunbar la guerra fosse finita perché le sue gesta sul campo,
    gesta alle quali il generale stava ancora pensando, erano abbastanza per un solo uomo
    in una sola guerra.
    E voleva che il tenente gli chiedesse qualcosa perché, e qui il generale abbassò la voce,
    << Siamo tutti in debito con lei. Io sono in debito con lei >>. Il tenente si concesse un
    lieve sorriso. << Be'... ho il mio piede, signore >>, disse.
    Il generale Tipton non restituì il sorriso.
    << Che cosa vuole? >> chiese.
    Dunbar chiuse gli occhi e pensò.
    Alla fine disse: << Ho sempre desiderato essere assegnato alla frontiera dell'Ovest >>.
    << Dove? >>
    << Dovunque... purché all'Ovest >>.
    Il generale si alzò dalla sedia. << D'accordo >>, disse, e fece per avviarsi fuori della tenda.
    << Signore? >>
    Il generale si fermò e quando guardò verso il letto, lo fece con un affetto che era disarmante.
    << Vorrei tenere il cavallo... Posso farlo? >>
    << Certo che può tenerlo. >>
    Il tenente Dunbar aveva pensato al colloquio con il generale per tutto il resto del pomeriggio.
    Aveva provato un senso di eccitazione per la nuova, improvvisa aspettativa che gli si apriva.
    Ma aveva anche provato un leggero senso di colpa al pensiero dell'affetto che aveva letto
    sul viso del generale. Non aveva detto a nessuno che aveva solo cercato di suicidarsi.
    Ma ora sembrava che fosse troppo tardi. Quel pomeriggio decise che non lo avrebbe mai
    detto.
    E ora, in quelle coperte umide di sudore, Dunbar si arrotolò la sua terza sigaretta in mezz'ora,
    ripensando ai misteriosi armeggi del destino che lo avevano infine condotto a Fort Sedgewick.
    La stanza stava diventando meno cupa, e anche l'umore del giovane tenente. Distolse i
    pensieri dal passato e li riportò al presente. Con lo zelo dell'uomo soddisfatto del posto in
    cui si trova, cominciò a pensare alla fase della campagna di ripulisti per quel giorno.



    (continua)

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    (segue)

    6


    Come un ragazzino che salterebbe volentieri le verdure per passare subito al dolce,
    il tenente Dunbar preferì tralasciare il difficile lavoro di puntellare il deposito dei
    rifornimenti a favore della più piacevole possibilità di costruire il riparo.
    Frugando fra le provviste trovò un gruppo di tende da campo che avrebbero fornito
    la tela, ma per quanto cercasse, non riuscì a scovare nulla che potesse servire per
    il lavoro di cucitura e desiderò di non essere stato così precipitoso nel bruciare le
    carcasse.
    Ispezionò le sponde del fiume per buona parte della mattina, prima di trovare un
    piccolo scheletro dal quale trasse parecchie schegge di osso che potevano essere
    usate per cucire.
    Di ritorno al deposito dei rifornimenti trovò un pezzo di corda sottile. La dipanò fino
    a ottenere il filo che pensava facesse allo scopo. Il cuoio sarebbe stato molto più
    resistente, ma mentre apportava tutte queste migliorie, al tenente Dunbar piaceva
    l'idea di dare al lavoro un carattere di provvisorietà. Mantenere il forte, pensò,
    sogghignando fra sé. Mantenere il forte finché non fosse tornato a nuova vita con
    l'arrivo di un nuovo contingente.
    Sebbene stesse molto attento a non lasciarsi andare alle aspettative, era sicuro che,
    prima o poi, qualcuno sarebbe arrivato.
    Il lavoro di cucito fu tremendo. Per il resto del tempo del secondo giorno cucì
    caparbiamente la tela, facendo buoni progressi. Ma quando mise da parte il lavoro,
    a pomeriggio inoltrato, le sue mani erano così gonfie e doloranti che riuscì a fatica
    a prepararsi il caffè serale.
    Al mattino le sue dita erano di pietra, troppo irrigidite per lavorare di ago. Fu
    comunque tentato di provarci, perché gli mancava poco per terminare, ma non lo
    fece.
    Rivolse invece la sua attenzione al recinto. Dopo averlo esaminato attentamente,
    asportò quattro delle pertiche più alte e più robuste. Non erano state infisse
    profondamente nel terreno e non gli ci volle molto tempo per tirarle fuori.
    Cisco non sarebbe andato da nessuna parte e il tenente per un momento accarezzò
    l'idea di lasciare aperto il recinto. Alla fine, però, decise che un recinto che non era
    affatto un recinto avrebbe violato lo spirito della campagna di ripulisti, così passò
    un'ora a risistemare la palizzata.
    Poi stese le tele davanti alla baracca e conficcò le pertiche, pressando come meglio
    poteva il terreno duro intorno alla base.
    Aveva cominciato a fare caldo, e quando ebbe finito con il lavoro il tenente si trovò
    a camminare faticosamente verso l'ombra dell'interno della baracca. Si sedette sul
    bordo del letto e si appoggiò alla parete. I suoi occhi si stavano appesantendo. Si
    sdraiò sul giaciglio per riposare un momento e subito cadde in un profondo, delizioso
    sonno.

    Si svegliò eccitato per il piacere quasi sensuale dell'essersi arreso completamente,
    in questo caso a un sonnellino. Stiracchiandosi fiaccamente, lasciò cadere una mano
    oltre il bordo del letto e come un bambino immerso in fantasticherie, lasciò che le sue
    dita giocherellassero sul pavimento di terra.
    Si sentiva meravigliosamente bene, sdraiato là senza nulla da fare e gli venne in mente
    che, oltre a inventare i suoi compiti, poteva anche decidere da solo quando farli. Per
    il momento, comunque, decise che, allo stesso modo in cui si era arreso al sonnellino,
    si sarebbe concesso un più largo margine anche per altre cose piacevoli. Poteva
    benissimo regalarsi qualche momento di inattività, pensò.
    Attraverso la porta, le ombre strisciavano verso l'interno della baracca. Curioso di
    sapere quanto avesse dormito, Dunbar infilò una mano nei pantaloni e cavò il vecchio,
    semplice orologio da tasca che era stato di suo padre. Quando lo avvicinò al viso,
    vide che si era fermato. Per un momento pensò di caricarlo a un'ora approssimativa,
    ma poi si appoggiò il vecchio e consumato orologio sullo stomacò e si lasciò andare
    a meditare.
    Che importanza aveva il tempo per lui, ora? Che cosa importava, dopotutto? Be',
    forse era necessario per regolare il movimento delle cose, uomini e materiali, per
    esempio. Per cuocere i cibi nel modo giusto. Per le scuole, i matrimoni e le funzioni
    religiose e per andare al lavoro.
    Ma lì, che cosa importava?
    Il tenente Dunbar si preparò una sigaretta e appese il ricordo di famiglia a mezzo metro
    al di sopra del letto. Rimase a fissare i numeri sul quadrante dell'orologio mentre fumava,
    pensando a come sarebbe stato molto più logico ed efficiente lavorare quando se ne
    aveva voglia, mangiare quando si aveva fame e dormire quando si aveva sonno.
    Aspirò una lunga boccata e, piegando con soddisfazione le braccia dietro la testa,
    soffiò un fiotto di fumo azzurrognolo.
    Come sarebbe bello vivere senza tempo per un po', pensò.
    Improvvisamente, all'esterno ci fu un rumore di passi pesanti. Avanzavano e si arrestavano,
    poi avanzavano nuovamente. Un'ombra in movimento si profilò all'entrata della baracca
    e un momento dopo la grossa testa di Cisco comparve attraverso la porta. Sembrava
    un bambino che invadesse la santità della camera da letto dei suoi genitori una domenica
    mattina.
    Il tenente Dunbar scoppiò a ridere rumorosamente. Il cavallo lasciò ricadere le orecchie
    e scrollò più volte la lunga testa, quasi volesse far credere che quel piccolo incidente non
    era accaduto. I suoi occhi scrutarono la stanza con aria distaccata. Poi guardò apertamente
    il tenente, battendo con lo zoccolo per terra come fanno i cavalli quando vogliono scacciare
    le mosche.
    Dunbar sapeva che voleva qualcosa.
    Probabilmente, una cavalcata.
    Non si muoveva da due giorni.

    Il tenente Dunbar non era un cavaliere provetto. Non era mai stato addestrato alle sottigliezze
    dell'equitazione e il suo fisico snello, ingannevolmente robusto, non aveva mai conosciuto
    un regolare allenamento.
    Ma c'era qualcosa per quanto riguardava i cavalli. Li amava sin da quando era ragazzo:
    forse, la ragione era questa. Ma la ragione non aveva importanza. Ciò che importava è
    che quando Dunbar montava sul dorso di un cavallo, accadeva qualcosa di straordinario,
    soprattutto se si trattava di un cavallo eccezionale come Cisco.
    Fra i cavalli e il tenente Dunbar si instaurava un dialogo. Aveva la capacità di decifrare il
    linguaggio di un cavallo. E una volta appreso, non aveva limite. Aveva appreso il linguaggio
    di Cisco quasi subito, e c'era poco che non potessero fare. Quando cavalcavano, lo
    facevano con la grazia di un corpo di ballo.
    E più era puro il loro modo di cavalcare, e meglio era. Dunbar aveva sempre preferito
    cavalcare a pelo anziché usare la sella, ma nell'esercito, naturalmente, una cosa simile non
    era permessa. Gli uomini potevano farsi male e in ogni caso era fuori questione per le
    campagne di lunga durata.
    Così, quando il tenente entrò nel deposito dei rifornimenti quasi buio, la sua mano si
    diresse automaticamente verso la sella appoggiata in un angolo.
    Si trattenne. Lì, l'unico esercito era lui, e il tenente Dunbar sapeva che non si sarebbe fatto
    male.
    Erano a meno di venti metri dal recinto quando vide nuovamente il lupo. Lo stava fissando
    dallo stesso punto dove si trovava il giorno prima sul bordo del promontorio oltre il fiume.
    Il lupo aveva cominciato a muoversi, ma quando vide Cisco fermarsi si immobilizzò,
    indietreggiò nella posizione di prima e si mise di nuovo a fissare il tenente. Si trattava
    dello stesso lupo, con due macchie bianche sulle zampe anteriori che le facevano
    assomigliare a dei calzini. Era grosso e robusto ma qualcosa di lui dava a Dunbar
    l'impressione che non fosse più nel fiore degli anni. Il suo pelo era malmesso e al tenente
    sembrò di vedere una linea frastagliata lungo il muso, probabilmente una vecchia cicatrice.
    Aveva un atteggiamento vigile e attento che denotava l'età. Saggezza, fu la parola che
    venne in mente al tenente Dunbar. La saggezza era il premio per essere sopravvissuto
    molti anni, e il vecchio lupo dal pelo fulvo e con gli occhi guardinghi era sopravvissuto
    più di quanto gli spettasse.
    Buffo che sia ritornato, pensò il tenente:
    Diede un leggero colpo di gambe e Cisco si mosse in avanti. In quello stesso momento,
    l'occhio di Dunbar colse un movimento. Guardò al di là del fiume. Anche il lupo si stava
    muovendo.
    In effetti, stava tenendo il loro stesso passo. Continuò così per un centinaio di metri prima
    che il tenente fermasse di nuovo il cavallo.
    Anche il lupo si fermò.
    D'impulso, il tenente fece fare a Cisco un quarto di giro, fronteggiando il bordo del
    promontorio. Ora guardava il lupo fisso negli occhi e il tenente fu certo di potervi leggere
    qualcosa. Qualcosa come una voglia intensa.
    Stava cominciando a pensare di quale voglia potesse trattarsi quando il lupo fece uno
    sbadiglio e si allontanò. Dunbar mise Cisco al trotto e se ne andò.


    13 aprile 1863
    Anche se le provviste non mancano, ho deciso comunque, di razionarle. La guarnigione
    o quella di rimpiazzo dovrebbero arrivare da un momento all'altro. Ormai non credo che
    debba mancare molto.
    In ogni caso, sto sforzandomi di consumare le provviste come farei se facessi parte
    dell'avamposto invece che dell'intera faccenda. Sarà dura per quanto riguarda il caffè,
    ma farò del mio meglio.
    Ho iniziato la tenda di riparo. Se le mie mani, che in questo momento sono in condizioni
    pietose, domani mattina saranno migliorate, potrei riuscire a installarla per domani
    pomeriggio.
    Oggi ho fatto un breve giro di ricognizione. Nulla da riferire.
    C'è un vecchio lupo che sembra interessato a ciò che avviene qui. Non sembra rappresentare
    un pericolo, però, e a parte il mio cavallo è l'unico visitatore che ho avuto. Ha fatto la sua
    comparsa ogni pomeriggio negli ultimi due giorni. Se domani si farà rivedere, lo chiamerò
    Due Calzini. Ha le zampe anteriori macchiate di bianco a foggia di calzino.

    Ten. John J. Dunbar, USA



    (continua)


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    (segue)


    7



    I giorni immediatamente seguenti passarono tranquillamente.
    Le mani del tenente Dunbar tornarono quelle di prima e la tenda venne issata.
    Venti minuti dopo averla sollevata, quando si stava rilassando sotto l'ampia
    ombra, chinato su un barile ed intento ad arrotolarsi una sigaretta, si alzò il vento
    e la tenda crollò.
    Sentendosi ridicolo, cercò di uscire a tentoni da sotto la tenda, studiò per qualche
    minuto il suo fallimento e gli balenò l'idea dei fili guida come soluzione. Usò della
    corda per i fili e prima che il sole tramontasse, Dunbar era di nuovo all'ombra, a
    occhi chiusi, godendosi un'altra sigaretta fatta a mano, mentre ascoltava il
    piacevole rumore della tenda che sbatteva leggermente sopra di lui.
    Usando una baionetta, aprì un'ampia finestra nella parete di terra della baracca
    e vi sistemò sopra un brandello di tela.
    Lavorò sodo e a lungo al deposito dei rifornimenti, ma salvo che asportare buona
    parte della parete incurvata, fece pochi progressi. Il risultato finale fu un enorme
    foro. Le zolle di terreno originali crollavano ogni volta che cercava di rimetterle su,
    così il tenente Dunbar coprì il foro con un altro pezzo di tela, lavandosi le mani del
    resto. Sin dall'inizio il deposito era stato un affare in perdita.
    Sdraiato sul suo giaciglio, sul finire del pomeriggio, Dunbar ripensò più volte al
    problema del deposito, ma, a mano a mano che i giorni passavano, ci pensò
    sempre meno. Il tempo era stato bellissimo, senza nessuna delle violente piogge
    primaverili. Non faceva né troppo caldo né troppo freddo, l'aria era leggera e il
    debole vento che gonfiava la finestra a tenda sopra la sua testa in quei pomeriggi
    era gradevole.
    I piccoli problemi quotidiani sembravano più facili da risolvere a mano a mano che
    il tempo passava e quando il lavoro era finito il tenente si sdraiava sul suo giaciglio
    con la sua sigaretta, meravigliandosi della pace che provava. Invariabilmente gli
    occhi si facevano pesanti e prese l'abitudine di sonnecchiare per un'ora prima
    di cena.
    Anche Due Calzini divenne un'abitudine. Faceva la sua comparsa al suo solito
    posto ogni pomeriggio e dopo due o tre giorni il tenente Dunbar cominciò a dare
    per scontate le sue apparizioni. A volte si accorgeva di lui quando il lupo,
    trotterellando lungo il promontorio, appariva alla vista, ma il più delle volte accadeva
    che il tenente sollevasse lo sguardo da qualche piccolo lavoro e lo vedesse, seduto
    sulle zampe posteriori, che osservava da oltre il fiume con quello sguardo curioso
    ma inequivocabilmente voglioso.
    Una sera, mentre Due Calzini stava guardando, depose un grosso pezzo di cotenna
    di pancetta sul proprio lato del fiume. La mattina dopo non vi era traccia della pancetta
    e sebbene non ne avesse la prova, Dunbar era sicuro che l'avesse presa Due Calzini.

    Vi erano alcune cose di cui il tenente Dunbar sentiva la mancanza. Gli mancava la
    compagnia delle persone. Gli mancava il piacere di un robusto whisky. Soprattutto,
    gli mancavano le donne, o meglio, una donna. Il pensiero del sesso gli passava a
    malapena per la testa, ma quello di qualcuno con cui condividere si affacciava spesso
    nella sua mente. Più si adattava e si abituava al facile stile di vita senza problemi
    di Fort Sedgewick, più sentiva il desiderio di dividerlo con qualcun altro e quando
    pensava a questo elemento mancante, il tenente chinava il mento e fissava tetramente
    nel vuoto.
    Fortunatamente, questi momenti passavano presto. Ciò che gli poteva mancare era
    nulla, in confronto a ciò che aveva. La sua mente era libera. Non c'era divisione fra
    dovere e piacere. Tutto era uguale e non lo trovava per niente noioso. Era separato
    ed era tutt'uno, allo stesso tempo. Era una sensazione meravigliosa.
    Gli piacevano le cavalcate quotidiane di perlustrazione senza sella. Ogni giorno lui e
    Cisco prendevano una direzione diversa, a volte allontanandosi anche cinque o sei
    miglia dal forte. Non vide nessun bisonte e nessun indiano. Ma non era una grande
    delusione. La prateria era magnifica, splendente di una miriade di fiori selvatici e
    ricca di selvaggina. Ma la cosa più bella era l'erba, viva come un oceano che si
    increspava in lunghe onde mosse dal vento, fin dove poteva arrivare lo sguardo.
    Sapeva che non si sarebbe mai stancato di quella visione.
    Il pomeriggio precedente a quello che il tenente Dunbar dedicava al bucato, lui e
    Cisco avevano cavalcato per circa mezzo miglio quando, per caso, guardando
    da sopra la spalla aveva visto Due Calzini seguirli con la sua andatura trotterellante
    poco dietro di loro.
    Il tenente Dunbar fermò il cavallo e il lupo rallentò.
    Ma non si fermò.
    Fece un largo giro, riprendendo a trotterellare. Quando fu alla loro altezza, il vecchio
    lupo si fermò nell'erba alta, a poca distanza alla sinistra del tenente, e si sedette sulle
    zampe posteriori, quasi aspettando un segnale per ripartire.
    Si inoltrarono nella prateria e Due Calzini andò con loro. La curiosità di Dunbar lo
    indusse a fermarsi e ripartire più volte lungo il percorso. Ogni volta Due Calzini, con i
    suoi occhi gialli sempre vigili, lo imitava.
    Persino quando Dunbar cambiò direzione, zigzagando qua e là, il lupo ne seguì i
    movimenti, sempre mantenendo la stessa distanza.
    Quando spinse Cisco al piccolo galoppo, il tenente fu sbalordito nel vedere Due Calzini
    passare anche lui a un'andatura più veloce.
    Quando si fermarono, il tenente guardò l'animale che lo aveva fedelmente seguito fin lì
    e cercò di trovare una spiegazione. Di certo l'animale aveva già avuto occasione di
    conoscere l'uomo. Forse era per metà un cane. Ma quando gli occhi del tenente
    spaziarono sulla sconfinata distesa selvaggia tutt'intorno a lui, non riuscì a immaginare
    che Due Calzini non potesse essere altro che un lupo.
    << D'accordo >>, gli gridò.
    Il lupo rizzò le orecchie.
    << Andiamo. >>
    I tre percorsero un altro miglio prima di sorprendere un piccolo branco di antilocapre.
    Il tenente osservò gli animali con la groppa posteriore bianca spostarsi per la prateria
    finché furono quasi fuori vista.
    Quando si voltò a controllare la reazione di Due Calzini, non lo vide più.
    Il lupo se n'era andato.
    Verso Ovest si stavano accumulando delle grosse nubi scure e poté scorgere qualche
    lampo. Mentre si avviavano per ritornare, Dunbar tenne d'occhio il fronte del temporale.
    Si stava spostando verso di loro e la prospettiva della pioggia fece incupire il viso del
    tenente.
    Doveva proprio fare il bucato.
    Le coperte avevano cominciato a puzzare come dei calzini sporchi.


    (continua)


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    00 19/09/2007 08:36
    (segue)

    8


    Il tenente Dunbar stava al passo con la venerabile tradizione di prevedere il tempo.
    Si sbagliò.
    Il minaccioso temporale passò su Fort Sedgewick durante la notte senza lasciar cadere
    una sola goccia di pioggia e il giorno che spuntò il mattino dopo era di un purissimo
    azzurro pastello, con l'aria che assomigliava a qualcosa che si potesse bere e il sole
    che scaldava tutto ciò che toccava senza inaridire un solo filo d'erba.
    Mentre beveva il caffè, il tenente rilesse i suoi rapporti ufficiali dei giorni addietro e
    cocncluse che aveva compiuto un buon lavoro nell'esporre i fatti. Riesaminò per un po'
    i commenti soggettivi che vi aveva incluso e più di una volta raccolse la penna per
    cancellare una riga, ma alla fine non cambiò nulla.
    Stava versando una seconda tazza di caffè quando notò una strana nube in lontananza
    verso Ovest. Era marrone, una nuvola color marrone scuro che si profilava bassa e
    piatta sulla linea dell'orizzonte.
    Era troppo caliginosa per poter essere una nuvola. Sembrava piuttosto del fumo
    proveniente da un incendio. I lampi della notte precedente dovevano aver colpito
    qualcosa. Forse avevano incendiato la prateria. Prese nota mentalmente di tener
    d'occhio la nuvola di fumo e di fare la sua cavalcata pomeridiana in quella direzione,
    se fosse durata.

    Erano giunti il giorno prima, poco prima del crepuscolo, e a differenza del tenente
    Dunbar avevano avuto la pioggia.
    Ma l'acqua non aveva minimamente smorzato il loro spirito. L'ultimo tratto del lungo
    trasferimento da un accampamento invernale nel lontano sud era terminato. Questo,
    e l'arrivo della primavera, rappresentavano il momento più felice. I loro pony diventavano
    più grassi e più forti ogni giorno che passava, la marcia aveva rinvigorito tutti dopo
    mesi di relativa inattività e i preparativi per le cacce estive sarebbero iniziati subito.
    Tutto ciò li rendeva ancora più felici, felici soprattutto nel profondo del ventre di
    ciascuno di loro. Stavano arrivando i bisonti. Fra poco, si sarebbe festeggiato.
    E dato che questo era un accampamento per l'estate da generazioni, la gioia di
    questo ritorno a casa riempiva il cuore di ciascuno di loro, di tutti i centosettantadue
    fra uomini, donne e bambini.
    L'iverno era stato mite e la tribù lo aveva superato senza difficoltà. Oggi, il primo giorno
    del loro ritorno, nell'accampamento regnava l'allegria. I ragazzini giocavano chiassosamente
    in mezzo ai pony, i guerrieri si scambiavano racconti e le donne erano affaccendate
    a preparare il cibo con maggior gaiezza del solito.
    Erano comanci.
    La nuvola di fumo che il tenente Dunbar pensava fosse un incendio nella prateria
    veniva dai loro fuochi per cuocere il cibo.
    Erano accampati sullo stesso fiume, otto miglia a Ovest da Fort Sedgewick.


    Dunbar raccolse tutto ciò che riuscì a trovare e che avesse bisogno di essere lavato
    e lo stipò in un sacco, poi si gettò sulle spalle le coperte sudicie, scovò un pezzo di
    sapone e si diresse verso il fiume.
    Mentre tirava fuori il bucato dal sacco, accosciato vicino all'acqua, pensò che anche
    quello che aveva indosso aveva bisogno di essere lavato.
    Ma non ci sarebbe stato niente da mettersi addosso mentre il tutto si asciugava.
    C'era la mantella.
    Ma che stupido, disse fra sé, e con una risata aggiunse a voce alta: << Non ci sono
    che io, e la sola prateria >>.
    Stare nudo era una sensazione piacevole. Per essere maggiormente in spirito con
    la cosa, si tolse persino il berretto da ufficiale.
    Quando si piegò verso l'acqua con le braccia cariche di indumenti, si vide riflesso
    sulla superficie, la prima volta che si vedeva in più di due settimane. Restò a osservarsi.
    I capelli erano diventati più lunghi. La sua faccia sembrava più affilata, persino con
    la barba che gli era spuntata. Era senza dubbio dimagrito. Ma il tenente pensò che aveva
    un buon aspetto. I suoi occhi erano acuti come non li aveva mai visti e, come se stesse
    confessando il suo affetto per qualcuno, sorrise fanciullescamente all'immagine
    riflessa.
    Più osservava la barba e meno gli piaceva. Corse indietro a cercare il suo rasoio.
    Il tenente non pensava alla sua pelle mentre si radeva.Era sempre stata la stessa.
    Gli uomini bianchi non hanno tutti la medesima carnagione. Alcuni sono bianchi
    come la neve.
    Il tenente Dunbar era abbastanza bianco da cavare gli occhi.


    Uccello Saltellante aveva lasciato l'accampamento prima dell'alba. Sapeva che nessuno
    avrebbe fatto domande. Non doveva rispondere dei suoi movimenti, e raramente di
    ciò che faceva. A meno che non agisse malamente, il che poteva rivelarsi una
    sciagura.
    In effetti, se l'era cavata bene. Per due volte aveva operato due piccoli miracoli. I miracoli
    gli facevano piacere, ma gli faceva altrettanto piacere occuparsi dell'aspetto più ordinario
    del suo mestiere, badare al benessere quotidiano della tribù. Sbrigava una miriade di
    incombenze di carattere amministrativo, assisteva alle discussioni su questioni di vasta
    portata, praticava la medicina e sedeva con gli anziani negli interminabili consigli
    quotidiani della tribù. Oltre a provvedere a due mogli e a quattro figli. E faceva tutto
    con un occhio e un orecchio ben drizzati verso il Grande Spirito, sempre in ascolto,
    sempre attento a cogliere il minimo suono o il più debole segno.
    Uccello Saltellante sbrigava i suoi molti compiti onorevolmente, e tutti lo sapevano.
    Lo sapevano perché lo conoscevano.
    Qualcuno fra quelli che, come lui, si erano alzati all'alba avrebbero potuto domandarsi
    dove andasse quella prima mattina, ma non si sarebbero mai sognati di chiederlo.
    Uccello saltellante non era in missione speciale. Aveva cavalcato nella prateria per
    schiarirsi le idee. Detestava i grandi spostamenti: dall'inverno all'estate, dall'estate
    all'inverno. Il trambusto e il rumore che li accompagnava lo distraevano. Distraevano
    l'occhio e l'orecchio che teneva puntati al Grande Spirito e sapeva che quella mattina
    il frastuono per organizzare l'accampamento sarebbe stato più di quanto potesse
    sopportare.
    Così aveva preso il suo pony migliore, un baio castano dall'ampia schiena e si era
    allontanato verso il fiume, seguendolo per parecchie miglia fino a un'altura che conosceva
    sin da quando era ragazzo.
    Là attese che la prateria gli si rivelasse e, quando accadde, Uccello Saltellante ne fu lieto.
    Non gli era mai apparsa migliore di come la vedeva adesso. Tutti i segni facevano pensare
    che l'estate sarebbe stata propizia e ricca di cibo. Ci sarebbero stati dei nemici, certamente,
    ma la tribù ora era forte. Uccello saltellante non riuscì a reprimere un sorriso. Era sicuro
    che quella sarebbe stata una stagione prospera.
    Dopo un'ora, la sua eccitazione non era diminuita. Voglio cavalcare in questa magnifica terra,
    si disse, e spronò il suo pony verso il sole che stava sorgendo.



    (continua)


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    00 19/09/2007 08:39
    (segue)


    Aveva immerso entrambe le coperte nell'acqua quando si ricordò che il bucato andava
    battuto. Non c'era una sola roccia in vista.
    Serrando le coperte gocciolanti e il resto degli indumenti contro il petto, il tenente Dunbar,
    novello lavandaio, cominciò a discendere il fiume, camminando cautamente a piedi
    nudi.
    Dopo circa mezzo miglio trovò un affioramento superficiale che poteva servire da ripiano.
    Inumidì il sapone fino a fare una bella schiuma e lo strofinò alquanto esitante su una
    delle coperte.
    A mano a mano che procedeva acquistò abilità, insaponando, battendo e sciacquando
    con sempre maggior sicurezza a ogni nuovo indumento, e verso la fine il tenente Dunbar
    svolgeva rapidamente il suo lavoro con la decisione, se non con la precisione, di una
    provetta lavandaia.
    In due sole settimane passate laggiù aveva coltivato una nuova passione per i dettagli e,
    sapendo che i primi pezzi del bucato erano stati lavati in modo un po' raffazzonato,
    li rilavò.
    A metà del pendio vi era una quercia stentata e appese il suo bucato ai rami. Era un
    buon posto, esposto al sole e non troppo ventoso. Ma ci sarebbe comunque voluto un
    po' perché si asciugasse il tutto e lui aveva dimenticato la sua borsa di tabacco.
    Il nudo tenente decise di non aspettare.
    Si incamminò per tornare al forte.


    Uccello Saltellante aveva udito delle storie sconcertanti circa il loro numero. In più di una
    occasione aveva sentito dire che erano più numerosi degli uccelli, e questo gli creava
    una sgradevole sensazione nel fondo della mente.
    Eppure, sulla base di quanto lui stesso aveva visto, gli uomini con la faccia coperta di peli
    ispiravano soltanto pietà.
    Sembravano una razza triste.
    Quei poveri soldati del forte, così ricchi di cibo e di cose e così poveri di tutto il resto. Usavano
    male i loro fucili, cavalcavano male i loro cavalli grossi e lenti. Avrebbero dovuto essere
    i guerrieri dell'uomo bianco, ma non erano né svelti né agili. E si spaventavano facilmente.
    Prendere i loro cavalli era stato facilissimo, come cogliere delle more da un cespuglio
    di rovi.
    Per Uccello Saltellante, questi uomini bianchi erano un grande mistero. Non riusciva a pensare
    a loro senza che la sua mente si confondesse.
    I soldati del forte, per esempio, vivevano senza le loro famiglie e vivevano senza i loro grandi
    capi.. Il Grande Spirito era evidente dappertutto, perché tutti lo potessero vedere, e loro
    adoravano delle cose scritte sulla carta. Ed erano anche sporchi. Non si tenevano neanche
    puliti.
    Uccello Saltellante non riusciva a immaginare come potessero provvedere a se stessi
    persino per un anno. Eppure, si diceva che prosperavano. Non lo capiva.
    Stava facendo queste considerazioni quando pensò di avvicinarsi al forte: Era certo che
    se ne fossero andati, ma avrebbe comunque dato un'occhiata. E ora, in groppa al suo
    pony, guardando attraverso la prateria, poteva notare al primo sguardo che il posto aveva
    un aspetto migliore. Il forte dell'uomo bianco era pulito. Un grosso riparo di stoffa ondeggiava
    al vento. Nel recinto vi era un cavallo: un bel cavallo. Non vi era nessun movimento, nemmeno
    un rumore. Il posto avrebbe dovuto essere morto. Ma qualcuno lo aveva mantenuto vivo.
    Uccello saltellante avanzò lentamente con il suo pony.
    Doveva vedere più da vicino.


    Mentre ritornava camminando lungo il fiume, il tenente Dunbar indugiò. C'erano tante cose
    da guardare.
    Stranamente e ironicamente si sentiva molto meno vistoso senza i suoi vestiti. Forse era
    così. Ogni piccola pianta, ogni insetto che ronzava sembrava attirare la sua attenzione.
    Ogni cosa era straordinariamente viva.
    Vide un falco dalla coda rossa volare davanti a lui, con uno scoiattolo che gli pendeva fra
    gli artigli.
    A metà percorso sostò all'ombra di un pioppo per osservare un tasso che scavava la sua
    tana poco più sopra della linea dell'acqua. Ogni tanto, il tasso lanciava una rapida occhiata
    al tenente, ma continuava a scavare.
    In vicinanza del forte, Dunbar si fermò nuovamente per osservare gli intrecci di due innamorati.
    Un paio di serpenti d'acqua si avvoltolavano estaticamente nelle pozze di acqua bassa del
    fiume e, come tutti gli amanti, ignari di tutto ciò che li circondava, persino quando l'ombra
    del tenente passò sopra l'acqua.
    Risalì estasiato il pendio, sentendosi forte come qualunque altra cosa laggiù, sentendosi
    come un vero abitante della vasta prateria.
    Nello stesso istante scorse la figura che scivolava nell'ombra sotto il riparo a tenda.
    Un secondo dopo la figura riapparve alla luce del sole e Dunbar si acquattò, infilandosi in
    una fenditura subito al disotto del bordo del promontorio.
    Rimase accovacciato con le gambe diventate improvvisamente molli, le orecchie tese come
    una corda, talmente concentrato ad ascoltare che l'udito sembrava essere il solo senso che
    possedesse.
    La sua mente galoppava. Negli occhi chiusi del tenente ballavano delle immagini fantastiche.
    Pantaloni frangiati. Mocassini ornati di perline. Una scure da cui pendeva del pelame. Un
    pettorale di lucide ossa. I capelli folti e lucenti che arrivavano a metà schiena. Gli occhi
    scuri e infossati. Il grosso naso. Pelle del colore della terracotta. La penna mossa dal vento
    dietro la sua testa.
    Sapeva che si trattava di un indiano, ma non si era mai aspettato niente di così selvaggio e
    la sorpresa lo aveva intontito come se avesse ricevuto una botta in testa.
    Dunbar restò accucciato al disotto del bordo, con le natiche che sfioravano il terreno e con
    la fronte imperlata di gocce di sudore. Non riusciva a comprendere ciò che aveva visto e
    aveva paura di guardare nuovamente.
    Sentì un cavallo nitrire e, raccogliendo il coraggio, sbirciò lentamente al disopra del bordo.
    L'indiano era nel recinto. Si stava avvicinando a Cisco. In mano aveva un pezzo di corda
    con un cappio.
    A quella vista, lo stato di paralisi del tenente Dunbar svanì di colpo. Smise completamente
    di pensare, balzò in piedi e scavalcò l'orlo del promontorio. Lanciò un urlo, rompendo il
    silenzio come un secco colpo di fucile.
    << Fermo! >>


    Uccello Saltellante balzò letteralmente in aria.
    Quando si girò in direzione della voce che lo aveva spaventato a morte, lo stregone comanci
    si trovò faccia a faccia con la cosa più strana che avesse mai visto.
    Un uomo nudo. Un uomo nudo che marciava deciso attraverso lo spiazzo con i pugni chiusi,
    la mascella serrata e con una pelle così bianca da far male agli occhi.
    Uccello Saltellante incespicò all'indietro, guardando con orrore quella visione, si raddrizzò
    e invece di saltare la palizzata del recinto vi si scagliò direttamente contro, uscendo
    dall'altra parte. Attraversò correndo lo spiazzo, saltò sul suo pony e partì al galoppo come
    se avesse il diavolo alle calcagna.
    Non si voltò a guardare nemmeno una volta.


    (continua)


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    (segue)

    9



    27 aprile 1863
    Prima presa di contatto con un indiano selvaggio.
    E' venuto al forte e ha cercato di rubare il mio cavallo. Quando sono apparso si è
    spaventato ed è fuggito. Non so quanti altri possano esservi nelle vicinanze, ma
    ritengo che dove ce n'è uno di sicuro devono esservene degli altri.
    Sto prendendo le misure necessarie per prepararmi a un'altra visita. Non sono in
    grado di organizzare una difesa adeguata ma cercherò di creare una grossa
    impressione quando verranno di nuovo.
    Sono sempre solo, però, e se la truppa non dovesse arrivare presto, tutto potrebbe
    andare perduto.
    L'uomo che ho incontrato era di aspetto straordinario.

    Ten. John J. Dunbar, USA


    Dunbar passò i due giorni successivi a fare preparativi, molti di questi intesi a dare
    un'impressione di forza e di solidità. Un uomo solo che cercava di prepararsi
    all'assalto da parte di innumerevoli nemici poteva apparire del tutto folle, ma il
    tenente possedeva una certa forza di carattere che gli faceva supplire con il lavoro duro
    alla mancanza di cose. Era una dote positiva e contribuiva a farne un buon soldato.
    Si dedicò ai preparativi come se fosse semplicemente un altro soldato della guarnigione.
    Il primo era quello di nascondere le provviste. Fece una cernita accurata tenendo da
    parte quelle più essenziali, seppellendo il resto con grande cura in alcune buche attorno
    al forte.
    Ficcò gli arnesi, l'olio da lampada, parecchi barilotti di chiodi e altri materiali vari di
    carpenteria in una delle vecchie buche per dormire. Vi mise sopra un pezzo di tela,
    vi buttò parecchi metri di terriccio e dopo ore di meticoloso lavoro il nascondiglio
    era assolutamente indistinguibile dal resto del pendio.
    Trasportò due casse di fucili e mezza dozzina di barilotti di polvere da sparo e di
    cartucce sul terreno erboso. Con un badile, scalzò dei quadrati di terra ed erba insieme.
    Nel punto così sgombrato scavò una grossa buca e vi seppellì il materiale di artiglieria.
    Al termine del pomeriggio vi aveva rimesso sopra i quadrati di terra ed erba, pressandoli
    così accuratamente che nemmeno l'occhio più esperto avrebbe potuto notare la minima
    irregolarità o differenza con il resto del terreno. Segnò il punto con una costola di bisonte
    sbiancata dal sole, che conficcò ad angolo nel terreno a qualche metro dal luogo segreto.
    Nel deposito trovò un paio di bandiere degli Stati Uniti e usando due dei pali del recinto
    come asta le issò, una sul tetto del deposito e l'altra sul tetto dei suoi alloggi.
    Le cavalcate pomeridiane vennero ridotte a dei brevi giri di perlustrazione intorno al
    forte, sempre tenendosi a distanza visiva dall'avamposto.
    Due Calzini fece come al solito la sua comparsa al di là del fiume, ma Dunbar era troppo
    occupato per prestargli attenzione.
    Cominciò a indossare l'uniforme per tutto il tempo, badando che gli stivali fossero sempre
    lucidi e il berretto non impolverato e rasandosi regolarmente. Non andava da nessuna parte,
    nemmeno al fiume, senza un fucile, una pistola e un cinturone di munizioni.
    Dopo due giorni di febbrile attività sentì che era pronto come meglio non avrebbe potuto
    essere.

    29 aprile 1863
    La mia presenza qui deve essere stata riferita ormai.
    Ho fatto tutti i preparativi che mi possano venire in mente.
    Aspetto.

    Ten. John J. Dunbar, USA



    Ma la presenza del tenente Dunbar a Fort Sedgewick non era stata riferita.
    Uccello Saltellante aveva tenuto l'Uomo-che-brilla-come-la-neve ben celato nei suoi pensieri.
    Per due giorni lo stregone rimase chiuso in se stesso, profondamente turbato da ciò che
    aveva visto, sforzandosi di trovare un significato a ciò che dapprima aveva creduto essere
    una spaventosa allucinazione.
    Dopo aver molto riflettuto, però, confessò a se stesso che ciò che aveva visto era reale.
    In qualche modo, questa conclusione creava nuovi problemi. Aveva vita. Era là. Uccello
    Saltellante arrivò anche a concludere che l'Uomo-che-brilla-come-la-neve doveva avere
    in qualche modo relazione con il destino della tribù. Altrimenti, il Grande Spirito non si sarebbe
    scomodato a fargli avere questa visione.
    Si era assunto il compito di scoprire il significato di tutto ciò ma per quanto si sforzasse,
    non ci riusciva. L'intera faccenda lo turbava come non gli era mai accaduto.
    Le sue mogli avevano capito che vi era qualcosa che non andava non appena era ritornato
    da quella fatidica cavalcata a Fort Sedgewick. Potevano vedere distintamente che l'espressione
    nei suoi occhi era cambiata. Ma, all'infuori del prestare maggiori attenzioni al loro marito,
    le donne non dissero nulla e continuarono il loro lavoro.


    Vi era un ristretto gruppo di uomini che, come Uccello Saltellante, avevano una grande autorità
    nella tribù. Nessuno era più influente di Dieci Orsi. Era il più venerato e, a sessant'anni, la
    forza, la saggezza e la mano notevolmente salda con cui guidava la tribù erano superate
    soltanto dalla sua portentosa capacità di sapere in quale direzione i venti della fortuna, grande
    o piccola che fosse, si sarebbero spostati.
    Dieci Orsi vide alla prima occhiata che a Uccello Saltellante, che considerava un membro
    autorevole del consiglio della tribù, era successo qualcosa. Ma anche lui non disse nulla.
    Era sua abitudine, e gli tornava molto utile, aspettare e osservare.
    Ma al termine del secondo giorno a Dieci Orsi parve evidente che a Uccello Saltellante
    poteva essere successo qualcosa di grave, e nel tardo pomeriggio si recò in visita alla
    sua tenda.
    Per venti minuti fumarono in silenzio il tabacco dello stregone prima di passare a delle
    chiacchiere su questioni di nessuna importanza.
    Al momento giusto Dieci Orsi diede una svolta alla conversazione con una domanda generica.
    Chiese a Uccello Saltellante quali credeva che fossero, da un punto di vista spiritico, le
    prospettive per l'estate.
    Senza entrare in dettagli, lo stregone gli disse che i segni erano buoni. Uno sciamano che
    trascura di approfondire i particolari del proprio lavoro per Dieci Orsi era decisamente
    rivelatore. C'era qualcosa che non voleva dire.
    Allora, con l'abilità di un consumato diplomatico, Dieci Orsi chiese a proposito di eventuali
    segni negativi.
    Gli occhi dei due uomini si incontrarono. Dieci Orsi lo aveva intrappolato nel modo più
    delicato.
    << Ve n'è uno >>, disse Uccello Saltellante.
    Non appena lo ebbe detto, Uccello Saltellante sentì un senso di liberazione, come se le sue
    mani fossero state slegate, e venne fuori tutto: la cavalcata, il forte, il magnifico cavallo dal
    pelo color bruno fulvo e l'Uomo- che-brilla-come-la-neve.
    Quando ebbe terminato, Dieci Orsi riaccese la pipa e trasse pensierosamente delle lunghe
    boccate di fumo prima di deporla in mezzo a loro.
    << Aveva l'aspetto di un dio? >> chiese.
    << No. Sembrava un uomo >>, rispose Uccello Saltellante. << Camminava come un uomo,
    aveva la voce di un uomo. La sua forma era quella di un uomo. Persino il suo sesso era quello
    di un uomo. >>
    << Non ho mai sentito di un uomo bianco senza vestiti >>, disse Dieci Orsi, e la sua espressione
    tornò a farsi sospettosa. << La sua pelle rifletteva davvero la luce del sole? >>
    << Faceva dolere gli occhi. >>
    Fra i due uomini cadde di nuovo il silenzio.
    Dieci Orsi si alzò in piedi.
    << Ci penserò. >>



    (continua)

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    (segue)



    Dieci Orsi fece uscire tutti dalla sua tenda e rimase seduto da solo per più di un'ora,
    pensando a ciò che Uccello Saltellante gli aveva detto.
    Era una cosa difficile a cui pensare.
    Aveva visto gli uomini bianchi solo poche volte e come Uccello Saltellante non riusciva
    a comprendere il loro comportamento. Dato che erano così numerosi avrebbero dovuto
    essere osservati e tenuti in qualche modo sotto controllo, ma fino a quel momento non
    avevano rappresentato altro che una seccatura per la mente.
    A Dieci Orsi non era mai piaciuto pensare a loro.
    Come poteva una razza essere così sconclusionata? pensò.
    Ma stava divagando e dentro di sé Dieci Orsi si rimproverò per questo modo disordinato
    di pensare. Che cosa sapeva veramente del popolo degli uomini bianchi? Quasi niente...
    Questo, doveva ammetterlo.
    Quello strano essere che si trovava al forte. Forse era uno spirito. Forse era un genere
    diverso di uomo bianco. Era possibile, ammise Dieci Orsi, che l'essere che Uccello
    Saltellante aveva visto fosse il primo di una nuova razza di persone.
    Il vecchio capo sospirò, mentre il suo cervello si riempiva fino a traboccare. C'era tanto
    da fare con le cacce dell'estate. E adesso questo.
    Non riuscì ad arrivare a una conclusione.
    Dieci Orsi decise di riunire il consiglio della tribù.


    La riunione ebbe inizio prima che il sole tramontasse, ma durò fino a sera inoltrata, abbastanza
    a lungo da attrarre l'attenzione dell'intero villaggio, soprattutto dei giovani guerrieri, che si
    riunivano in piccoli gruppi per fare supposizioni su che cosa stessero discutendo gli anziani.
    Dopo una buona ora di preliminari, vennero al dunque. Uccello Saltellante riferì la sua storia.
    Quando ebbe finito, Dieci Orsi chiese agli anziani di esprimere le loro opinioni.
    Erano molte e abbracciavano un vasto campo.
    Vento-nei-capelli era il meno anziano fra loro, un guerriero impulsivo ma con notevole esperienza.
    Pensava che avrebbero dovuto mandare subito un gruppo di guerrieri a scagliare delle frecce
    all'uomo bianco. Se era un dio, le frecce non avrebbero avuto alcun effetto. Se era un mortale,
    avrebbero avuto un uomo bianco in meno di cui preoccuparsi. Vento-nei-capelli sarebbe stato
    lieto di guidare i guerrieri.
    Il suo suggerimento venne respinto dagli altri. Se questa persona era un dio, non sarebbe stata
    una buona idea quella di scagliargli delle frecce. E quanto ad ammazzare un uomo bianco, la
    cosa doveva essere presa con una certa delicatezza: un uomo bianco morto poteva dar luogo
    a parecchi altri uomini bianchi vivi.
    Corno-di-toro era notoriamente conservatore. Nessuno avrebbe osato mettere in discussione
    il suo coraggio, ma era anche vero che solitamente optava per la discrezione nella maggior
    parte delle questioni. Il suo suggerimento fu semplice. Mandare una delegazione a parlamentare
    con l'Uomo-che-brilla-come-la-neve.
    Vento-nei-capelli attese che Corno-di-toro terminasse di parlare, poi si lanciò in un violento
    attacco verbale contro l'idea. La sostanza del suo discorso metteva definitivamente in chiaro
    un punto che nessuno osò contestare. I comanci non mandavano dei guerrieri valorosi a chiedere
    le intenzioni di un solo, sparuto uomo bianco che usurpava la loro terra.
    Nessuno disse più nulla e quando ricominciarono a parlare, i discorsi scivolarono su altri argomenti
    come i preparativi per la caccia e l'eventualità di scendere sul sentiero di guerra contro altre
    tribù. Per un'altra ora discussero di alcune voci e dicerie in generale che erano state riferite e
    che potevano avere qualche attinenza con il buon andamento e il benessere dell'accampamento.
    Quando infine ritornarono alla spinosa questione riguardo a che cosa fare con l'uomo bianco,
    gli occhi di Dieci Orsi si stavano chiudendo e la sua testa cominciava a ciondolare. Per quella
    sera, era inutile continuare. Quando lasciarono la tenda, il vecchio stava già russando sommessamente.
    La questione rimaneva irrisolta.
    Ma questo non voleva dire che non si sarebbe agito.
    In qualsiasi comunità di piccole dimensioni dove tutti vivono a stretto contatto è molto difficile
    riuscire a mantenere dei segreti e più tardi, quella notte, il figlio quattordicenne di Corno-di-toro
    udì suo padre mormorare quanto era stato discusso durante il consiglio a uno zio venuto in visita
    alla loro tenda. Lo sentì parlare del forte e dell'Uomo-che-brilla-come-la-neve. E udì dello splendido
    cavallo dal mantello bruno fulvo, il piccolo e robusto animale che Uccello Saltellante nella sua
    descrizione diceva che equivalesse a dieci pony. La sua fantasia si accese.
    Il figlio di Corno-di-toro non riuscì a dormire dopo quanto aveva sentito, e a notte inoltrata scivolò
    fuori dalla sua tenda per andare a riferire ai suoi due migliori amici la grossa occasione che gli
    era capitata.
    Come aveva immaginato, dapprima Dorso-di-rana e Faccia Sorridente si tirarono indietro.
    Si trattava di un solo cavallo. Come potevano dividere un solo cavallo in tre? Non era molto.
    E poi c'era la possibilità di quel dio bianco che si aggirava laggiù. C'erano parecchie cose da
    considerare.
    Ma il figlio di Corno-di-toro aveva previsto le loro reazioni. Aveva pensato a tutto. Il dio bianco
    era appunto la parte migliore della faccenda. Quello che tutti loro desideravano non era forse
    scendere sul sentiero di guerra? E quando fosse venuto il momento, non avrebbero forse dovuto
    accompagnare dei guerrieri veterani con poche probabilità di partecipare direttamente all'azione
    e di potersi distinguere nel combattimento?
    Ma affrontare un dio bianco. Tre ragazzi contro un dio. Questo sì sarebbe stato un gesto valoroso.
    La loro gente avrebbe composto dei nuovi canti sulla loro impresa. Se l'avessero realizzata,
    c'erano molte probabilità che tutti e tre sarebbero scesi sul sentiero di guerra insieme con i
    guerrieri, invece di far loro da seguito.
    E il cavallo. Be', il figlio di Corno-di-toro ne sarebbe stato il padrone, ma gli altri due avrebbero
    potuto cavalcarlo. Gareggiare con altri cavalli, se volevano.
    Ora, chi poteva dire che non fosse un piano grandioso?
    Muovendosi furtivamente e con il cuore che martellava loro in petto, i ragazzi attraversarono il
    fiume e presero tre pony dal branco. A piedi, condussero i cavalli lontano dal villaggio
    descrivendo un ampio cerchio per aggirarlo.
    Quando furono finalmente al sicuro, i ragazzi spronarono i loro pony al galoppo e cantando
    per darsi coraggio si inoltrarono nel buio della prateria, seguendo il fiume che li avrebbe
    condotti direttamente a Fort Sedgewick.


    (continua)

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    [Modificato da auroraageno 25/09/2007 17:16]

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    (segue)


    Per due notti il tenente Dunbar fu soltanto un soldato, dormendo con un orecchio aperto.
    Ma i giovani indiani che vennero al forte non erano dei burloni in cerca di un’avventura
    eccitante. Erano dei ragazzi comanci ed erano impegnati nell’impresa più seria delle
    loro giovani vite.
    Il tenente Dunbar non li sentì arrivare.
    Furono il rumore di zoccoli di cavalli al galoppo e le grida di guerra dei ragazzi a svegliarlo,
    ma quando arrivò incespicando alla porta della baracca, non erano ormai che dei suoni
    che svanivano nella vastità della notte della prateria.


    I ragazzi galopparono veloci come il vento. Tutto era andato alla perfezione. Era stato
    facile prendere il cavallo e, ancora meglio, non avevano neanche visto il dio bianco.
    Ma non volevano correre rischi. Gli dei potevano fare delle cose fantastiche, soprattutto
    quando erano incolleriti. I ragazzi non si fermarono certo ad aspettare che qualcuno
    desse loro una pacca sulle spalle. Continuarono a galoppare decisi a non rallentare
    finché non avessero raggiunto il villaggio e non fossero stati al sicuro.
    Non erano però nemmeno a due miglia dal forte, quando Cisco decise di far valere la
    propria idea. E la sua idea era di non voler andare con quei ragazzi.
    Erano in piena corsa quando Cisco scartò bruscamente di lato, allontanandosi da loro.
    Il figlio di Corno-di-toro venne strappato dal suo pony come se fosse stato disarcionato
    da un ramo basso.
    Dorso-di-rana e Faccia Sorridente cercarono di buttarsi all’inseguimento, ma Cisco continuò
    a correre, trascinando dietro di lui la lunga corda che lo aveva trattenuto. Era molto veloce
    e quando la velocità veniva meno, era la sua resistenza a subentrare.
    I pony indiani non lo avrebbero raggiunto nemmeno se fossero stati freschi.


    Il tenente Dunbar aveva appena preparato il bricco del caffè e stava seduto assorto presso
    il fuoco quando Cisco apparve trotterellando nella luce tremolante.
    Il tenente fu più sollevato che sorpreso. Essersi fatto rubare il cavallo lo aveva reso furioso,
    ma Cisco era già stato rubato altre volte, due per l’esattezza, e come un cane fedele
    aveva sempre trovato il modo per ritornare.
    Il tenente Dunbar raccolse la corda comanci che era servita a trattenerlo, controllò che il
    cavallo non fosse ferito e mentre il cielo a Est si stava tingendo di rosa, lo condusse giù
    per il pendio per abbeverarlo al fiume.
    Mentre sedeva sulla riva, il tenente Dunbar osservò la superficie dell’acqua. I piccoli pesci
    che sguazzavano nel fiume cominciavano a catturare i minuscoli insetti che si posavano
    sull’acqua, e improvvisamente il tenente si sentì inerme come una effimera.
    Gli indiani avrebbero potuto ucciderlo con la stessa facilità con cui gli avevano rubato
    il cavallo.
    L’idea di morire lo disturbava. Potrei essere morto entro questo pomeriggio, pensò.
    Ciò che lo disturbava ancora di più era la prospettiva di morire come un insetto.
    Decise lì per lì che, se doveva morire, non sarebbe certo stato mentre era a letto.
    Sapeva che qualcosa stava per succedere, qualcosa che lo rendeva vulnerabile a tal punto
    da fargli sentire un brivido gelato lungo la spina dorsale. Poteva essere un abitante della
    prateria, ma questo non significava che fosse stato accettato. Era il nuovo scolaro della
    classe. Tutti gli occhi sarebbero stati puntati su di lui.
    Sentiva ancora dei fremiti lungo la schiena, mentre riconduceva Cisco su per il pendio.


    Il figlio di Corno-di-toro si era spezzato un braccio.
    Venne affidato a Uccello Saltellante non appena il terzetto di futuri guerrieri, sporchi e
    sudati per la lunga cavalcata, arrivarono al villaggio.
    I ragazzi avevano cominciato a preoccuparsi dal momento in cui il figlio di Corno-di-toro
    si era reso conto di non poter muovere il braccio. Se nessuno si fosse ferito, avrebbero
    potuto tenere segreta la loro incursione. Ma subito ci furono delle domande e i ragazzi,
    anche se avrebbero potuto essere propensi a mascherare i fatti, erano comanci. E ai
    comanci riusciva parecchio difficile mentire. Persino a dei ragazzi comanci.
    Mentre Uccello Saltellante si occupava del suo braccio e suo padre e Dieci Orsi stavano
    ad ascoltare, il figlio di Corno-di-Toro raccontò la verità su quanto era realmente successo.
    Non era insolito che un cavallo rubato sfuggisse a chi l’aveva catturato e tornasse a casa,
    ma poiché era possibile che avessero a che fare con uno spirito, la faccenda del cavallo
    assumeva grande importanza e gli anziani interrogarono a fondo il ragazzo.
    Quando disse loro che il cavallo non si era spaventato, ma che si era allontanato
    volontariamente, sui visi degli anziani comparve un’espressione preoccupata.
    Venne nuovamente riunito il consiglio della tribù.
    Questa volta tutti sapevano di che cosa si trattasse, perché la storia della disavventura
    dei ragazzi si era sparsa per l’intero accampamento e tutti ne parlavano. Qualcuno fra
    i più impressionabili del villaggio si fece prendere dalla paura quando apprese che nelle
    vicinanze poteva aggirarsi uno strano dio bianco, ma quasi tutti continuarono ad occuparsi
    delle loro faccende con la convinzione che il consiglio di Dieci Orsi avrebbe escogitato
    qualcosa.
    Tuttavia erano tutti preoccupati.
    Solo una persona, fra loro, era veramente terrorizzata.


    (continua)


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    (segue)

    10



    Aveva provato del terrore l’estate prima, quando venne scoperto che nel territorio
    erano arrivati dei soldati bianchi. La tribù non aveva mai incontrato gli uomini con
    la faccia coperta di peli, se non per ucciderne alcuni in casi isolati. Aveva sperato
    che non li avrebbero mai incontrati.
    Quando, l’estate scorsa, erano stati rubati i cavalli degli uomini bianchi, aveva avuto
    paura ed era fuggita. Era sicura che i soldati bianchi sarebbero venuti al villaggio.
    Ma non vennero.
    Tuttavia, era rimasta sulle spine fino a che non era stato concluso che, senza i loro
    cavalli, i soldati bianchi erano praticamente impotenti. Era riuscita a tranquillizzarsi
    un po’, ma la nube di paura che continuava a seguirla non si allontanò fino a che non
    ebbero tolto l’accampamento e non furono in movimento per la migrazione invernale.
    Ora era di nuovo estate e durante tutto il cammino dell’accampamento per l’inverno
    aveva pregato ardentemente perché gli uomini bianchi se ne fossero andati. Le sue
    preghiere non erano state esaudite e ancora una volta i suoi giorni furono pieni di
    ansia, ora dopo ora.
    Il suo nome era Mano Alzata.
    Lei sola, fra tutti i comanci, sapeva che l’uomo bianco non era un dio. La storia
    dell’incontro di Uccello Saltellante, però, la sconcertava. Un solo uomo bianco nudo?
    Laggiù? Nella terra dei comanci? Non aveva senso. Ma non importava. Senza sapere
    esattamente perché, sapeva che non era un dio. Qualcosa le diceva che non era così.
    Sentì la storia quella mattina, mentre si stava avviando, come avveniva una volta al mese,
    alla tenda appositamente riservata per le donne durante il loro periodo mestruale.
    Stava pensando a suo marito. Non le piaceva recarsi alla tenda per le donne, perché
    avrebbe sentito la mancanza della sua compagnia. Era un uomo meraviglioso, coraggioso,
    bello ed eccezionale. Un marito modello. Non l’aveva mai picchiata e anche se i loro
    due bambini erano morti entrambi (uno al momento del parto, l’altro a poche settimane
    di distanza), si era caparbiamente rifiutato di prendersi un’altra moglie.
    La gente della tribù aveva insistito perché prendesse una seconda moglie. Persino
    Mano Alzata lo aveva suggerito. Ma lui aveva semplicemente detto: << Tu mi basti >>,
    e lei non ne aveva più parlato. Nel segreto del suo cuore era orgogliosa che lui fosse
    felice con lei sola.
    E ora, le mancava terribilmente.
    Prima che togliessero l’accampamento invernale, lui era sceso sul sentiero di guerra
    contro gli ute con un gruppo di guerrieri. Era passato quasi un mese senza che avessero
    notizie di lui o degli altri guerrieri. Ma poiché era già separata da lui, andare alla tenda
    per le donne quella volta le era sembrato meno difficile del solito.
    Quella mattina, mentre si preparava a lasciare la sua tenda, la giovane comanci era
    confortata dal fatto che una o due delle sue migliori amiche sarebbero rimaste segregate
    con lei, delle donne con cui il tempo sarebbe passato agevolmente.
    Ma mentre si dirigeva verso la tenda, sentì la strana storia di Uccello Saltellante. Poi sentì
    la storia della stupida incursione fatta dai tre ragazzi.
    Il mattino era di colpo esploso in faccia a Mano Alzata. Ancora una volta, il terrore era
    calato sulle sue spalle squadrate e diritte come una coperta di ferro, e quando entrò
    nella tenda per le donne era sconvolta.
    Ma era molto forte. I suoi splendidi occhi marrone chiaro, degli occhi che brillavano
    d’intelligenza, non rivelarono nulla, mentre cuciva e chiacchierava con le amiche per il
    resto della mattina.
    Conoscevano il pericolo. L’intera tribù lo conosceva. Ma non serviva a nessuno parlarne.
    Così, nessuno lo fece.
    Per tutto il pomeriggio, la sua figura minuta ma robusta si mosse per la tenda, senza
    mostrare nulla del pesante fardello che l’opprimeva.
    Mano Alzata aveva ventisei anni.
    Per quasi dodici anni era stata una comanci.
    Prima, era stata una bianca.
    Prima, era stata… qual era il nome?
    Pensava al nome soltanto in quelle rare occasioni in cui poteva fare a meno di pensare
    ai bianchi. Allora, per qualche inspiegabile ragione, il nome le veniva improvvisamente
    alla mente.
    Oh, sì, pensò in dialetto comanci, lo ricordo. Prima, ero Christine.
    Poi, pensava a prima, ed era sempre lo stesso. Era come passare attraverso una cortina
    nebbiosa e i due mondi diventavano uno solo, il vecchio che si fondeva con il nuovo.
    Mano Alzata era Christine e Christine era Mano Alzata.
    Con il passare degli anni la sua carnagione era diventata più scura e tutto, nel suo
    aspetto, aveva un’impronta distintamente primitiva e selvaggia. Ma nonostante due
    gravidanze portate a termine, la sua figura era quella di una donna bianca. E i suoi
    capelli, che si rifiutavano di crescere oltre le spalle e di rimanere lisci, conservavano
    ancora un’accesa sfumatura color rosso ciliegia. E, naturalmente, c’erano quei suoi
    occhi marrone chiaro.
    I timori di Mano Alzata erano ben fondati. Non poteva sperare di riuscire a sfuggirvi.
    Agli occhi di un uomo bianco ci sarebbe sempre stato qualcosa di strano, in quella
    donna nella tenda isolata dalle altre. Qualcosa che non era completamente indiano.
    E anche agli occhi della sua stessa gente, persino dopo tutto quel tempo, c’era
    qualcosa di non completamente indiano.
    Era un peso terribile, ma Mano Alzata non ne parlava mai, e tanto meno se ne lamentava.
    Lo sopportava in silenzio e con grande coraggio ogni giorno della sua vita indiana, e lo
    sopportava per un motivo di enorme importanza.
    Mano Alzata voleva restare dov’era.
    Era molto felice.


    (continua)


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    _________Aurora Ageno___________
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